Sylvia Plath (1932-1963) e Wacław Iwaniuk (1912-2001)
60 anni fa, l’11 febbraio 1963, un altro bellissimo fiore lasciava per sempre il Giardino della Poesia, unendosi alla folta schiera di poeti uccisi dal proprio genio, o dalla crudeltà del mondo o dal Fato. Il fiore di turno è Sylvia Plath, uccisasi col gas a soli 30 anni.
Spulciando l’antologia poetica polacca in due volumi Da Staff a Wojaczek (1939-1988) ho trovato per caso la poesia intitolata Sylvia Plath di Wacław Iwaniuk. Ho voluto tradurla e pubblicarla nel mio blog insieme con la mia traduzione di Ariel – una delle ultime e più note liriche dell’infelice poetessa americana. Ariel è il nome del cavallo di Sylvia. È una poesia profondamente metaforica, scritta per il suo trentesimo compleanno, pochi mesi prima della morte. Si può intendere come l’ultima precipitosa delirante cavalcata verso il suicidio.
Sylvia Plath
Ariel
Ristagno nel buio.
Poi un blu privo di sostanza
Fusione di colline e distanze.
Lionessa di Dio,
Come unità cresciamo,
Perno di talloni e ginocchi! – Il solco
Divide e passa, fratello
Del bruno collo
Arcuato che stringere non posso,
Bacche – occhi di un Nero
Lanciano scuri
Uncini –
Dolci bocconi di sangue nero,
Ombre.
Qualcos’altro
Mi trascina in aria –
Cosce, capelli;
Scaglie dai miei talloni.
Bianca
Godiva, io mi sbuccio –
Morte mani, morti rigori.
Ed ora sono
Spuma al grano, bagliore di mari.
Il pianto del bambino
Si scioglie nel muro
Ed io
Sono la freccia,
La rugiada che vola
Suicida, con unico impeto
Nel rosso
Occhio , la caldaia del mattino.
27 ottobre 1962
Wacław Iwaniuk
Sylvia Plath
La conoscevo – piccola come diamante –
la luce a corona delle sue parole.
Se la paragono a un bambino,
era ancora più piccola e più pura –
se a un angelo,
vedeva tutto in modo nitido.
Nella sua fantasia il mondo si contraeva,
s’illuminava. I suoi occhi chiari
si mutavano in due candele accese
e spente al tempo stesso –
due ditali di cenere.
È entrata nella gola della terra
come rosa infiammata.
Era la voce che annuncia una battaglia.
Col bocchino di corno dorato alle labbra,
recitava la Madonna nell’omicidio universale –
volando in cielo.
La vedevo a Chicago,
come si guarda a un mattino di giugno.
Un convento della città
insinuava sulla sua fronte giovani catene di timori.
Care Amiche e Amici di FB, oggi ho trovato per caso una poesia del russo Andrej Usachóv, scrittore per l’infanzia, poeta e drammaturgo. I suoi libri sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, olandese, cinese, coreano, ebraico, vietnamita, tailandese, moldavo, polacco, serbo-croato e ucraino. Ho riletto tutte queste lingue, temendo che mi fosse sfuggito l’italiano. Purtroppo no, l’italiano ancora non c’è. Aspetto fiducioso che un degno traduttore letterario dal russo suggerisca con successo questo autore agli editori nostrani. Io da parte mia ho rinunciato da un pezzo a rovinarmi il fegato con loro. La poesia è intitolata “La lumaca” e mi sembra particolarmente adatta per riflettere sulle attuali vicissitudini e prendere esempio dalla simpatica e saggia lumaca.
(Ho tradotto questo capolavoro della poesia polacca per bambini abbastanza liberamente e piuttosto come una “variazione sul tema” o, se preferite, come “trascrizione”. Come ogni traduzione poetica, essa è frutto di un compromesso tra la fedeltà e la libertà del traduttore, inevitabile specie quando si devono rispettare ritmo e rime del testo originale).
