Archivio | febbraio, 2012

Poesie polacche per bambini tradotte da Paolo Statuti

29 Feb

Julian Tuwim (1894-1953)

LA LOCOMOTIVA

(Ho tradotto questo capolavoro della poesia polacca per bambini abbastanza liberamente e piuttosto come una “variazione sul tema” o, se preferite, come “trascrizione”. Come ogni traduzione poetica, essa è frutto di un compromesso tra la fedeltà e la libertà del traduttore, inevitabile specie quando si devono rispettare ritmo e rime del testo originale).

 

Nella stazione la locomotiva –

Enorme, pesante,

Di olio grondante.

Soffia, ansima e dalla pancia

Il fuoco avvampa:

Bum – che caldo!

Uh – che caldo!

Puff – che caldo!

Uff – che caldo!

Ansima e sbuffa, sbuffa a malapena,

E di carbone la pancia è strapiena.

I vagoni sono già agganciati,

Grandi, pesanti come carri armati

E ognuno è pieno di adulti e bambini,

In uno cavalli, in un altro bovini,

In un terzo siedono solo grassoni,

Siedono e mangiano grassi capponi.

Nel quarto dodici casseforti,

E nel quinto sette pianoforti,

Nel sesto una bombarda blindata!

Sotto ogni ruota una zeppa ferrata!

Nel settimo tavoli tondi e caraffe,

Nel seguente un orso e due giraffe,

Nel nono tanti maiali ingrassati,

Nel decimo casse e bauli borchiati,

I vagoni sono circa quaranta,

Anzi no, forse anche cinquanta.

E se venissero sia pur mille atleti

E mangiasse ognuno sei pasti completi,

E tutti avessero ogni muscolo teso,

Non reggerebbero tutto quel peso!

A un tratto – un fischio!

A un tratto – fiffiì!

Il vapore – bum!

Le ruote – tutum!

Dapprima

lentamente

come una tartaruga

pesantemente

Si è scossa

si è mossa

sulle rotaie

pigramente.

Uno strappo ai vagoni e tira,

E ruota dietro ruota gira,

Accelera e corre, corre più sicura,

Martella, batte ribatte e tambura.

Dove va? Dove va? Sempre diritto!

Sempre sui binari, a capofitto,

Per monti, per campi vola come un dardo,

Per evitare di giungere in ritardo,

A tempo rimbomba e batte to–to-to:

Tac to-to, tac to-to, tac to-to, tac to-to,

Fluida e lieve  vola lontano,

Come se fosse un aeroplano,

Non una macchina così trafelata,

Ma un’inezia, una baggianata.

E dove, e come, perché così incalza?

Perché to-to, to-to in avanti balza?

Corre, martella, avvampa, bum-bum?

Il vapore l’ha mossa con forza puff-puff,

Puff – il vapore dalla caldaia ai pistoni,

E i pistoni come duecento polmoni

Pompano, pompano e il treno avanza,

Tac to-to tac to-to con forza e baldanza,

E le ruote rombano e batton to-to-to:

Tac to-to, tac to-to, tac to-to, tac to-to!…

 

 

RADIO UCCELLI

Pronto, pronto! Qui radio uccelli dal querceto,

Trasmettiamo il programma consueto.

Prego ognuno di sintonizzarsi,

Discuteremo sul da farsi,

Chiariremo questioni nebulose:

Anzitutto – come stanno le cose?

Inoltre – dov’è nascosto

L’eco nel bosco?

Chi può lavarsi per primo

Nella rugiada al mattino?

Come capire all’istante

Chi è un uccello e chi un intrigante?

Nei loro interventi

Pigoleranno, cinguetteranno,

Fischieranno, strideranno

Gli uccelli seguenti:

Usignoli, passeri, cardellini,

Galli, picchi, cuculi, beccaccini,

Civette, corvi, cince, cappellacce,

Papere, upupe, storni, beccacce,

Gufi, tordi, picchi, beccofrusoni,

Capinere, cicogne, mestoloni,

Rigogoli, marzaiole, fringuelli

E tanti tanti altri uccelli.

Per primo l’usignolo

Così cominciò:

“Pronto, o, to to to to!

Tu tu tu tu tu tu tu

Radio, radijo, dijo, ijo, ijo,

Tijo, trijo, tru lu lu lu lu

Pio pio pijo lo lo lo lo lo

Plo plo plo plo pron-to!”

Al che il passero trillò:

“Ma che musica è mai questa?

Ah! Mi viene il mal di testa

Per capirla, oibò oibò!

Cip cip ciiip!

Cip cip ciiip!

Usignolo guastafeste,

Non siam mica al circo equestre!

Guardate! Ha rizzato le piume!

“Basta! – grida a tutto volume!

Cip cip ciiip,

Cip cip ciiip!”

E trilla, soffia, strilla,

Cippia, scrippia, zirla,

E alla fine infuriata

Risonò una chicchiriata:

“Cucurìcu! Cucurìcu!”

Urla il cuculo: “Che sento!

Un momento! Un momento!

Cucu-rìcu? Cucu-rìcu?

Malandrino! Non consento!

Prendi ricu e vola via,

Ma il cucu è cosa mia!”

Cucu! Cucu! – ripeteva,

Al che il picchio: toc toc toc!

Ed il gufo ora a gridare:

Ma chi sei? Hai bevuto? Puoi andare!

E la quaglia: vieni qui! vieni qui!

Hai qualcosa? butta qui! butta qui!

Ad un tratto, ma che strano!

Trilli, strilli – che baccano:

“Dallo a me! Butta qua! Un rametto?

Una piuma? Uno spago? Un insetto?

Vieni qui, dammi la metà!

Faccio il nido, mi servirà!

Ma guarda che tipo! Non te lo do!

Non me lo dai? Vergogna, oibò!

Ma che roba! Dovresti arrossire!”

E tutti gli uccelli ad inveire.

La polizia dei pennuti fece irruzione

E così finì la trasmissione.

 

Jan Brzechwa  (1900-1966)

Nelle isole Bermude…

Nelle isole Bermude

Non ci sono tartarughe,

Ma c’è un piccolo pulcino

Che trasporta un vitellino.

Ci son oche stravaganti

Che fan uova di diamanti.

Sulle querce e sugli ontani

Crescon mele e aranci strani.

E c’è anche una balena

Che somiglia a una murena.

E salmoni tanto buoni

Nel sughetto di lamponi.

Ed i topi vanno a scuola

Di chitarra e di mandola.

Le formiche hanno il chimono,

Ma quest’isole ci sono?

Non ci sono!

Non ci sono!

 

Bugiardella

Un momento, un momento,

E’ avvenuto un cambiamento:

Mia cugina Serenella

S’è mutata in pavoncella

E ripete tutto il dì:

“Cipi, cipi, cipicì!”

–  Ma che dici, ma va’ via!

Questa è solo una bugia.

Un momento, un momento,

E’ successo un gran portento:

Da un enorme nuvolone

E’ caduto un acquazzone,

Ma di vino, oh oh oh,

E sapeva di bordeaux.

– Ma che dici, ma va’ via!

Questa è solo una bugia.

Non è tutto , un momento!

E’ successo un grande evento:

Dalla zia ieri mattina

Una stupida gallina

E’ saltata, ah ah ah,

Nella pentola sul gas.

– Ma che dici, ma va’ via!

Questa è pura fantasia.

Un momento, aspettate,

Una papera, pensate!

Che voleva fare il bagno

E’ affogata nello stagno,

Ed i pesci dal dolore

Hanno pianto per tre ore.

– Ma che dici, che bugia!

Questa è pura fantasia.

Lo diremo al tuo papà,

Alla mamma e ben ti sta!

 

La tinca, la rana e il granchio

La tinca, la rana e il granchio rosa

Tanto per fare qualcosa,

Decisero di lasciare lo stagno,

Per cantare sotto il castagno.

Eh, sì, ma come?

La tinca

Cantava per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

La carpa gonfiò allora le branchie:

“Amici ho un’idea brillante,

Tutti insieme, di botto,

Costruiamo un viadotto!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Costruiva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

Il granchio disse allora:

“Non mangia chi non lavora,

Ho un’idea proprio geniale –

Mettiamoci tutti a fare le scale!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Faceva finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

Ed ecco il rospo gridò da un fosso:

“La carestia ci è addosso,

Coraggio, amici cari,

Compriamo alimentari!

E per fare quattrini,

Produciamo calzini!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Produceva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

La tinca alla fine sentenzia:

“C’è di mezzo la nostra esistenza,

Lasciammo lo stagno scioccamente,

Torniamo allo stagno immantinente.”

E andaron, ma – che peccato! –

Lo stagno era stato svuotato!

Allora tutti piansero tanto.

Ma bastava quel pianto

A empirlo tutto quanto?

Tanto più che

La tinca

Piangeva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

L’anatra strampalata

Sul ruscello presso la fermata

Viveva un’anatra strampalata,

Che non nuotava con le compagne

Ma andava a piedi per le campagne.

Una volta andò dal barbiere:

“Per favore, un chilo di pere!”

Lì vicino c’era la farmacia:

“Un litro di latte per mia zia”.

Da lì poi andò dallo speziale

Per spedire un vaglia postale.

 

Le anatre dicevan disperate:

“Ma che roba, guardate, guardate!”

 

Faceva le uova sopra il tetto

E sul ciuffo aveva un fiocchetto,

E per indispettire i presenti,

Si pettinava con lo stuzzicadenti.

 

Sia che il tempo fosse brutto o bello,

Lei si portava sempre l’ombrello.

Mangiando una fettuccia lunga e fina,

Diceva: “che buona fettuccina!”

E quando inghiottì due monete,

Diceva: “ve le ridò, non temete!”

 

Le anatre si chiedevano in tante:

“Che ne sarà di questa stravagante?”

 

Ma alla fine arrivò un acquirente,

Che un bell’arrosto già aveva in mente.

 

E così fece con grande bravura,

In una teglia speciale, con cura,

 

Ma servendo il pranzo il cuoco esclamò:

“Ma questa è una lepre oibò oibò!”

E con un contorno d’insalata.

Eh sì era proprio strampalata!

 

Il fiammifero

Diceva il fiammifero orgoglioso:

– Mostratemi uno coraggioso,

Che con me possa competere qua,

Quando a un tratto cala l’oscurità.

Davvero il sole non vale niente

Col suo volto dorato e lucente,

Solo di giorno c’è il suo splendore,

Mentre il mio c’è a tutte le ore!

– Oibò, oibò! –

La candela esclamò.

Il fiammifero rispose fiero:

– Potrei bruciare il mondo intero,

E benché non sia uno che si vanta,

Anche la Vistola – tutta quanta.

Quindi, dopo averci pensato un po’ su,

Saltò nel fiume e non bruciò più.

E così finì la presunzione

Di quel fiammifero fanfarone.

– Oibò, oibò! –

La candela esclamò.

Boghindo, bogondo

 

Boghindo-bogondo, un tavolo rotondo,

E sul tavolino un cestino profondo,

 

Nel cestino una mela, nella mela un vermetto,

E il vermetto indossa un verde giubbetto.

Dice il vermetto: – Nonna e nonno Michele,

Papà e mamma hanno sempre mangiato mele,

Io non ne posso più! Le mele mi hanno stufato!

Ho voglia di bistecca! – E se ne andò al mercato.

Strisciò a lungo e non cambiò idea neanche un istante;

Arrivò in città e andò al ristorante.

Nei ristoranti – le stesse usanze suppergiù:

Arriva il cameriere e gli porge il menù,

Ma nel menù – che spavento e che scalogna!:

Zuppa di mele e gnocchi di mela cotogna,

Mele bollite, mele al forno, torta e frittelle

Di mele e pizza di mele novelle!

Allora, vermetto? La bistecca è andata a fondo?

Boghindo-bogondo, un tavolo  rotondo.

Pettegolezzi di uccelli

 

Il fringuello sulla quercia si posò:

– Di sicuro oggi mi raffredderò!

Avrò forse anche il mal di gola,

Perderò la voce e la parola,

E devo dare un concerto martedì,

Da tempo l’ho promesso al colibrì.

Gemettero tristi le ghiande: – Ahi! Ahi!

– Come farai, fringuello, come farai?

Vola dal picchio, si trova sul faggio,

Che ti batta sulla schiena, coraggio!

La cincia cinguettò in un sol fiato:

– A quanto pare il fringuello è malato!

Il pettirosso andò dallo stornello:

– Lo sai? E’ successo questo e quello,

La cincia proprio ora ha informato

Che il fringuello è gravemente malato.

Lo stornello volò dall’usignolo

– Non si sa molto, ma risulta solo

Che il fringuello da un mese tondo tondo

E’ già semplicemente moribondo.

L’usignolo chiese quindi all’ara

Di preparare subito una bara.

Poi l’ara si rivolse al passero:

– Dammi i chiodi per chiudere la cassa.

Da ciò venne a sapere il colibrì

Che il fringuello sarebbe morto quel dì.

Ma il fringuello che non sapeva niente,

Sulla quercia stava tranquillamente.

Le ghiande lo informarono poco dopo

Che il concerto non avrebbe avuto luogo,

Perché il fringuello era appena morto,

E di certo non sarebbe risorto.

(Versione di Paolo Statuti)

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pensierini

29 Feb

Paolo Statuti: Pensierini per bambini e grandini

 

Pensierino della sera

 

Ogni sera pensa un istante:

sono davvero così importante,

sapiente, abile e intelligente,

oppure mi sembra solamente?

 

 

Gli spacconi

 

Gli spacconi

fanno impressione

solo agli sciocchi

e ai fifoni.

 

Botta e risposta

 

– E’ inutile che allunghi il collo: tanto per te non c’è nulla. – disse l’elefante alla giraffa, mentre la bertuccia distribuiva la posta.

– E tu non hai nessun bisogno di ficcare il tuo lungo naso negli affari  degli altri. –  gli rispose la giraffa.

 

La bilancia delle parole

 

Se tutti pesassimo le parole prima di parlare, assai spesso non crederemmo ai nostri occhi, vedendo come sono leggere molte di esse e come invece pesano tante altre!

 

La speranza

 

Tra il timore e la speranza,

scegli la speranza –

diceva la sora Costanza.

 

 

 

 

 

Presto e Bene

 

Presto e Bene

non stanno insieme:

si sono lasciati

subito dopo esser nati.

 

I bambini e la verità

 

I bambini sono la bocca della verità –

finché non dicono bugie.

 

 

Il bisogno

 

Avrei bisogno di non aver bisogno,

pensava un tale facendo un sogno,

ma quando si svegliò al mattino

disse: – Avrei bisogno d’un cappuccino!

 

 

Parole al vento

 

Gettava le parole al vento

e quello tutto contento

le portava in paesi lontani,

dove vivono solo ciarlatani.

 

 

 (C) by Paolo Statuti 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eduard Bagrickij

28 Feb

Nestor Machno

Eduard Bagrickij

Il Villon di Odessa

 

   Bagrickij Eduard (Dzjubin), nacque a Odessa il 14 novembre 1895 da povera famiglia ebraica. Pittore mancato per l’opposizione del padre, cominciò a scrivere versi perché «…tutta la mia aspirazione a diventare pittore si riversò nella poesia », come egli si espresse. Esordì come acmeista e autore di ballate romantiche. A partire dal 1915 cominciarono ad apparire nelle riviste di Odessa i suoi primi versi.

   Isaak Babel, che considerava Bagrickij il François Villon di Odessa, scrive nei suoi “Ricordi”: « Quando era in vita ci diceva che la poesia è una cosa essenziale, necessaria, di ogni giorno…», e così lo ricorda da giovanetto: « Egli riversava sull’interlocutore una valanga di versi – suoi e di altri. Non mangiava come noi, il suo abbigliamento consisteva in una blusa e un paio di larghe brache, era chiassoso, ma con momenti di pausa. In quegli anni in cui l’uniformità era dettata dalle circostanze, Bagrickij somigliava a se stesso e a nessun altro…».

   Walter Scott e Charles de Coster, Thomas Hood e Robert Burns, Robert Stevenson e Edgar Poe, l’ucraino Taras Ščevčenko e i canti epici russi, costituiscono il substrato culturale su cui si formò Bagrickij. L’ambiente letterario provinciale nel quale cresceva il giovane poeta, era pervaso di stati d’animo decadenti. Nelle opere del primo Bagrickij e dei suoi coetanei poeti, dietro gli orpelli esteriori e le immagini volutamente complicate, non c’era profondità di pensiero. In esse veniva idealizzato il medioevo, l’oriente esotico, si evitavano scrupolosamente gli scottanti problemi del tempo.

   Era scoppiata la prima guerra mondiale, si avvicinava la rivoluzione, ma nei versi scritti da Bagrickij negli anni 1914-17 tutto era illusorio, irreale, avulso dalla realtà effettiva, immerso in un mondo di finzione e di esibizionismo letterario. Non capendo ancora molto dei nuovi tempi, ma già detestando il gretto mondo piccolo borghese, il giovane poeta sceglieva temi che esulavano dalla realtà. I suoi eroi erano i corsari, i condottieri romani, i coboldi e le esotiche creole. Ma, ricorda ancora Babel: « Con uno sforzo incessante, appassionato, l’estro della sua poesia cresceva. La passione racchiusa in essa si rafforzava, perché si rafforzava il lavoro di Bagrickij sul pensiero e il sentimento. L’amore per la giustizia, per l’abbondanza e l’allegria, l’amore per le parole sonanti e intelligenti – questa fu la sua filosofia. Egli svolgeva il suo eterno lavoro di rinnovamento virilmente, onestamente e apertamente…».

   L’innovazione di Bagrickij consistette non solo nell’originale elaborazione dei temi poetici, ma anche nella ricchezza del linguaggio del verso. Il poeta esigeva la lotta alle costruzioni del linguaggio libresche e antiquate, le cacciava spietatamente dai suoi versi.

   Con un lavoro creativo instancabile Bagrickij conquistò il dominio della parola, ciò che nella narrazione lirica gli consentì di unire il minuscolo allo smisuratamente grande.

   Bagrickij accolse con entusiasmo la rivoluzione d’ottobre. Nel 1918, dopo un breve periodo sul fronte persiano, egli ritornò nella sua città natale, ove negli anni della guerra civile lavorò nella polizia rossa, dando la caccia tra gli altri a Miška Japoncik, un bandito di Odessa, prototipo del brigante Benja Krik di Babel. In questo periodo collabora anche alla Jugrosta, una diramazione per la Russia meridionale della agenzia telegrafica Rosta, e scrive proclami e versi di propaganda.

   Negli anni 1921-24 Bagrickij collabora attivamente ai giornali di Odessa “Izvestja” e “Morjak”. In essi pubblica poesie su temi di attualità, versi lirici, traduzioni.

   Bagrickij fu il principale poeta del gruppo “Pereval” (“Il valico”), considerato da Stalin un gruppo trockista, in quanto Trockij in “Letteratura e rivoluzione” aveva elogiato il poeta. Nel 1926 Bagrickij esce dal “Pereval” ed entra a far parte del “Literaturnyj Centr Konstruktivistov” (“Centro letterario dei Costruttivisti), che abbandonerà poi nel 1930, passando alla RAPP (“Associazione Russa degli Scrittori Proletari”).

   “Duma pro Opanasa” (“Canto di Opanas”) è del 1926. In questo poema è descritta la tragica sorte di Opanas – un contadino ucraino che al tempo della terribile lotta di classe si sforza di rimanere neutrale, di difendere la sua piccola felicità personale. Ma egli passa dalla parte del brigante Machno, disertando l’Armata Rossa. Nestor Machno, ex maestro elementare, era un capo anarchico. Dopo il 1905 venne condannato all’ergastolo sotto l’accusa di rapine a mano armata – le cosiddette espropriazioni, cui ricorsero molti rivoluzionari per finanziare la loro attività. Erano famose, ad esempio, le rapine ai treni postali. Era la tattica degli utopisti anarchici, ma anche dei socialisti-rivoluzionari (non marxisti).

