Archivio | marzo, 2014

Poesia e musica

18 Mar

Poesie russe sugli strumenti musicali tradotte da Paolo Statuti

Vladimir Majakovskij (1893-1930)

Il violino e un po’ nervosamente

Il violino coi nervi tesi, supplicando,
a un tratto scoppiò in pianto
così infantilmente,
che il tamburo non resse:
“Bene, bene, bene!”
E lui stesso si stancò,
non finì di ascoltare il violino,
sgattaiolò in fretta
e se ne andò.
L’orchestra estraneamente guardava
il violino che si sfogava nel pianto
senza parole
senza tempo,
e solo chissà dove
uno stupido piatto
strepitava:
“Cos’è?”
“Com’è?”
E quando il flicorno –
cornoramato,
sudato,
gridò:
“Scemo,
piagnone,
asciugati!” –
io mi alzai,
barcollando, mi arrampicai tra le note,
tra i leggii curvi per lo spavento,
chissà perché gridai:
“Mio Dio!”,
mi buttai al collo di legno:
“Sai una cosa, violino?
Noi ci somigliamo tremendamente:
ecco anch’io
urlo –
ma non so dimostrare nulla!”
I musicisti ridono:
“S’è invischiato e come!
E’ venuto dalla fidanzata di legno!
Che testa!”
Ma io – me ne frego!
Io – sono un bel tipo.
“Sai una cosa, violino?
Dai –
Vivremo insieme!
Sì?”

Mirra Lochvizkaja (1869-1905)

Il violoncello

Un cieco sonava. L’anima rapita dall’incanto.
Si levava il petto – di nuovo si abbassava.
L’archetto, come lama, inferiva i suoi colpi,
E come sangue da un taglio il canto si versava.

E si sentiva nel lamento del violoncello
Il coro dei dèmoni, che si dimenano nell’ira.
I miei sogni volavano nell’eternità, –
Egli m’invitava in una nebbia di stelle priva.

Egli mi chiamava alla follia dell’oblio,
Dove si estingue del pianto il sacro gioire.
Ronzava l’archetto. La serpe univa gli anelli.
Oh, lasciami vivere! Oh, lascia ancora soffrire!

Ljudmila Desjatnikova (1964-2001)

* * *
Viene meno il suono, il „la” è tenuto in silenzio.
Il pianoforte si addolora, dal fremito oppresso.
E solo la musica, a chi tocca, deciderà.
Dalla gravitazione delle stanze – nell’universo.

La creazione delle dita e delle stanche corde,
L’ombra delle voci di villaggi illusori,
Dei fiumi mattutini la risacca lilla
E lo slancio degli orti, dove ali e non radici trovi.

Risuona ancora, non lasciarci atterrare,
Risuona ancora, cambia vestiti in abbondanza,
Affinché ognuno possa levarsi in volo o schiantarsi
Nelle tremende sommità della musica-speranza.

Gioacchino Rossini

17 Mar

 

 

Gioacchino Rossini

Gioacchino Rossini

 

 

 

   Di Jerzy Waldorff-Preyss (1910-1999), scrittore, pubblicista e critico musicale polacco, ho già tradotto e pubblicato nel mio blog due articoli: La musica consolatrice e Arturo Toscanini. Dal suo libro Zbuntowane uszy (Le orecchie ribelli) ho scelto e aggiungo oggi nella mia versione questo suo interessante, arguto e colorito ritratto del “cigno di Pesaro”, cigno inteso naturalmente come Maestro del Belcanto. Su questa definizione e dato che i cittadini di Lugo (città natale del padre, nella provincia di Ravenna) pretendevano che Rossini fosse lughese, il compositore ironizzava definendosi “Cigno di Pesaro e Cignale di Lugo”.

 

 

 

   Eduard Hanslick nel 1867 si trovò a Parigi ed ebbe l’onore non indifferente di essere ricevuto da Rossini, verso mezzogiorno, quando il musicista era ancora nel suo letto. Dunque non durante un ricevimento ufficiale, tra una moltitudine di persone, ma in modo strettamente privato, per parlare senza testimoni. Tale favore non era riservato a molti.

 

   Entrato nella camera Hanslick vide l’anziano compositore che faceva colazione in un letto principesco. Il cocuzzolo della testa di Rossini, calvo come un ginocchio, era coperto da una calda cuffia da notte. Accanto, lungo la parete, c’era un comò sopra il quale, su appositi appoggi, facevano bella mostra una quindicina di parrucche con capelli di diversa lunghezza. Tenendo molto all’aspetto, il compositore dopo qualche giorno cambiava parrucca, per far sembrare che i capelli crescessero in modo naturale. Poi dopo un po’ di tempo diceva agli amici: “Domattina devo chiamare il barbiere!” e indossava la parrucca dai boccoli più corti.

