Archivio | febbraio, 2014

Papusza: la poetessa polacca maledetta

26 Feb

Papusza, anni '50

Papusza, anni ’50

Jerzy Ficowski e Papusza nel 1973

Jerzy Ficowski e Papusza nel 1973

 

 

                              „…Non sono una poetessa, sono solo una zingara

                             del bosco, che vive di natura…Sono felice quando                            

                             sento cantare le ruote, quando sento la pioggia

                             che batte sul carro…Questa è la mia musica e a volte 

                             le parole stesse lo diventano…”

                                                                                              (Papusza)

 

      Papusza (Bronisława Wajs) nacque il 17 agosto 1908 o il 10 maggio 1910 a Lublino e morì l’8 febbraio 1987 a Inowrocław a 76 anni. Da bambina apprese a leggere e a scrivere in segreto, sfidando i divieti della tradizione familiare e del clan, aiutata dai ragazzi che frequentavano le scuole e da una commessa ebrea. Cresceva in mezzo alla natura, osservava attentamente gli alberi, i fiori, gli uccelli. Era bellissima. La chiamavano “Papusza”, cioè “bambola”. A sedici anni fu venduta dalla famiglia allo zio Dionizy Wajs, anziano suonatore di arpa, e costretta a sposarlo. I coniugi adottarono un bambino che chiamarono Tarzan, figlio di uno zingaro e di una ragazza gagi (non-Rom).

   Cominciò a scrivere in lingua rom e a cantare ballate, che a volte intitolava semplicemente “canzoni uscite dalla testa di Papusza”: ballate che parlavano della vita sua e del suo popolo, della povertà, della libertà, dell’amore.

   Nel 1949 lo scrittore e poeta Jerzy Ficowski, perseguitato dal regime comunista, si rifugiò nel campo di Zingari dove viveva Papusza. Egli trascorse tra i Rom circa due anni, imparando anche i rudimenti della loro lingua. Il poeta si rese subito conto dello straordinario talento della zingara. Invitò la poetessa a trascrivere i suoi versi e s’impegnò a tradurli in polacco e a farli pubblicare, e infatti alcune poesie apparvero ben presto sulla rivista “Problemy”. Fu l’inizio della notorietà di Papusza, ma anche della ostilità della sua gente nei suoi confronti. Tra l’altro Ficowski sosteneva la politica di sedentarizzazione forzata dei Rom voluta dal regime, e che in pratica cancellava il loro tradizionale modo di vivere, imponendo l’educazione scolastica e lo svolgimento di un lavoro. Due mesi dopo la pubblicazione delle poesie, una delegazione zingara andò a far visita a Papusza, che ora viveva in città, non risparmiandole esplicite minacce. Ben presto fu accusata dagli Zingari di aver tradito i segreti del suo popolo. Nel 1953 uscì lo studio monografico di Ficowski Gli Zingari polacchi e nel 1956 la prima edizione delle poesie di Papusza nella versione dello stesso autore. Queste pubblicazioni inasprirono ancor più l’atteggiamento degli Zingari nei confronti della poetessa, che fu condannata dal Baro Shero, la più grande autorità dei Rom polacchi. Venne dichiarata impura ed espulsa dal clan. Papusza disperata, in un accesso di sconforto e di rabbia, bruciò tutte le sue poesie e non scrisse più nulla. Passò gli ultimi anni in estrema povertà, malata di mente e logorata dal senso di colpa fino alla morte. Finì come una crisalide, cioè, proprio come dice il suo nome, simile a una “pupa”, a una crisalide senza voce.

   Pochi anni prima della morte, in completa solitudine, non sapendo nemmeno dove si trovasse Tarzan, disse: “Aspetto mio figlio. Verrà e mi porterà nel bosco, perché tutta la mia ricchezza è rimasta là. Esso era il mio palazzo per ripararmi dal vento e dalla pioggia…Quando vado nel bosco, là capisco ogni ramo. E quando vedrò attraverso gli alberi il chiarore del lago, capirò anche questo chiarore…”

   Oggi di questa poetessa tradotta in tedesco, inglese, francese, spagnolo, svedese e italiano, sono rimaste soltanto le 26 poesie nella versione polacca di Jerzy Ficowski, e proprio grazie a questo poeta ella continua ad esistere.  Oltre che da quest’ultimo, Papusza fu elogiata da altri illustri poeti polacchi: Julian Tuwim, Julian Przyboś, Wisława Szymborska, Anna Kamieńska, Edward Stachura. Papusza è presente oggi a pieno titolo nella storia della letteratura polacca,  per i suoi meriti artistici e come prima poetessa di etnia zingara di cui sono state pubblicate le opere. Ma per questo ella pagò un prezzo altissimo. Più volte ripeteva: “Sono una stupida, se non avessi imparato a scrivere, sarei stata felice”.

