Archivio | marzo, 2023

Henryka Wanda Lazowertowna

7 Mar

Henryka Wanda Łazowertówna

   Nacque a Varsavia il 19 giugno 1909. All’Università della stessa città studiò filologia polacca e romanza. Dopo la laurea ottenne una borsa di studio del Ministero delle Confessioni Religiose e dell’Istruzione, grazie alla quale perfezionò la sua istruzione presso la facoltà di filologia francese all’Università “Stendhal” di Grenoble. Fu forse il suo unico viaggio all’estero, un periodo importante per lei, ricco di esperienze e ricordi indimenticabili. Tornata a Varsavia, cominciò a collaborare con le riviste letterarie La strada e Il raccolto.

     Nel 1930 uscì la sua prima raccolta di poesie La stanza chiusa, seguita nel 1934 dalla seconda e ultima raccolta I nomi del mondo. Nel 1938 pubblicò il racconto I nemici, in cui affrontava il tema dell’antisemitismo nella società polacca.

     Malgrado gli scarsi mezzi disponibili, la sua passione era collezionare i libri. Non voleva servirsi delle biblioteche, perché per le novità i tempi di attesa erano piuttosto lunghi, e soprattutto perché preferiva leggere un libro non letto ancora da nessuno, tagliare le pagine, gustare il particolare odore del libro fresco di stampa. Non vi viene in mente una bambina semplice e sensibile che riceve in dono una bambola?

     I conoscenti e gli amici la descrivevano come la personificazione della femminilità: graziosa e amabile, spontanea e gentile. Recandosi a un ricevimento si faceva prestare i gioielli dalla madre, perché diceva: “Non posso mica andare nuda!”

     Fino allo scoppio della guerra abitava con la madre in via Sienna a Varsavia, e quando fu creato il ghetto, la sua casa venne a trovarsi nel piccolo ghetto, dove era concentrata l’intellighenzia e dove le condizioni erano migliori, rispetto al grande ghetto. Nel quartiere chiuso collaborava attivamente con l’organizzazione CENTOS, che si prendeva cura dei bambini ebrei orfani, e con l’Archivio del ghetto, descrivendo i destini della popolazione ebraica destinata allo sterminio. Qui scrisse la sua poesia più famosa – Il piccolo contrabbandiere, tradotta in molte lingue: una struggente testimonianza della vita dei bambini nel ghetto, un documento di grande valore storico. Tre strofe di questa poesia sono incise su tre lapidi affiancate, in polacco, inglese ed ebraico nel cimitero dell’Olocausto a Varsavia.

     Gli amici le proposero di nasconderla nella “parte ariana”, ma rifiutò, spiegando di essere necessaria ai bambini. Nell’estate del 1942 si trovò inclusa nella grande deportazione. Il Mutuo Soccorso Ebraico cercò di escluderla dal trasporto, ma poiché ciò significava separarla dalla madre, rifiutò nuovamente l’aiuto. Si ritiene che siano morte insieme quello stesso anno a Treblinka.

     Henryka Łazowertówna era legata al gruppo di Skamander, il movimento poetico che mi è più caro nella letteratura polacca del XX secolo. Le sue liriche, oltre a rispecchiare il suo mondo interiore, toccano anche la tematica socio-patriottica. È una poesia spontanea, chiara, sincera e musicale che va dritta al cuore dei lettori. In questa sua strofa è racchiuso il suo triste e tragico destino, anche quello di non essere ricordata come merita:

Sono una stanza chiusa

Sono una mosca nell’ambra irrigidita

Tutto ciò che nei miei versi sono io

Svanirà quando cesserà la mia vita.

     La scrittrice Anna Majchrowska, in un articolo dedicato a questa poetessa ha affermato che le sue poesie erano “particolarmente commoventi”. A tale proposito ricordo le parole del grande poeta polacco Władysław Broniewski: “Non so cos’è la poesia, non so perché c’è e a che serve… So che a volte chi legge dei versi piange…”

     Per quanto mi riguarda, devo dire sinceramente che, leggendola e traducendola ho avuto l’impressione di sentirla vicino e di vederla sorridere, come mi sorrideva mia madre, nata nello stesso 1909. L’ho scoperta per caso e devo dire: un caso davvero fortunato!