 

   Nella vita era simile ai personaggi da lui stesso creati, e che ancora oggi divertono tanta gente sulle scene operistiche di tutto il mondo, malgrado il trascorrere del tempo.

 

   Gioacchino Rossini nacque a Pesaro il 29 febbraio 1792, anno bisestile, per cui l’anniversario esatto della sua nascita si può festeggiare soltanto ogni quattro anni. Le fonti del talento di un grande figlio si è soliti trovarle nei genitori. Raramente tuttavia accade che l’ereditarietà sia tanto chiara e indubbia, come nel caso del piccolo Gioacchino. Suo padre svolgeva la funzione di trombettiere civico e di…ispettore del mattatoio (ricordiamo questo!). La madre vantava una breve ma luminosa carriera di cantante, nota come prima donna buffa. E così il figlio di questa coppia ereditò interamente da essa il suo talento.

 

   Terminati gli studi musicali, abbastanza irregolari e trascurati, Gioacchino Rossini cominciò a comporre nel 1806, cioè all’età di 14 anni e la sua prima opera fu Demetrio e Polibio. Nel 1812 compose cinque opere e il Tancredi, scritto l’anno seguente, riportò un successo strepitoso. In quegli anni facevano scalpore nel mondo non le bombe e nemmeno i razzi interplanetari. La gente si appassionava in modo particolare per l’arte, gli Italiani – per l’opera. Dopo la prima del Tancredi si diffuse perciò da Venezia in tutta la Penisola Appenninica la lieta novella: “Abbiamo un nuovo grande compositore. La nostra musica ha iniziato una nuova fioritura!”.

 

   Gli Italiani sono però persone dagli impulsi opposti e inaspettati. Quando il 20 febbraio 1816 il Teatro Argentina di Roma mise in scena il capolavoro di Gioacchino Rossini – il Barbiere di Siviglia, il pubblico fischiò l’opera. Perché?…

 

   Ho avuto sotto mano un breve lavoro su Rossini, in cui l’autore affermava che il Barbiere fece fiasco a causa delle persecuzioni della polizia, poiché “il libretto era stato scritto dal poeta rivoluzionario francese Beaumarchais”. Che sciocchezza madornale! Beaumarchais a quel tempo era già morto da 17 anni, e della sua celebre commedia politica era rimasta nel libretto dell’opera, uscito dalla penna di Cesare Sterbini, soltanto la pura trama amorosa.

 

   La causa dell’insuccesso della prima del Barbiere fu un’altra. Gli Italiani sono fedeli ai loro artisti prediletti, e un’opera dal titolo Il barbiere di Siviglia era stata scritta un quarto di secolo prima da Giovanni Paisiello, con la quale questo musicista si era assicurato un plauso imperituro. Per la verità il previdente Rossini aveva ottenuto il consenso di Paisiello a usare la stessa trama del libretto, e inoltre egli inizialmente aveva chiamato l’opera Almaviva, o sia l’inutile precauzione. Ma questo non bastò, i romani fischiarono il Barbiere di Rossini, parteggiando per il Barbiere di Paisiello. Ma dopo aver compiuto questo doveroso atto di giustizia, già il giorno dopo il pubblico accolse il nuovo Barbiere con un fragoroso entusiasmo. Rossini divenne l’idolo  del suo paese.

 

   E infatti è una musica davvero deliziosa!… Ma esaminiamo questo fenomeno  a mente fredda, senza eccessiva indulgenza per il suo creatore. Rossini quanto più invecchiava, tanto più rivelava la sua pigrizia. Nel caso del Barbiere, essa è visibile a cominciare dall’ouverture.

 

   Nel 1813 il compositore aveva scritto l’opera Aureliano in Palmira. Due anni dopo creò Elisabetta, regina d’Inghilterra, per la quale non volle comporre una nuova ouverture, ma usò quella vecchia dell’Aureliano. Quando poi un anno dopo il musicista iniziò a scrivere il Barbiere, per la terza volta l’ouverture cambiò la sua destinazione e fu data al Barbiere, dove restò per sempre. Ma le prove della pigrizia non terminano qui. Nella stessa partitura della celebre opera si possono trovare non solo brani presi da altre opere sceniche di Rossini, ma perfino citazioni melodiche…dall’oratorio Le stagioni di Haydn! A noi Polacchi fa piacere che per il finale dell’opera il maestro italiano abbia scelto una polonaise. E ai misteri del genio di Rossini dobbiamo aggiungere il fatto che lo strano “miscuglio” del Barbiere di Siviglia è diventato ed è ancora oggi la migliore opera buffa nella storia della musica.