Ho incontrato Nina Kossman (in Russian Kosman) in Facebook, grazie a un “Mi piace” da lei messo a un mio testo. Incuriosito, ho voluto sapere chi fosse e ho scoperto un “mondo nuovo”, un talento multiforme con una straordinaria creatività. Scrive poesie romanzi, racconti, drammi, dipinge e scolpisce, traduce poesie russe in inglese. E’ nata a Mosca. Durante la guerra molti membri della famiglia del padre morirono nell’Olocausto a Riga (Lettonia), mentre molti famigliari della madre morirono nell’Olocausto in Ucraina, dove allora vivevano. Nel 1972 con la famiglia emigrò dall’Unione Sovietica. Dopo un anno trascorso tra Israele e Roma, si stabilì prima a Cleveland e poi a New York, dove tuttora vive.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie in russo e in inglese, due raccolte di racconti e un romanzo in inglese. I suoi quadri sono stati esposti in Canada e in America. La sua prima raccolta di poesie fu stampata dalla casa editrice “Belle Lettere” nel 1990. Racconti e poesie in inglese sono apparsi in riviste americane e canadesi. La sua prosa e i suoi versi sono stati tradotti dall’inglese in francese, spagnolo, giapponese, olandese, persiano, greco, ebraico, cinese, e adesso pubblicate per la prima volta le mie in italiano. Il suo romanzo di successo La regina degli ebrei (2019) è uscito prima in Inghilterra e successivamente anche in russo. Nel 1995 ha ricevuto il premio del Pen Club inglese e dell’Unesco per la prosa in inglese, e una donazione dalla National Endowment of Arts per la sua traduzione delle poesie di Marina Cvetaeva. Riguardo ad essa il noto poeta e scrittore V.S. Mervin (1927-2019) ha scritto: «Sono versioni chiare, forti, udibili, sento in esse la voce di Cvetaeva in misura maggiore e in un tono nuovo che svela nei suoi versi qualcosa che prima avevo appena intuito».
Nina Kossman è dunque bilingue e a tale proposito dice: «L’ inglese è la lingua che dovevo usare nel mondo esterno – a scuola, in città, ecc., mentre la mia poesia scritta in russo è emersa dal mio mondo interiore, tutto mio».
Il critico letterario Pjotr Tartakovskij (1926-2015) in un suo articolo sulla poesia di Nina Kossman scrive: «La parola di questa poetessa è duttile, pungente e soprattutto attuale ed eterna, non perché ambisca a una qualche immortalità, ma perché sceglie per la personificazione artistica non ciò che è temporaneo, ma ciò che è eterno, trasmessoci dalla Natura e dal Tempo».
Il poeta, critico e giornalista Daniil Čkonja nella sua prefazione alle poesie di Nina Kossman, pubblicate nella più importante rivista di poesia russa La Lira dell’emigrazione afferma: «Le poesie di Nina Kossman abbinano i miti dell’antica Grecia alla sensualità contemporanea…Questa poetessa intreccia abilmente strati storico-culturali con gli avvenimenti del nostro tempo, creando un suo proprio quadro della vita nella sua continuità e unità».
Ed ecco infine il commento del mio amico poeta e slavista Antonio Sagredo, al quale ho fatto leggere le poesie di Nina Kossman da me tradotte: « Ciò che più colpisce in questa poetessa è la forte personalità che possiede e che dimostra come ha ingerito al massimo grado la lezione e la vita della poetessa russa Marina Cvetaeva, della quale è stata fine traduttrice di tanti suoi versi. Questa sua personalità mi richiama un’altra grandissima figura femminile: Anna Politkoskaja (uccisa sotto casa dagli uomini del Cremlino) che fu pure lei affascinata dalla Cvetaeva tanto da scriverne la sua tesi di laurea; questa grande giornalista soltanto lei poté affrontare con coraggio il potere, come ai suoi tempi spietati la poetessa.