   Machno, dopo l’ascesa di Kerenskij, tornò al suo paese natale Guljaj-Pole, formando una vera e propria armata a cavallo. Fu lui che inventò la tacianka, cioè un carro leggero a cavalli armato di mitragliatrice. Questo mezzo bellico divenne l’arma base della guerra civile russa e fu adottato anche da Budjonnyj e Čapajev. Machno assalì le grandi città e prese tra l’altro Dnjepropetrovsk, una città di duecentomila abitanti. Particolare curioso: egli non sapeva cavalcare. Aleksej Tolstoj descrive la sua entrata a Dnjepropetrovsk… in bicicletta, attorniato dalle sue guardie su splendidi cavalli. Machno era stato una volta alleato dell’Armata Rossa, con la quale per un certo tempo combatté contro i Bianchi; ma come partigiano anarchico era avversato dal nuovo potere. Lo sconfisse Grigorij Kotovskij (anch’egli ex-brigante), dopo una serie di durissimi scontri.

   Narrandoci il destino di Opanas il poeta, a somiglianza di Ščevčenko, interrompe di continuo la narrazione epica con appelli lirici all’eroe, con esortazioni e, se occorre, anche con accuse dirette. L’ immagine del comunista Josif Kogan viene data dal poeta con la massima precisione. Kogan era commissario di un reparto di approvvigionamento (in russo “prodotrjad”). I comunisti più fedeli venivano messi a capo di questi reparti, ed anche Babel partecipò con uno di essi ad una spedizione sul Volga. I reparti confiscavano la “segala nascosta” e vendevano i prodotti più ricercati nelle campagne, usando la forma del baratto. Il “prodotrjad” appartiene al cosiddetto periodo del comunismo di guerra.

   Sia quando il commissario conversa con i contadini, sia nell’ora terribile del pericolo, quando egli cade assieme ai suoi compagni nelle mani dei briganti, quando si separa dalla vita, Kogan si erge davanti a noi in tutta la sua purezza spirituale. Il commissario non pronuncia frasi tonanti. Modesto, quasi insignificante, egli viene contrapposto dal poeta ad Opanas e al capo Machno, a loro volta sfrenati, fulgenti di bellezza esteriore. Anche se per il disegno ricco di immagini e ritmico certe strofe relative a Opanas e Machno appaiono più vigorose di quelle semplici, sobrie, dedicate al commissario, Bagrickij mostra alfine la superiorità morale di Kogan nelle bellissime strofe della sua morte.

   Il comunista Kogan sa di non avere scampo. Egli sa anche che Opanas – figlio di contadini – è stato ingannato ed è un cieco strumento nelle mani dei nemici del nuovo potere. Ecco perché Kogan è così nobilmente semplice e coraggioso nei suoi ultimi minuti di vita; ecco perché è così smarrito e suscita pietà l’uomo di Machno che lo uccide.

   Nel “Canto di Opanas” la costruzione del linguaggio popolare e di quello antico preso dalle “byline”, sono organicamente fuse ed inserite in un disegno generale. Grande importanza hanno nel poema le ripetizioni proprie dei canti popolari. Meravigliose le descrizioni della natura ucraina. Nello spirito delle leggende popolari e del “Canto della schiera di Igor” il poeta cerca le rispondenze tra le immagini della natura e lo stato d’animo del cantore, con un drammatico effetto degli avvenimenti descritti.

   Nel 1932 Bagrickij scrive “L’ultima notte” – stupendo poema in cui descrive lo sviluppo della coscienza di classe della giovane generazione, sulle spalle della quale ricaddero le prove più ardue. Ricordando i compagni caduti, il poeta parla a nome della sua generazione temprata dalla guerra e risollevata dalla rivoluzione.

   Gorkij, affascinato dal “Canto di Opanas”, convinse Bagrickij a scrivere un libretto sullo stesso tema. Fu così che nel 1932 il poeta tornò al “Canto” componendo il libretto che verrà pubblicato per la prima volta sull’almanacco dello stesso Gorkij “God šestnadcatyj” (“Anno sedicesimo”), e musicato da V. Jurovskij. Babel scrisse la  sceneggiatura per un film tratto dal “Canto di Opanas”.

   Il 16 febbraio 1934, ammalatosi per la terza volta di polmonite, Bagrickij moriva; aveva 38 anni e non aveva fatto che una piccola parte di ciò che avrebbe potuto. « Quando Bagrickij morì, – ricorda lo scrittore Jurij Oleša, – uno squadrone di cavalleria scortava il suo feretro ». Ma anche dopo morto il poeta restò vittima delle purghe staliniane. La sua poesia venne considerata sospetta, trattata freddamente e messa nel dimenticatoio per molti anni. Le sue opere furono riedite solo dopo la guerra.

   Vittorio Strada che di Bagrickij ha magistralmente tradotto, tra l’altro, “L’ultima notte” e “Febbraio”, in un punto del suo bel saggio introduttivo a queste traduzioni, parlando del “Canto di Opanas” dice: « La lingua, doviziosa d’inflessioni folcloriche, viva di voci del parlato popolare, animata da movenze dell’epos russo antico e da reminiscenze poetiche ščevčenkiane, fa del “Canto”, fuso in una compiuta unità di ritmo, una prova assai bella della poesia sovietica, e dissuade la traduzione.

   Lascio questa mia versione-tentativo al giudizio dei lettori e della critica. Per la prefazione mi sono parzialmete servito del saggio di V. Azarov inserito nella edizione della “Biblioteka poeta” – E.G. Bagrickij, Stichotvorenija (Poesie), Leningrad 1956. Tengo anche a precisare che l’edizione che presento oggi nel mio blog è sostanzialmente diversa da quella uscita nella “Fiera Letteraria” nel lontano 1972, cioè esattamente 40 anni fa. Infine vorrei segnalare a qualche editore interessato a questo periodo della storia russa, che questa mia versione del “Canto di Opanas” di Eduard Bagrickij fa parte di un trittico sulla rivoluzione, assieme agli altri due poemi da me tradotti: “I dodici” di A. Blok, inserito anch’esso con alcune modifiche nel mio blog e pubblicato dalla “Fiera Letteraria” nel 1971 e “La perquisizione notturna” di V. Chlebnikov, già pubblicato dalla rivista “Rassegna sovietica” nel 1990.

 

CANTO DI OPANAS di E. Bagrickij

Versione di Paolo Statuti

 

 I gajdamaki han seminato

La segala in Ucraina,

Ma non loro l’han falciata.

Ed ora che faremo?

T. Ščevčenko: “I gajdamaki”

 

1

Dei vigneti sui pendii

Frusciano le foglie,

Dove da Balta Panko

Per la steppa corre.

La lappa punge,

La segala geme,

Il Grande Carro la via

Tra le stanghe gli tiene.

Il Carro la via gli addita

Nel buio splendore –

Per le colonie opulenti

Del tedesco fattore.

Opanas non sbagliare,

Attento, senza fretta,

Vedi il nero colbacco

Della vedetta?

Con la coscienza sporca

Da Balta fuggisti,

Da Stol il colono andavi,

Da Machno finisti!

Ha Machno i capelli lunghi

E folti fin sulle spalle.

– E tu da dove giungi,

Da quale parte?

Qui da noi sei capitato

Per amore o per forza?

– Capo, Balta ho lasciato

E da Stol andavo.

Ah, l’offesa fu cocente,

La rabbia mi rode!

Son fuggito dalla gente

Del giudeo Kogan…

Per pendii e dirupi

Kogan fruga come i lupi,

Ficca il naso nelle case

Più guarnite!

Guarda a destra e a sinistra,

Sbuffa stizzito:

“Togliete dalla fossa

La segala nascosta!”

E chi si ribella –

Finirà come un rifiuto –

Non gridare, fratello,

O sei fottuto!..

Per la palude già scorre

Sangue e sudore –

Il fucile non m’attira,

Sono un lavoratore!

Ehi, capo,

Dimmi, sii buono,

Dove trovo la tenuta

Di Stol il colono?

– Stol? Quale?

Quello rosso e butterato?

Giace dietro il cascinale,

Steso ammazzato…

La vita dura avrai

Com me. Bada, però,

Se indietro tornerai –

La testa ti bucherò!

Un cappotto a Opanas

Del panno più fino!

Date anche a Opanas

Del novello vino!

Gli stivali inchiodate

Col ferro battuto!

Berretto e fucile a lui date

E sia il benvenuto!

Con te andremo più lungi –

Per mille tragitti!..

Ha Machno i capelli lunghi,

Son fluenti e fitti…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Opanas, la nostra sorte

La sciabola avvicina –

Guljaj-Pole romba forte

Per tutta l’Ucraina.

Ucraina! Madre mia!

Segala matura!

Opanas con Machno

Avrà la vita dura.

Ucraina! Madre mia!

Segala matura!

Prima eravam cosacchi,

Ora banditi e così sia!

 

2

 

A Guljaj-Pole gran rumore

Per la tremenda danza –

D’Opanas il saltatore

Con orgoglio avanza.

Opanas – che figurino!

Il colbacco felpato,

La pelliccia d’un rabbino

A Gomel ammazzato.

La pelliccia sbottonata –

Accidenti che calura!

La giubba rubata

E’ d’inglese fattura.

Sulla frusta balena

La schiuma del corsiere;

La pistola alla catena

D’un sacro doppiere.

Opanas il nostro destino

Nella nebbia è finito –

Vuoi fare il contadino,

E sei un bandito!

Andrai per la strada aperta,

Finirai in un portone;

Cacciare ebrei e comunisti  –

Ad ogni occasione!

Machno vola come il vento

Nella nebbia della sera,

Sulla carrozza del convento

Con l’insegna nera.

Con gemito-geme Guljaj-Pole

Per la tremenda danza –

D’Opanas il saltatore

Con orgoglio avanza.

 

3

 

Si è raccolto poco pane –

Le carrette non son piene.

Cena Kogan nel casale –

Mangia erbe e miele.

Nel casale cena Kogan,

Il latte si versa,

Con parole bolsceviche

Coi mugichi conversa:

– Francamente, confessate,

Senza sotterfugi,

Quanta vodca distillate

Nei vostri rifugi?

E la semina? E la tassa?

Non crepano i buoi? –

Per le strade ora passa

Machno con i suoi…

Volan focosi i cavalli,

Le teste protese.

Opanas osserva

Le verdi distese.

Una grigia mezzanotte

Si levò sui briganti,

Là – lontano a frotte –

Lumini brillanti.

Intorno i cani latrano,

E cantano i galli.

Gli avamposti entrano

Già dentro i villaggi.

Oltre il muro della chiesa

Il ferro ha cigolato:

– Kogan più non vedrai:

Ormai è circondato! –

Cani del fondo, ballate

Con l’acciaio sonante:

Han preso Kogan,

Come un principiante.

Nella steppa grigia,

Dritto spedito,

Han portato Josif Kogan

Da Machno – il bandito.

Machno scosse il capo pian piano,

Lo fissò aspramente,

Fece un gesto con la mano,

Senza dire niente.

L’ora triste della morte

Per Kogan è sonata,

Ché la strada d’Opanas

Con la sua s’è incontrata!..

Opanas si fece avanti,

E fiero lo guarda:

– Salve, compagno Kogan,

Prego, fatti la barba!

 

4

 

Dei pioppi profuma l’aria

Il bianco stuolo…

Ucraina, madre cara,

Ucraina – Usignolo!..

Nella tua steppa spaziosa

Il lupo s’annida,

Sibila la salsòla

E la cornacchia grida…

Sorge il sole battagliero

Sulla strada della steppa,

Sono in due sul sentiero –

Opanas e Kogan.

Sulla soglia ardente

La calura fuma e scioglie;

Il commissario Kogan

I panni si toglie…

Inondò il suo bianco corpo

Il sole ridesto;

– Prendi, Panko. Quando spari,

Prenderai il resto!

Un paio di pantaloni

Ti lascio in ricordo –

Eppur fummo commilitoni,

E andavam d’accordo!.. –

Sorge il sole battagliero,

Il granturco asciuga,

Soffia il vento furioso

E Opanas accusa:

– Dietro ai buoi un tempo andavi,

Come soldato

Ti cimentavi,

E un tal boia sei diventato? –

E nel ballo distesa

Piange la regione:

– Opanas! Opanas!

Boiaccio! Boiaccio! –

Un corvo senza tetto

Sotto una nube stride:

– Battersi con un poveretto,

E’ azione da vile! –

E ulula la distesa,

Dal Dnjestr al Bug,

Con le bestie, l’erba e la pietra:

– Boiaccio! Boiaccio!.. –

Non fissare Opanas negli occhi,

Spietato sole,

Egli è triste, è come ubriaco,

Uccidere non vuole…

E’ stanco

Dei lamenti e del calore.

Si volta:

              – Ho tre colpi soltanto

Nel caricatore…

Il sangue per un villano

E’ una pena…

– Scappa lontano –

Sparerò alla schiena!

Non cadrai al primo sparo,

Va’ con Dio!.. –

Kogan con un riso amaro,

Gli occhiali s’aggiusta:

– Opanas, lavora bene,

Sparami con stile.

Un comunista non deve

Scappare come un vile!

Davanti le chiane

Nella nebbia avvolte,

A destra – le case germane,

A manca – le scolte!

Meglio perder la vita qui,

Con un colpo abietto!.. –

 

Solo uno sparo s’udì

Nella muta steppa,

Kogan sussulta appena,

Un breve grido si sente,

Su un fianco si piega,

Cade lentamente…

Sulla fronte un grumo

Per il colpo mortale,

Dietro gli occhiali –

Freddo e vuoto spettrale…

Dal Mar Nero sulle strade

Va la polvere danzando,

Nella polvere Kogan giace

Gli occhi sbarrando…

 

5

 

Ove il Dnjestr largo scorre,

E la strada è grande,

Urla dalle forre

Kotovskij – il comandante.

Sotto l’occhio del comando

La valle si stende,

Come zucchero il manto

Del suo stallone splende.

Alza una gamba il corsiere,

E l’altra mette a terra,

Quasi saggiando a dovere

La via della steppa.

Dall’erto burrone,

Per la china, come ondata,

Volan gli squadroni

Dritti sulla strada…

Musi levigati,

Forti e arditi,

Ben equipaggiati

E ben nutriti.

Giran le teste gli stalloni,

La coda al vento tesa:

Vanno a caccia gli squadroni,

E Machno è la preda.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La segala sulle rive

Nessun fruscio diffonde –

Dietro i carri furtive

Si celano le bande.

In una ruvida tenda,

La vodca bevendo,

Con l’atamàn il portainsegna

Sta discutendo:

–  Ai bolscevichi

Battaglia diamo.

Aggira i reggimenti,

Il tuo ordine aspettiamo!.. –

Colpì il tavolo veemente

L’atamàn raggiante,

E in terra batté furente

Il piede pesante:

– Bene, prima dello scontro –

Doppia razione a tutti,

Bene, prima dello scontro

Date fondo alle botti!

Perché s’incollino le mani

Alla mitragliera,

E veda occhi di nibbio

Sotto la visiera!

Perché sul fiume sia scorta

Una polvere tremenda,

E il più nero sconforto

Kotovskij prenda!.. –

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La nebbia cala nei fossi,

Saette ogni momento,

Latrano le volpi rosse

Verso l’accampamento.

Tra i muggiti del toro

Il sonno è agitato:

A mezzanotte un demone

La rovina ha svelato.

E dietro i sogni del contadino,

Dietro i carri bruni,

Dietro le ali corvine,

Dietro l’erba della steppa –

Bagnandosi di amara ombra,

Si levò sul mondo intero

Il sole della nuova lotta –

Il sole battagliero…

 

6

 

Ecco, le mani afferrano

Le sciabole ricurve,

I cavalli s’impennano,

E – via! – come un turbine.

Si distendono i cavalli

Lungo la strada –

Verso i carri,

Verso i musi dei buoi.

Sopra i carri il vento passeggia,

Forte e battagliero,

Davanti a tutti primeggia

Kotovskij sul destriero…

La sciabola affilata

Brilla con forza dirotta,

Sulla testa rasata

La rossa berretta.

Seguono le spalle

L’equina danza…

E a lui incontro

Opanas avanza.

– Cavalluccio, vola,

Con forza, sempre avanti,

Di lama o di pistola

Perirà il comandante!.. –

Si scontrarono furiosi,

Cavalli appaiati,

Come ruscelli sinuosi

I ferri incrociati…

Al comandante l’animo

Bellicoso avvampò,

E la sciabola di Opanas

Con impeto spezzò.

La sciabola getta via,

Le ciglia aggrotta:

–  Ora mostra la tua maestria

Coi pugni, fatti sotto! –

Kotovskij ha la mano allenata,

Di furia invaso,

Gli sferra una mazzata

Dritta sul naso!.. –

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Opanas, che ti prende?

La testa ti pende…

Ti sei girato, hai vacillato,

Nell’erba sei piombato…

Sotto l’occhio sinistro

Hai un livido bistro…

Supino e muto

Sei caduto…

Opanas, la sorte severa

Sul campo si avvera!..

 

7

 

Balta – bella cittadina,

Cittadina egregia:

Qui è più dolce dell’uva

La rossa ciliegia.

Nel cacio, nei meloni –

Il sonoro giorno di fiera;

Un ragazzo disperde i piccioni

Dalla torre dei pompieri…

Opanas nella vasta steppa

Non pensavi mai

Che attraverso Balta

Da qui passerai;

Che con lo sguardo ti seguiranno

Le campagnole rattristate,

E che al quartier generale

Prenderai legnate…

Oh, distese d’Ucraina –

Amara sorte!..

Corridoi a non finire,

E in essi – porte.

E nel corrodoio impolverato

D’un casale solitario

Opanas viene condotto

Per essere interrogato.

L’inquirente, senza fretta,

Com’è suo costume –

Gli offre una sigaretta,

Poi accende e fuma:

– Cittadino, vi prego,

Con me siate sincero.

Da tempo scorrazzate

Con Machno, è vero?

Rispondete anche

Senza timore:

Di quante sciabole e tacianche

Machno dispone?

Parlate calmo e a tono,

Pensate un tantino –

Quanti viveri ci sono

Nel suo magazzino?

Conoscete le zone

Dove porta la sua armata?

– Conoscevo un cavallo,

La sciabola e le briglie!

Come la steppa vibrava

Non si può raccontare:

Ucraina, ti sentivo

Sotto i cavalli pulsare!

Nel frastuono delle ruote,

Con la gola riarsa,

Ricordo Gajsin e Žitomir,

Balta e Vapnjarka!..

Poi l’audacia mi accecò,

Per Dio, porco mondo!..

… Una cosa non scorderò,

Come Kogan è morto…

Per sempre resterò privo

Della diletta strada,

Perché il corpo di Kogan

Me l’ha sbarrata…

Scuoti la zucca, capitano,

Scrivi ciò che dico:

E’ questa la mano

Che Kogan ha ucciso!..

Perisci, Guljaj-Pole,

Segala matura!.. –

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Opanas, nella nebbia è avvolta

La nostra ventura!..

 

8

 

Opanas, coraggio, suvvia,

Un po’ d’allegria!

Oh, non griderai, non scalpiterai,

Non esulterai!

Non estrarrà la spada

La tua mano fiaccata.

E’ l’ultima sera

Della tua carriera.

Opanas il destino

T’ha sbarrato il cammino.

Che senti? Che rimiri?

Che sai? Che respiri?

Notte arida, calura,

La fienaia è scura.

Luce fioca sotto il tetto –

Ehi, sta’ dritto!..

Ecco, appare sulla soglia

Di Kogan la spoglia.

La chioma bella com’era

E le guance di cera…

Con un freddo sorriso:

– Salve, amico!

Là dove volle il fato

Io t’ho ritrovato!

Opanas, il destino

T’ha sbarrato il cammino…

 

Epilogo

 

Sconvolsero l’Ucraina

Anni tempestosi.

Si acquietarono

I fiumi tortuosi…

Io non so dove giacciono

Le ossa di Opanas:

Forse sotto un verde salcio,

O in un cimitero egli sta…

Guazza nelle acque del Dnjestr

L’anatra azzurrina,

Sulla tomba di Kotovskij

La gloria cammina…

Più non giunge dalla steppa

Degli zoccoli il fragore:

Sulle ossa sventurate –

La segala in fiore.

Sulle ossa azzurreggia

Il gorgo del cielo;

Va dell’armata rossa

Un fante in congedo…

Si ferma e guarda pensoso

Con gli occhi turchini

Un masso eroso

Da scrosci continui.

Ti abbassi e ti sollevi,

O pietra come l’onde:

Sul palmo un bianco teschio

E un buco sulla fronte.

