Archivio | aprile, 2012

Kazimierz Wierzynski

14 Apr

Prosatore, saggista e soprattutto uno dei maggiori poeti polacchi del

XX secolo

   Nacque a Drohobycz, nella ex Galizia appartenente all’Austria, il 27 agosto 1894, vale a dire due anni dopo e nella stessa città dove nacque e morì Bruno Schulz, l’autore delle note raccolte di racconti e saggi Le botteghe color cannella e Il sanatorio all’insegna della clessidra.

   Negli anni 1910-1912 fece parte di una organizzazione patriottica clandestina della gioventù ginnasiale polacca e nel 1912 si iscrisse alla facoltà di filosofia dell’Università Jaghellonica di Cracovia. Dal 1913 al 1914 studiò slavistica e letteratura tedesca all’Università di Vienna. Partecipò alla prima guerra mondiale e trascorse due anni e mezzo in un campo di prigionia a Riazań, dove imparò la lingua russa. Il 6 dicembre 1919 a Varsavia si svolse una serata letteraria nel corso della quale venne proclamata la nascita del gruppo poetico Skamander. Oltre a Wierzyński ne entrarono a far parte: Julian Tuwim, Antoni Słonimski, Jarosław Iwaszkiewicz e Jan Lechoń. Egli fu uno dei pilastri di questo gruppo, che esercitò un’influenza determinante su tutta la poesia polacca contemporanea, e che postulava, tra l’altro, la semplificazione del linguaggio poetico: “non vogliamo grandi parole, ma vogliamo una grande poesia; allora ogni parola diventerà grande”.

   Nel 1923 il poeta sposò l’attrice Bronisława Koyałłowicz. Negli anni 1924-1926 i Wierzyński visitarono più volte l’Italia e soprattutto Roma, dove viveva la sorella della moglie del poeta. Nel 1933 si separò dalla moglie e l’anno dopo effettuò un viaggio in Germania, registrando le sue impressioni in una serie di reportage pubblicate sulla Gazeta Polska.

   Nel 1938 entrò a far parte dell’Accademia Polacca della Letteratura, al posto del defunto poeta Bolesław Leśmian. Nel dicembre dello stesso anno sposò Halina Sztompkowa, che gli sarà compagna premurosa e fedele fino alla morte. Nel mese di settembre del 1939 i coniugi Wierzyński lasciarono la Polonia e si stabilirono a Parigi. Nel 1941 si trasferirono negli Stati Uniti, dove restarono fino al 1964. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse visitando assai spesso l’Italia in compagnia della moglie. Morì a Londra il 13 febbraio 1969.

   Nel 1919, l’anno della riconquistata indipendenza della Polonia dopo 123 anni di schiavitù, il venticinquenne poeta debuttò con la raccolta Wiosna i wino (La primavera e il vino). Fu uno stupefacente successo letterario perché portava qualcosa di assolutamente nuovo, dopo gli umori nostalgici e pessimistici della Giovane Polonia: l’elogio estatico della vita e dell’amore per il mondo, un’esplosione di gioia travolgente. Il poeta è il signore del mondo, il suo disarmante candore e il suo fascino gli aprono tutte le porte. A che servono i soldi se il poeta ha le stelle? A che gli serve una casa se ha la tenda del cielo d’estate, e così via. Due anni dopo uscì, come la prima a Varsavia, la raccolta Wróble na dachu (Passeri sul tetto), di tono e contenuto analoghi alla precedente. Della creazione poetica tra le due guerre la più nota è Laur olimpijski (Il lauro olimpico, Varsavia 1927), premiata con la medaglia d’oro al concorso letterario della IX Olimpiade (Amsterdam 1928). Essa fu subito tradotta in varie lingue, tra cui l’italiano.