 

   Che significa “opera buffa”? Essa conta 200 anni di esistenza e fu ideata come interludio tra gli atti ampollosi, lunghi e – diciamolo francamente – spesso noiosi delle opere serie del diciottesimo secolo. Affinché il pubblico non si addormentasse, le parti serie erano intervallate con allegre farse musicali, nelle quali le arie e i canti erano uniti a recitativi che acceleravano lo svolgimento dell’azione. Col passare del tempo questi interludi divennero autonomi, e presero il nome di opera buffa, cioè comica. Uno dei primi capolavori di questo genere fu La serva padrona di Pergolesi, ma il più grande in assoluto è il Barbiere di Siviglia di Rossini. Ancora oggi quest’opera incanta con la bellezza della melodia, trascina col suo ritmo vivace, brilla per l’arguzia musicale. E’ come un ottimo vino, le cui bottiglie vengono degustate da successive generazioni con sempre maggior piacere. Bisogna rendere infine a Cesare Sterbini ciò che gli spetta. Il suo libretto, benché contenga soltanto gli elementi più futili della geniale commedia di Beaumarchais, è una farsa perfetta, armoniosa e assai divertente.

 

   Un anno dopo il Barbiere Rossini creò un’altra brillante opera comica, la Cenerentola. Successivamente ebbe applausi o fischi dagli incostanti connazionali per la Gazza ladra, il Califfo di Bagdad, Semiramide e molte altre opere. Il Mosè, Guglielmo Tell e l’oratorio Stabat Mater furono scritti a Parigi. Un patrimonio musicale comprendente più di 30 opere, ma anche molte composizioni di musica sacra, orchestrali, da camera e strumentali.

 

   Lasciò l’Italia per la prima volta nel 1823, stizzito dai capricci del pubblico italiano. Da Parigi insieme con la moglie si recò a Londra, dove lo accolsero come un regnante. Si contendevano i suoi favori i sovrani e gli ambasciatori di tutte le potenze europee, dalla Francia alla Russia. Ebbe la meglio l’ambasciatore francese, proponendo a Rossini la direzione dell’Opera Italiana a Parigi. Prima di assumere questo incarico, il musicista aveva entusiasmato l’Inghilterra non solo come compositore e direttore d’orchestra, ma anche come cantante, esibendosi in duetti con la celebre Angelica Catalani. Quando sei mesi dopo salì sulla nave e lasciò la Gran Bretagna, aveva nel portafoglio l’enorme somma di settemila sterline.

 

   Abbastanza presto rinunciò alla direzione dell’Opera Italiana a Parigi, ma allora il re gli offrì una sinecura di ventimila franchi l’anno, con il titolo di primo compositore di Sua Maestà e di Ispettore Generale del Canto nel Regno. Purché non lasciasse la Francia.

 

   Ma nel 1830 scoppiò la rivoluzione di luglio, infausta per gli artisti, come tutte le scosse improvvise di questo tipo. Essa indusse Gioacchino Rossini a tornare in Italia. Dopo i Borboni sul trono di Francia era salito il re-mercante Luigi Filippo, indifferente all’arte. Inoltre aveva cominciato a diffondersi il Romanticismo e la fama di Rossini fu offuscata dalla nuova stella nel firmamento dell’opera – Jakob Meyerbeer. Amareggiato dal successo degli Ugonotti che, a suo parere, erano soltanto un chiassoso e volgare esibizionismo dei sentimenti nell’arte, Rossini lasciò Parigi e si stabilì a Bologna. Al tempo stesso decise di tacere come compositore, mantenendo il suo proposito fino alla morte. Da allora compose di rado cose di scarso rilievo, rifiutandosi di pubblicarle. Difficile oggi dire quanto in quella decisione pesassero le profonde trasformazioni nella musica e la dolorosa rassegnazione, quanto l’esaurimento della vena artistica e quanto la pigrizia.

 

   A Parigi tuttavia Rossini tornò 20 anni dopo, esattamente nel 1855. Era ormai innocuo per i concorrenti, perciò tutti accettarono di colmarlo di onori. Che reciti pure la parte di monumento vivente del passato!…

 

   La stupenda villa dei Rossini a Passy presso Parigi diventò una delle curiosità e dei vanti parigini. Vi si recavano in pellegrinaggio tutti i musicisti stranieri, come a Roma i fedeli si recano in Vaticano. Nel vecchio Rossini emerse (ricordate suo padre, ispettore del mattatoio?) una nuova passione – quella culinaria. Offrendo banchetti agli amici, egli stesso creava nuove pietanze, con particolare predilezione per quelle a base di carne. Ancora oggi nei menu dei migliori ristoranti si può trovare il manzo sotto il nome di Tournedos à la Rossini.

 

   Dovevano essere piacevoli questi ricevimenti, durante i quali l’anfitrione inteneriva gli invitati con la sua ospitalità, e la padrona di casa…li gelava con la sua tirchieria. Il malizioso Hanslick ci ha lasciato questa descrizione della signora Rossini: “Dicono che da giovane fosse bella. Quando l’ho conosciuta, dal suo viso sporgeva un enorme naso, come una torre scampata alle rovine di un castello. Il resto era coperto di brillanti”.