E dirà, percorso

Da un freddo di morte:

– Hai guardato l’arma negli occhi,

Sei morto da uomo forte!

E andrà nel vortice dell’afa,

Per l’infocata pianura,

Nell’Ucraina rinata,

Nella segala matura…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Anch’io trovi nella steppa

Una fine gloriosa –

Dove Kogan morir seppe,

Ed ora riposa!..

 

1926

 Inno a Majakowskij

O uro furente dal fulgido cilindro –

i tuoi occhi vetrigni volgi lentamente attorno,

ai tubi che come mani afferrano le nubi

al sudicio asfalto, sommerso dai rifiuti.

Campione universale vestito d’arancio,

hai percosso la terra col tacco fucinato,

ed essa s’è librata negli spazi infuocati

e corre più veloce, più veloce, più veloce…

Divino sibarita dal corpo di bronzo,

che osservi nella coppa-smeraldo della Terra,

sospesa sui falò dei secoli,

come lievitano e scoppiano i popoli.

O Condottiero di Città furiosamente latranti al sole,

quando superbo la strada percorri,

si stendono le case sull’attenti,

volgendo a destra i loro tetti!

Io, infragilito dai piumini dei secoli,

ti tendo la mia mano morbida e curata,

e tu la serri nella morsa del tuo palmo,

così, che sulla bianca pelle restan tracce d’azzurro.

Io, che disprezzo il Tempo Moderno,

e cerco l’oblio nell’algebra e nella storia,

chiaramente vedo con occhi tuttavia ispirati,

che presto, presto spariremo come fumo.

Rispettoso mi tiro in disparte e dico:

“Salute a te, Majakovskij!”

1915

 

L’uccellatore

Uccellare – ardua fatica:

degli uccelli impara gli usi,

quando migrano ricorda,

varie voci devi fare.

Vaga a lungo per le strade,

dorme sotto gli steccati,

eppur Didel è beato,

caccia e canta in libertà.

Sul sambuco, tutto solo,

fuì…fuì…s’ode l’usignolo,

tin…tin…le cince sul pino,

il fringuello fa toc…toc.

Didel prende la bisaccia,

tira fuori tre richiami –

un richiamo ad ogni uccello

egli or dedicherà.

Fff…nel fischio di sambuco,

suona il fischio di sambuco, –

dalla scorza del sambuco

l’usignolo cinguettò.

Soffia nel fischio di pino,

sibila il fischio di pino,

e sul pino dalle cince –

cascatelle di din…don.

Didel prende la bisaccia,

tira fuori il suo richiamo

di betulla – più leggero,

più sonoro non ce n’è.

 

 

Prova il tono dolcemente,

fff…nel foro melodioso, –

la betulla ad alta voce

a cantare cominciò.

Ed udita quella voce

della pianta e dell’uccello,

sulla betulla a margine

il fringuello si sentì.

Ed oltre la vicinale,

spento il frastuono dei carri,

sullo stagno verde d’erba

Didel le reti posò.

Davanti a lui, verde sotto,

turchino e azzurro sopra,

come un grande uccello il mondo

risonando volò via.

Se ne va felice Didel

col bastone e la bisaccia

nell’Harz, dal bosco coperto,

lungo il Reno se ne va.

Tra i querceti di Turingia,

tra i sambuchi di Westfalia,

tra il luppolo di Bavaria,

tra le pinete del Pfalz.

Marta, Marta, vano è il pianto

se va Didel per i campi,

se agli uccelli Didel fischia

spensierato più che mai!

1918

 

 

Till Ulenspiegel

Un mattino eran schiuse le porte

della cucina, ed uno spesso fumo

usciva. E in cucina c’è ressa:

il cuoco rosso e sudato si terge

il viso col grembiule bucato,

dà un’occhiata alle tazze e alle pignatte

sollevando i coperchi di rame,

sbadiglia e aggiunge dell’altro carbone

nel fornello che arde ugualmente.

Lo sguattero col cappello di carta,

ancora nuovo dell’arduo mestiere,

sale la scala verso gli scaffali,

trita cannella e noce moscata,

con le mani inesperte confonde

le spezie, e tossisce per il fumo

che s’insinua nel naso e negli occhi

quando scende…

E il cielo è così terso.

Il grido delle rondini si fonde

col brontolio del rame sul fornello;

si lecca i baffi una gatta, e prudente

sotto le sedie quatta s’avvicina

a un pezzo di bue rivestito

di uno strato leggero di grasso.

Cucina-Regno! Chi non esaltò

il tuo fumo azzurrino sulla carne,

e il vapore sulla zuppa dorata?

Senti? Il gallo che, forse, domani

sarà sgozzato, canta raucamente

un lieto inno a un’arte così bella,

la più difficile e fantasiosa…

 

 

In questo giorno vago per la strada

guardando i tetti e versi leggendo, –

negli occhi il barbaglìo del sole, e gira

la mia testa inquieta ed ubriaca.

E nell’azzurro fumo mi rammento

del vagabondo che, forse, come me,

per le strade di Anversa girava…

Poteva tutto e non sapeva niente,

come un cavaliere senza spada,

come me, egli, forse, aspirava

l’allegro fumo della taverna;

e, chissà, anche lui stuzzicava

la carne affumicata, – e avidamente

la densa saliva mandava giù.

Ed era il giorno dolce e sereno,

e il vento come il palmo d’una madre

i riccioli arruffati dimenava.

E, appoggiandosi contro una porta,

forse, il gaio pellegrino, come me,

con voce confusa componeva

le parole d’un canto inesistente…

Ma è sufficiente? Fate che la sorte

aggiunga al vagabondo il dissoluto,

e affamato stia presso le cucine

a sentir l’odore dei piatti altrui,

fate che mi si logori il vestito

e gli stivali s’aprano sui sassi,

e impari a comporre le canzoni…

Ma è sufficiente? Voglio qualcos’altro…

Oh, come quel viandante possa andare

per il paese, e dietro ad ogni porta

come un’allodola fischiare – ed ecco

oda in risposta il canto del gallo!

Cantore senza liuto, disarmato,

accoglierò i giorni come coppe

ricolmate di miele e di latte.

Quando m’assalirà la stanchezza

ed il mortale sonno inizierò,

fate che sulla tomba si disegni

il mio stemma: un pesante bordone,

un uccello e un cappello a larghe falde.

E si scriva: “Qui giace sereno

uno che non sapeva piangere”.

Viandante! Se ti son cari il vento,

la natura, la libertà e i canti, –

digli: “Riposa tranquillo, compagno,

molto cantasti, dormi ora, è tempo!”

 

Ritorno

Chi d’una conchiglia udì la canzone,

dalla riva nella nebbia andrà;

a lui darà pace e ispirazione

l’oceano che il vento cingerà…

Chi ha conosciuto il fumo azzurrino

che sull’acqua levarsi appare,

affronterà l’ingrato cammino,

la strada sonora del mare…

Così anch’io…

La mia penna scriveva,

la mente creava,

e cantavo;

ma ecco l’autunno giungeva,

e il vento tra i rami echeggiava…

 

E laggiù, sulla spaziosa riva,

con la sabbia l’onda si scontrò,

il sale qua e là spruzzò via,

un gabbiamo al vespero gridò…

Verrà la noia oppure non verrà –

che importa!

Non sarò più com’ero…

Per me canta l’audacia marinara,

per me crepita il fuoco costiero…

 

Di buon mattino

lascerò il villaggio.

Melone e pane nel fagottello, –

oggi non sono

il poeta Bagrickij,

son marinaio d’un greco battello…

 

Il vento fresco bolle come birra,

il cuore già batte con forza…

Si rivolta la carta come vela,

come l’albero la penna si rafforza…

 

Quest’autunno di nuovo ho capito

la povertà della mia poesia;

non andartene dal patrio lido,

dall’acqua iridata

non andar via…

 

Solo nel mare

la mia furia è un ciclone,

solo nel mare

il canto è sfrenato.

Fa presto, vento dell’ispirazione,

il battello ha un fianco inclinato…

 

1924

 

 

 

Pane nero e fedeltà femminile

 

Pane nero e fedeltà femminile

non ci permette un certo mal sottile…

 

Il ferro e la pietra han gli anni temprati,

l’assenzio perenne ha i fiumi colmati, –

sulle labbra il suo amaro pregnante…

Non siam per il coltello,

la penna deprime,

zappar non è bello,

la gloria ci opprime:

siam come l’orpello

di vecchie piante…

 

Un po’ di vento,

di settentrione –

e noi cadiamo.

La strada di chi or percorriamo?

Chi attraverserà la nostra ruggine?

Le giovani trombe ci calpesteranno?

Le stelle altrui su di noi spunteranno?

Noi – di vecchie querce il conforto perduto…

Col freddo randagio il conforto attizziamo…

Nella notte voliamo!

Nella notte voliamo!

Come stelle mature andiamo alla cieca…

Su di noi risuonano le giovani trombe,

su di noi l’altrui costellazione incombe,

su di noi strepita l’altrui bandiera…

Un po’ di vento,

di settentrione –

ardete dietro a loro,

correte dietro a loro,

inseguitele,

per i campi vagate,

nelle steppe cantate!

Dietro il bagliore accecante delle lame,

dietro il picchiare del ferro nelle tane,

dietro le trombe nei boschi annegate…

 

1926

 

I contrabbandieri

 

Tra i pesci e le stelle

la chiatta sta andando:

tre greci a Odessa

con il contrabbando.

A destra ci son,

sull’abisso piantati,

papà Satyros,

Janaki, Stavraki.

E il vento – che sferza!

Che fischio assordante!

E il flutto – che spinte

sul fondo squillante!

Risuonino i chiodi

e l’albero introni:

– Buona fortuna! Successo, affaroni!

E gli astri diffondino

In gran quantità:

preservativi,

calze e rari cognac…

Ah, vela greca!

Ah, Nero Mare!

Ah, Nero Mare…

– Di malaffare!

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

E’ mezzanotte –

prudenza e attenzione.

Tre doganieri!

Vento e buio pesto.

Tre doganieri,

sei occhi,

rumore –

una lancia a motore…

Tre doganieri!

Furbone fa piano!

Lascia la lancia

nel mare pagano, –

perché l’acqua

sotto la poppa risuoni:

– Forza, ladroni!

Successo, affaroni!

Perché la benzina

nei tubi avanzi,

e nelle corbe un folle

ballo danzi.

Oh, notte stellata!

Oh, Nero Mare!

Oh, Nero Mare!

– Di malaffare!

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . 

Oh, anche a me

nel buio sia dato

tra i baffi sbuffare,

a poppa sdraiato,

e gli occhi alle stelle

sul bompresso inclinato,

la voce spezzare

col gergo del mare,

e nel vento freddo

io pure distingua

del motor della ronda

gli scioglilingua!

Oppur, meglio ancora,

cacciare il predone

con la pistola,

nel denso nebbione…

E il vento sentire,

giù per le vene

e tra le stelle,

ove volan le vele…

E a un tratto incontrare

a poppa seduto

nel buio fitto

un greco baffuto…

Pulsa nelle vene

e spazza la via,

gioventù senza fondo,

furia mia!

Come stelle si sparga

il sangue umano,

come un proiettile

il mondo affrontiamo,

perché strepiti

il popolo dei flutti,

e il canto rabbioso

la bocca deturpi, –

e nello spazio orrendo

soffocando cantare:

– Oh, Nero Mare,

magnifico mare!…

 

1927

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

5 favole di Paolo Statuti

25 Feb

                                      La rosa

 

     Quando Dio creò la rosa, per un po’ rimase a guardarla incantato e poi disse:

     – Per il tuo profumo e per la tua bellezza sarai la regina dei fiori.

     La rosa era senza spine e probabilmente sarebbe rimasta così, se non fosse stato per la rabbia di una cattiva fattucchiera… Dopo aver pronunciato quelle parole, Dio piantò subito molti esemplari del nuovo fiore su tutta la terra, ed uno di essi sbocciò nel giardino di una vecchia decrepita, che si mormorava fosse amica del diavolo, se non addirittura una sua parente stretta. Tutta la vita si era rammaricata di essere venuta al mondo brutta come il peccato e per questo odiava le cose belle. E così, quando scorse il meraviglioso fiore nel suo giardino, per poco non le venne un colpo e fu presa da un attacco isterico. Il primo impulso fu quello di distruggerlo, ma poi pensò che sarebbe capitata una buona occasione per sbarazzarsene, e per il momento lo lasciò lì.

     Come se la vecchia avesse previsto il futuro, qualche giorno dopo un giovane cavaliere di passaggio bussò alla porta della sua casa, chiedendole un po’ d’acqua per sé e per il cavallo. Si chiamava Marco ed era il figlio di un ricco mercante di stoffe. Naturalmente non conosceva la fattucchiera e non ne aveva mai sentito parlare. Stava recandosi dalla sua fidanzata Valeria – la bella figlia di un celebre sarto che vestiva re e regine. Si erano conosciuti circa un anno prima, quando il giovane aveva venduto, per conto di suo padre, una partita di tessuti al sarto, e qualche tempo dopo il loro primo incontro avevano festeggiato il fidanzamento. Ormai tutto era pronto per le nozze.

     La megera sorrise a Marco in modo subdolo e gli porse un secchio per attingere l’acqua dal pozzo domandandogli:

     – Dove sei diretto, bel cavaliere?

     – Vado dalla mia ragazza. Oggi è il suo compleanno e purtroppo non so ancora quale regalo farle. Non è facile trovare qualcosa, perché deve essere un dono adeguato alla sua bellezza, che supera qualsiasi immaginazione – rispose il giovane.

     – Capiti al momento giusto, ho proprio ciò che fa al caso tuo. Guarda laggiù, a destra della quercia, se vuoi potrai portarle quel fiore.  

     Marco si avvicinò alla rosa e, ammutolito dallo stupore, perché era la prima volta che la vedeva, riuscì soltanto a mormorare:

     – Che meraviglia!…

     – Ti piace, eh? Non potevi trovare nulla di meglio e di più adatto, perché esso è il simbolo dell’amore. Bene, bene, mentre tu attingi l’acqua io ti coglierò il fiore.

     E così fece, ma prima di consegnarlo al ragazzo iniettò di nascosto una misteriosa sostanza tossica nel cuore della rosa.

     – Ecco qua, prendi pure, te lo regalo, ma raccomanda alla tua ragazza di tenerlo sempre nella sua camera, perché ora comincia a rinfrescare e questo fiore ama starsene al calduccio.

     Marco ringraziò con l’animo pieno di gratitudine e spronò il cavallo verso la casa della ragazza, ancora molto lontana. La vecchia, dal canto suo, fece appena in tempo a consegnare la rosa al giovane, che si mise a letto e ben presto morì. Fu accompagnata all’inferno da un suo amico diavolo e fu accolta con tutti gli onori, vale a dire a suon di sghignazzate e urla raccapriccianti.

     Quando vide il dono del suo ragazzo, Valeria si sentì venire le lacrime agli occhi dalla commozione. Accarezzò la rosa e promise di conservarla con cura e di baciarla tutte le sere prima di addormentarsi. Povera Valeria! Fin dal giorno dopo il fiore cominciò a produrre il suo effetto malefico, e la giovane si sentì improvvisamente debole e svogliata, quindi fu assalita da forti mal di testa e dai brividi della febbre. Deperiva a vista d’occhio e alla felicità dell’amore si sostituì il  tormento della malattia, una malattia strana e sconosciuta, che nessun dottore riusciva a curare. L’intera casa era in subbuglio, i genitori di Valeria si disperavano e Marco era sul punto d’impazzire.

     Una mattina il giovane, non potendo più vedere la sua amata così pallida e sofferente, era uscito di casa e si era avviato verso il vicino boschetto in cerca di solitudine. Sfinito e addolorato, si sedette sotto un frassino, oppresso da cupi pensieri. All’improvviso da dietro un tronco a qualche metro da lui sbucò un nanetto, si avvicinò a Marco e gli disse:

     – Ho sentito i tuoi lamenti e conosco la causa del tuo dolore, ma posso aiutarti. Devi sapere che per diversi anni sono stato al servizio della vecchia che ti ha regalato il fiore. Era una strega, dico «era» perché ormai è morta ed è finita all’inferno come si meritava. Stando con lei ho imparato anch’io un po’ di magia. Un bel giorno però mi ha cacciato via, per il semplice motivo che ero stanco delle sue malefatte e mi ero rifiutato di obbedirle. La malattia della tua fidanzata deriva dalla sostanza venefica che la strega ha iniettato nel cuore del fiore, ma a nulla servirebbe distruggerlo, anzi così facendo perderesti ogni possibilità di vincere la stregoneria. C’è un solo sistema per riuscire. Se vuoi che la tua ragazza guarisca e sia tua sposa, dovrai patire molto, superando alcune prove assai difficili e dolorose. Bada, però, non dovrai mai pronunciare la parola «basta», altrimenti tutte le tue fatiche saranno inutili e la tua fidanzata morirà.

     – Sono pronto a sopportare qualunque sofferenza, pur di guarirla! – esclamò il giovane con foga.

     – Va bene, allora preparati – replicò il nanetto, e aggiunse ancora: – Non dovrai preoccuparti per il fiore, perché esso appassirà e si seccherà da solo, man mano che la tua ragazza riacquisterà la salute.

     Povero Marco, quante ne dovette passare per amore di Valeria! Patì le pene dell’inferno, conobbe la fame e la sete, fu azzannato da un feroce cane randagio, fu bastonato da tre briganti incontrati in una stradina deserta, restò assiderato e rischiò di annegare nell’acqua gelida di un torrente… Gemeva, gridava, ma stringeva i denti e non pronunciò mai la parola «basta», benché avesse tanta voglia di farlo. La speranza di uscire vittorioso da quelle terribili prove gli dava la forza di resistere e lo confortava.

     A sua insaputa, infatti, la ragazza stava lentamente rifiorendo, mentre la rosa appassiva sempre di più, i suoi petali si erano fatti grinzosi ed erano prossimi a seccarsi. A vederla ridotta in quello stato, Valeria si sentiva stringere il cuore e inoltre era disperata, perché già da due settimane non aveva notizie del suo promesso sposo. Passava ore intere seduta davanti alla finestra, fissando con ansia il vialetto che conduceva alla porta di casa, e intanto pregava, si raccomandava a tutti i santi di farlo tornare sano e salvo.

     Dopo aver tanto sofferto, finalmente un giorno Marco incontrò di nuovo il nano, che sorridendo gli disse:

     – Finora hai dimostrato un grande coraggio, sei stato bravo, complimenti! Pochi altri avrebbero avuto la tua tenacia, ma ora preparati a superare la prova decisiva – l’ultima e la più dura: questa notte sarai travolto dalla tempesta, sarai colpito da un fulmine, la grandine ti sferzerà il viso, i tuoni ti assorderanno, i lampi ti accecheranno, ma se resisterai, domani mattina potrai riabbracciare la tua fidanzata completamente guarita e tra qualche giorno potrete sposarvi.

     Quella notte il buon Dio e i santi, che avevano ascoltato le preghiere di Valeria ed erano rimasti commossi dall’eroismo e dal grande amore di Marco, diedero una mano al giovane, fornendogli l’audacia d’un leone e la resistenza di un toro. La mattina dopo, ormai allo stremo delle forze ma felice, il ragazzo potè rivedere la sua adorata Valeria. Era raggiante di gioia e sana come un pesce. Della rosa non era rimasto che un mucchietto di polvere e il gambo… sul quale erano spuntate delle grosse spine. Era stata la strega, trasformata in diavolessa, a farle crescere in un impeto di rabbia e di vendetta.

     Alle nozze fu invitato anche il nanetto. Al termine della solenne cerimonia, prima di lasciare la chiesa, egli si avvicinò a Valeria reggendo in mano una bellissima rosa. Era identica a quella che aveva causato tanti patimenti ai due giovani, solo che il gambo era pieno di spine. I suoi petali vellutati e lucenti vibravano al suono dell’organo e diffondevano un profumo inebriante. La porse alla sposa sussurrandole:

     – Ecco il mio modesto regalo di nozze. E’ una semplice rosa senza alcun potere magico, ma ha un grande significato!

     Da allora questo fiore nasce sempre così e ricorda agli uomini che:

 

Non c’è rosa senza spine,

né bellezza senza fine,

non c’è il bene senza il male

e sia questa la morale.