   Negli anni trenta la raccolta più rappresentativa è Wolność tragiczna (La tragica libertà, Varsavia 1936), pubblicata dopo la morte di Piłsudski. Essa si può definire un tentativo di presentare la Polonia del tempo attraverso il retaggio insurrezionale-indipendentistico e il testamento spirituale di Piłsudski, il quale era considerato da Wierzyński come un’incarnazione dell’eroe romantico. Va sottolineato che il poeta era ideologicamente legato alla corrente politica di Piłsudski, e ciò influì sulle sue scelte durante e dopo la guerra.

   Nel 1946 uscì a New York la raccolta Krzyże i miecze (Le croci e le spade), che si può definire il manifesto del dissenso di Wierzyński per l’ordine europeo seguito agli accordi di Jalta, che avevano sacrificato l’indipendenza della Polonia. Il poeta valuta la fine della seconda guerra mondiale dalla prospettiva della fedeltà agli ideali del ventennio, agli obiettivi dell’Armata Nazionale (Armia Krajowa) e dal punto di vista degli emigrati polacchi. Mette ripetutamente a confronto l’aspirazione polacca alla libertà e il limpido sacrificio del sangue con il gioco degli interessi e l’ipocrisia della politica. Le croci sono le tombe dei caduti, la spada è il simbolo della lotta, ma essa è simile alla croce e insieme creano un altro senso: di fede e speranza, di convinzione che l’eredità spirituale della lotta e il messaggio di libertà non saranno dimenticati. Wierzyński non aveva alcun dubbio su ciò che succedeva e sarebbe successo nel paese. Il suo ritorno in patria era impossibile e la raccolta Le croci e le spade aveva suggellato questa impossibilità.

   Subito dopo la guerra il poeta vive un periodo molto critico. Rifiutando la nuova Polonia si trova di fronte a una difficile scelta. Resta nell’emigrazione ma tace, gli è impossibile scrivere, attraversa una fase di depressione psichica. Fortunatamente nel 1946 l’allora direttore dell’Orchestra di New York, l’americano di origine polacca Artur Rodziński, propose al poeta di scrivere un libro su Federico Chopin. Wierzyński accettò la proposta, lasciò New York e in un ambiente di grande serenità, a contatto con la natura americana riacquistò la forza di scrivere. Il risultato fu il libro Vita e morte di Chopin (New York, 1949), pubblicato per il centenario della morte del grande compositore polacco con una introduzione di Artur Rubinstein, e la raccolta di poesie Korzec maku (Uno staio di papavero, Londra 1951).

   E’ forse la più bella raccolta di Wierzyński, dal tono più sereno, piena di immagini della natura americana e di riflesso anche di quella polacca. Assistiamo a un cambiamento della forma poetica, alla rinuncia della tradizionale rima. La composizione del verso viene avvicinata al ritmo del linguaggio naturale. La poesia diventa più universale. Wierzyński scopre che il nocciolo del linguaggio poetico è la parola e il difficile contatto di essa con la realtà. Le promesse della raccolta Uno staio di papavero furono brillantemente confermate dalla successiva Tkanka ziemi (Il tessuto della terra, Parigi, 1960). Nella poesia La quinta stagione dell’anno l’autore torna alle stagioni della sua creazione:

 

Un uccello mi è volato attraverso, un uccello,

E ha lasciato la porta aperta,

E la sera stessa al crepuscolo

Sono calate in me le stagioni dell’anno

Vive e morte.

La prima giovanile, allegra,

Ancora la sogno, ancora mi chiama

(Ah, vuote risate, assurdità!),

La seconda fervida, ardente,

Con il rosso labbro ancora mi tocca,

La terza autunnale, la quarta invernale

E la quinta: morte ed eternità.