Donne dunque di carattere inflessibile, e questi versi della Kossman – così attuali in questi nostri tempi odierni – ne testimoniano il piglio irremovibile di fronte ad eventi tragici che si ripetono crudelmente, tanto da marchiarli ancora di più:
Sono nata nel paese
Dei morti a milioni,
Nel silenzio soffocante
Di guardinghe passioni,
Dove il cielo di notte
Era detto assolato,
Coi teschi così a lungo
Sotto il suolo ghiacciato.
Non verranno sepolti,
I nomi scorderanno;
I nomi degli uccisi
La lapidi non sapranno,
Delle anime riconosciute
Per il sangue loro:
Io sono della stessa valle,
Ma non dello stesso coro.
E’ certo che ci vuole grande talento a tradurre la Cvetaeva!, e la Kossman lo ha di certo perché le stato riconosciuto in primis dal celebre critico americano Harold Bloom e dal poeta W.S. Merwin, e da tanti altri notevoli critici e poeti di varia estrazione culturale.
Dalla foto della Kossman noi miriamo il suo bel viso che tradisce un carattere determinato e pochissimo incline a giudizi lusinghieri e confortanti. Il suo verso è chiaro in forma e contenuto e di questo dobbiamo ringraziare la bravura del traduttore Paolo Statuti; questo verso non lascia al critico di dubitare affatto della sua missione, poiché è diretto e non ha tempo per fronzoli e ricami che possano rigenerare una speranza nuova e diversa:
Non più immune dagli eventi della sua anima,
egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.
Nina Kossman ha scritto tanto e la sua bibliografia giustifica il suo impegno là dove la poesia, la sua anche, ha diritto di abbarbicarsi su qualsiasi cosa che richieda un supporto, un aiuto, un richiamo all’umanesimo. Poesia dunque combattiva per la verità che svela i crimini impuniti, come appunto quella della poetessa Cvetaeva, e come i reportages coraggiosi – io scrivo quello che vedo! – della Politkovskaja.
E allora di nuovo i miei ringraziamenti, che mai finiscono, a Paolo Statuti vera talpa che scova la poesia dei poeti di ogni latitudine… un lavoro di scavo prezioso con cui le generazioni che verranno dovranno confrontarsi.
Ma ecco la poesia della Nina:
Eccola, vedi, scorre, l’acqua viva del torrente, l’acqua viva delle fiabe, per tutti e per niente».
Poesie di Nina Kossman tradotte da Paolo Statuti
Babi Yar
La madre diceva tua sorella mi fa impazzire,
Ma dov’è, oggi andiamo tutti a morire.
I fritzi* bussano alla porta, dobbiamo uscire.
Presto, svelto, perché quei libri, che te ne fai,
Là dove andremo a stare non li userai mai.
Sei sempre l’ultimo, figlio mio, continuava a dire.
Ecco, sono pronti, ma ora lui vuole dormire!
Dormirai là dove ci porta la nostra stella.
Lascia i libri e cerca piuttosto tua sorella.
Sei uno sciocco, davvero, ma quale stazione?
Ora c’è anche la sorella e vanno in processione.
Chi guidava la colonna loro al macello
Aveva nipoti e pronipoti e prendeva la pensione,
I nipoti hanno un animo gentile, non serve
Traumatizzarli parlando loro di un certo bosco,
Dicendo che nel mondo non c’è molto posto,
Che è una radura, e nessuno è risuscitato;
Ma che il nonno alla loro madre ha mirato,
Che il giovane era mezzo addormentato,
E cadendo sulla madre gli è sfuggito il sacchetto,
Tra i libri sparsi sul corpo c’era anche un gessetto…
Taci, al nipote non serve il tuo boschetto.
*Soprannome peggiorativo per i tedeschi (N.d.T.)