 

 

                                       L’orologio della torre

 

     Michelino era un ragazzetto vivace e intelligente. Non era cattivo, ma aveva due brutti difetti: amava troppo i soldi e non voleva studiare. I genitori, che avevano altri tre figli ed erano poveri, mandarono allora Michelino da un orologiaio loro parente, per imparare il mestiere. L’orologiaio era stato molto bravo da giovane, ma adesso che era vecchio non vedeva più tanto bene e, anziché riparare gli orologi, spesso ne peggiorava le condizioni. Inoltre, Michelino ogni tanto gli faceva degli scherzi: gli nascondeva le rotelline o le molle o le lancette, e il vecchio diventava matto a cercarle e a rimettere tutto a posto. Comunque sia, nonostante il suo «allegro» tirocinio, dopo un paio d’anni Michelino aveva imparato così bene il mestiere, che con i risparmi fatti poté mettere su bottega e cominciò subito ad avere molti clienti.

     Era passato appena un anno, ma egli era già così noto, che la sua fama giunse fino al palazzo del re, dove c’era una torre con un grande orologio che, con costernazione di tutti, da un po’ di tempo si rifiutava di funzionare. Prima l’orologio sonava ogni mezz’ora e lo sentivano non solo al palazzo del re, ma anche nei villaggi vicini. Sonava alle cinque e i contadini si alzavano per andare a lavorare. Sonava alle sette e mezza e tutti i bambini si alzavano per andare a scuola. A mezzogiorno sonava per avvertire che era l’ora di tornare a casa per il pranzo, alle sette di sera – per la cena, e alle nove e mezza di sera diceva a tutti che era ora di andare a letto. Insomma, l’orologio era assai importante per la vita del popolo, e da quando si era guastato non si capiva più niente. Era un’enorme baraonda! La gente dormiva fino all’ora di pranzo, i bambini non andavano più a scuola, si cenava a mezzanotte e ci si coricava alle quattro di mattina.

     Il re quindi, dopo aver chiamato una cinquantina di orologiai senza ottenere nulla, fece venire Michelino, che aveva ormai diciotto anni. Il ragazzo arrivò al palazzo con la sua cassettina degli strumenti e si mise subito al lavoro. Mentre trafficava con gli ingranaggi, cominciò a pensare come poter guadagnare molti soldi, facendo qualche imbroglio. Aveva già capito dov’era il guasto e aveva calcolato che ci sarebbero voluti due giorni, massimo tre, per ripararlo, ma al re che gli aveva chiesto quanto occorresse, aveva risposto:

     – Due settimane, Sire – e aveva subito aggiunto:

     – Se tutto va bene!

     Poi aveva preteso dal re una catena d’oro lunga tre metri, tre grossi rubini e cinque diamanti, che gli servivano – così diceva lui – per aggiustare l’orologio. Il re gli fece avere immediatamente quello che voleva, e Michelino nascose tutto sotto una pietra della torre. I giorni passavano e il giovane chiedeva sempre altre cose di valore. Erano già trascorse due settimane, ma lui continuava a ripetere:

     – Ancora un giorno o due, ancora un giorno o due, ormai ci sono quasi.

     Ma alla fine il re si stufò. Chiamò Michelino e gli disse:

     – Ora basta con questa commedia! Se l’orologio non funzionerà entro domani sera, alle otto in punto ti farò tagliare la testa.

     Corpo di Bacco!  Non c’era da scherzare. Michelino assicurò il re che l’orologio avrebbe funzionato e si mise all’opera. Pensava: «Adesso finisco il lavoro e poi scapperò con tutto il tesoro che ho accumulato». Mancavano pochi minuti a mezzogiorno. Michelino, tutto sudato, mise a posto l’ultima ruota dentata e finalmente, con suo grande sollievo, l’orologio cominciò a battere. Tutti udirono il suono e accorsero gridando di gioia e facendo festa.

      Era ora che la vita tornasse normale come un tempo! Il re andò di persona sotto la torre, strinse la mano a Michelino e lo ringraziò calorosamente. Poi gli chiese quanto volesse per il lavoro fatto. Michelino, che era già ricco con tutto quello che aveva sotto la pietra della torre, domandò soltanto un grande sacco e un veloce cavallo, quindi promise di tornare tre anni dopo per sposare la figlia del re, della quale si era innamorato al primo sguardo. Il re non voleva dire di sì, ma non voleva dire neanche di no, dopo quello che Michelino aveva fatto per loro, e perciò si limitò a dire:

     – Vedremo. Torna fra tre anni e vedremo.

     Ma poi cominciò a pensare: «Perché questo ragazzo vuole un grande sacco e un veloce cavallo? Vuole forse rubare qualcosa e scappare?» Chiamò quindi due guardie e ordinò loro di spiare Michelino per vedere cosa avrebbe fatto prima di partire. Le guardie si appostarono e quando era già buio, videro Michelino che andava sotto la torre, si guardava intorno per essere sicuro che non lo scorgesse nessuno, e alzava la pesante pietra. Aveva già cominciato a riempire il sacco, ma le guardie saltarono fuori dal loro nascondiglio e lo arrestarono.

     Povero Michelino! Lo portarono al cospetto del re con tutto quello che aveva rubato, e il re ordinò di metterlo subito in prigione e di tagliargli la testa il giorno dopo, nel cortile del palazzo. Michelino guardava il cielo da dietro le sbarre della prigione. Come poteva scappare? Esaminò la cella in lungo e in largo: niente da fare, i muri erano troppo spessi per poter fare un buco. Tornò a guardare fuori della finestrella e vide un topolino che lo fissava. Lo chiamò:

     – Topolino, bel topolino, hai visto che brutta fine ho fatto per essere stato disonesto!

     – Eh, già, hai fatto molto male! – rispose il topolino.

     – Ma ora sono pentito e non lo farò mai più! – replicò Michelino.

     – Dici sul serio?

     – Sì, sì, te lo giuro, ti prego, se mi aiuterai ad uscire di qui, giuro che sarò sempre bravo. Ho un’idea, ma ho bisogno del tuo aiuto.

     – Va bene, ti aiuterò, dimmi cosa devo fare.

     – Trova un bastoncino di legno duro, sali sulla torre, entra nella stanza dell’orologio e infila il bastoncino tra la prima e la seconda ruota dentata. L’orologio si fermerà e così il re sarà costretto a liberarmi, pensando che si sia guastato di nuovo, e quando io lo avrò rimesso in movimento lui mi perdonerà e mi lascerà tornare al mio paese.

     Il topolino fece quello che Michelino gli aveva chiesto e, infatti, dieci minuti dopo l’orologio era fermo.

     – Maledizione! – urlò il re – l’orologio è di nuovo guasto, ma ora mi sentirà!

     Ordinò alle guardie di portargli immediatamente Michelino, e quando il ragazzo arrivò gli disse:

     – Hai cercato d’imbrogliarmi e di rubare, e non hai fatto neanche un buon lavoro! Domani, prima di tagliarti la testa, ti farò anche frustare!

     Allora Michelino, pallido e tremante, implorò il re:

     – Sire, ti prego, l’orologio ha bisogno solo di un po’ d’olio! Dammi dieci minuti e te lo farò rifunzionare.

     Il re si rifiutò, pensando a un altro imbroglio, ma poi di fronte alle insistenze di Michelino e non vedendo altra via d’uscita, accettò la proposta del giovane. Michelino salì sulla torre, tolse via il bastoncino e l’orologio riprese a camminare.

     Il ragazzo allora esclamò:

     – O re, perdonami! Questa volta l’orologio non si fermerà e funzionerà per almeno cento anni!

     Il re, visto che Michelino sembrava realmente pentito, lo lasciò partire, ma gli ordinò di non farsi mai più vedere da quelle parti.

     Erano passati ormai tre anni e Michelino, che era sempre innamorato della figlia del re, voleva tornare per sposarla, ma come fare? Pensò a lungo e alla fine, travestito da vecchio, si mise in cammino verso il palazzo del re. Quando arrivò, rimase sbalordito. C’era una confusione indescrivibile. Il palazzo e i villaggi vicini erano sottosopra. La gente era irriconoscibile: chi dormiva in piedi, chi correva come impazzito. Michelino capì subito cos’era successo: l’orologio era di nuovo guasto. Quella volta era stato un fulmine a metterlo fuori uso e il re, disperato e non sapendo più cosa fare, aveva promesso la figlia in sposa a chi fosse riuscito a ripararlo. Molti ci avevano provato, ma nessuno ce l’aveva fatta. Michelino, saputo questo, si presentò a palazzo sempre travestito da vecchio, e disse che avrebbe tentato anche lui. Il re pensò: «Non vorrei dare mia figlia a un vecchio, ma cosa possiamo fare? Proviamo anche con lui».

     Michelino si mise al lavoro e dopo una settimana, questa volta senza fare imbrogli, era riuscito ad aggiustare l’orologio. Ormai il re era obbligato a mantenere la promessa e si dovevano celebrare le nozze. Era quindi molto triste e la figlia piangeva come una fontana. Arrivò il giorno della cerimonia. Tutto era pronto e si aspettava solo lo sposo. Perché ancora non si vedeva? Non sapevano che Michelino era indeciso, se presentarsi travestito da vecchio o senza travestimento. Alla fine si decise e pensò:  «Entrerò da vecchio e uscirò da giovane». E così fece.

     A un tratto, durante il banchetto, si tolse la finta barba bianca, la lunga palandrana e tutti lo riconobbero subito. Naturalmente anche il re, il quale restò a bocca aperta e voleva urlare di rabbia, ma vedendo il viso sorridente e raggiante della figlia, andò incontro al giovane dicendogli:

     – Michelino, è vero, hai cercato d’imbrogliarci, ma ci hai anche salvati due volte. In fondo sei un bravo ragazzo e sono certo che d’ora in poi ti comporterai onestamente. Anche mia figlia ti ama molto e aspettava con ansia il tuo ritorno, benché non avesse il coraggio di dirmelo. Sposatevi dunque e vivete felici!

     Tutti applaudirono e diedero subito inizio alla grande mangiata e all’ancor più grande bevuta. Quella notte l’orologio, invece dei soliti tocchi sobri e regolari: don… don… don… don… sonava come impazzito o quanto meno ubriaco: tring… beng… deng…, tring… beng… deng… Ma all’alba, partiti i due sposini in viaggio di nozze, riprese a sonare con la sua solita voce, e ancora oggi suona puntualmente ogni mezz’ora: don… don… don… don…

 

    

                                                                            La scala

 

     Questa è la storia di un contadino che, come tutti i contadini di questo mondo, aveva una scala a pioli. La usava quando doveva cogliere la frutta sugli alberi, quando doveva riparare il tetto o la grondaia, o quando voleva dar da mangiare ai colombi e in molte altre occasioni. Era un contadino povero e abbastanza vecchio e viveva con la moglie, una vecchia brontolona che non lo lasciava mai in pace. Avevano avuto due figli, un maschio e una femmina, ma il maschio era morto in guerra, mentre la femmina si era sposata ed ora viveva lontano, in un altro paese. Quindi i due vecchi erano rimasti soli con un cane e qualche pollo.

     Un giorno il contadino aveva lavorato più del solito e giunta la sera si sentiva stanco morto. Non vedeva l’ora di andare a letto. Rimise tutti gli attrezzi nel fienile e appoggiò la scala al muro del pollaio. Poi si avviò per entrare in casa. Immaginava di essere già sotto le coperte e pregustava il meritato riposo, quando improvvisamente udì un rumore alle sue spalle. Si voltò e… rimase allibito, vedendo che la scala si moveva da sola. «Come può essere?! – pensò – di sicuro è uno scherzo della stanchezza e della vecchiaia!» – e si girò per andarsene finalmente a riposare. Ma fatti pochi passi, sentì di nuovo un rumore, si girò e vide la scala che ondeggiava avanti e indietro. Allora si avvicinò ad essa e chiese timoroso:

     – Perché ti muovi? C’è forse qualche spirito in te? Perché non te ne stai buona e tranquilla e non mi lasci andare a letto, sono sfinito e ho una voglia matta di dormire!

     Appena dette queste parole, apparve seduta su uno dei pioli una minuscola donnina con le alucce e un gran fiocco sui capelli biondi.

     – Chi sei? – chiese il contadino.

     – Sono lo spiritello della scala – rispose la donnina – mi chiamo Concettina e ho una gran fame. Fammi un favore: coglimi la mela più bella e gustosa ed io ti ricompenserò perché sei un bravo vecchio e tutta la vita hai lavorato bene e sei vissuto onestamente.

     Il contadino sgranò gli occhi: una cosa simile non gli era mai capitata. Era stanco e voleva riposarsi, ma lo spiritello insisteva tanto che aveva fame, e inoltre la prospettiva del premio… insomma afferrò la scala, lo spiritello gli volò su una spalla e insieme si diressero verso il melo più grande del frutteto. Giunto ai piedi dell’albero il contadino vi appoggiò la scala e cominciò a salire. Lo spiritello lo guidava e tutto a un tratto egli si sentì meno stanco. Saliva e ogni tanto voleva staccare una mela, perché gli sembrava la più bella, ma Concettina gli diceva:

     – No, non quella, più su, più su, vedi? Proprio quella là in cima.

     Il contadino continuava a salire. Sali e sali, gli pareva di non arrivare mai. Di colpo si accorse che stava succedendo una cosa molto strana: l’albero diventava sempre più grande, la scala – sempre più alta, e la grossa mela gialla e rosa indicata da Concettina sembrava sempre più lontana. Allora il contadino si rivolse allo spiritello che non la smetteva un attimo di saltare dalle sue spalle sui rami e viceversa, dicendogli un po’ seccato:

     – Questa è una stregoneria! Non raggiungerò mai quella mela!

     Ma Concettina gli rispose:

     – Vedrai, vedrai, continua a salire, raggiungerai la mela e avrai il premio che ti ho promesso.

     In quel momento il contadino abbassò per caso lo sguardo e per poco non cadde dalla scala per lo spavento: Era altissimo e la sua casetta sembrava appena un puntino illuminato dalla luna. Si aggrappò con tutte le forze alla scala, guardando terrorizzato lo spiritello, ma quello rideva della sua paura e lo incitava a salire ancora. Il contadino non ce la faceva più, cominciava a pentirsi di aver dato retta a Concettina e alzò gli occhi chiedendo aiuto al cielo. Così facendo, vide che la luna era molto vicina. «Possibile che sia salito così in alto?!» – si domandò, ma non finì di meravigliarsi, perché di punto in bianco lo spiritello gli disse:

     – Ancora due pioli e arriverai a prendere la mela.

     – Uff, finalmente, era ora! – esclamò  il contadino.

     E infatti, un istante dopo egli afferrò la sospirata mela e la porse allo spiritello.

     – Grazie – disse Concettina – ma per il momento tienila tu. Hai faticato tanto per prenderla ed ora è giusto che ce la dividiamo da buoni amici. Qui però è troppo scomodo e c’è anche pericolo di cadere. Vieni, ormai la luna è vicina, voleremo insieme fin lassù. Attaccati ai miei piedi e pronto a spiccare il volo.

     Il contadino seguì il consiglio dello spiritello e arrivò con lui sulla luna. Camminarono un po’. Il vecchio si guardava intorno sorpreso e deluso: che razza di terra era quella, senza nemmeno un cane, né un pollo, né un albero da frutta! Ovunque – lo stesso deserto argentato. Alla fine si accomodarono su di un soffice strato di polvere, come su una comoda poltrona. Quindi il contadino tirò fuori il suo coltello da tasca e cominciò a tagliare la mela. Pensava che si trattasse di una normale mela con la buccia e i semini all’interno, ma con sua grande meraviglia si accorse che era completamente diversa dalle altre. La buccia poteva sembrare la stessa, ma dentro: oh, che splendore! – dentro era piena di pietre preziose che brillavano tanto da accecargli gli occhi.

     – Ecco – disse lo spiritello – questo è il premio che ti avevo promesso. Io prenderò per me soltanto la buccia che è fatta di velluto di luna, e mi ci farò una mantellina per ripararmi dal freddo. Sei contento?

     Il contadino era ammutolito dalla contentezza e non trovava le parole per ringraziare lo spiritello. Concettina lo guardò, gli accarezzò la barba e gli disse:

     – S’è fatto tardi, dobbiamo tornare a casa, altrimenti tua moglie starà in pensiero.

     E così lasciarono la luna come ci erano arrivati e il contadino rimise piede sulla scala. La discesa era più difficile della salita, perché nel frattempo si era levato un forte vento che faceva oscillare paurosamente la scala, ma pian piano e da solo, poiché Concettina era improvvisamente scomparsa, riuscì ad arrivare nel suo orto. Rimise a posto la scala. La moglie lo aspettava sulla porta di casa. Era inviperita e gli urlò:

     – Dove diavolo sei stato tutto questo tempo! Sei andato all’osteria a bere, vero?

     Il povero contadino che non vedeva l’ora di mettersi a letto, dopo quella sovrumana faticata, rispose con un fil di voce:

     – Moglie mia, domattina ti racconterò tutto, ma ora lasciami andare a dormire, buona notte.

     E così dicendo, entrò in camera, si buttò sul letto tutto vestito e si addormentò subito. La mattina dopo fortunatamente il gallo si dimenticò di cantare alla solita ora, permettendogli così di dormire a lungo. Si svegliò quindi fresco e riposato. Era una giornata piena di sole. Gli uccellini cantavano nell’orto e battevano il becco sui vetri, come per dirgli: non è ora di alzarsi, vecchio pigrone? Ma anche quella volta gli dettero il buongiorno. La moglie invece lo rimproverò severamente:

     – Allora, poltrone, ce l’hai fatta a svegliarti! Il lavoro ti aspetta! Devi raccogliere le mele, tra mezz’ora verranno a ritirarle e tu stai ancora a letto!

     Appena sentì la parola «mele», il contadino si ricordò di quello che era successo la sera prima. Si alzò di scatto, si toccò le tasche dei pantaloni – niente, erano vuote!

     – Ma come! – gridò – eppure non è stato un sogno, mi ricordo benissimo: la mela, la luna, le pietre preziose, lo spiritello …

     – Ma cosa stai farneticando! – gli urlò la moglie – sei forse ubriaco?

     Lui non sapeva cosa rispondere, ma di una cosa era certo: non aveva bevuto. Uscì di corsa nell’orto – la scala era lì al suo posto. Il contadino si avvicinò, la toccò e la sollevò, quindi la rimise giù e cominciò a grattarsi la testa. «Forse ho sognato sul serio» – pensò e si rivolse alla moglie:

     – Moglie mia, scusami, è stato tutto un sogno, ora mi metterò al lavoro e quando arriveranno i clienti troveranno almeno cinque ceste di mele fresche e profumate.

     E così fece. In mezz’ora riempì cinque ceste di mele e anche quel giorno riuscirono a venderle tutte. Venne la sera. La luna era già spuntata e il contadino la guardava e pensava alla sera prima. Pensava allo spiritello, alla mela magica e alle pietre preziose. Camminando nel frutteto arrivò sotto l’albero su cui si ricordava di essere salito, e si sedette riflettendo su quello che gli era successo. Mentre era lì che meditava tutto triste, sentì un rumore come di grandine, ma grandine non poteva essere, perché il cielo era sereno e pieno di stelle e la luna brillava più luminosa che mai. Guardò attentamente e vide delle pietruzze che cadevano in terra a poca distanza dall’albero. Brillavano come stelline. Ne raccolse qualcuna e scoprì con gioia che erano le pietre preziose che ormai pensava di aver sognato. Cominciò a raccoglierle, e in quel momento udì una vocina alle sua spalle. Si voltò e riconobbe Concettina, che sorridendo gli si accomodò su una mano e gli disse:

     – Eccole lì le tue pietre. Ho voluto metterti alla prova. Un altro uomo al tuo posto si sarebbe disperato, avrebbe imprecato, oggi non avrebbe lavorato, ubriacandosi per dimenticare. Tu, invece, hai lavorato come al solito, e hai pensato perfino di aver sognato. Ciò significa che sei un uomo saggio e buono che merita di essere felice. Ora va’ a dormire. Domani comprerai una casa più grande e più bella, con un giardino pieno di alberi da frutta, ma non pensare di trovare ancora una mela uguale a quella dell’altra sera. Mele come quella si trovano una sola volta nella vita, e ciò capita assai di rado. Qualche volta, per caso, la trovano anche gli uomini avidi e senza giudizio, ma con i soldi che ne ricavano non vivono felici lo stesso. Mentre tu, che sei saggio e modesto, continuerai ad esserlo anche in futuro.