(Versione di Paolo Statuti)

 

   Negli anni ’60, dopo essersi stabilito in Europa per sempre, il poeta girava “inquieto come una rondine” tra Londra, Parigi e Roma. Le questioni del paese lo assorbivano completamente. La nostalgia per la patria aveva un effetto paralizzante, viveva di ciò che avveniva in Polonia e si rendeva conto della propria impotenza di fronte alla costrizione e al male cui soggiacevano i suoi connazionali. Testimonianza letteraria di questa lotta interiore fu la raccolta di poesie Czarny polonez (La polacca nera), pubblicata a Parigi nel 1968. E’ una dura critica della realtà della Polonia Popolare, dove il poeta non era mai stato. Più volte lo avevano invitato, ma non si era mai deciso ad andare, dicendo che “nel suo paese non si va in visita, si torna o non si torna”. Andarci per un po’ di tempo col passaporto americano e gli inevitabili contatti con i funzionari comunisti sarebbe stato per lui una commedia difficile da recitare. Eppure egli era prossimo al ritorno. Soltanto l’aggravarsi della situazione politica polacca verso la fine degli anni ’60 allontanò la sua decisione in modo irrevocabile. La sua ultima poesia la dedicò a Jan Palach e porta la data 25 gennaio 1969, giorno del funerale del giovane a Praga.

   Tymon Terlecki, storico della letteratura polacca e critico teatrale, afferma: “Wierzyński è stato uno dei lirici polacchi più universali, uno dei più grandi che abbia mai avuto la Polonia. La sua creazione si presenta come storia, come ininterrotta sequenza di slanci rigeneranti. C’era in lui una costante tensione spirituale, una capacità di rinascita, di nuove incarnazioni”.

                                                                             Paolo Statuti

 

Altre raccolte di Kazimierz Wierzyński:

Wielka Niedźwiedzica (L’Orsa Maggiore, 1923)

Gorzki urodzaj (L’amaro raccolto, 1933)

Kurhany (Tumuli, 1938)

Siedem podków (Sette ferri di cavallo, 1954)

Kufer na plecach (Il baule sulle spalle, 1964)

Sen mara (Sogno incubo, 1969)

   

Di Kazimierz Wierzyński vi invito ora a leggere dieci poesie nella mia versione:

Il salto con l’asta

Già s’è staccato, già vola come un portento!

Si stende sull’asta come bandiera al vento,

Giunge alla sbarra e con battito repentino

Si slancia in avanti, come uccello e felino.

Fermatelo, che raggeli come una pietra,

Che butti indietro l’asta – inutile faretra,

Che così rimanga da una nube sommerso,

Come una lieve piuma – nell’aria disperso.

Non perderà le forze, né l’impeto in volo,

Oltre ogni limite si alzerà tutto solo,

E come un’eco risponderà soltanto,

Che il suo traguardo è il cielo – ch’è il nostro vanto.

(da: Il lauro olimpico)

 

Elegia

La lupa correva di qui vorace e indoma,

L’acquedotto passava sugli archi di Roma.

Ponti dietro Cesare e legioni fluenti,

Verbena nei campi, nelle arene – serpenti.

Si snodava, bivaccava una folle immane:

Oggi tocco una pietra di ciò che rimane.

Prendete la mia maschera rosa dal vento,

Fissatela a un teatro come ornamento.

Che dall’orbite vuote una lacrima scenda,

Forse la vista riavrò e farà ch’io comprenda.

Forse sussurreranno ancor le labbra immote

Come per Roma perivo in età remote.

(da: Uno staio di papavero)

 

Poesia scritta per consolazione

Torno da New York sfinito,

Rotto, arrabbiato, stordito,

Alla mia tana, ai boschi e alle rocce.

Per quattro ore,

Per la strada intera,

Sogno una cosa soltanto:

Dormire fino a stasera.

E arrivo ma  prender sonno non posso.

 

Chiudo gli occhi e mi sento: nessuno,

In qualche deserto sperduto,

E non so perché mi viene in mente

La città di Stryj

Sull’omonimo fiume.

 

Ho ancora negli orecchi quel frastuono,

Ma già sento in via Verde

Le cornacchie sugli alberi gridare primavera!