 

   Benevolo con tutti e cordiale, Rossini soltanto in fatto di musica conservò sempre la proverbiale severità di giudizio. A un ricevimento una celebre cantante eseguì un’aria del Barbiere, per la quale raccolse nel grembo del suo abito molte monete d’oro, e perfino anelli e braccialetti preziosi quale dono degli ascoltatori. Ma a Rossini non era piaciuta, perciò quando si avvicinò a lui e gli disse: “Vede Maestro, quanto ho ricevuto per una sola sua aria?”, il vecchio replicò: “Sono molto felice. Adesso lei ha abbastanza per pagarsi le lezioni di canto”.

 

   Il 13 novembre 1868 Gioacchino Rossini morì, dopo una dolorosa agonia. Fu seppellito con grande pompa. Presso il suo feretro chinò la testa tutta l’Europa della Cultura. Anche noi dobbiamo sospirare su quella morte dell’illustre artista, e poi prestare orecchio alla sua musica eternamente viva.

 

 

 

   Qui finisce il testo di Waldorff. A proposito di arte culinaria, la cui musa, lo confesso, è alquanto benigna anche con me, voglio terminare questo mio post con un simpatico aneddoto. Durante la visita di Richard Wagner nella villa di Rossini a Passy, è stato narrato che quest’ultimo si alzasse durante la conversazione quattro o cinque volte, per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti. Alla richiesta di spiegazioni da parte di Wagner, Rossini rispose: “Mi perdoni, ma ho sul fuoco una lombata di capriolo. Deve essere annaffiata di continuo”.

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Lev Alexandrovich Bruni

10 Mar
Lev Alexandrovich Bruni

Lev Alexandrovich Bruni

Autoritratto

Autoritratto

 

   Nacque il 20 luglio 1894 a Malaja Vishera nella provincia di Novgorod. Discendeva da una famiglia di illustri pittori, tanto che scherzosamente egli diceva: “Nelle mie vene scorre l’acquerello, anziché il sangue”, e da bambino era convinto che “tutti fossero pittori”. Senza dubbio era un acquerellista nato, conosceva tutti i segreti di questa bella e difficile tecnica.

   Negli anni 1896-97 si salvò miracolosamente da una forte meningite, in seguito alla quale divenne strabico, mentre negli anni della scuola ebbe una  grave scarlattina che gli provocò la perdita parziale dell’udito. All’età di 14 anni s’invaghì della pittura. Frequentò come uditore gli studi di J. F. Zionglinskij e di F. A. Rubò (1910-11), la classe di N. S. Samokish (1913-16). Negli anni 1912-13 studiò all’Accademia Julian a Parigi, frequentando lo studio di Jean-Paul Loran.

Nel 1915 il suo quadro “Arcobaleno” fu creato sotto l’influenza delle antiche icone  e al tempo stesso di una delle nuove correnti dell’arte europea – il cubismo. I vigorosi semplici volumi, la composizione rigorosamente equilibrata, i forti contrasti di colori densi e saturi – rosso e verde, blu e giallo – tutto indica l’aspirazione del pittore a riprodurre non tanto la viva natura, quanto a trovare una generale immagine di pacata grandezza e di forza. Negli anni successivi Bruni disegna senza sosta con un tratto leggero di matita le persone a lui vicine in pose disinvolte, le ballerine durante le prove, dipinge la natura attraverso delicati e trasparenti acquerelli, rendendone artisticamente la mobilità, illustrando il tremito dei rami e delle foglie al vento.

   Nei suoi acquerelli, che si trovano anche alla Galleria Tret’jakovska a Mosca, non succede niente, o meglio – succede ciò che è più importante: gli alberi si piegano sotto il peso della prima neve, brillano soltanto i tetti lavati dalla pioggia, la luce solare filtra attraverso il fitto bosco…Tutto è unico, bello, animato e fragile.

   Nel 1923 il pittore si trasferì a Mosca. Nel suo studio sul lungofiume dell’Università si svolgevano periodiche serate che diventarono un evento nella storia della cultura russa. Di esse ora si parla come del circolo di letteratura e pittura dell’Appartamento n. 5. Vi partecipavano regolarmente i pittori Al’tman, Miturič, Tyrsa, i poeti Mandel’stam, Kljuev, Bal’mont, il compositore Lur’e, il critico Punin. A volte nell’Interno n.5 si vedevano anche Majakovskij, Chagall, Chlebnikov, Rozanov, Tatlin…

   Un posto a parte nella creazione di Bruni occupa l’arte monumentale. Dal 1935 fino alla morte, il pittore diresse la cattedra di pittura monumentale presso l’Accademia di Architettura dell’Unione Sovietica.