     E così fu. Il contadino, diventato improvvisamente ricco, continuò a vivere felice e sereno come era sempre vissuto.

 

 

                                               Il pastorello coraggioso

 

     Quando né io né mia nonna eravamo ancora nati, viveva una famiglia di montanari: il papà, la mamma e il figlio Cosimino. Abitavano in una casetta di legno situata ai margini di una grande radura circondata dai boschi. Tutti i loro averi erano un po’ di terra, due mucche, un carro, un cavallo da tiro, qualche gallina e un cane. Il padre e la madre guadagnavano vendendo latte, formaggio, uova e trasportando carichi di legna di qua e di là, a seconda delle richieste che ricevevano, ma non era molto quello che ricavavano e bastava a malapena per sbarcare il lunario.

     Cosimino era un bambino intelligente e tranquillo, ubbidiente e servizievole. Aveva già otto anni, ma purtroppo non poteva andare a scuola, sia perché essa era molto lontana, sia perché a quel tempo nelle famiglie disagiate come la sua, studiare era considerato un lusso – infatti costava caro, e una perdita di tempo – in quanto toglieva mano d’opera al lavoro di tutti i giorni. Cosimino quindi cresceva senza conoscere né la storia, né la geografia, né le quattro operazioni, ma in compenso imparava tante cose stando a contatto con la natura. Sapeva quale uccello in quel momento cantava, quale altro animale del bosco rispondeva al richiamo del compagno, quali alberi crescevano nella zona, quali erano le erbe più utili all’uomo, quali fiori sbocciavano prima e quali dopo, e tante altre cose, che assai spesso molti bambini che vanno a scuola non conoscono…

     Una mattina qualcuno portò al padre la notizia che un suo vecchio lontano parente, agiato montanaro di un’altra regione, morendo si era ricordato di lui e gli aveva lasciato in eredità quindici pecore. Il padre dapprima credette di sognare, poi pensò a un errore e si fece ripetere il messaggio. Quando fu proprio certo che si trattava di lui, ringraziò la Provvidenza, naturalmente dopo averle raccomandato l’anima del parente defunto, attaccò il cavallo al carro e partì subito per ritirare il prezioso, inatteso dono.

     Quando tornò a casa chiamò Cosimino e gli disse:

     – Da domani ti occuperai delle pecore: Sono solo quindici, perciò non ti ammazzerai certo di fatica. Ogni giorni le porterai al pascolo e fa’ attenzione a non perderne neanche una!

     Cosimino guardò le pecore che belavano in coro come per dirgli: – Felici di conoscerti! Ci faremo delle belle passeggiate insieme, vedrai! – e con un timido sorriso rispose:

     – Sta’ tranquillo, papà, non ne perderò nessuna, sono felice di poterti aiutare e ti ringrazio per avermene dato la possibilità. Cosimino cominciò il suo primo importante lavoro e ogni mattina all’alba era già sui prati assieme ai suoi nuovi amici. Come ogni pastorello di questo mondo, si portava dietro il cane, che si chiamava Tizzo perché era nero come il carbone, si era fatto un bel bastone intagliato e uno zufolo, e così fra un belato di qua, un latrato di là e una zufolata ogni tanto, trascorreva serenamente le giornate, allegro e soddisfatto.

     Tra le pecore c’era un agnellino,  al quale il pastorello s’era molto affezionato. Era soffice e bianco come la neve e lo aveva battezzato Fiocco. Spesso se lo prendeva in braccio, lo accarezzava e poggiava la testa sul suo pelo morbido e caldo, provando tenerezza per quella creaturina fragile e delicata come un filo d’erba.

     Un giorno Cosimino aveva portato come al solito le pecore al pascolo. Era già lontano dalla sua casetta, che appariva ormai non più grande di una nocciolina. Tutto sembrava tranquillo come sempre. Il pastorello si era seduto su un masso e sonava lo zufolo senza perdere d’occhio il piccolo gregge che brucava e belava, come accompagnando in coro la dolce melodia che, attraverso il rudimentale strumento, usciva dal cuore del bambino. Anche Tizzo ogni tanto partecipava al concerto, ora con un sonoro do di petto, ora con un sommesso basso continuo.

     A un tratto però il tempo era stranamente cambiato. L’aria era rinfrescata, il cielo s’era fatto grigio e tutto intorno era scesa una fitta nebbia, così fitta che ben presto il pastorello perse di vista le pecorelle e cominciò a muoversi a tentoni, tagliando la nebbia con le braccia. Era sorpreso e turbato, non riusciva a spiegarsi quell’improvviso cambiamento del tempo. Non sapeva cosa fare ed era preoccupato per le pecore. Di punto in bianco Tizzo, che da pochi istanti si era limitato a ringhiare in modo sordo e minaccioso, cominciò ad abbaiare rabbiosamente. Cosimino non lo vedeva, ma lo sentiva fremere e saltare, come per mordere un invisibile nemico. La sua furia tuttavia durò poco, di colpo smise di latrare, come se si fosse addormentato. Passò ancora qualche minuto, poi la nebbia si diradò fino a sparire completamente.

     Quando si fu ripreso dallo stupore, e un po’ anche dallo spavento, Cosimino vide il cane che dormiva come un ghiro e le pecore che guardavano inebetite con gli occhi sbarrati. Istintivamente pensò di contarle: – Una, due, tre… cinque… sette… dieci… dodici… quattordici… – a questo punto si fermò e si sentì gelare il sangue: erano solo quattordici, dunque ne mancava una! Cercò ancora con lo sguardo, andò avanti e indietro, girò a lungo, ma senza risultato – la quindicesima pecora sembrava essersi dissolta nell’aria. Le ricontò ancora una, due, tre volte – no, non si sbagliava – erano proprio quattordici. Cosimino allora si sedette sull’erba tutto triste e si prese la testa tra le mani, pensando che non si meritava quella disgrazia, né gli immancabili rimproveri che avrebbe ricevuto dal padre. Fiocco frattanto, vedendolo così abbattuto gli era andato vicino e gli leccava una mano. Il pastorello si strinse al petto l’agnellino supplicandolo:

     – Fiocco, amico mio, dimmi, come posso ritrovare la pecorella?

     Ma Fiocco, che forse si rendeva conto della situazione e avrebbe voluto consolare Cosimino, non poté fare altro che rispondere «beee… beee… beee…» e poi tacque. Allora in quel silenzio rotto solo dal brucare delle pecore, dal russare di Tizzo e dai battiti del proprio cuore, il bambino udì dietro di sé un lieve scricchiolio e un profondo sospiro; si voltò e con sua grande meraviglia, vide a qualche metro di distanza un vecchio seduto su una bella comoda poltrona, fatta di rami intrecciati e ricoperta di uno spesso strato d’erba. Indossava una veste del colore dei monti al tramonto, la lunga barba bianca gli copriva il petto e sulla testa aveva un colbacco di muschio. Fumava la pipa e il fumo gli usciva dal naso e dalla bocca assieme a un confuso brontolio. Sorrise a Cosimino e movendo la pipa avanti e indietro gli fece cenno di avvicinarsi. Il pastorello lo fissava sbalordito e timoroso, e meccanicamente avanzò di qualche passo… si fermò… riprese a camminare, finché si trovò a un metro dal vecchio, che lo accolse con queste parole:

     – Non temere, Cosimino, sono il Supremo Spirito dei monti e mi trovo qui non per farti del male, ma per aiutarti. Siediti e ascolta cosa ho da dirti… Poco fa gli amici uccelli mi hanno portato la triste notizia della scomparsa della tua pecorella. Essi in quel momento volavano alti sulla tua testa e hanno visto tutto… Prima che tu nascessi, in questi boschi dimorava una ninfa bellissima ma assai cattiva. Ella s’innamorò di tuo padre e voleva sposarlo a tutti i costi. Tuo padre però è un uomo molto diffidente e capì subito che quella donna non era fatta per lui, e così le disse chiaro e tondo di lasciarlo in pace e di non farsi più vedere, dopodiché sposò la donna che ti ha dato la vita. La ninfa, respinta e piena di odio, abbandonò questi luoghi andandosene lontano, lontano, aspettando l’occasione buona per vendicarsi. Oggi dunque è ritornata. Protetta dalla nebbia, fatta scendere da lei stessa con le sue arti magiche, ha addormentato Tizzo spruzzandogli un potente sonnifero sul muso, e ha portato via una delle tue pecorelle. Ma la sua cattiveria non è finita qui, perché ha trasformato la pecora in un terribile lupo che questa notte entrerà nella stalla e sbranerà tutte le pecore. Tu potrai spezzare l’incantesimo, riavere la pecorella e salvare le altre, solo compiendo un grande atto di coraggio… Non posso dirti altro… Ah, ancora un’ultima cosa: non dire niente a nessuno, non cercare aiuto né in tua madre, né in tuo padre. Tanto non ti crederebbero, pensando che ti sei inventato tutta questa storia… Temo quindi che dovrai cavartela da solo. Coraggio dunque e buona fortuna!

     E così dicendo si tolse il colbacco di muschio in segno di saluto, sorrise ancora una volta al pastorello e scomparve.

     Cosimino cominciò a riflettere. Le ultime parole del vecchio lo avevano particolarmente colpito e gli martellavano nel cervello: «Temo quindi che dovrai cavartela da solo. Coraggio dunque e buona fortuna!» I pensieri gli attraversavano la mente come un torrente in piena, cercava una soluzione, una via d’uscita, ma per quanto facesse vedeva solo la terribile figura del lupo, che quella notte avrebbe ucciso tutte le pecore. Pensa e ripensa, alla fine decise: non avrebbe detto niente a nessuno e, anziché andarsene a dormire, si sarebbe nascosto nella stalla assieme agli animali, pronto a dare l’allarme se il lupo avesse tentato di entrare…

     Ormai era sceso il crepuscolo. La terra aveva già indossato la camicia da notte, preparandosi a chiudere gli occhi fino alle prime luci dell’alba. Il pastorello radunò le pecore, lanciò un fischio a Tizzo che nel frattempo si era svegliato e correva su e giù più vispo che mai, e riportò gli animali nella stalla. Sbarrò bene la porta e rientrò in casa.

     Alle dieci Cosimino era in letto, ma non dormiva. Aveva lasciato aperta la porta della sua stanza e fissava impaziente la striscia di luce che filtrava dall’uscio della camera dei genitori. Finalmente la lampada venne spenta e il bambino tirò un sospiro di sollievo. Attese ancora un po’, quindi pian piano, cercando di non fare il minimo rumore, si alzò, si mise addosso una coperta e uscì. Giunto alla stalla entrò, richiuse la porta col catenaccio e andò a sdraiarsi su un mucchio di fieno nell’angolo più buio. Era un buon punto d’osservazione: da lì teneva d’occhio tutti gli animali, cioè le pecore, le mucche e le galline, che già dormivano ignari del pericolo che li sovrastava. La luce della luna fluiva attraverso le fessure tra le tavole di legno, creando qua e là chiazze argentate dalla forma strana e indefinibile… Ogni tanto qualche animale si moveva o sbuffava nel sonno, rompendo bruscamente il silenzio e facendo sussultare il pastorello. Gli occhi gli si chiudevano dalla stanchezza, ma si sforzava di tenerli bene aperti aiutandosi anche con le dita. Ormai era lì da un’ora buona e l’attesa si faceva sempre più snervante e insopportabile… e il tempo passava… «Forse – si diceva Cosimino – il lupo per questa notte non verrà più, forse è andato a caccia di topi o di conigli selvatici… o forse semplicemente ha trovato qualcosa di meglio da fare…» Pensava, trasaliva e tendeva le orecchie… finché all’improvviso gli parve di sentire un passo felpato che si avvicinava alla stalla. Trattenne il fiato e udì distintamente come dei leggeri colpetti alla porta e un respiro affannoso, interrotto a tratti da un sordo mugolio.

     – E’ lui – sussurrò con terrore Cosimino – sta tentando di entrare, ma la porta è robusta ed è chiusa col catenaccio, non ce la farà a buttarla giù…

     Il lupo intanto si era reso conto che da quella parte non sarebbe mai entrato, e girava inferocito attorno alla stalla in cerca di un varco nelle pareti di legno, di qualche tavola sconnessa da poter abbattere, e alla fine credette di aver trovato il punto buono. Indietreggiò di qualche passo, prese la rincorsa e con tutta la forza  che aveva si abbatté come una valanga sulla parete e si ritrovò all’interno.

     Cosimino balzò in piedi, afferrò un bastone con una mano e un secchio con l’altra per suonare l’allarme, ma non riuscì a vibrare neanche un colpo: gli occhi infuocati del lupo lo avevano come impietrito. Era assai più spaventoso di quanto avesse immaginato: i lunghi denti affilati lanciavano lampi accecanti, dalla bocca gli usciva una schiuma verdastra, ed era enorme, con delle zampe che sembravano mazze ferrate.

     Tutti gli animali si erano svegliati, ma nessuno di essi fiatava, erano ammutoliti dal terrore. Tizzo, le mucche, le pecore e perfino le galline, che in una circostanza simile avrebbero dovuto fare un baccano d’inferno, fissavano come ipnotizzate il terribile lupo che, dopo essersi guardato avidamente intorno, a un tratto si gettò impaziente e famelico sulla prima vittima – la più tenera e saporita: Fiocco. Il povero agnellino tremava come un passerotto tra le grinfie di un gatto e con lo sguardo supplicava pietà e aiuto. Cosimino si coprì gli occhi con una mano, per non vedere la misera fine del suo piccolo amato compagno, ma proprio in quell’attimo si ricordò delle parole del vecchio: «…potrai spezzare l’incantesimo, riavere la pecorella e salvare le altre, solo compiendo un grande atto di coraggio…», e capì che era giunto il momento di dimostrare questo coraggio. In un impeto di rabbia e di disperazione si riscosse dal torpore e si avventò contro il lupo, strappandogli l’agnellino dalle zampe, dopodiché svenne sopraffatto dall’emozione.

     Lo risvegliò il belato di Fiocco, che lo fissava come per dirgli:

     – Svegliati, Cosimino, abbiamo fame, devi portarci al pascolo!

     Il pastorello si strofinò gli occhi, accarezzò l’agnellino e si guardò intorno: gli animali stavano tranquilli al loro posto, come se non fosse successo niente. Solo Tizzo e qualche gallina erano usciti all’aperto attraverso il foro praticato dal lupo e già si godevano i primi raggi del sole.

     Il pastorello allora si avvicinò alle pecore e con un forte batticuore le contò: Una, due… quattro… sei… nove… dodici… quindici – sì, erano proprio quindici! Dunque il vecchio aveva ragione e lui col suo coraggio aveva vinto la stregoneria della cattiva ninfa, ritrasformando il lupo in pecora.

     Né il padre né la madre si erano accorti che quella notte Cosimino non aveva dormito nel suo letto. Quando si erano alzati avevano pensato che egli fosse già al pascolo. Il pastorello uscì pian piano dalla stalla e senza farsi notare dai genitori portò le pecore sullo stesso prato, dove il giorno prima era iniziata la brutta avventura. Sperava in cuor suo di rivedere il vecchio e di ringraziarlo per il grande aiuto che gli aveva dato, ma non lo incontrò più – né in quel giorno, né negli altri numerosi giorni che trascorse in quel posto con le sue pecorelle. Forse il buon vecchio pensava giustamente, che Cosimino ormai se la sarebbe cavata in qualsiasi occasione e in qualsiasi pericolo, anche perché la cattiva ninfa, dopo quella seconda sconfitta, aveva pensato bene di abbandonare di nuovo quei luoghi, ma questa volta – giurando pure di non tornarci mai più.

 

  

                                                L’albero di Natale

 

      Era piuttosto basso e tozzo, ed era finito nella casa di un operaio povero e per giunta senza lavoro. Aveva poche palline e nessuna lampadina, ma in compenso era illuminato dagli occhi sgranati di quattro vispi ragazzini. Di tanto in tanto, correndogli intorno, essi lo urtavano facendolo vacillare, ed egli doveva compiere un miracolo di equilibrio per non cadere. Cominciava già a perdere qualche ago e ad ingiallire un po’. Insomma, non era più sano e forte come nei giorni in cui cresceva nel bosco, ma aveva ancora energie sufficienti per svolgere degnamente la sua parte; e poi non era lì per rimpiangere il passato, ma per cercare di abbellire e rallegrare il presente.

      In quella casa aveva già assistito a diverse scene e scenette, taluna lieta, tal’altra meno, testimone sempre attento e sensibile, ma la cosa che più lo aveva colpito era stata una conversazione del giorno prima, tra i genitori dei quattro bambini, dopo che questi ultimi erano andati a letto. Il papà era serio e avvilito e la mamma aveva gli occhi lucidi…

     – Non possiamo permetterci di comprare regali, lo sai che ce la passiamo male – diceva il babbo.

     – Lo so – aveva risposto la mamma – ma proviamo, domani è la Vigilia, in fondo sono stati bravi e si aspettano certamente qualcosa sotto l’albero.

     – Sì, ma dove andiamo a prendere i soldi…

     Il colloquio era proseguito per un po’, quindi i due genitori erano andati a dormire.

     L’alberello era rimasto molto male, sia per i bambini che per se stesso – che albero di Natale sarebbe stato senza regali! Ah, che delusione, che dispiacere per quelle povere creature! Bisognava subito trovare una soluzione.

     Se qualcuno fosse entrato nella stanza in quel momento, avrebbe visto una cosa del tutto insolita: l’alberello che dal punto in cui si trovava, vicino alla finestra, cercava di richiamare l’attenzione degli altri colleghi del palazzo di fronte, che splendevano carichi di palline e di luci colorate. Attraverso il vento gelido e sferzante inviava loro la stessa domanda:

     – Non avrò niente, potete aiutarmi?

     Ma tutti gli rispondevano allo stesso modo:

     – Noi avremo tanti regali la notte di Natale e vorremmo fare qualcosa per te, ma non sappiamo come… se avessimo mani e piedi potremmo venirti in aiuto, ma così… 

     Dopo questo tentativo poco fortunato, l’alberello diventò ancora più triste. Intanto era giunta la notte di Natale, ed egli cominciava già a rassegnarsi all’amaro destino. Gli era rimasto appena un filino di speranza… ed esso non era infondato. A sua insaputa, infatti, qualcosa stava avvenendo. Il vento, amico da sempre di tutti gli alberi, aveva raccolto il suo messaggio e si era messo subito al lavoro. Aveva aumentato la sua velocità, soffiando come non mai, ed era giunto nel bosco dove il nostro alberello era nato, raccontando ciò che aveva visto e sentito.

     In ogni bosco c’è uno spirito buono ed uno cattivo. A Natale però, quest’ultimo per secolare tradizione è impossibilitato a perpetrare le sue malefatte, e così lo spirito buono ha mano libera e può agire incontrastato. Egli dunque ordinò al vento di tacere e di fermarsi, poi alzò gli occhi alla luna e disse:

     – Un nostro fratello sta soffrendo e noi abbiamo il dovere di aiutarlo. O luna, nostra amata regina e fedele compagna, permettimi di impiegare la mia magia in questo triste frangente.

     La luna sorrise e lasciò cadere un bigliettino d’argento con la sua risposta:

 

“Quell’albero e quei bambini

                                                  meritano tanti regalini”

 

     Lo spirito buono ringraziò la regina, e si avviò verso la povera casa. Ormai mancava poco alla mezzanotte. Tutto intorno si udiva il riso e il cicalare dei bambini, tutte le luci erano accese e una dolce musica riempiva l’aria. Lo spirito fece un rapido giro, si rese subito conto della situazione e scelse gli alberi più ricchi. Si avvicinò e diede loro precise istruzioni, poi si rivolse al vento dicendogli cosa doveva fare, e soltanto allora volò a casa dei bambini poveri e si sedette accanto all’alberello per gustarsi la scena.