D’estate la festa dei ferrovieri a Olszyna

Coi coriandoli negli occhi mi scorre,

E scorrono le vacanze, la neve sui monti è stesa,

E presso il ginnasio batte l’orologio della chiesa,

E penso: eppure qualcuno da lì mi chiama,

Chi è? Il tempo? Mi guardo dietro: sul campanile

Si vede chiaramente che è un quarto all’una,

Le frecce hanno il profilo di Dante,

La taccola nera ondeggia su di esso

E non so perché scrivo tutto questo:

Per consolarmi che in questa misera poesia,

Qualcosa, malgrado tutto, è ancora mia?

 

(da: Uno staio di papavero)

 

La pittura

 

Ecco la mia frutta:

Le verdi mele di Cézanne,

Aspra giovinezza,

Dura gioia,

Forte rugiada

Di sera e di mattina.

 

Ecco il mio mezzogiorno:

Lugubre requiem,

Si sono accesi i girasoli

Sulla testa

Di san Van Gogh.

 

Ecco i miei sogni:

L’arlecchino rosa di Picasso

Pensoso, come Eudimione,

Mentre sull’architrave greco

Pascola le pecore.

 

Ed ecco il mio tutto:

Guardo quei colori e attraverso essi

Sento sussurri musicali,

Come Chopin

Nella galleria di Dresda.

 

(da: Uno staio di papavero)

 

Le donne che tessono

 

Campigli ha dipinto quattro donne,

Quattro tranquille, pensose donne,

Che siedono e tessono,

Tessono e guardano,

Guardano e vedono,

Qualcosa molto lontano

Dietro il quadro, dietro la cornice,

Nel dodicesimo, tredicesimo secolo,

Nei dimenticati, vecchi pittori,

Che sono morti tanto tempo fa e giacciono

Nei cimiteri sgretolati,

Giacciono e guardano,

Guardano e vedono

Qualcosa molto lontano

Nel disperato ventesimo secolo,

Nello studio parigino dell’Italiano,

Dove quattro dipinte donne

Siedono pensose dietro la cornice,

Siedono e tessono,

Tessono e guardano,

Guardano e vedono

Le stesse cose.

 

(da: Sette ferri di cavallo)

 

Cosa faccio?

 

A marzo:

Sollevo nella neve i capolini agli anemoni,

Accelero la primavera e il bel tempo

Perché al più presto fino alle ginocchia

Erompa l’erba incredibile,

Voglio una cosa nuova

E giovane.

 

A giugno:

Frequento gli uccelli,

Perché – non lo so.

Ciò mi calma.

Cammino nei boschi,

Dicono che i galli forcelli

Amano le uova di formica.

 

A ottobre:

Rastrello le foglie nel giardino,

Le porto nella carriola alla forra.

Mi troverai, Laura, di sera

Sotto l’acero stabilito,

Nella selva del buio bar.

 

A dicembre:

Spalo la neve davanti casa,

Perché arriva fino alla finestra

E si ghiaccia su di essa,

Spargo la cenere sul marciapiede

Perché si scivola e i marinai

Tornano dalla città

Ubriachi.

 

Sempre:

Sto in piedi davanti alla finestra.

Guardo il barometro,

Guardo un funerale,

Guardo la gente nella folla,

Guardo di fronte l’orologiaio

Che con la lente all’occhio pulisce il meccanismo,

Guardo e m’impegno come posso,

Guardo attentamente,

Guardo a lungo

Tutto questo,

E non capisco.

 

(da: Il tessuto della terra)

 

Sul ramo

 

Nessuno grida di gioia per essersi svegliato

Soltanto gli uccelli all’alba, gli uccelli dietro la finestra,

Tutti temono ciò che il giorno porterà loro,

Soltanto noi sul ramo no.

 

Nessuno vuole rinunciare a ciò che possiede

E nel folto letto si aggrappa ai resti del sonno,

Tutti vivono come se dovessero vivere in eterno,

Soltanto noi sul ramo no.