* * *
Vedi come il nero stormo
di uccelli caduti senza chiasso
guarda, ingoiando l’aria,
l’aria che fissa in basso;
e la loro mente, diventata ali
e il loro sogno sorpreso
della volta celeste, perfidamente segata
fino all’azzurro stesso –
dal nero stormo, senza un grido,
nelle mute lame dell’erba:
della ferrosa terra centocchi
e del vedente cielo sono una lega.
* * *
Vedi come il sole nasconde
abilmente con le mani d’oro
il ricordo degli avi bruni
in lunghi vasi pagani;
sottili mani del sole,
agili gialle dita –
perché non si sappia nulla
dei visi sereni degli Etruschi,
delle lievi etrusche ceneri,
e del secolare specchio tra noi e la morte.
* * *
Sono nata nel paese
Dei morti a milioni,
Nel silenzio soffocante
Di guardinghe passioni,
Dove il cielo di notte
Era detto assolato,
Coi teschi così a lungo
Sotto il suolo ghiacciato.
Non verranno sepolti,
I nomi scorderanno;
I nomi degli uccisi
La lapidi non sapranno,
Delle anime riconosciute
Per il sangue loro:
Io sono della stessa valle,
Ma non dello stesso coro.
Là dove mamma piangeva
Per l’uccisione del padre,
Dio di Abramo –
Ozem nell’ade.
Nuovi paesi e l’amore
Io non trovo,
Se sotto la neve i resti
Giacciono di nuovo.
* * *
Eccola, vedi, scorre, l’acqua viva del torrente, l’acqua viva delle fiabe, per tutti e per niente. Nessuno vestirà d’oro, nessuno dall’insonnia salverà, l’acqua viva delle fiabe, limpida e lenta sarà.
Vedi come dolcemente scorre, si aggrappa alle mie fredde mani, l’acqua viva delle fiabe – via da me!* Cura prima i tuoi mali.
*L’espressione russa “Czur menjà”, da me tradotta “Via da me”, è usata per scongiurare una minaccia, un pericolo da parte di uno spirito maligno derivato dalla mitologia slava.
* * * Vedi come i gabbiani assonnati, lentamente sonnolenti si aggirano, muovono le ali sulla rossa argilla presso il lago, l’argilla con cui i greci plasmavano stretti vasi con un accenno alla vita degli dei (custodi del segreto della morte, rivelatisi soggetti ad essa) – gli dei di argilla rossa presso il lago degli uccelli assonnati.
* * *
Se la morte non c’è,
allora puoi campare,
con una parola puoi la terra evocare,
con ogni parola la vita prolungare,
con ogni lettera gli uccelli invitare
a un convito di briciole di pensiero,
di scorza di sogno; il loro chiasso mattiniero
è un segno che la vita non è un inganno,
lascia che muovano la coda come fanno,
lascia che sia un indizio
che la morte non ha né fine né inizio.
* * *
Non più immune dagli eventi della sua anima,
egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.
Egli ora percepiva in esso non un ruggente nulla,
ma gli anelli e le crespe lasciate nell’aria
da un suono, un gesto, un commosso addio.
Pronto per l’età adulta, il mondo farà germogliare
viticci e petali in luogo di un sospiro
inudito dalle forze avvolte nelle nubi
o sotto il primevo suolo dove dormono gli amanti.
O scintillio di una vita faccia a faccia con un miracolo!
L’apparenza respinta per amore dei sentimenti!
Spruzzato di felicità come di dolce acqua,
egli si gettò a capofitto nel ridente grembo di lei
il cui viso egli poteva uguagliare al nulla,
la cui mano – ah, la più vera mano umana!
Pronto ad ammirare la purezza nella stagionale lite
di lei col vuoto, egli – come tutti i candidi amanti,
vedeva anziché il viso di lei, il suo proprio capriccio.