     Gli alberi prescelti, che non si aspettavano quel compito così inconsueto e delicato, erano molto emozionati e forse anche un po’ titubanti… Ma sapevano che non c’era tempo da perdere. Gli orologi segnavano le 23.50. Avevano soltanto dieci minuti. Attorno a loro erano già raccolti, felici e impazienti, i piccoli destinatari dei pacchetti colorati e così invitanti… Ad un tratto i bambini si fecero seri e attenti… Udivano una voce profonda e accorata che pareva provenire dai propri alberi, e per una segreta ragione – solo essi la sentivano:

     – Nella casa di fronte ci sono quattro bambini poveri che non hanno neanche un dono, scegliete un regalo per loro e mettetelo fuori della finestra. Siate gentili e solidali, donate loro un po’ della vostra gioia…

     Udite quelle parole, essi restarono sorpresi e interdetti, guardarono i genitori e i parenti che, ignari di quanto stava accadendo, ridevano e chiacchieravano animatamente… nessuno in quel momento poteva consigliarli, e poi era una questione strettamente personale, dovevano decidere da soli e rispondere a quell’invito pressante, a quella voce misteriosa che poteva essere la voce dell’albero, ma che a ben pensarci sembrava piuttosto la voce del cuore… Sì, pensarono, doveva essere proprio così. Ciascuno di loro prese un pacchetto e di nascosto lo mise fuori della finestra. Nessuno si accorse di nulla. In quel momento stesso il vento passò allegro e sibilante e raccolse i loro regali, poi cambiò direzione e si precipitò alla finestra dei bambini poveri, con un soffio poderoso la spalancò, entrò e depose i doni ai piedi dell’albero.

     Alla vista di quella meraviglia i nostri quattro piccoli amici presero a gridare:

     – Mamma, papà, correte, correte!

     E’ difficile descrivere la felicità che s’impadronì di tutti, compresi i rametti dell’alberello.

     Ma non erano i soli ad essere contenti. Quella notte i bambini generosi non pensarono di aver perso dei regali, ma di aver scoperto una gioia ancora sconosciuta – la gioia di donare.

 

 

(C) by Paolo Statuti 

                                                              

Raccontino

24 Feb

 

   Due giovani fidanzati frequentavano insieme l’università a Parigi e ogni giorno percorrevano a piedi lo stesso tratto di strada, dove c’era una vecchia donna che chiedeva l’elemosina. La ragazza dava spesso qualcosa alla donna e il ragazzo no. Un giorno lei gli chiese:

   – E tu, perché non dai niente a questa povera vecchia?

   Lui la guardò e senza risponderle entrò in un negozio di fiori che si trovava poco distante, e ne uscì con un bel mazzo di rose. Tornò verso la vecchia donna e glieli diede con un sorriso.

   Da quel momento la mendicante scomparve. Quando la rividero allo stesso posto alcuni giorni dopo, le chiesero:

   – Di cosa è vissuta questi giorni senza l’elemosina?

   E lei rispose:

   – Di gioia. Guardavo i fiori ogni momento e mi bastava per saziarmi. Quando sono appassiti sono tornata.  

Marian Grzesczak

22 Feb

 Un poeta e amico polacco

 

Marian Grzesczak

   Marian Grześczak è nato il 22.3.1934 a Nochow in Poznania ed è morto a Varsavia il 27.1.2010. Lo conobbi nel 1981, durante il mio soggiorno di tre mesi a Varsavia, ospite dell’Unione dei letterati polacchi, dove Marian era responsabile dell’ufficio per i rapporti con l’estero. Ha debuttato nel 1960 con il volume di poesie Lumpenezje. Tema principale di questa raccolta è la città moderna, vista attraverso i tratti del paesaggio naturale e piena di esseri intermedi tra le creature della civiltà e quelle della natura. Oltre a molte raccolte poetiche, Grześczak scrisse anche radiodrammi, articoli letterari e il romanzo Odissea, Odissea…, che ha per argomento le drammatiche agitazioni degli operai a Poznań nel giugno 1956, da lui personalmente vissute. Molto apprezzate anche le sue traduzioni soprattutto dei poeti  cechi e slovacchi.

   La sua poesia attinge dalle tradizioni delle avanguardie polacca ed europea, dalla fantasia popolare e dai testi biblici. Sorprende per la varietà dei temi e delle forme, dal poema epico sulla problematica sociale, alle liriche molto intime, fino ai versi sperimentali nello spirito della poesia concreta. Molto spesso queste diverse tendenze si fondono e la lingua riesce ad essere al tempo stesso graffiante e tenera. Molto apprezzate in particolare le raccolte Kwartal wierszy, 1980 (Trimestre di poesie) e Snutki, 2006 (Orditi), dove l’invenzione lessicale e la libertà della fantasia permettono di toccare i temi più importanti dell’esistenza: la morte, l’amore, la fede e la problematica escatologica.

   Di Marian mi piace ricordare anche il suo humor, la sua sottile ironia, il suo sorriso compiaciuto dopo una buona battuta di spirito. Ho avuto il piacere e l’onore di averlo come traduttore in polacco delle mie poesie, e ho il piacere e l’onore di pubblicare nel mio blog alcuni suoi versi nella mia versione.

 

Poesie di Marian Grześczak tradotte da Paolo Statuti

 

Vita mia, allucinazione

 

Vieni signore vendicativo

Il cane  abbaia alla porta e un fiore si foggia

 

L’attimo mite dura in uno sbattito di rondine

Le nuvolette terra terra sono neri spettri

 

Appena giunto alla soglia prosegui oltre

Incrociare i coltelli ancora non sa la fede

 

Accendere il fuoco qui tu stesso vedi com’è arduo

Un ragno pende nel mezzo dell’aria soltanto esso

 

Io so che a fissarci così non resisteremo a lungo

Un lampo da noi sorgerà una rosa sotto la bianca camicia

 

Ancora un passo ancora la falce dell’onta e un sorriso

I vivi verranno ad ammettere la propria inesistenza

 

Il tenue rudere d’un vecchio canto incontra l’orecchio

La polvere solleva la palpebra d’un azzurro antico

 

Chi fu leggiadro rimanga pure spavento

Va da te la cieca sorte sorretta dalla brama

 

Solo un passo devi giungere dov’è il cerchio rosso

Ti conducono tutti quelli non riconciliati

 

Finché ti saluteranno con la bianca bandiera

Passate tristi e non chiedete nulla a nessuno

 

Dunque sei entrato in me al centro di questa polvere

Accomodatevi prego mie luminose immagini

 

Il vostro signore muto con il gran palmo è pronto a colpire

Due calde lacrime che lottano per una guancia

 

La via delle allucinazioni è il turbinìo del crepuscolo

Più oltre più non c’è nulla spine latrati abbandono

 

La Madonna Nera

 

Dovevo essere abbandonato quando desiderai credere

Nascosto nel buio come palmo nel guanto

Cercavo con le dita tepore e aroma

Intorno è lamento

Sotto le tende degli alberi errano le ombre dei simili

 

La campana sparge sui tetti il pattume della sua anima

Un’intera generazione in attesa a un tratto vede:

All’alba sale in cielo la nera aurora

Le sue gote un aereo incide

 

Questa immagine vede solo chi dimora in alto

Ed io tra loro nero e detestante

Ma poi l’immagine ci abbandonò  come se si celasse

Nei violini della Vistola. Palmi o una prece per essa?

 

Se non sai vedere, impara ad ascoltare, o Madre.

Se desideri entrare in me, entra o Dio.

Riscalda il tuo corpo nel guanto del verso.

Che importa se ci sono più miseri che parole?

 

Dite alfine

 

Dite alfine qualcosa di buono.

Questo il popolo chiede, la nodosa pena della lingua

Ha stremato i suoi cantori, d’ora in poi egli

Comanderà con i duri palmi dei contadini,

Paziente con il silenzio delle tessitrici,

Rovente fino al biancore, nero.

 

Dite alfine qualcosa di semplice.

Tornitori, cuoche, tipografi vogliono

Capire ciò che a loro si dice,

E anche il verso ha diritto alla difesa:

Ma come posso essere chiaro, se

Vi nascondete nella reticenza,

Iniziate voi stessi.

 

Dite alfine qualcosa dal cuore.

Il popolo esige che lingua e mani non lo derubino,

Proprio lui, quando tace, scuote le vette

Di alte montagne, e poi pianta in terra

I semi delle bare e si congeda con una salva.

 

Dite alfine il vero al vostro popolo.

Confessategli le vostre speranze,

Nominate i suoi torti,

L’umiliazione quando vuole

Far fronte alla miseria, raggiunge lo sconforto,

Che uccide, ricordate.

 

Riconoscetevi nel vostro popolo.

Dategli il coraggio, che dica,

Cosa pensa, anche di voi, e perché piange.

E se vi scaccerà, non troverete posto

Neppure nei cuori dei giornali, il verso ammonisce:

 

Sui piedistalli dei televisori i vostri monumenti,

Sotto i sudari delle tribune le vostre bare,

Il vostro popolo volerà su di voi dal vento trafitto.

 

Colui che così poco chiede,

Otterrà ancora meno.

 

La destinazione del bello

 

se il bello è vocazione alla fine:

nelle cave di pietra delle case,

nella bufera delle malattie e del non adattamento,

nella nebbia dei litigi,

nella corsa della miseria,

non è più semplice

essere pastore in montagna?

Mandriano di bestiame nella depressione?

Seminatore di bene nei campi femminili?

 

Poi prendere il tempo per mano

e sedendo sulla riva

guardare come sorge la luce

fino al confine dei tempi.

 

Gli abiti della musica

 

Le allodole sono cadute

nel pozzo del cielo

 

E da lì tanto lieto cinguettìo

negli strumenti,

in cui la musica

si corica.

 

E da sola si sveglia,

quando il vento più mattiniero

avvolge le piume

dell’erba.

 

 Amorevolezza dell’abete

 

Quando il picchio

ostinatamente bussava all’abete

e nelle pause del ticchettìo

diceva: apri, apri –

gli alberi vicini

pian piano ammutolivano,

per origliare,

cosa si sussurravano quei due.

 

Ma l’abete non disse niente,

soltanto adagio socchiuse la porta.

 

*  *  *

Il vento salta sulle spalle dell’erba.

 

La piega fino a terra.

 

Poi la raddrizza

e guarda,

se cresce bene.

 

 

(C) by Paolo Statuti

Marek Baterowicz

21 Feb

Un poeta e amico polacco

 

Marek Baterowicz

   Marek Baterowicz è nato a Cracovia nel 1944. Ho avuto il mio primo incontro epistolare con lui quando stavo preparando la mia antologia di racconti brevi polacchi dal 1945 al 1985 circa, che fu poi pubblicata da Editori Riuniti nel 1988 con il titolo Viaggio sulla cima della notte. Gli scrissi informandolo di questo mio progetto, ma mi rispose di non aver ancora scritto un racconto breve e di essere soprattutto un poeta. Da allora, pur non essendoci mai incontrati, dura la nostra sincera amicizia “a distanza”.

   La sua odissea continua ancora oggi. Essa iniziò nel 1985 quando, dopo quattro anni di inutili tentativi, grazie al premio Circe Sabaudia, ottenne finalmente il sospirato passaporto che gli era stato rifiutato per la legge marziale polacca del 1981: l’Italia – da lui sempre ritenuta la sua seconda patria – gli aveva restituito la libertà. A Roma ha ricevuto riconoscimenti per le traduzioni dei poeti Montale, Saba e Ungaretti. Ha poi viaggiato attraverso la Francia e la Spagna, fino a raggiungere Sydney, dove vive tuttora. E’ autore di numerose raccolte di poesie pubblicate, oltre che in Polonia, in Australia, in Francia, negli USA e in Inghilterra, e di narrativa (racconti, un romanzo, e la novella Il manoscritto di Amalfi; ha collaborato anche con la rivista “Miscellanea” con saggi e poesie in italiano. In Italia una sua raccolta di poesie scelte è stata pubblicata dalla casa editrice Empirìa di Roma nel 2010, con il titolo Canti del pianeta, nella mia versione. Essa comprende prevalentemente le poesie composte durante le sue drammatiche peregrinazioni in diversi paesi, senza mai dimenticare la Polonia. Canti del pianeta è un libro aperto all’umanità intera. Il poeta diventa un “uomo planetario” che invita alla fraternità tra gli uomini.

   Ecco un suo lapidario ritratto, tracciato da un autorevole critico australiano: “indiscusso principe dei letterati polacchi residenti in Australia, grande erudito, conoscitore di culture straniere, lavoratore instancabile, pensatore-poeta, maestro di metafore filosofiche”. Un altro critico scrive: “ogni sua poesia è una entità intellettuale e artistica, creata in modo pressoché perfetto. La sua capacità di sintesi, l’eleganza dello stile, la disciplina verbale e la profondità filosofica – tutti questi aspetti concorrono a formare una creazione non comune”.

   Dopo tanti anni di lontananza, Baterowicz ha sempre la Polonia nel cuore. L’amore per la propria Terra infatti non si può cambiare con i luoghi e col tempo e, consapevole del suo destino di emigrato, il poeta cerca e ritrova la sua patria nei valori trascendentali, nel cosmo delle verità universali.

   Una peculiarità di Baterowicz da sottolineare, è il suo atteggiamento nei confronti del progresso. Nelle numerose lettere inviatemi in tutti questi anni, ricorre spesso il motivo del signor Retro, un personaggio-maschera, uno scettico del progresso tecnologico, perché esso distrugge ogni progresso dei valori spirituali. In una delle poesie della raccolta Canti del pianeta Baterowicz dice: “il signor Retro rinuncia al progresso, convinto che l’umanità sia andata già troppo lontano”.

   Pubblico qui, nella mia versione, sette poesie di Marek Baterowicz tratte da questo volume.

 

 

La canzone di squame di pesce

Dalla mia torre

fatta di sale marino

vedo la riva deserta

e le orme cancellate

dei tuoi piedi.

Tre barche da pesca

come vecchie tartarughe.

Il vento penetra

nelle reti strappate.

Sono solo e non so

se è il crepuscolo

o l’alba.

Un gabbiano mi porta nel becco

una canzone di squame di pesce.

 

*  *  *

I miei pensieri sono come poesie sparse,

rimaste nella mia vecchia casa –

non ho le forze per farne una nuova

e ho perso tanti manoscritti,

ho varcato sette frontiere

e tre oceani –

ma soltanto alla frontiera della patria

mi hanno aperto l’anima e guardato i denti,

i doganieri mi hanno tolto la bilancia,

e ogni lettera ha un peso specifico diverso

e in nessun dizionario troverò le differenze

in apparenza non essenziali; per fortuna il cuore

si è rivelato la migliore bilancia

e l’ho portato di nascosto fin qui

malgrado le perquisizioni e le fotocellule,

perciò vado avanti, con la speranza del paziente

che crede nel farmaco.

In mano però non ho la chiave

della porta degli anni passati

e non distinguo più la luce dall’ombra,

ed anche essa pian piano mi abbandona.

 

Isola Tiberina

La voce di un uccello che chiama la primavera,

solitario contrappunto alla melodia del Tevere

– dell’acqua che infrange contro il fondo sassoso

giare di canti – interroga il futuro.

Dal passato, che anch’esso detta le sue leggi,

giunge il ritmico grido delle legioni

che marciano sui ponti Cestio e Fabricio.

Il mio passo tenta di unirsi al loro

– mi precedono sempre di un lampo di spada.

Anche l’acqua è più rapida correndo immutabile verso il mare,

dove Nettuno possiede da secoli

la corona abbandonata dei cesari.

L’Isola Tiberina salpa allora verso la sorgente del fiume

come nave che mi porta fino alla prima goccia

del sangue di Remo.

                                                              Roma, 1973

*  *  *

Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,

        lo carica –

e ascolta il ticchettio del meccanismo,

che impassibile spinge avanti

         le lancette e i secondi

(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)

girando sempre nello stesso punto,

lungo la divina forma del cerchio,

eppure senza sosta andando oltre,

tirandosi dietro folle di manichini –

che si accalcano in marcia,

illusi dalla chimera del Domani,

la quale appare come nuova stella,

scoperta nella vecchia volta celeste –

ma misurata senza la bussola…

Il signor Retro rinuncia al progresso,

convinto che l’umanità sia andata già troppo lontano.

 

Venezia

                                            A mia figlia

Il suono qui è luce,

riflessa sugli specchi della pioggia,

è stelo e fiore,

reciso dal movimento dell’archetto,

luna nel prisma della finestra

e perla che rotola sui gradini del Ponte di Rialto.

Il suono è anche ombra,

nebbia e corda del sole sull’acqua,

quando una chitarra risuona sulla laguna,

i colombi nelle gondole

ferme sotto il ponte,

su di esso un leone con la criniera come foglie d’autunno,

sul tetto della basilica i cavalli

saltano sulla scacchiera del mondo.

Nel vicolo di balconi

si ode un madrigale di secoli orsono

– composto forse da Gabrieli?

le voci si levano sull’acqua,

superiamo una figura con la maschera

– ombra nella tunica luminosa –

stregata in un perenne sorriso

come un affresco bizantino

la città dei tre elementi

– e il quarto è mistero e arte,

la portano in alto i leoni alati

e le chiare sillabe di un mottetto

 

Oh, ascolta fratello…

Oh, ascolta fratello del pianeta Terra

come cantano le stelle

per noi tutti lo stesso canto ripetono

e la stessa luce donano a me e a te,

ascolta come il tema della fuga cosmica

incava e penetra tutte le galassie,

come s’inerpica ed erra nelle voci di quelli

che divenuti polvere o nirvana

non si sperdono, perché sono già oltre la terra e

il corpo.

Guarda come in fondo alla luce spumeggia l’eterno

essere

e come il cosmo vibrante si riversa nelle tue

vene…

Ecco il tuo vero canto,

senza dissonanze e senza tempeste,

sopra il pianeta ondeggiante e disteso

sui fili invisibili della ragnatela

che è questa viuzza dell’Universo,

diletta e abbandonata dal Creatore,

ma contraddistinta nel Suo testamento

nel caso Lui stesso non ritrovasse la strada

che porta a noi (Satana Gli strappò la bussola di mano

secoli fa

e cade andando alla deriva tra stelle e pianeti

come arpa d’oro dalla corde spezzate),

ascolta dunque fratello come cantano le stelle

per noi tutti lo stesso canto ripetono

qui, dove perduriamo presi

come nelle reti del Grande Pescatore,

illusi dalla promessa del giudizio finale,

che saggiamente sazia i desideri insoddisfatti.

 

Il ritratto di Pompei

Taci. Salvata dal fuoco del vulcano

– in quale lingua le tenui lettere scrivi?

Una missiva o un verso incide la tua mano?

Latino? Greco? E quali chimere ravvivi?

Oltre la lava il tuo sguardo si protende,

e in esso la città morta è racchiusa

– la luna d’ambra nei tuoi occhi risplende,

e la luce lunare con l’ombra s’è fusa –

la tabula gelosamente nascondi

e celi il tuo nome, i pensieri, il dolore,

saggiando con le labbra lo stilo acuminato,

prima che esso nella cera affondi

e la sciolga con la fiamma del cuore –

sei l’ape e il fiore di un antico prato.

 

DON  CHISCIOTTE

Tutto ad ogni modo è relativo

– non è vero bella Dulcinea?

A volte odori di aglio, a volte di tuberosa,

ora indossi una rozza gonna, ora sei frusciante di merletti

– sia che  porti un diadema, o un cappello di paglia,

sia che cavalchi un mulo, o inforchi un destriero

in ogni caso io ti adoro, o signora dei sogni miei,

a te rendo omaggio, vassallo delle tue sembianze,

io – Don Chisciotte, errante cavaliere della Mancia,

dolendomi che non fui io l’artefice delle tue bianche ginocchia,

né delle tonde braccia, della cornice leggiadra del volto bruno.

E la pena porto nel cuore, Cavaliere dalla Trista Figura.

 

I mulini son forse giganti con cento braccia?

Le taverne – castelli con alte torri?

Le contadine – principesse travestite?

Le bacinelle – elmi ammaccati negli scontri?

Un branco di pecore – un drappello a cavallo?

– cos’è illusione, e cosa – verità?

Il calpestio dei montoni è forse un rullo di tamburi?

I monaci in viaggio – soldati di Mambrino?

Le dame chiuse nella carrozza – vittime dell’empio mago?