   Jerzy Ficowski – involontaria causa della sua fama e della sua tragedia, nel suo libro I demoni della paura altrui. Ricordi zingareschi (1986), si rivolge così alla poetessa un anno prima che lei morisse: “Cara Sorellina,…so di aver contribuito alla tua notorietà e alla tua disgrazia. La prima in realtà non è per merito mio, la seconda non è in realtà per colpa mia. Ciò malgrado, oggi sento in me il peso della corresponsabilità per tutte le miserie da cui sei stata colpita, benché sappia che esse erano ineluttabili. Perdonami, se puoi”. Forse se non avesse conosciuto Jerzy Ficowski sarebbe morta sconosciuta, ma sana di mente e felice? Chissà – è difficile decifrare il destino dei poeti.                               

                                                                                                         (Paolo Statuti)

 

Alcune poesie di Papusza tradotte da Paolo Statuti  

 

Canto del bosco

Ah, miei boschi!

In tutta la grande terra

non vi cambierei con nulla –

né con l’oro,

né con le pietre preziose,

le pietre preziose che

brillano così belle

e attirano la gente.

 

E le mie cime rocciose

le mie pietre sull’acqua                                    

più care sono dei gioielli

che irradiano la luce.

 

Nel mio bosco di notte

sotto la luna

i fuochi ardono

e irradiano la luce

come pietre preziose,

che adornano le dita alla gente.

 

Ah, miei amati boschi,

che profumate di salute!

Che allevaste i giovani Zingari

come propri boschetti!

 

Il vento agita il cuore come foglia

e non c’è paura di nulla.

I bambini cantano,

sia che abbiano sete o fame,

saltano e ballano, perché

questo il bosco ha insegnato loro.

1952

 

Il bianco inverno è giunto

 

Il bianco inverno è giunto,

la neve, come grande cuscino di muschio,

ha vestito tutti i verdi abeti,

ha piegato i loro rami.

 

Il cavallo sparge la neve coi quattro ferri

e il cuore si china

come i rami d’un piccolo abete.

 

In un cespuglio un gufo accovacciato,

sotto gli abeti gli uccelli –

come tenda li ripara la neve.

Il bosco come un sapiente,

non canta con i venti.

Scintille come stelle di brina

riflesse nelle pupille.

 

Oggi un uccello dorme tra gli sterpi

sotto la neve,

come un tempo il povero Zingarello

che oggi ha trovato una calda casa.

 

Un povero uccello sotto la finestra

intirizzito – chiede un po’ di pane.

Ah, è il mio fratellino del bosco!

Siamo cresciuti insieme nel bosco nero.

Gli darò un po’ di buon pane,

gliene darò a volontà.

 

Vieni qui da me, io verrò da te,

uccello poverino!

Preghiamo entrambi Dio,

che spunti un grande sole,

perché c’è tanta neve come soffice cuscino.

 

Uccello mio, qualcuno ha fatto per te

una calda casetta,

per non gelare sotto il cespuglio,

nelle grandi nevi,

dove non avevi

sogni sereni.

1952

 

Guardo qui, guardo là

 

Guardo qui, guardo là –

tutto ondeggia! Il mondo ride!

Un mare di stelle di notte!

Ciarlano, ammiccano, brillano.

 

Le stelle! Chi le comprende

di notte non vuole prender sonno,

osserva la chiara Via Lattea,

sa che è una via felice,

che chiama verso luoghi buoni.

 

Guardo qui, guardo là –

la luna si lava nelle calde acque,

come giovane Zingarella

nel ruscello del bosco.

Che sta mai succedendo?

Tutto ondeggia.

Il mondo ride.

1951

 

Canzone

 

Tra molti anni,

o forse non molti, prima,

le tue mani il mio canto ritroveranno.

Quando è nato?

Di giorno, o nel sonno?

E ricorderai, e mi penserai –

è stata una favola,

o era tutto vero?

E i miei canti

e tutto il resto

dimenticherai.

1952

 

O bosco, padre mio

 

O bosco, padre mio,

nero padre,

tu mi hai allevato,

tu mi hai lasciato.

Le tue foglie tremano

e io tremo con loro,

tu canti e io canto,

ridi e io rido.

Tu non hai scordato

e io ti ricordo.

Mio Dio, dove andare?

Che fare, dove prendere

favole e canti?

Nel bosco non vado,

il fiume non incontro.

O bosco, padre mio,

nero padre!

1970

 

 

 

(C) by Paolo Statuti