 

(Da: Il baule sulle spalle)

 

Il baule

 

                                              A Maria Dąbrowska

 

In soffitta dorme il mio ritorno,

La valigie, il baule con le borchie di ottone,

Tutta la mia patria,

I passaporti, le cittadinanze,

I visti dell’emigrazione.

 

Il baule, la mia grande proprietà,

Che qui devo custodire,

Normale inizio dell’infelicità

E demente fine.

 

Baule di vecchi bambini ranciditi,

Pronti a rimbambirsi e incretinire ancora

E tra cianfrusaglie che non servono a niente

La selvaggia solitudine, l’amarezza della nostalgia,

Il ciarpame più disperato.

 

L’ululo dei cani oltre la mia terra carpatica,

Il singhiozzo che mi vergogno di confessare –

E trasloco dopo trasloco,

Dall’America in Europa,

Dall’Europa in America,

IL baule sulle spalle,

Le scale scese,

La patria.

 

Tale è il bagaglio. Tale il viaggio,

Tale il mio orario:

Tutti i lati del mondo aperti

E l’uscita da nessuno.

 

Tale è la trappola. Né cosa prendere da qui

Né con che giungere alla fine:

Soffitta mia e ritorno,

Perdizione e amore,

Che non so uccidere

Nè custodire.

 

(Da: Il baule sulle spalle)

 

Detto con un sussurro

 

Se fosse possibile entrare come Claudel

Un giorno in Notre Dame

E uscirne come altro uomo.

 

Potrei incontrare là mia madre,

Mi darebbe la mano raggrinzita,

Direbbe con un sussurro:

Capisco, è la più grande intimità,

Capisco, è l’agghiacciante timidezza,

Intuisco la vergogna

E non chiedo del timore.

 

Ma in fin dei conti cosa fai tu di diverso

Da me, che non ci sono più?

Esci dall’uomo, per vederlo meglio,

Un oscuro profilo tracci sull’abisso del tempo,

Vuoi intuire lui e te stesso,

Più oltre vai, tanto meno c’è ritorno.

 

La ragione dell’uomo non gli ha mostrato il bene,

Il genio non ha scelto ciò che dovrebbe scegliere,

Diciamo umanesimo, pensiamo speranza

E nessuno eleverà mai

La perdizione al di sopra della salvezza.

 

Cosa fai tu di diverso da me?

Vuoi essere testimone di idee non spente,

Vuoi essere la guida di un eterno processo,

Lo sconforto riempi di vana invocazione,

Cerchi soccorso e me

Come io cerco te,

Tu che non sai ma sei

Ed io che so ma

Non sono.

 

(Da: Sogno incubo)

 

 

 

Sento il tempo

 

Soltanto di notte sento il tempo,

Chiedo dove mi sospinge

Attraverso tanto mondo, tante città,

Continuamente cambio indirizzi,

Smarrisco appunti e manoscritti,

Non so dove abito

E non so quanto a lungo,

Perché tutto questo frattanto

Tutto nel frattempo,

In questa bastarda parola,

Ma come saggia

E come crudele,

Nel frattempo dall’inizio,

Nel frattempo fino alla fine,

E tanto è della mia parola

E oltre ad essa

Ormai il vero tempo.

 

Lo sento di notte,

Guardo nel buio e vedo

Come passo tra parentesi,

Dalla nascita alla morte,

Ad ogni indirizzo,

In ogni abitazione,

Nell’enorme mondo,

Tra appunti smarriti

E le timorose parole

Della mia interesistenza.

Invano lo interrogo,

Esso non mi sospinge,

Aspetta tranquillamente,

Niente mi dirà

E se sento qualcosa

E’ soltanto nelle orecchie

Un vuoto fruscio.

 

E’ il tempo in cui non posso entrare,

Cui non posso oppormi,

Cui non appartengo

E che è tutto.