 

Sancio Panza vaneggia,

tutto vede al contrario!

E’ un semplicione, nei libri non frequente,

un nonnulla può confondergli il cerebrum.

Perdonatelo, rispettabili signori e dame,

non gli è facile capire la bella teoria della relatività!

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

  

   

Jerzy Ficowski

20 Feb

La difesa dei valori umani

Jerzy Ficowski

   Jerzy Ficowski appartiene alla schiera dei maggiori poeti polacchi del secondo dopoguerra, e soprattutto di quelli più attentamente letti e seguiti dai lettori. Nato il 4 settembre 1924 a Varsavia, ancora giovanissimo prese parte attiva alla lotta contro l’occupante nazista. Combatté nei ranghi dell’Armia Krajowa, l’armata clandestina fedele al governo polacco in esilio a Londra, e sulle barricate durante l’insurrezione di Varsavia (agosto e settembre 1944).

   Studiò filosofia e sociologia all’Università di Varsavia. Debuttò come poeta nell’anno 1946. Già il suo primo volume di poesie Soldatini di piombo (1948) gli attirò l’attenzione della critica letteraria. Divenne però famoso per le sue ricerche sulla vita degli zingari: Gli zingari polacchi, un volume di studi storici e sociologici che uscì presso la casa editrice statale PIW nel 1953, frutto del suo errare per molti mesi con un gruppo di zingari girovaghi. Conoscendo alla perfezione la loro lingua, egli riuscì a scoprire Papuša, una poetessa zingara analfabeta, e a tradurre e pubblicare le sue poesie in una edizione bilingue. Lottò per anni per i diritti di questo popolo e pubblicò in seguito vari libri dedicati al loro folklore, alla loro mitologia e ai costumi, diventando membro della Gipsy Lore Society d’Inghilterra. A tale proposito va ricordato che Ficowski è anche autore di una bella raccolta di fiabe zigane, tradotte in italiano da Paolo Statuti e stampate dalla casa editrice e/o nel 1985 con il titolo Il rametto dell’albero del sole.

   Ottimo conoscitore della pittura moderna, pubblicò tra l’altro le Fiabe macovschiane, illustrate con disegni di Thaddée Makowski, noto pittore polacco-francese, e Lettera a Marc Chagall, libro tradotto in molte lingue e illustrato dallo stesso Chagall.

   Alternando l’attività poetica con seri studi storico-letterari, Ficowski si è occupato anche dell’opera di Bruno Schulz, uno dei maggiori prosatori polacchi (Le botteghe color cannella, Il sanatorio all’insegna della clessidra), assassinato dai nazisti in una strada della natia Drohobycz durante la guerra. Fu Ficowski a divulgare le sue lettere e a scrivere la più acuta monografia di questo autore: Le regioni della grande eresia, 1967.

   Con tutto ciò, Ficowski non ha disdegnato la cosiddetta poesia di largo consumo: fu infatti l’autore dei testi delle canzoni di maggior successo, fu anzi uno dei rinnovatori di questo genere letterario; cosa del resto non tanto rara nella Polonia contemporanea, dove i compositori e i cantanti più celebrati raggiungono la fama proprio cantando testi dei più grandi poeti classici e di quelli più recenti. Va ricordato a tale proposito, che neppure i poeti della generazione precedente (Tuwim, Hemar, Słonimski, Gałczyński) si rifiutarono di scrivere anche per la piazza o perfino per il cabaret. Ficowski ha però aggiunto una nota nuova al lavoro del paroliere: ha portato in questa materia tradizionale le conquiste della post-avanguardia poetica. Così, insieme con Agnieszka Osiecka, egli ha creato un diverso metro con cui valutare la canzone; dopo di loro è difficile in Polonia essere banali anche in questo campo.

   Ficowski è sempre stato in prima fila tra gli scrittori impegnati nel senso più vero di questa parola, come tenace difensore degli oppressi e dei perseguitati. Negli anni della reazione gomulkiana e del regime di Gierek, prese parte al movimento della contestazione e, in consonanza con le migliori tradizioni della poesia polacca, intervenne spesso come poeta a difesa dei diritti umani e soprattutto del diritto alla libertà di parola. Di conseguenza, negli anni Settanta dovette pubblicare le proprie poesie presso case editrici “fuori censura”, cioè nel samizdat polacco, come noto assai attivo e diffuso. Così fu pubblicato anche il suo poema ormai famoso La lettura delle ceneri, dedicato alla memoria dei tre milioni di ebrei polacchi sterminati dai nazisti.

   Ficowski con la sua inventiva e perseveranza, con la profonda conoscenza sia delle tradizioni letterarie, sia del vivo folklore, contribuì in modo straordinario ad uno dei più tipici fenomeni polacchi: far parte di coloro che fanno della poesia una cosa indispensabile ai Polacchi, al pari del loro pane quotidiano.

   Jerzy Ficowski è morto a Varsavia il 9 maggio 2006.

                                                                        Jerzy Pomianowski

Jerzy Ficowski tradotto da Paolo Statuti

Sette parole

                                                      “Mammina! Però sono stato buono!

                                                       E’ buio!”

                                                        (parole di un bambino rinchiuso

                                                        nella camera a gas a Bełżec nel 1942 –

                                                        Testimonianza di Rudolf Reder,

                                                        unico prigioniero scampato –

                                                        Bełżec 1946)

Tutto è stato sfruttato

tutti sono morti ma tutto rimane

un mucchio di capelli caduti dalle teste

per la fabbrica di materassi di Amburgo

denti d’oro strappati

sotto l’anestesia della morte

Tutto è stato sfruttato

è servita anche quella voce

contrabbandata fin qui sul fondo di qualche memoria

come calce non spenta con le lacrime

e a volte il lager si apre nel profondo

e scoppia da esso il buio perpetuo

come fermarlo

anche il lamento del bambino che fu che fu

benché la memoria impallidisca

non di orrore

ma perché impallidisce da trent’anni

E tacciono milioni di silenzi

trasformati in un numero di sette cifre

e grida grida un posto vuoto

Voi che non mi temete

perché sono piccolo e non ci sono più

non rinnegatemi

lasciatemi il ricordo di me

quelle parole post-ebraiche

quelle parole post-umane

solo quelle sette parole

 

Come guastare la festa ai cannibali

da lungo tempo medito

come guastare la festa

ai cannibali

attendere

che si arrostiscano

sotto l’aureo coperchio del sole

macché sono troppo immuni

dal proprio arrosto

 

non lasciarsi

mangiare

è un piano troppo magro

e poco realistico

dal momento

che sei già

sulle loro bocche

mangiarli

sarebbe

insipido

allora forse cominciare

a render loro gli uomini disgustosi

ma come sarebbe possibile

quindi restano

nelle loro comode giungle

con le fauci

piene di umanità

 

L’ora è maturata

E’ notte l’ora è maturata

uccideremo i morti

se per caso qualcosa è rimasta

la ridurremo al niente

se è rimasto un osso

non lo riconosceremo

se sono ascesi al cielo

manderemo alti uccelli

per ucciderli a beccate

se una loro parola un loro gesto

albergarono tra noi

azioneremo

i cattivi conduttori della memoria

se è rimasto di loro un segno

ne faremo il marchio di fabbrica

p es di un topicida

se hanno lasciato orfani

preverremo la separazione

in nome del vincolo familiare

perché i morti sono contagiosi

perché i morti sono troppo loquaci

perché i morti non hanno niente

a nostra discolpa

E’ notte l’ora è maturata

uccideremo i morti

non si possono lasciare

in preda all’eternità

 

Exodus 1947

C’era una volta una nave fiabesca,

l’ubriaco vascello di Rimbaud,

contrade di acque multicolori,

di cieli-pavoni, di lune succose

e il verde fluttuante delle maree,

soavi come una parola – atollo.

Piangevano i bambini un gabbiano

gettato con le conchiglie nella sabbia.

Oggi il fondo del mare non illumina

sotto i tremuli passi degli erranti –

con la forra gialla come ambra,

che si stende fra rupi scoscese

di acqua frusciante come cedro.

Alla Terra Promessa

lungo il fondo non ti condurrà Geova.

Chiazzato di spuma delle maree

attraverso le ciglia grevi di gocce

saluta da diciassette miglia

la terra strappata ai tuoi occhi

dai colpi dei vittoriosi fucili.

L’Exodus vaga per i mari,

il vascello che cerca la casa,

che alla notte li ha strappati

e fatti uscire dalla casa di schiavitù,

riconsegna i corpi dei morti

ai delfini, e lo sguardo ramingo

dei vivi – rimanda agli alcioni.

I gabbiani tornano ai nidi.

Lo sguardo di chi ha fame – greve per i torti.

Ed essi crescono. C’è la marea.

E percuote con l’onda cieca

i placidi sonni costieri

delle città satolle.

 

Ti narrerò una storia

ti narrerò una storia

prima che emerga purgata di noi

cioè della sabbia

discretamente conservata

come carcassa di plesiosauro

sotto il deserto del gobi

narrerò ancora una calda

dai forni di auschwitz

narrerò ancora una gelida

dalle nevi di kolyma

storia di sporche mani

storia di mani amputate

essa manca nei manuali

per non sporcare

le bianche macchie

sulla mappa del tempo e dei tempi

ti narrerò questa storia

mai scritta

che giunge di rado

alla esumazione dei sogni

come prova ho il silenzio

sforacchiato così a fondo

per questo parlo sottovoce

narrerò una storia

ma non ripeterla

 

La base della divisione

Aveva solo le parole

gli hanno piegato le parole

sul dorso

sparolato partecipò

alla divisione

equa come la mannaia

il manico per il boia

la lama per il condannato

Voleva chiedere

in base a che cosa

ma la base era

il ceppo per il collo

ormai avvezzo

già una volta

gli hanno troncato l’albero

 “Vanno i carri colorati” (“Jadą wozy kolorowe” – parole di Jerzy Ficowski e musica di Stefan Rembowski) è una canzone di grande successo, interpretata dalla nota cantante Maryla Rodowicz e premiata nel 1970 dalla TV polacca al Festival della Canzone di Opole. Ho modificato leggermente il testo originale per adattarlo alla musica.

 

Vanno i carri colorati

Van di carri colorati lunghe schiere

vanno i carri colorati nelle sere

forse il vento predirà la loro sorte

dalle foglie che si posano contorte

prima che la vostra impronta sia sparita

raccontatemi gitani come da voi è

molto e poco abbiamo è la verità

rosso e verde lampi e l’oscurità

da noi è blu da noi è violetto

da noi è bello da noi è brutto

ma colori sempre in grande quantità

van di carri colorati lunghe schiere

oh! Potessi coi gitani rimanere

me ne andrei presso la musica sognando

quelle vecchie viole in estasi ascoltando

con il vento caldo cucirò le tele

che mi date per guarir la mia infelicità

molto e poco noi daremo in verità

rosso e verde lampi e oscurità

blu daremo col violetto

vi daremo bello e brutto

ma colori sempre in grande quantità

 

son partita allora al limite del mondo

con le trecce i venti fanno un girotondo

e del bosco picche e fiori raccoglievo

dove nascono le musiche correvo

con gli zingari in regioni nuvolose

e colori alla gente gratis oggi do

molto e poco prenderete in verità

rosso e verde lampi e oscurità

chi il blu vuole chi il violetto

chi le impronte del carretto

a colui che coi gitani partirà

a lui il blu od il violetto

a lui l’eco del carretto

a colui che coi gitani partirà

 

5  VIII  1942

                                Alla memoria di Janusz Korczak

Che faceva il Vecchio Dottore

sul carro bestiame

diretto a treblinka il 5 agosto

per qualche ora di circolazione sanguigna

lungo lo sporco fiume del tempo

non lo so

che faceva il Caronte volontario

traghettatore senza remo

donava forse ai bambini l’ultimo

respiro affannato

lasciando per sé

solo il gelo lungo la schiena

non lo so

mentiva loro forse

con piccole dosi

soporifere

o toglieva dalle testoline sudate

i timorosi pidocchi della paura

non lo so

ma per questo ma poi ma là

a treblinka

tutto il loro spavento tutto il pianto

erano contro di lui

ah ormai era solo questione

di minuti cioè della vita intera

era poco era tanto

io là non c’ero non lo so

vide il Vecchio Dottore a un tratto

che i bambini

erano invecchiati

come lui

erano sempre più vecchi

dovevano giungere alla canizie della cenere

dunque quando l’àscaro o l’esse-esse

colpì il Dottore

vide che egli

diventava bambino come quelli

sempre più piccolo

finché non nacque

allora insieme al Vecchio Dottore

è pieno di loro in nessun luogo

lo so

 

 

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Jerzy Hordynski

20 Feb

Jerzy Hordyński

Poeta polacco romano di adozione

 

Jerzy Hordynski

   Jacek Moskwa, giornalista della Radio e Televisione Polacca, scrittore, negli anni 1990-2005 corrispondente da Roma e dal Vaticano, il 15.6.1998 scrisse questo comunicato: “Domenica 14.6.1998 è morto a Roma all’età di 79 anni Jerzy Hordyński, poeta e pubblicista, da quasi 35 anni “figlio” di Roma, corrispondente della rivista “Przekrój” di Cracovia.

   Jerzy Witold Maria Hordyński nacque il 19 ottobre 1919 a Jarosław. Debuttò come poeta nel 1937. Studiò diritto, scienze orientali e filologia polacca all’Università Jan Kazimierz di Lwów. Durante l’occupazione militò nell’ Armja Krajowa. Dal 1945 al 1948 prigioniero nell’URSS. Tornato in patria si stabilì a Cracovia, dove terminò gli studi. Nel 1961 lasciò la Polonia e, dopo tre anni trascorsi a Parigi, scelse Roma come sua stabile dimora. In Italia ricevette diversi riconoscimenti e premi, tra i quali: Roma Città Eterna (1971), Gran Premio Italia (1972), Sindaco della Città di Roma (1975) e Le Muse a Firenze (1981).

   Abitava a Borgo Pio, a poche centinaia di metri dalle mura vaticane.

Ogni mattina era possibile incontrarlo nella Sala Stampa del Vaticano. Anche per noi, non numerosi giornalisti polacchi accreditati, Roma da ieri è più povera per la scomparsa di questo nostro amico e maestro”.

Jerzy Hordyński fu un “figlio” di Roma non solo per i Polacchi, che lo conoscevano come autore delle corrispondenze sulla vita culturale della Città Eterna e sulle questioni legate al Vaticano. In Polonia aveva i suoi lettori affezionati. Pubblicò 15 volumi di poesia, tra cui: Ritorno alla luce (1951), Migrazioni (1955), Epitaffio per un gatto (1977) e Spettacolo (1995). L’ultimo suo volume – Il festino – , uscito postumo, è come una sintesi della vita dell’artista e comprende la sua ultima poesia Un giorno il fidanzamento:

Forse ci incontreremo tra mille anni,

forse tra diecimila,

forse soltanto quando non ci sarà più il tempo

e i dardi delle ore si conficcheranno nel cielo vuoto,

dunque non ricordare ciò che è passato,

e non misurare i passi che non ci sono.

Getta l’anello – che voli via in nessun luogo .

   Jerzy Hordyński è sepolto nel cimitero romano di Prima Porta, nel settore riservato ai Polacchi.

   Eravamo amici. Ricordo i nostri incontri sporadici, ma sempre interessanti e ricchi di novità. Ricordo la sua semplice dimora a Borgo Pio: una stanzetta con bagno, ma con uno straordinario terrazzino…Sedevamo lì piacevolmente conversando sotto il sole di Roma una bella mattina di primavera, il “cupolone” era così vicino che ci sovrastava con la sua bellezza e grandiosità…Jerzy mi donò alcune sue raccolte  e da esse ho tratto le poesie che pubblico qui nella mia versione, come modesto omaggio alla sua memoria.

 

Poesie di Jerzy Hordiński tradotte da Paolo Statuti

 

 Sperlonga

Ho rivoltato il paesaggio e subito l’aria

è cresciuta pura e salata. Donne lungo il mare

recavano ceste sulla testa, pesanti d’uva.

Schivavano le meduse morenti sulla riva.

Ho tracciato dei segni sulla sabbia. Il silenzio

nei paesi altrui è la sola lingua degli estranei,

dunque ti ero riconoscente per l’immobilità

dell’istante, in cui le vuote spiagge aspettano la luna

e le piume degli uccelli giacciono sui freddi massi.

La minima parola ci poteva allontanare,

benché fossimo così vicini e forse per questo

ho scelto il cielo estraneo e i frutti degli altri.

 

Dal teatro di Taormina

Splendevano scarne nevi – i candelabri dell’Etna –

il mare si arrampicava verso il cielo deserto,

ed ecco d’un tratto mi trovai oltre le lancette

dell’orologio, che segna l’età di uomini e cose.

Fu un sollievo, perché ancora un istante prima

sul volto le maschere sdentate misuravo,

nelle colonne innestavo i capitelli abbattuti

e udivo nel silenzio come echeggiavano i bravo.

Non c’era in tutto questo né allegrezza né incanto,

ero giunto troppo tardi per ridestare i mondi,

di cui restavano lucertole, fiori e tramonti,

e in terra di una statua mezza ombra soltanto.

 

Tentazione

Vagavo per l’Urbe piena del sogno di ieri,

le finestre mi mandavano risa di stagno

e le fontane inclinavano l’acqua alle mie labbra.

Si stiracchiavano i gatti non mostrando paura.

Il primo raggio schiudeva a mala pena le strade

di nessuno a quell’ora.

L’Urbe così compiutamente bella,

da non poter essere mia,

ogni istante m’incatenava il passo,

cresceva l’invidia e l’ostilità, malgrado l’alba mite.

Tra le case rossicce ero sempre più estraneo.

Girava su di me l’ombra ferrea d’un uccello,

cominciavano a latrare le auto mattiniere,

le campane delle chiese sonavano l’allarme.

Ma la tentazione non scemava affatto

e compresi allora: non c’è nient’altro.

Avevo paura a restare. Del resto chi mi voleva?

Richiamavo indietro i paesaggi cercando riparo.

Correvo incontro alle lontananze d’un tempo.

La speranza respingevo.

Così un condannato affretta il colpo di scure,

posando la testa sul ceppo prima dell’ordine del boia.

 

Il demiurgo

 

Una casa di lunghi viaggi ho costruito,

di continuo appendevo nuove vedute alla finestra,

ho imparato le lingue per meglio tacere

ovvero fingere di non capire.

Ho vagato da solo nel vuoto illimitato,

ogni giorno costruivo il mondo da capo

e alle cose assegnavo il proprio nome,

dunque alfine so che vuol dire felicità.

Le gioie minute non alterano la definizione

nemmeno i governi dei pazzi destano stupore.

 

Amnistia

 

A un demente tutto viene donato,

montagne e fiumi, soli e lune,

colloqui di gatti, salti di pesci.

 

Davanti a un demente tutto si apre,

gli orologi tacciono. Il cielo immoto

accende su di lui lingue ispirate.

 

Sottratto al tempo, agli uomini, alle città,

spezza l’aria, vive dentro gli specchi,

ognuno volentieri gli fa posto.

 

Già visitato, ovvero intoccabile,

non più cosciente, e dunque felice,

posto oltre il limite delle grazie.

 

A un demente tutto viene donato

e scusato nei cantieri delle leggi,

perciò lo accolgono all’insegna del bianco.

 

Raggio inerme, sfuggito al paradiso,

prima che lo mutasse in sabbia e Verbo

in ansia per il suo potere Iddio.

 

 

Ad Anna Romano – pittrice toscana

 

Vivrò, Anna, in una delle tue città,

rinascerò nelle fontane colorate,

nelle albe e nei tramonti abbaglianti.

 

La mia ombra assolata sanzionerà

la sorprendente, improvvisa trasfigurazione.

Tu mi salverai dai cattivi presagi.

 

I colori suppliranno al linguaggio e ai suoni,

spariranno i segni di riconoscimento

e s’aprirà il frutto della felice conoscenza.

 

Nessuno ha presagito i tuoi insoliti sogni,

nessuno sa chi ti ha donato le città,

dove non c’è posto per la sofferenza.

 

Chi entrerà, vorrà restare per sempre

e con te renderà lode al giorno

ad onta della notte mortale e di quella eterna.

