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Jerzy Hordynski

20 Feb

Jerzy Hordyński

Poeta polacco romano di adozione

 

Jerzy Hordynski

   Jacek Moskwa, giornalista della Radio e Televisione Polacca, scrittore, negli anni 1990-2005 corrispondente da Roma e dal Vaticano, il 15.6.1998 scrisse questo comunicato: “Domenica 14.6.1998 è morto a Roma all’età di 79 anni Jerzy Hordyński, poeta e pubblicista, da quasi 35 anni “figlio” di Roma, corrispondente della rivista “Przekrój” di Cracovia.

   Jerzy Witold Maria Hordyński nacque il 19 ottobre 1919 a Jarosław. Debuttò come poeta nel 1937. Studiò diritto, scienze orientali e filologia polacca all’Università Jan Kazimierz di Lwów. Durante l’occupazione militò nell’ Armja Krajowa. Dal 1945 al 1948 prigioniero nell’URSS. Tornato in patria si stabilì a Cracovia, dove terminò gli studi. Nel 1961 lasciò la Polonia e, dopo tre anni trascorsi a Parigi, scelse Roma come sua stabile dimora. In Italia ricevette diversi riconoscimenti e premi, tra i quali: Roma Città Eterna (1971), Gran Premio Italia (1972), Sindaco della Città di Roma (1975) e Le Muse a Firenze (1981).

   Abitava a Borgo Pio, a poche centinaia di metri dalle mura vaticane.

Ogni mattina era possibile incontrarlo nella Sala Stampa del Vaticano. Anche per noi, non numerosi giornalisti polacchi accreditati, Roma da ieri è più povera per la scomparsa di questo nostro amico e maestro”.

Jerzy Hordyński fu un “figlio” di Roma non solo per i Polacchi, che lo conoscevano come autore delle corrispondenze sulla vita culturale della Città Eterna e sulle questioni legate al Vaticano. In Polonia aveva i suoi lettori affezionati. Pubblicò 15 volumi di poesia, tra cui: Ritorno alla luce (1951), Migrazioni (1955), Epitaffio per un gatto (1977) e Spettacolo (1995). L’ultimo suo volume – Il festino – , uscito postumo, è come una sintesi della vita dell’artista e comprende la sua ultima poesia Un giorno il fidanzamento:

Forse ci incontreremo tra mille anni,

forse tra diecimila,

forse soltanto quando non ci sarà più il tempo

e i dardi delle ore si conficcheranno nel cielo vuoto,

dunque non ricordare ciò che è passato,

e non misurare i passi che non ci sono.

Getta l’anello – che voli via in nessun luogo .

   Jerzy Hordyński è sepolto nel cimitero romano di Prima Porta, nel settore riservato ai Polacchi.

   Eravamo amici. Ricordo i nostri incontri sporadici, ma sempre interessanti e ricchi di novità. Ricordo la sua semplice dimora a Borgo Pio: una stanzetta con bagno, ma con uno straordinario terrazzino…Sedevamo lì piacevolmente conversando sotto il sole di Roma una bella mattina di primavera, il “cupolone” era così vicino che ci sovrastava con la sua bellezza e grandiosità…Jerzy mi donò alcune sue raccolte  e da esse ho tratto le poesie che pubblico qui nella mia versione, come modesto omaggio alla sua memoria.

 

Poesie di Jerzy Hordiński tradotte da Paolo Statuti

 

 Sperlonga

Ho rivoltato il paesaggio e subito l’aria

è cresciuta pura e salata. Donne lungo il mare

recavano ceste sulla testa, pesanti d’uva.

Schivavano le meduse morenti sulla riva.

Ho tracciato dei segni sulla sabbia. Il silenzio

nei paesi altrui è la sola lingua degli estranei,

dunque ti ero riconoscente per l’immobilità

dell’istante, in cui le vuote spiagge aspettano la luna

e le piume degli uccelli giacciono sui freddi massi.

La minima parola ci poteva allontanare,

benché fossimo così vicini e forse per questo

ho scelto il cielo estraneo e i frutti degli altri.

 

Dal teatro di Taormina

Splendevano scarne nevi – i candelabri dell’Etna –

il mare si arrampicava verso il cielo deserto,

ed ecco d’un tratto mi trovai oltre le lancette

dell’orologio, che segna l’età di uomini e cose.

Fu un sollievo, perché ancora un istante prima

sul volto le maschere sdentate misuravo,

nelle colonne innestavo i capitelli abbattuti

e udivo nel silenzio come echeggiavano i bravo.

Non c’era in tutto questo né allegrezza né incanto,

ero giunto troppo tardi per ridestare i mondi,

di cui restavano lucertole, fiori e tramonti,

e in terra di una statua mezza ombra soltanto.

 

Tentazione

Vagavo per l’Urbe piena del sogno di ieri,

le finestre mi mandavano risa di stagno

e le fontane inclinavano l’acqua alle mie labbra.

Si stiracchiavano i gatti non mostrando paura.

Il primo raggio schiudeva a mala pena le strade

di nessuno a quell’ora.