   Morì a Mosca il 26 febbraio 1948. Nella grigia e fredda atmosfera del “realismo socialista” degli anni  ’30-’40 la sua arte animata e serena fu come un’isola di creazione poetica.

 

(C) by Paolo Statuti

 

Alcuni quadri di Lev Alexandrovič Bruni

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Mandel’stam e Dante

8 Mar

 

 

  

O. Mandel'stam in un ritratto di Lev Bruni

O. Mandel’stam in un ritratto di Lev Bruni

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Anziché, come al solito, dal polacco o dal russo, questa volta per i miei lettori ho tradotto dall’inglese (controllando le parole di Mandel’stam nel testo originale) questo interessante articolo di James Fenton, poeta, giornalista e critico letterario inglese, pubblicato dal quotidiano The Guardian, il 16 luglio 2005.

 

L’inferno messo in musica

Considerazioni su Mandel’stam lettore di Dante

 

   L’incomparabile saggio di Osip Mandel’stam Conversazione su Dante, fu dettato dal poeta intorno agli anni 1934-35, cioè durante l’ultimo periodo della sua vita raminga, e scritto su schede grigie procurate da provvidenziali conoscenti (era infatti impossibile acquistare carta da scrivere).

   La vedova del poeta Nadežda descrive come, nel punto in cui Mandel’stam si riferiva al bisogno di Dante di affidarsi all’autorità, ella si rifiutò di scrivere, pensando che il marito intendesse l’autorità dei governanti, e che perdonasse a Dante di aver accettato i loro favori. “Questa parola non aveva un altro significato per noi” – ella dice – “ed essendo cordialmente malata di tali autorità, io non ne avevo bisogno, di qualunque tipo esse fossero” “Ma non ne hai già abbastanza di questa autorità? – gli gridai, seduta di fronte a un foglio di carta grigia e con le mani poggiate sui ginocchi – Ne vuoi ancora?”

   Mandel’stam era infuriato con lei per la sua presunzione. A sua volta anche Nadežda era irritata con lui, tanto da dirgli di trovarsi un’altra moglie. Ma poi ella fece ciò che le circostanze richiedevano durante la persecuzione staliniana, cioè imparò il saggio a memoria, per assicurarne la sopravvivenza. Esso fu stampato trenta anni più tardi, quando apparve a Mosca un’edizione in venticinquemila copie che si esaurì rapidamente – il primo lavoro di Mandel’stam uscito dopo il disgelo.

   L’argomento riguardante l’autorità ci induce a leggere il saggio in questione, non solo per ciò che esso ci dice su Dante, ma anche come una riflessione sui nostri tempi e su quelli di Mandel’stam. Egli dice: “E’ inconcepibile leggere i canti di Dante senza riferirli anche al tempo presente. Essi sono proiettili per cogliere il futuro.” Ma ciò non significa che egli coinvolga Dante in una campagna antiautoritaria. E’ questo il brano che spinse Nadežda a posare la penna e a mettersi le mani sui ginocchi.

   “Il divino poema” – dice Mandel’stam – “nel suo aspetto più densamente stratificato, è orientato verso l’autorità, è più di tutto ampiamente sonoro, più di tutto concertante, proprio quando è vezzeggiato dal dogma, dal canone, dalla decisa eloquente parola. Ma il male è che nell’autorità – o, più esattamente, nell’autorevolezza – noi vediamo soltanto una assicurazione contro gli errori, e non percepiamo affatto in quella grandiosa musica l’affidamento, la fiducia, nelle sfumature – delicate come un arcobaleno alpino – la probabilità e la credenza, di cui Dante dispone.”

   C’è, egli dice alla moglie, una cosa come una buona autorità. Il rapporto di Dante con essa è una cosa completamente diversa dal rapporto di un membro dell’apparato, o di un leale membro rispetto al Partito, al Leader, che è in sostanza la supplica di essere liberati dall’errore. In un’altra pagina, in questo argomento espresso in modo curioso e costruito in modo attraente, Mandel’stam considera il ruolo del direttore d’orchestra e la storia della bacchetta. Si pensa a questo saggio come a un lavoro scritto fuggendo. E’ difficile immaginare come Mandel’stam sia riuscito a procurarsi i libri di cui si servì per questo brano: l’autobiografia di Spohr, la storia della direzione d’orchestra di Schünemann, il dizionario musicale di Walther. Cos’altro aveva nel suo bagaglio?