 

(Da: Sogno incubo)

 

Mi sveglio di notte…

Mi sveglio di notte, freddo di paura,
Mi sollevo in pallone,
Vedo la mia vita in basso distesa
E sparsa come vuoti campi di stoppia.

Vedo chiaramente di notte, al buio,
Il treno arriva fumante,
La stazione s’illumina, e sulla banchina
Vedo mio padre e mia madre
Defunti.

Vedo al buio le dimore di Varsavia,
Le dimore di Parigi e l’amore,
Tutto è minuto, bianco,irrigidito,
Come chicchi di riso.

Mi sollevo in pallone sui dintorni
Così ben conosciuti,
Sulla propria impronta.
Conto tutto ciò che è trascorso
E ancora trascorre,
Per estinguersi.

Mi sollevo in pallone su me stesso
E vedo il mio buio nella luce.
Il treno fuma nella stazione.
Freddo di paura, svegliato di notte,
Calcolo tutto ciò non calcolato,
Mi alleno a morire.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

Il mio pellegrinaggio a Czestochowa

2 Apr

Un atto di devozione e di gratitudine

 

   E’ il 5 agosto 1988, una mattina d’estate apparentemente come tante altre, ma sostanzialmente molto diversa e che non dimenticherò mai. Dopo la Santa Messa celebrata alle ore 7.00 nella Parrocchia della Natività, nel quartiere “Praga” di Varsavia, ci siamo divisi in sei gruppi. Il primo, contraddistinto dal colore bianco e composto solo di bambini, era seguito dagli altri contrassegnati dai colori: giallo, verde, amaranto, arancione e azzurro. Mia moglie ed io eravamo inseriti nel gruppo arancione. In tutto circa 800 pellegrini di ogni età e professione. Attorno a noi la folla di parenti e amici accorsa per salutare i propri cari. Nei loro occhi la promessa di seguirci con la mente e con lo spirito, e il rammarico di non poter essere con noi nel lungo cammino di 310 chilometri verso il Santuario della Madonna Nera a Częstochowa. Un festoso scampanio accompagna la nostra partenza. Apre il corteo la Croce, affiancata dalla bandiera polacca e da quella del Papa.

   Dopo qualche chilometro ci troviamo già in aperta campagna, a stretto contatto con la natura e con l’animo pronto a intercettare messaggi nuovi e insoliti, che s’incrociano tra la terra e il cielo, che parlano di fede e sacrificio, di amore, penitenza e speranza, di pazienza e gioia. Siamo già mentalmente lontani dalle proprie comodità e abitudini di tutti i giorni e ci sentiamo uniti dalla semplicità, dalla benevolenza, dal desiderio di aiutarci a vicenda, dal sentirci un’unica grande famiglia in Cristo. Durante tutto il pellegrinaggio durato dieci giorni, siamo infatti tutti “fratelli” e “sorelle” e con questo appellativo ci rivolgiamo tra noi.

   L’itinerario, che è sempre lo stesso ogni anno, tocca villaggi prevalentemente agricoli, come ad esempio: Glinki, Warka, Białobrzegi, Fałków e così via, dove veniamo accolti dalla popolazione locale sempre con manifestazioni di autentica spontaneità e di grande affetto. Quante minestre calde ci hanno offerto, quanti secchi di tè, quanta frutta, perfino dolci! E quale ospitalità abbiamo trovato per i pernottamenti! Quante lacrime ho visto affacciarsi negli occhi delle persone in attesa del nostro passaggio! E inoltre: contadini che interrompevano per un attimo il lavoro nei campi e agitavano un braccio, imitati da frotte di bambini.

   Questo filo diretto con gli abitanti delle campagne ci ha seguiti dall’inizio alla fine, a testimonianza di una identità di sentimenti e di una comune partecipazione spirituale a questo meraviglioso evento.

   Col passare dei giorni, la calura non accenna a diminuire, aumenta la stanchezza fisica, i piedi si ricoprono di vesciche, ma la fatica viene ampiamente ripagata da una grande gioia interiore.