L’Urbe così compiutamente bella,

da non poter essere mia,

ogni istante m’incatenava il passo,

cresceva l’invidia e l’ostilità, malgrado l’alba mite.

Tra le case rossicce ero sempre più estraneo.

Girava su di me l’ombra ferrea d’un uccello,

cominciavano a latrare le auto mattiniere,

le campane delle chiese sonavano l’allarme.

Ma la tentazione non scemava affatto

e compresi allora: non c’è nient’altro.

Avevo paura a restare. Del resto chi mi voleva?

Richiamavo indietro i paesaggi cercando riparo.

Correvo incontro alle lontananze d’un tempo.

La speranza respingevo.

Così un condannato affretta il colpo di scure,

posando la testa sul ceppo prima dell’ordine del boia.

 

Il demiurgo

 

Una casa di lunghi viaggi ho costruito,

di continuo appendevo nuove vedute alla finestra,

ho imparato le lingue per meglio tacere

ovvero fingere di non capire.

Ho vagato da solo nel vuoto illimitato,

ogni giorno costruivo il mondo da capo

e alle cose assegnavo il proprio nome,

dunque alfine so che vuol dire felicità.

Le gioie minute non alterano la definizione

nemmeno i governi dei pazzi destano stupore.

 

Amnistia

 

A un demente tutto viene donato,

montagne e fiumi, soli e lune,

colloqui di gatti, salti di pesci.

 

Davanti a un demente tutto si apre,

gli orologi tacciono. Il cielo immoto

accende su di lui lingue ispirate.

 

Sottratto al tempo, agli uomini, alle città,

spezza l’aria, vive dentro gli specchi,

ognuno volentieri gli fa posto.

 

Già visitato, ovvero intoccabile,

non più cosciente, e dunque felice,

posto oltre il limite delle grazie.

 

A un demente tutto viene donato

e scusato nei cantieri delle leggi,

perciò lo accolgono all’insegna del bianco.

 

Raggio inerme, sfuggito al paradiso,

prima che lo mutasse in sabbia e Verbo

in ansia per il suo potere Iddio.

 

 

Ad Anna Romano – pittrice toscana

 

Vivrò, Anna, in una delle tue città,

rinascerò nelle fontane colorate,

nelle albe e nei tramonti abbaglianti.

 

La mia ombra assolata sanzionerà

la sorprendente, improvvisa trasfigurazione.

Tu mi salverai dai cattivi presagi.

 

I colori suppliranno al linguaggio e ai suoni,

spariranno i segni di riconoscimento

e s’aprirà il frutto della felice conoscenza.

 

Nessuno ha presagito i tuoi insoliti sogni,

nessuno sa chi ti ha donato le città,

dove non c’è posto per la sofferenza.

 

Chi entrerà, vorrà restare per sempre

e con te renderà lode al giorno

ad onta della notte mortale e di quella eterna.

 

 

Incontro con Ezra Pound

 

Il vecchio nuota nell’aria,

la cittadina goccia tra i palmi,

sbattono gli uccelli delle ciglia

nel mosaico dorato del duomo.

Mentre sfiora i libri con la penna,

mentre il sorriso pone nell’obiettivo,

nell’intimo si cela più ermetico

d’una chiocciola nel guscio.

Tacendo nuota su di noi,

ormai davvero assente,

libero dalle umane misure.

 

Morale:

Ai poeti bisogna perdonare molto,

ancora più dimenticare.

Vivono nella spietata notte del cuore

e fanno penitenza coi versi.

 

 

Curriculum vitae

 

Nell’anno zero della vita ho depennato il buio,

nel secondo anno di vita ho depennato il silenzio,

nel decimo ho depennato i soldatini di piombo.

Nel quattordicesimo ho scritto i primi versi.

Nel ventesimo se ne andarono la libertà

e tutte le parole scritte sulle bandiere.

Nel ventiseesimo anno di vita

trovai chiusi dinanzi a me il cielo e la terra,

i versi e la gioia,

affetti conosciuti e non conosciuti,

sistemi filosofici, sociali ed etici.

Mi restò per quattro anni soltanto

il disprezzo non trapelato al carceriere.

Nel trentesimo anno ho depennato la speranza,

ho cancellato lunghi viaggi,

il caldo abbraccio delle donne straniere,

la dolcezza dei comodi divani e delle proprie vetture,

la quiete delle biblioteche non sfiorate dalla spia.

Era il tempo spoglio dei cinici profeti.

Taluni si allenavano alla lapidarietà della battuta

con brevi denunce.

Nel trentasettesimo anno di vita

le speranze d’autunno ripresero a rotolare

come lucide castaghe.

Nel trentottesimo anno della mia vita

si riudì dei carri armati la voce inumana.

Poco dopo in un altro punto della Terra

fu saggiata la forza di un’arma moderna.

Il poligono si chiamava isola del Natale.

Ecco l’apice della definizione d’ironia.

Nello stesso trentottesimo anno di vita

scrivo questi versi.

Quante nozioni e chimere depennerò ancora,

prima che l’ultimo sorso di aria

mi sarà tolto di bocca dal tempo –

giullare con la berretta di sanculotto?

 

 

(C) by Paolo Statuti