   La risposta comporterebbe, sembra, una breve lettura sulla cristallografia e la teoria delle onde del suono e della luce. E la collezione di ciottoli che, egli ci dice, gli furono di grande aiuto quando questo saggio o conversazione, come egli la chiama, veniva maturando: “Una pietra è un diario impressionistico del tempo atmosferico, accumulato da milioni di anni di calamità…” E naturalmente deve aver avuto con sé il suo Dante, di cui ci dice che “se le sale dell’Ermitage impazzissero all’improvviso, se i  quadri di tutte le scuole e di tutti i maestri a un tratto si staccassero dai chiodi, si fondessero, si mescolassero, e riempissero l’aria delle sale d’un ruggito futuristico e di una frenetica colorata eccitazione, si otterrebbe qualcosa di simile alla Commedia di Dante.

   Questo piacere di cogliere un’immagine molto, molto al di là di quanto ci si potrebbe aspettare, è qualcosa che Mandel’stam sembra aver preso da Dante. Il brano di Ugolino, egli dice, ha il timbro di un violoncello. Dunque: “La densità del timbro del violoncello meglio di tutto si presta a trasmettere un senso di aspettativa e di angosciosa impazienza. Non esiste alcuna forza sulla terra che possa affrettare il flusso del miele che scorre da una brocca inclinata. Per questo il violoncello poteva nascere e formarsi solo quando l’analisi europea del tempo ebbe fatto sufficienti progressi, quando furono vinti gli sconsiderati orologi solari, e l’osservatore di un tempo del bastoncino-ombra che si spostava lungo i numeri romani sulla sabbia, si mutò in un appassionato compartecipe della tortura differenziale e in un martire degli infinitesimi. Il violoncello rallenta le note, per quanto esso si affretti. Chiedete a Brahms – lui lo sa. Chiedete a Dante – lui lo sentiva.” Benché Mandel’stam sappia perfettamente che Dante non sentì e non suonò mai il violoncello.

 

(C) by Paolo Statuti

Ewa Sonnenberg

6 Mar

Ewa Sonnenberg: poetessa di contrasti

 

  

Ewa Sonnenberg in una bella foto di Wojciech Małkowicz

Ewa Sonnenberg in una bella foto di Wojciech Małkowicz

Ewa Sonnenberg è poetessa e pianista. E’ nata a Ząbkowice di Slesia il 30 marzo 1967. Nel 1992 ha terminato l’Accademia Musicale a Wrocław e nel 1996 lo Studio Letterario-Artistico presso l’Istituto di Filologia Polacca dell’Università  Jaghellonica di Cracovia. Ha debuttato nel 1995 con la raccolta L’azzardo, per la quale ha ricevuto il premio “Georg Trakl”, assegnato da una giuria presieduta dallo scrittore Maciej Słomczyński. Ha scritto nove raccolte di poesie, molte delle quali figurano in antologie polacche e straniere, e sono state tradotte in tedesco, francese, inglese, russo, svedese, sloveno, ungherese, serbo, macedone, e ora anche in italiano. Quest’anno è uscita una bella antologia, in cui è rappresentata tutta la creazione poetica di Ewa Sonnenberg. Nel suo lungo articolo inserito in questo volume, il suo curatore Marcin Czerwiński scrive: «Poetessa di contrasti…Usa il paradosso e l’ossimoro come tasti del pianoforte distanti tra loro, durante una esecuzione piena di tensioni tra gli accordi e la linea melodica principale, e questo paragone non è casuale, dal momento che la poetessa è pianista e spesso accompagna i suoi colleghi poeti».

   Ewa Sonnenberg invece si rivolge così ai lettori della sua antologia: «Dedico questo mio ventennale lavoro letterario a quelli che mi hanno amato e grazie ai quali questo libro è nato. Alcuni sono stati come l’alba, altri come il tramonto; grazie a loro ho creduto in me stessa e nella forza della mia poesia. Ma verrà il momento in cui il sole tramonterà per sempre, e allora resteranno le poesie qui inserite e il nome sulla copertina…Forse è la mia ultima raccolta di poesie. Su ognuna di esse potrei scrivere un racconto: come è nata, perché, in quali circostanze. Tutte hanno infatti una propria storia, unica e irripetibile. Essa si lega alle persone che un tempo ho amato e agli incontri che possono verificarsi una volta nel corso di secoli. Ogni poesia contiene un messaggio su come disegnare una mappa della sensibilità e del sapere, come scorgere le cose oltre la portata della vita quotidiana. Paul Klee ha scritto: “L’arte non crea il mondo invisibile, l’arte rende visibile l’invisibile”».