                                                                                               Paolo Statuti

Poesie di Henryka Łazowertówna tradotte da Paolo Statuti

Ventiquattresima primavera

Torre di Babele di primavera! Garbuglio di lingue di maggio!

Non posso capirti quest’anno!

– Stordita dagli usignoli col loro chiasso

corro col vento sui dorsali dei prati arruffati

e gli sto dietro con affanno…

O acqua accarezzata dal sole – in che lingua sussurri?

Qual è il profumo dei narcisi e delle viole – sempre differente?…

Significa che qualcosa – che tutto – o significa soltanto: è maggio…

O forse non significa niente?!

Primavera, verde primavera, verità impenetrabili,

Chi mi spiegherà il tuo incanto?

Assorta in parole inesplicabili

vado, corro – storpia, muta –

e quando capirò – mi fermerò in pianto…

O parola che non ripeterò, che non sarà ricordata!…

O testa, come ramo secco piegata…

Andrò via – albero che poco verde dava,

voce che nel tuo coro non cantava…

Il piccolo contrabbandiere

Oltre i muri, i fori, tra le guardie,

Oltre i fili, il recinto, di soppiatto,

Affamato, spavaldo, testardo,

Ogni giorno corro come un gatto.

Non importa che tempo faccia,

Con l’afa, la pioggia, la tempesta,

Cento volte io metto a rischio

Questa mia giovane testa.

Sotto il braccio un rozzo sacco,

Sulle spalle l’abito strappato,

Le mie giovani agili gambe

E il cuore sempre spaventato.

Ma tutto bisogna patire,

Tutto bisogna sopportare,

Perché voi abbiate domani

Quanto pane vorrete mangiare.

Oltre i muri, i fori, i mattoni,

Di notte, all’alba, di nuovo

Spavaldo, affamato, scaltro,

Come un’ombra mi muovo.

Se il destino a un tratto

Mi fermerà in questo dramma,

E’ il solito agguato della vita,

Non aspettarmi più, o mamma.

Io non tornerò più da te,

La mia voce non sentirai vicino,

La polvere della strada seppellirà

La sorte spezzata di un bambino.

E soltanto una preghiera,

Una smorfia sul viso rimane:

Chi mamma mia, domani,

Ti porterà un po’ di pane?

Parlare con l’albero

Di gioventù. Di foglie. Che passa. Che appassiscono.

Di pioggia. Di uccelli che partono. Di pianto umano.

Colloqui sinceri, forse anche questo è amicizia –

Ma noi che ne ricaveremo, mio povero ontano?

La veglia

Le dieci. – Nella scatola di cartone della casa mi chiudo

per costruire una difficile notte, che separerà dal giorno finito.

In casa la povertà fruscia con le carte di chi pignora,

La malattia soffoca con l’odore dei farmaci e del letto sgualcito.

Di mattoncini delle ore la notte diventa fragile e diffidente,

per spargersi a un tratto in un viavai di passi alterno –

Intanto – silenzio. Di respiri si gonfia, s’ingrossa la stanza.

L’orologio batte. E stride il pennino sul quaderno.

Vegliamo insieme: l’orologio, io – e tu, che nominare non oso.

L’orologio conta le ore: le undici – le dodici – l’una…E tu emergi

dall’oscurità come i fiori di ciliegio

e col fruscio del vento sottovoce mi detti i versi.

Al tavolo macchiato, al viscido silenzio, al buio ostile

mi togli sulle tue mani di nebbia e di luce lunare…

La città dorme. – L’ombra di un lampione si è rotta in un angolo.

Anche la casa dorme. – E nessuno il nostro arcano può svelare.

A che mi servono il giorno e la notte, se si può in segreto partire

e lasciarti dietro il tuo mondo – la stanza buia e opprimente…

Oppure tornare – e scesa nella profondità più fonda

trovarti di nuovo, come perla in una conchiglia iridescente.

Un quadro nella finestra

Sugli occhi sporge bassa la fronte. Le mani

strettamente intrecciate sulla testa.