 

 

Incontro con Ezra Pound

 

Il vecchio nuota nell’aria,

la cittadina goccia tra i palmi,

sbattono gli uccelli delle ciglia

nel mosaico dorato del duomo.

Mentre sfiora i libri con la penna,

mentre il sorriso pone nell’obiettivo,

nell’intimo si cela più ermetico

d’una chiocciola nel guscio.

Tacendo nuota su di noi,

ormai davvero assente,

libero dalle umane misure.

 

Morale:

Ai poeti bisogna perdonare molto,

ancora più dimenticare.

Vivono nella spietata notte del cuore

e fanno penitenza coi versi.

 

 

Curriculum vitae

 

Nell’anno zero della vita ho depennato il buio,

nel secondo anno di vita ho depennato il silenzio,

nel decimo ho depennato i soldatini di piombo.

Nel quattordicesimo ho scritto i primi versi.

Nel ventesimo se ne andarono la libertà

e tutte le parole scritte sulle bandiere.

Nel ventiseesimo anno di vita

trovai chiusi dinanzi a me il cielo e la terra,

i versi e la gioia,

affetti conosciuti e non conosciuti,

sistemi filosofici, sociali ed etici.

Mi restò per quattro anni soltanto

il disprezzo non trapelato al carceriere.

Nel trentesimo anno ho depennato la speranza,

ho cancellato lunghi viaggi,

il caldo abbraccio delle donne straniere,

la dolcezza dei comodi divani e delle proprie vetture,

la quiete delle biblioteche non sfiorate dalla spia.

Era il tempo spoglio dei cinici profeti.

Taluni si allenavano alla lapidarietà della battuta

con brevi denunce.

Nel trentasettesimo anno di vita

le speranze d’autunno ripresero a rotolare

come lucide castaghe.

Nel trentottesimo anno della mia vita

si riudì dei carri armati la voce inumana.

Poco dopo in un altro punto della Terra

fu saggiata la forza di un’arma moderna.

Il poligono si chiamava isola del Natale.

Ecco l’apice della definizione d’ironia.

Nello stesso trentottesimo anno di vita

scrivo questi versi.

Quante nozioni e chimere depennerò ancora,

prima che l’ultimo sorso di aria

mi sarà tolto di bocca dal tempo –

giullare con la berretta di sanculotto?

 

 

(C) by Paolo Statuti

Due racconti di Paolo Statuti

18 Feb


 

 

                                          Il bacio

                                                                                                          (A mia figlia)

     Il primo bacio era ancora lì, sospeso sopra le loro teste, nel limpido silenzio del tramonto, tra i riflessi ramati dell’acqua e il dolce tepore dei pensieri. Fra un attimo si sarebbe dileguato, raggiungendo l’immenso Mare dei Baci più belli e più desiderati: i primi. Ma il loro bacio…

     Tacevano, temendo di rompere l’incanto di quella sensazione così unica. Si guardavano, chiedendosi tacitamente conferma di quella loro felicità, poi impugnarono i remi e si accinsero a tornare a riva. Remavano già da qualche minuto, quando la barca ebbe uno scossone e si bloccò. I due giovani si interrogarono con gli occhi e impallidirono. «Forse abbiamo urtato contro qualcosa» – pensarono. Prima che riuscissero a capire cosa fosse successo, videro alla loro destra una mano verdognola con le dita palmate affiorare dall’acqua, seguita da un braccio esile e lungo tutto coperto di alghe. Un istante dopo uscì la testa, simile a una matassa arruffata di fili diversi, i cui colori dominanti erano il verde e il marrone. Sotto lo strato di fili s’intravedevano gli occhi sporgenti e rossi come il fuoco, le labbra sottili e slavate. Sul petto scintillavano le squame. Era un abitatore del fondo lacustre. Sul palmo di una mano era posata una scatolina di metallo.

     – Ho udito la musica del vostro bacio – disse ai due giovani stupefatti, che per la prima volta vedevano e sentivano una cosa del genere. – Mi è sembrata così soave e lieta, che ho deciso di rinchiudere il vostro bacio in questa scatolina d’argento, e di custodirlo assieme agli altri che ho scelto prima del vostro. Con me sarà al sicuro e se un giorno il vostro amore si troverà in pericolo, per un istante mettete da parte i rancori, tornate qui, forse il vostro primo bacio potrà aiutarvi.

     Finiti gli studi, entrambi cominciarono a lavorare e si sposarono. Si volevano un bene matto e quindi non facevano molta fatica ad andare d’accordo. Avevano cominciato bene, con una buona ricetta: tolleranza, comprensione, gentilezza, altruismo – pochi ingredienti, ma assai preziosi ed efficaci. Certo, come accade a tutte le coppie di questo mondo, anche nel loro cielo ogni tanto si affacciava una nuvola a turbare la serenità coniugale, ma era sempre una nuvola passeggera e dopo uno scroscione breve, e a volte anche salutare, essa lasciava nuovamente il posto al sole.

     Questo durò qualche anno, ma i casi della vita sono tanti e quasi mai prevedibili. A poco a poco le nuvole diventarono sempre più frequenti e minacciose e alla fine, purtroppo, anche per loro arrivò il momento della resa dei conti. Un giorno tra i due si svolse questo colloquio:

     Lei: – Non hai dimenticato qualcosa?

     Lui: – Mhm… vediamo un po’… oggi non è il tuo compleanno e nemmeno l’onomastico… non è neanche l’anniversario del matrimonio. A tua madre ho telefonato per farle gli auguri… Ho parlato con la maestra di Enrico… a proposito, sai cosa mi ha detto? Che secondo lei trascuriamo nostro figlio…

     – Su che si basa per dire una cosa simile?

     – Mah, non so, forse perché Enrico vede troppa televisione e perché alla sua età non sa ancora chi era Cenerentola… allora, vediamo, cosa posso aver dimenticato…

     – Hai dimenticato di darmi una risposta. Due ore fa ti ho fatto una domanda, ma tu hai abilmente cambiato discorso.

     – Ah, sì, hai ragione, beh, ci ho pensato e la risposta l’avrei, ma non mi sembra opportuna, lasciamo perdere.

     – Neanche per sogno! Su, coraggio: «mi hai mai tradito o desiderato tradirmi?».

     – Sei troppo intelligente per fare una domanda così banale che prima o poi tutte le donne fanno.

     – E invece non sono intelligente, sono una stupida e voglio una risposta!

     – Va bene, come vuoi, non ti ho tradito ma ho desiderato farlo.

     – Quante volte è successo?

     – Beh, adesso non essere pignola, non le ho mica segnate…

     – Più o meno…

     – Mah, diciamo abbastanza spesso in questi ultimi mesi.

     – Me lo sentivo, ne ero certa.

     – E tu?

     – Beh, se la cosa può farti sentire meno in colpa…

     Il bambino: – Mamma, chi era Cenerentola?

     – Lei: – Sono io!… Sì, insomma, era una ragazza buona e bella ma molto infelice… Guarda la televisione invece di ascoltare i nostri discorsi… No, aspetta, hai finito i compiti?

     – Sì, mamma.

     – Allora va’ a giocare con gli altri bambini.

     Il figlio corse via  e lei restò per un attimo a pensare. Cos’altro poteva voler sapere? Nella testa i pensieri turbinavano come foglie in balia del vento. Il vento del burrascoso presente o del sereno passato? Forse entrambi… Avvertiva una vaga sensazione di pericolo, come la presenza di una belva in agguato, pronta a ghermirla. E lui era lì, seduto in poltrona, fumando una sigaretta, sforzandosi di immaginare le prossime parole della moglie e preparandosi a rispondere, come un giocatore di scacchi. Ma lei ormai aveva esaurito la voglia d’indagare e di proseguire quella schermaglia penosa e, tutto sommato, inutile. Provò un desiderio improvviso di uscire di casa, di fuggire a quel senso di oppressione. Aprì la porta, corse giù per le scale e poco dopo era in strada. Si diresse a passo spedito verso la macchina.

     Dopo un attimo di esitazione lui aprì la finestra e chiamò la moglie, ma quasi controvoglia, meccanicamente. Lei guardò su e di colpo si augurò con tutte le forze che lui la seguisse, che corresse da lei e abbracciandola le sussurrasse come un tempo: «Tu sei la mia vita!».

     Prima di accendere il motore volse di nuovo lo sguardo alla finestra. Attese ancora a mettere in moto, guardò di nuovo, poi scese dalla macchina e si mosse verso la cabina telefonica. Il marito pensò: «Ecco, ora telefona a sua madre», ma sentì squillare il telefono:

     – E’ un momento difficile, lo so, ma cerchiamo di essere ragionevoli… esaminiamo la situazione con calma. Scendi giù… lasceremo Enrico da mia madre. Dobbiamo parlare e decidere una volta per sempre… – s’interruppe e poi concluse: – Ti va?

         Va bene, adesso scendiamo.

 

     Percorsero un buon tratto di strada in silenzio. Erano ammutoliti dal turbamento o dall’orgoglio? Oppure ciascuno dei due cercava le parole più idonee a iniziare il colloquio, per non provocare subito una reazione negativa nell’altro? Continuavano a fissare muti l’asfalto che scivolava via monotono e indifferente sulla scia dei loro pensieri.

     Guidava già da un’ora e finalmente fermò la vettura in un viottolo sulla riva del lago. Fu lei a parlare per prima:

     – Ricordi quando venivamo qui prima di sposarci? Questo lago mi è sempre piaciuto… nelle sue acque c’è come una forza sana e buona… sento che dobbiamo ricominciare da qui, da questo luogo dove ci siamo scambiati il nostro primo bacio… vieni, noleggiamo una barca.

 

     Appena staccatisi dalla riva provarono un senso di sollievo, una liberazione improvvisa e un bisogno di remare sempre più in fretta, come per scaricare nello sforzo fisico tutta la loro inquietudine, tutto il loro rammarico. Tacevano e l’amaro silenzio era rotto soltanto dal respiro affannoso che si confondeva col tonfo cadenzato dei remi. Trascorso circa un quarto d’ora smisero di remare. Ansimando posarono i remi sul bordo della barca e si concessero un po’ di riposo. Si guardarono intorno. In un raggio di almeno cinquecento metri non c’era nessuno.

     – Che pace! – esclamò lei – e com’è bello ricordare… Sai, non te l’ho mai detto… quando eravamo ancora fidanzati ho fatto uno strano sogno. Ascolta… Eravamo in barca, proprio come adesso e forse proprio su questo stesso lago…

     E gli raccontò ciò che aveva sognato.

     – E’ una bella favola e a te le favole piacciono molto, vero? – commentò lui.

     – E’ vero e sono convinta che esse aiutino a vivere.

     – Hai ragione, evviva la poesia, evviva la fantasia!… Ho caldo e farei volentieri una nuotata… e tu, non hai voglia di tuffarti?

     – Ma non abbiamo i costumi e poi siamo venuti qui per parlare…

     – A me il costume non serve, per parlare c’è sempre tempo e adesso ho voglia di nuotare.

     – D’accordo… se proprio non resisti spogliati e tuffati, io ti aspetterò qui.

     In pochi istanti l’uomo era già pronto e con una esclamazione di gioia si gettò e scomparve sott’acqua.

     Era piuttosto irritata. Il comportamento del marito le sembrava superficiale e irresponsabile. Non era così che aveva immaginato quella gita in barca, no, si aspettava da lui un contegno più serio e più adeguato alle circostanze.

     Trascorso qualche istante l’uomo riemerse a pochi metri di distanza. Rideva di cuore e gridò:

     – Guarda cosa ho trovato sul fondo… sembra proprio la scatolina del tuo sogno! E’ un po’ arrugginita… Chissà se contiene ancora il nostro primo bacio… Vediamo un po’… ha il coperchio incastrato… non riesco ad aprirla…

     – Fermo, non farlo! – gridò la donna. – Vieni qui, fammela vedere.

     Con quattro bracciate l’uomo raggiunse la barca e sempre ridendo porse la scatolina alla moglie. Lei l’osservò a lungo, rigirandola sul palmo della mano, poi prese a fissare intensamente lo specchio del lago. Il suo sguardo si posava ora sull’acqua, ora sul piccolo oggetto ripescato dal marito. Non sembrava affatto turbata, anzi col trascorrere dei secondi il suo volto s’illuminava, si rasserenava e il sorriso le brillava negli occhi.

     – Lasciamola chiusa – sussurrò. – Immaginiamo che contenga veramente il nostro primo bacio… se l’aprissimo esso svanirebbe per sempre, teniamola con noi così, come un portafortuna.

     Lui aveva smesso di ridere. Ora guardava la moglie e la vedeva diversa, cambiata come per incanto. La vedeva esattamente come anni prima e per un attimo pensò che quella scatolina avesse davvero un potere magico. Sentì una forza irresistibile che lo attirava verso la donna e la baciò con tutta la tenerezza che poteva.

 

     Da quel giorno il loro amore non corse più alcun serio pericolo, e a poco a poco la scatolina finì nel dimenticatoio, come del resto succede con tutte le cose delle quali alla fine non si ha più bisogno.

 

    

                                     Lultima volta

 

                                                                                         Dio, colma la mia solitudine

                                                                                         con la Tua solitudine. Acco-

                                                                                         gli la mia solitudine nella

                                                                                         Tua solitudine…

                                                                                                       Anna Kamieńska

 

     – Mamma, dammi un po’ di soldi…è l’ultima volta, te lo giuro…dico sul serio, devi credermi, aiutami, non resisto, soffro troppo…

     La donna fissava il volto smunto e gli occhi slavati del figlio che continuava ad implorarla e a giurare che avrebbe smesso di bucarsi. Le tremavano le gambe. Si sedette lentamente, con un movimento quasi meccanico. Il giovane era lì a due passi da lei, eppure la sua voce le giungeva sempre più smorzata e lontana, finché cessò del tutto. In quel momento si sentì sola, come su una spiaggia deserta, e le sembrava di udire il rumore pigro e ovattato della risacca. La solitudine era una pesante pietra che la schiacciava, era una ferita aperta nella quale la nostalgia affondava implacabile i suoi artigli, nella quale batteva senza tregua il passato con tutto il suo bagaglio di dolori, pentimenti, delusioni, speranze, rimpianti: il parto diciotto anni prima, il divorzio, l’infanzia difficile del figlio, l’incapacità di essere più severa quando le circostanze lo imponevano, il suo amore forse esagerato, i tentativi – all’inizio ostinati – di ritrovare la serenità interiore…

     Il figlio la scosse afferrandole un braccio:

     – Ma a che stai pensando?! Insomma, vuoi darmi questi soldi, o preferisci che vada a rubarli?

     La madre si riscosse, lo fissò ancora un attimo con lo sguardo assente, poi con voce fievole e rassegnata disse:

     – Mi hai detto tante volte che volevi smettere…come posso crederti?

     Senza aggiungere altro si alzò, si tolse la chiave dal collo e aprì il cassetto del comò, prese i soldi e li porse al figlio:

     – Tieni e ricordati solo questo: quando ti buchi è come se l’ago della siringa trafiggesse il mio cuore.

     – Mamma, te l’ho detto, è l’ultima volta che ti chiedo i soldi, ho deciso davvero di smettere, domani mi faccio ricoverare…beh, ciao, non lasciare la luce accesa e va’ a letto.

     Appena la porta si richiuse alle spalle del giovane, la donna cominciò a prepararsi per uscire. Aveva assoluto bisogno di un po’ d’aria, di guardare la gente, camminare, entrare un momento in chiesa, aveva bisogno di sentirsi ancora viva. Da due anni, ogni giorno, mentre lavava, cucinava o faceva la spesa si ripeteva: devo salvarlo, devo fare qualcosa per salvarlo. Le aveva tentate tutte, per tirar fuori il figlio e se stessa da quell’inferno. Un giorno, sconvolta dalla disperazione e dall’ira aveva perfino provato l’irresistibile impulso a uccidere uno spacciatore che aveva visto davanti alla scuola del figlio. Con un lungo coltello da cucina nella borsa si era avvicinata furtivamente alle spalle dello spacciatore, ma prima che avesse il tempo di estrarre il coltello, egli si era voltato…aveva ancora i lineamenti di un giovane, ma sembravano come rosi dai tarli, come accade con un bel mobile di noce; tutta la sua persona sapeva di stantio, come se internamente qualcosa si stesse decomponendo…forse la sua anima – pensò la donna. Aveva provato ripugnanza – o forse pietà? – e inoltre che cosa avrebbe ottenuto uccidendolo?

     Vide che la chiesa era ancora aperta e vi si diresse. In ginocchio davanti al Crocifisso piangeva e pregava, confortata dalla tristezza di Cristo: «Signore, Tu che sei drogato d’amore tocca il cuore ai trafficanti e agli spacciatori, anche una pietra si scalda se ci batte il sole, aiuta i drogati – sii Tu la la loro eroina…»

     Uscita dalla chiesa si sedette su una panchina. Vi restò solo qualche minuto, non riusciva a stare ferma, era troppo agitata e decise di tornare a casa per prendere un calmante.

     In un boschetto alla periferia della città. Al tramonto.

     Lui: – Sai, ieri ho conosciuto un assistente sociale, dice che se lo vogliamo veramente può farci uscire dal tunnel. All’inizio sarà molto dura, lo so, ma penso che valga la pena di provare. Punto e basta, fine della dolce illusione.

     Lei: – Sì, hai ragione, lo penso anch’io.

     – Hai una mentina? Ho la bocca amara.

     – Tieni.

     – Questa sera siamo soli…non vedo neanche Franco, ultimamente era proprio conciato male.

     – Già, chissà cosa gli sarà successo…

     – Tu ce l’hai la roba?

     – Sì, l’ho avuta da uno nuovo, non l’ho mai visto prima, speriamo che non sia robaccia.

     – Anch’io l’ho avuta per la prima volta da uno di colore che bazzica dalle parti della stazione. Fammi vedere la tua…beh, sembrerebbe ok, del resto fra un po’ lo sapremo.

     – Sai, i due vecchi diventano sempre più pesanti, ormai non li reggo più, minacciano perfino di denunciarmi. Tu è un bel po’ che ti buchi, ormai tua madre deve averci fatto il callo…

     – Cambia discorso, per favore!

     – Beh, allora sei pronto?

     – Aspetta ancora un momento. Guarda che colore strano ha il cielo, ha una faccia lugubre, non ti pare?

     – A me non sembra.

     – Guarda, un topo! In questo istante mi piacerebbe diventare un gatto per dargli la caccia. Deve essere un sacco divertente. E’ una bestia straordinaria, così agile e furbo e affamato di carezze.

     – Quando parli così mi commuovi, caro il mio bel micione.

     – Ti piacciono i canti zigani?

     – Non li conosco.

     – E’ grave…ho un disco russo, te lo porterò. Devi ascoltarlo aprendo l’anima al sole, al fuoco, al vento, alle stelle…devi sentire l’amore travolgente, la seduzione dei violini, devi vedere le tracce dei carri, il fango sulle ruote…oh, che vita stupenda!…Che ore sono?

     – Le nove.

     – Verrei che questo giorno non finisse mai…beh, penso sia ora, cominciano a tremarmi le mani…vedi? Fammela tu, oggi, dai fa’ presto!

      Trascorso soltanto un minuto lo vide sbarrare gli occhi e illividire…si irrigidiva sempre più…cercava di dire qualcosa ma non riusciva ad articolare una sillaba; con le ultime forze le strinse la mano e si accasciò tra le braccia della ragazza. La giovane urlava, urlava a squarciagola, chiamava aiuto in preda al panico. Finalmente arrivò l’ambulanza e lo trasportarono d’urgenza al pronto soccorso.

     E’ già notte. Nella stanza immersa nel silenzio e rischiarata debolmente dalla luce lasciata accesa nell’ingresso, squilla il telefono.

     – Pronto…

     – Pronto…

     – Qui è il pronto soccorso dell’ospedale Santa Caterina. Lei è la signora Maria? La mamma di Giulio?

     – Sì, mio Dio…cos’è successo?!

     – Signora, sia forte, purtroppo suo figlio…overdose…non ce l’ha fatta…signora…mi sente? Signora, risponda! Signora…(rivolto a un infermiere) Presto, l’ambulanza. Dobbiamo sbrigarci, poveretta…deve essere svenuta…forse il cuore…

(C) by Paolo Statuti