 

 

Poesie di Ewa Sonnenberg tradotte da Paolo Statuti

 

La Gioconda

Al Louvre ha preso alloggio una peccatrice Un ventennale

banale curriculum sfiorato da un sorriso a pagamento

Una sgualdrina dai capelli lunghi e la permanente

con una triste stella nell’oroscopo A gambe larghe

sul proprio destino Nelle bordure dorate di auto

lussuose rispecchia la dissolutezza Il subdolo amore

Le sue labbra hanno attinto lo strano sapore dei baci

In questa stagione non sarà una puttana Cambierà il trucco

e il colore dei capelli Metterà ordine nel modo

di vivere e di pensare Pagherà i debiti

Spedirà qualche lettera arretrata Chiuderà la porta a chiave

Nel modello rinascimentale dell’abito tornerà nel paesaggio

Distante orizzonte dei sogni Come secoli or sono il silenzio

canticchierà l’aria preferita di Leonardo

Le innocenti guance di rosa colorirà la misteriosa

smorfia del Sorriso

 

primavera 1991

 

Il mondo spaccato in due

                                                 Un sorriso! La principessa che sotto la dinastia

                                                          delle rose volle nascere qui!

                                                                                                            Vicente Aleixandre

 

Dunque di me c’era soltanto un po’? la musica e gli alberi

dunque è così il nostro primo stupore

 

Solo tanto per sapere ciò che ho perso e ottenuto?

ciò che è vicino ciò che è lontano?

 

 

I merli splendono tra le foglie

dunque è così questa estranea magia del presentimento?

 

E’ successo così all’improvviso

non ho avuto neanche il tempo di togliermi i guanti

 

Farabutta indossi l’abito di Maria Antonietta

e pantofole di raso con le punte acute come suono di cembalo

 

Se tu non portassi la testa così in alto

potresti notare

 

I frutteti maturi scoprono il décolletté

La fonte fiorisce senza inizio e senza fine

 

Scherzosi giochi sotto le dita

dov’è finito l’ombrello bianco?

 

Qui ci sono soltanto lucertole e rose

così di solito accade tra la terra e il cielo

 

Sii saggia peccato perdere tempo a scrivere

Il fuoco non inizia dopo una virgola ma prima di ogni parola

 

Dio pigro come i passeggi francesi ha dimenticato il tempo

Anche lui diplomaticamente socchiude gli occhi e salva le apparenze

 

Se fosse un ladro ti ruberebbe all’eternità

ma non ha abbastanza fantasia

 

Dunque è questo il trascorrere?

Dunque tanto meglio.

 

 

Perché avere l’eternità che appartiene a tutti

abbiamo la nostra tessuta finemente come merletti

 

c’è qualcosa di più piacevole del viziare la vita?

spezza finalmente un po’ di marzapane

 

Sciocca l’eleganza è l’eleganza

ma la strada per l’amore si dovrebbe scorciare

 

Anche il sangue azzurro è assai caldo

per raffreddarlo basta uno sguardo un po’ più lungo

 

Non dire niente la confessione alla luce del giorno perde il fascino

pensa che qualunque cosa accadrà sarà soltanto qui e ora

 

La musica e i giardini

dunque è così l’altra parte dell’esistenza?

 

Estate 1999

 

Il tram in fiamme

 

                                                    Non mi davo pensiero di alcun equipaggio.

                                                    Quando con i miei bardotti finirono gli strepiti,

                                                    I Fiumi mi lasciarono andare dove volessi.

                                                                                                          Artur Rimbaud

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

la prima e l’ultima parola non appartengono a me

la diafana circolazione sanguigna della luce gira la ruota

il bambino corre dietro il crespigno i cardi gli scorpioni

inerme la pioggia nutrisce le ferite aperte e il verde

 

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

chi a chi porge la mano perché a che scopo a che prezzo

inspirazione espirazione specchio avanzi schegge

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

sporche guerre complotti vendette condanne

ricerca di soci di colpevoli di difensori di amici

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

colpite o venti l’altra guancia belli e minacciosi

l’esilio raggiunge lo zenit mette i sandali solari

perdere è essere primo davanti a tutti

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

unire associare intuire

una volta ancora amo

sia pure chi ha emesso per me la sentenza

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

crudele tu crudele cortigiana

sia pure un solo “ah” era gratis?

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

la realtà come ponte spezzato alzo le mani bene in alto

più in alto delle preghiere gotiche più in alto del cielo

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

la conoscenza ingrassa la pietra prima o poi

qualcuno la solleverà e getterà dalla nostra parte

colpo su colpo difficile essere se stessi al centro dell’attenzione

l’innocenza spensierata va alla strage

 

Non voglio sapere

non voglio supporre niente

dimostrare apprendere scoprire odiare

più agile dell’amore provo a ingannarlo

io tu – tu io sempre uno di noi deve essere imbroglione?

 

Non voglio sapere

non voglio sapere niente

se denominare sarebbe una cosa insopportabile

nella lamentela risonerà la nostalgia del meglio

il pianto è un sommesso battibecco tra verità e falsità

perfino col pensiero lo raccolgo da terra:

 

quando mi lasceranno i facchini della morte?

quando dimenticheranno il mio nome?

quando mi lasceranno gli anonimi cacciatori di pensieri?

Quando i traghettatori di ombre rinunceranno alla mia anima?