Un fiore secco in un vaso. – Ecco

il quadro messo nella finestra.

Si può chiamare: Solitudine,

o più brevemente: Uomo.

La casa

La casa… Sì, e allora? – la casa?… Era sempre così:

inerzia, angustia, semioscurità…

E il mondo era lì – (“mondo” – significava ampiezza e luce).

– C’era il portone e il mondo cominciava al di là.

Era intricato e grande – arduo fotomontaggio di gente, di fatti.

(Ogni passo portava nell’Ignoto – di ritrovare la strada non m’importava…)

E in casa… così come in casa: facce scolorite, vecchie foto,

La tristezza negli angoli come grigia ragnatela si posava.

Qui la vita come umidità trasudava sulla tappezzeria sbiadita,

e là – il mondo era enorme, era una casa piena di colore!

Aveva mille forme e cento nomi sconosciuti –

e il centunesimo – conosciuto – amore.

Amore: melodia, tinta, movimento – volo nella luce e nello spazio!

E poi – un palloncino bucato inerte a terra si poggia…

E poi – girovaghi solitari per le strade, per le piazze vuote,

sciocche lacrime miste a pioggia…

Torno stanca dal primo viaggio infantile

e a parte la tristezza per me – a nessuno porto qualcosa…

Il mondo si è ristretto… (Ma forse sembrava solo grande?)

E si vede soltanto la strada che conduce a casa.

Lo so – lo so: la siepe, al secondo piano una testa grigia sul balcone,

occhi stanchi sul giornale, una mano fa il solitario sulla tovaglia macchiata…

– Questa è la casa che adesso protegge dal mondo,

la casa, da cui sarei anche scappata…

Lo so: qui devo restare, dove ogni giorno piove la quotidianità,

qui devo tacere, qui la pesante fronte tra le mani poserò…

Qui devo aspettare che il mondo mi chiami con un’altra voce,

finché nuovamente – per uno nuovo –  io partirò.

Il sogno

Questo è il sogno: parto sola per un paese straniero –

per una terra ignota da nessuna mappa segnalata.

Sulla stazione il cielo pende come un grande coperchio nero,

la locomotiva urla con la voce di un uomo bastonato,

i ferrovieri hanno facce di carta logorata…

Ho solo una valigia e un rimpianto, che nessuno ha approfondito…

Sono molto calma, e anche molto triste – ciò che non si avverte.

La città nei raggi dietro di me è in frantumi, su di me gira il vapore –

guardo dal finestrino del vagone, come un fantoccio inerte.

Anche tu sei qui (- esclamazione dal rettangolo della banchina -)

coi fiori, i boeri, con gli occhi senza sogno, le mani senza carezza…

Il romantico paltò della solitudine gettato sulle magre spalle,

negli occhi hai una calma dura, sulle labbra una trionfale saggezza.

Non voglio la tua fredda saggezza, benché tu me ne possa dare tanta…

Non la prenderò con me nello scuro spazio dai binari tagliato.

So anche così: niente davanti a noi, tutto alle nostre spalle.

So anche così… Ma taccio, amico rifiutato.

E tu ritorni di notte (- punto impigliato nella geometria delle strade -),

in un uomo nero e argenteo diviso dalle ombre delle case,

torni nel vuoto della stanza come per stringerti all’amante,

per infilare lievi cerchietti di fumo nelle insonni occhiate.

I marciapiedi – coi passi, coi ricordi dell’estate misuri,

o accanito solitario, chiuso in una sfera di vetro e di ghiaccio!

Il mondo respingi da te con il bavero sulle orecchie alzato,

sotto i piedi l’ombra ostinata della giovinezza depressa schiacci.

Finché in una strada un’ombra si ergerà con un lieve sospiro

e lentamente la strada ti sbarrerà:

con un ricordo, con un nome, come una pietra

qualcosa ti colpirà nel petto… E male ti farà.

E tornerai sui tuoi passi solitari

e l’ombra ti condurrà alla tua dimora:

là inciamperai in una sola parola,

– quella che non mi ha detto ancora…

Ti vedo: corri alla stazione pallido e sconvolto,

(nelle strade assopite l’eco schernisce la tua impazienza -)

ma la stazione è chiusa per sempre

e non ci sono più treni in partenza.