   Le preghiere e i canti che si levano in continuazione da ogni gruppo, scandiscono la nostra marcia verso il Santuario. Sentiamo che essi non si dissolvono nel nulla, ma arrivano a destinazione e vengono ascoltati e ci ritornano sotto forma di benedizioni e di forza spirituale.

   Camminiamo attraverso prati, boschi, paesini, lungo strade asfaltate, sentieri polverosi, sempre più vicini alla miracolosa immagine della Madonna Nera. Qualche volta davanti a noi sfreccia un treno e il macchinista aziona il segnale acustico per salutarci. A intervalli di una o due ore ci fermiamo per riposarci e approfittiamo di quelle soste per dare un po’ di sollievo ai piedi e per rifocillarci.

   Ricordo in particolare l’incanto della notte trascorsa in un fienile: il silenzio dei campi rotto dal canto dei grilli, la luce che filtrava attraverso le tavole di legno delle pareti, il pensiero di vivere un’esperienza unica e indimenticabile, la sensazione di sentirmi più vicino a Dio.

   Nella seconda parte del pellegrinaggio a volte ci siamo incrociati con folti gruppi provenienti da altre città polacche, e l’incontro veniva sottolineato da calorosi applausi, sorrisi e scambio di distintivi. Un segno anche questo della fratellanza in Cristo di tutti i pellegrini.

   Poco prima di arrivare a Częstochowa abbiamo fatto sosta in un boschetto chiamato “del perdono”, e lì ci siamo abbracciati chiedendo idealmente    scusa a tutti per le eventuali offese arrecate e per augurarci pace e felicità. E’ stato un gesto di amore sincero e spontaneo e di partecipazione alla gioia comune.

   A 10 chilometri circa da Częstochowa, uscendo da un bosco si vede per la prima volta in lontananza la torre-campanile del Santuario. E’ uno degli istanti più commoventi dell’intero pellegrinaggio. Ci inginocchiamo tutti per ringraziare la Madonna e per salutarla: Ave Maria…

   Finalmente dopo dieci giorni di religiosa e febbrile attesa percorriamo le vie di Częstochowa, accolti entusiasticamente dagli abitanti della città: applausi, sorrisi, fiori, balconi imbandierati ci fanno dimenticare la stanchezza e le vesciche ai piedi. Ormai si pensa solo al momento più bello e più solenne, quando ci troveremo faccia a faccia con la Madonna di Jasna Góra, per coronare il nostro cammino verso Cristo attraverso Lei. Non è facile descrivere ciò che si prova in quell’attimo, è una cosa che bisogna sperimentare di persona. Posso soltanto dire che ho provato una grande serenità, un senso di protezione e una sincera gratitudine. In fondo era questo lo scopo principale della mia partecipazione al pellegrinaggio: esprimere alla Madonna la devozione e la gratitudine per tutto quanto mi ha dato finora nella vita.

   Quanti ricordi rimarranno per sempre impressi nella memoria: la Santa Messa all’aperto concelebrata all’alba da tutti i sacerdoti partecipanti al pellegrinaggio, un bambino di sei anni che cantava al microfono “Maria, Regina della Polonia”, la gioventù polacca così bella, semplice e cordiale, le infermiere sempre pronte a intervenire per alleviare all’occorrenza stanchezza e dolori, in alcuni paesini la suggestiva cerimonia dell’offerta di pane e sale – antica usanza slava simbolo di ospitalità, il suono delle campane che ci accoglieva ovunque ci fosse una chiesa…ma più di tutto e al di sopra di tutto ricorderò quel volto bruno della Madonna, segnato su una guancia, e il suo sguardo dolce e malinconico che sembra costantemente dire: “Dove vai, uomo? Fermati un istante a parlare con me, confida in me…io ti aiuterò e ti consolerò”.

Agosto, 1988                                                    Paolo Statuti

  

  

(C) by Paolo Statuti