 

Non voglio sapere niente

l’aria fiuta il profumo preferito del grido

orribili crudeli belle vanno appaiate: la trattoria del puro dolore

della fame non si può ingannare la luce verso la quale si può andare

                                                                                              sempre andare

l’erba risuscitata non ricorda che è morta molte volte

 

Wrocław, dicembre 2000

 

 

 

 

 

Un giorno di sole nero

 

Tutto ciò che un tempo era evidente ora è soltanto difficile

conciliare ciò che è perso con la mancanza vedere chi è davvero

 

porto in me i vantaggi di un animale morso

parole in discordia tra loro subdoli suggerimenti

 

di tuttii i colori è rimasto solo quello

per il quale bisogna chinarsi e spezzarsi

 

guardare la terra da vicino

come una lamentela stretta ai ginocchi

 

aderisce così teneramente come ferita al corpo

per qualche secondo cessa lo scontro

 

del santo con il drago troppo bene si conoscono

perché uno voglia uccidere l’altro e di nuovo lottano

 

ripetono fino alla noia l’attimo del pericolo

vergognandosi di non poter vivere l’uno senza l’altro

 

ancora una volta invano mille volte lo stesso quadro

fisso su di te come lo sguardo di un cieco

 

e sempre restare

un vecchio non nato

 

 

 

 

 

 

 

Il viaggiatore

 

Se cerchi me è come se tu cercasssi te stessa

Sono più del mondo che riguarda la gente

Ciò che mi è nemico imita l’inafferrabile flusso della materia

Ciò che spiega la mia presenza risulta dalle visioni e forma i nostri gesti

 

A volte è un fiore su una strada nei campi che porta a parole in forma di radice

I tuoi capelli argentati sono come l’infanzia hanno i propri curriculum e

                                                                                                    occhiate furtive

Parlano con l’oro della bocca su ripide cascate di stelle nelle braccia di ogni ora

I minuti e i nostri secondi sono il compimento dell’accesso nella singolarità di

                                                                                                                      ogni uomo

 

A volte sono un fiore come unione di colore e forma in cui è il significato 

                                                                                                            dell’esistere

Sorveglio i piedi quale distanza li separa da ogni passo la lega di corpo e terra

Sfuggo alla definizione con cui sono venuto al mondo per essere parte del

                                                                                                                           sapere          

Tramite me dura l’insegnamento d’un maestro invisibile dallo sguardo occulto

                                                                                                                         

Sono un viaggiatore un soprabito blu sulle spalle di chi cerca se stesso

Sono sempre tra per sorvegliare il tempo in cui il viaggio è un messaggero

Trasmetto l’esistenza della soglia affinché chi cerca trovi il successivo

                                                                                         passaggio nell’oltre

Invio una sfumatura di luce come figura in cui la distanza è avvicinamento

 

A volte sono un fiore contenuto in una chiave dal volto di molti fiori

Le definizioni sono soltanto l’inizio per trasformare l’infanzia nella successiva

                                                                                                                           infanzia

La maturità è umiliazione e rinvio a qualcuno diverso da me

Mi determino tramite un altro uomo e la sua lotta per il diritto di capire la mia

                                                                                                               denominazione

 

Diseredata della vita

Sono un oggetto simbolico indipendente

Qualcuno sa cosa simboleggio?

Qualcuno un giorno pronuncerà il mio nome?

Qualcuno mi guarderà negli occhi?

Son un oggetto non identificato del futuro

Qualcuno ha sentito parlare di me?

Qualcuno mi localizzerà?

Non derivo da niente

Non ho niente

Sono oltre la materia e nella materia

Sono un’onda d’urto di massima potenza dall’esterno

Sono una combinazione di lettere e cifre

Le parole sono la mia propulsione

Le cifre mi penetrano con la luce delle stelle

Lontano e vicino è l’unica stessa opzione di soggiorno

Lo spazio si trasforma in tempo

Il tempo si trasforma in spazio

Sono un oggetto della bellezza

Qualcuno crede ancora nel bello?

Qualcuno crede ancora nel bene?

C’è qualcuno che dirà la verità?

Evito fortuite finzioni della gente

M’immedesimo in ogni loro passo

Volteggio come uccello di fuoco

Nel becco mi rombano le parole

Diseredata della vita

Gettano un’ombra su quelle passate e quelle future

Io sono un oggetto sessuale illusorio

Sono una donna?

Sono un uomo?

Il mio corpo – due torri distrutte che si chiamano

Amore e Libertà

Un tempo vi stavano migliaia di persone

Adesso non c’è nessuno

Il mio corpo è un veicolo in una nube bianca

Sono solitario come questo viaggio da – a

Sono più sessuale o pieno d’amore?

Wrocław, 06.11.2018

 

 

 

(C) by Paolo Statuti