Nella piazza vuota, al vento stai come un secco stelo.

Nessuno è con te e nessuno ti sta aiutando –

Ti vedo: sei molto pallido…

Vedo… E mi sveglio gridando,

Ho vagheggiato…

Ho vagheggiato una separazione,

una qualche partenza amara.

Di notte luoghi lontani

sottovoce mi lusingano ignara…

Ho vagheggiato diversità e frescura,

apatia e sonnolenza consolidate –

un qualche giardino deserto,

persiane che tacciono sbarrate…

Viottoli sperduti e intricati,

di steli ingialliti il sussurro,

una pozzanghera semiasciutta

che si sforza di riflettere l’azzurro –

un qualche albero solitario,

che si piega e cigola al vento.

Ho vagheggiato la prima neve

che cade, l’erba e i pensieri coprendo…

Sentieri familiari

E quando entrerò nella benevola oscurità

lungo i diritti e familiari sentieri,

la luna uscirà per salutarmi,

come con noi faceva sempre – anche ieri…

Di sicuro sarà molto sorpresa,

la mia solitudine vedendo,

e perché adesso sono sola,

mi chiederà turbata e con sgomento.

Rotolando sempre più in basso,

chinerà su di me la testa lucente

e io la guarderò negli occhi,

come amica e fedele confidente.

Ah, capirà cosa c’è stato tra noi,

(senza neanche una mia parola)

e verserà lacrime d’argento,

poi triste se ne andrà, anche lei sola…

Il nostro viaggio

Partiamo per un viaggio,

partiamo insieme – stanchi

dei nostri giorni prodighi di ansia,

dei sogni grevi come sacchi di sassi.

Con quattro occhi fissi nel buio,

testa a testa stiamo alla finestra;

il treno ci batte la notte insonne,

una notte e una solitudine doppia.

Arriviamo a una stessa casa:

(l’uno verso l’altro ci spingono i muri…)

Usciamo – due anime afflitte –

e vaghiamo in sentieri familiari.

Sotto la soffice lana rappresa,

sotto la stessa muta neve

cerchiamo – separatamente –

le tracce cancellate di ieri.

Racchiusi in una cerchia di monti,

coperti da un solo cielo come tetto,

non sappiamo chiamare noi stessi,

non sappiamo piangere insieme…

La sera i passi sulla neve ci confonde,

il freddo le dita gelide ci intreccia… –

Sempre insieme e sempre separati

partiamo e torniamo al mondo.

…Ai sogni grevi come sacchi di sassi,

alla nostalgia che non guarirà mai,

torniamo insieme – stanchi,

torniamo insieme – distanti.

Tu sei…

Sei dritto e fiero come canna sui bassi giunchi…

Sei aspro profumo di timo sparso nel prato…

Il tuo nome nei denti scroscia di gioventù e salute…

Sei un ragazzo da Jack London raccontato.

Dell’aria, dell’acqua e del sole sei il più caro alleato,

col tuo corpo bello e forte cielo e terra unisci come ponte…

Ti guardo e tremo: – Forse nella felicità dovrei credere?…

Forse la vita è davvero, come te, semplice, esuberante?…

Non conosci la magia delle parole contorte in trecce di versi…

Non conosci il sapore dei pensieri che mi rubano il sonno…

Il tuo mondo è più largo del mio di un sorriso,

ma più profondo di una lacrima quello di cui io tocco il fondo.

Sei la riva verde dove approdo nelle notti

e che di giorno lascio come scura e rapida onda.

– Non credere alle parvenze! – Non la stessa stella brilla per noi,

Non la stessa sera come argento cala e ci circonda…

Non sarò tra le tue braccia, come tra i rami di un albero fedele –

come selvaggio uccello migratore ti sorvolerò, scorrerò…

Non guardare… la lontananza come sabbia gli occhi mi offusca.

– Sei colui che mi manca – sei colui che io sfuggirò.

(C) by Paolo Statuti