Quando il seme del miracolo generò lo stelo del dubbio,
Poeta, saggista e traduttore polacco, nato a Kiev il 13 dicembre 1907. Terminò il ginnasio “Jan Zamojski” a Varsavia. Studiò Diritto all’Università di Vilno. Con Teodor Bujnicki e Czesław Miłosz fu uno dei principali membri del gruppo Żagary, creato a Vilnonel 1931, e la cui nota fondamentale fu il catastrofismo. L’arrivo del nemico, pubblicato nel 1934, è un poema che mozza il fiato. Il poeta descrive una cupa visione apocalittica di sterminio. Potenti eserciti giungono dal Caucaso, nelle smisurate steppe asiatiche turbinano masse umane, nasce l’uomo mostro, l’Anticristo, che si cimenta con Dio. Negli anni ’50 l’autore dirà: “Era un’opera con una trama abbastanza confusa, nella poetica del surrealismo. Cercavo nella poesia anche i modi di uscire dalla disperazione. I miei versi successivi, durante e dopo la guerra, delineano già l’uomo in lotta con le disgrazie, col destino.
Dopo la guerra fu addetto culturale presso l’Ambasciata polacca a Parigi. Dal 1957 visse stabilmente a Varsavia. Il 31 gennaio 1976 firmò il cosiddetto Memorial 101, che fu la prima decisa presa di posizione degli intellettuali polacchi contro il governo comunista. I firmatari protestavano per le modifiche apportate alla costituzione, che sancivano il ruolo guida del partito e l’alleanza duratura e inviolabile con l’URSS.
Nel 1979 sia lui che la moglie Marina, traduttrice, ricevettero la medaglia “Giusti tra le Nazioni”, data a coloro che contribuirono a salvare gli ebrei negli anni dello sterminio nazista.
Żaneta Nalewajk nellapostfazione alla raccolta di poesie di Zagórski Versi scelti, da lei curata, scrive: “La sua poesia è altamente ricettiva, influiscono infatti su di essa molte tradizioni: biblica e antica, romantica e simbolista, nonché estetiche contemporanee al poeta: surrealismo tra le due guerre, nonché linguismo nella prima metà degli anni ’70 del XX secolo”.
Il suo lirismo ha avuto una peculiare evoluzione. Dal catastrofismo passò alla poesia classicheggiante, rinnovò generi dimenticati, tra l’altro il poema descrittivo e digressivo e il genere grottesco.
Di Jerzy Zagórski lo storico, critico letterario e saggista Kazimierz Wyka scrive:
“Elementi narrativi si intrecciano nella lirica di Zagórski con la riflessione poetica sull’uomo contemporaneo di fronte alla mutevolezza e durabilità della natura, della storia e della cultura, e il punto di partenza di queste riflessioni sono, oltre agli eventi personali e ai fatti della vita quotidiana, anche motivi storici, fiabeschi e leggendari della cultura nativa e straniera, principalmente mediterranea e del Mar Nero (Crimea e Georgia)”.
Dopo la guerra, nelle sue dichiarazioni rilasciate alla Radio Polacca, dedicò ampio spazio alla sua nuova poetica. Dichiarò tra l’altro: “Sono un patito del contenuto, considero la forma come strumento di espressione. Non voglio essere schiavo della strofa e, se il tema lo richiede, mi discosto dal regolare andamento del verso. Inoltre la radio ci ha ricordato che la poesia è un’arte per le persone che reagiscono al suono, per questo nel verso sono così importanti i mezzi di espressione sonori”,
Jerzy Zagórski, oltre a 19 raccolte poetiche, scrisse anche drammi, saggi e reportage, e tradusse opere letterarie dal russo, georgiano e francese.
Morì a Varsavia il 5 agosto 1984
Poesie di Jerzy Zagórski tradotte da Paolo Statuti
Invocazione
Dai tessuti dorati del giorno
dalle fibre stellate della notte
ho coltivato un frutto.
È sul mio palmo
caldo al tatto
vermiglio dal sangue
aspro dal pianto.
Solo accostare le labbra
e consumare
fino a mordere coi denti
il nero nòcciolo della solitudine.
1933
Motivo
Una sera argenteoazzurra non è una sera, ma un trapezio di cielo
cala sugli occhi col crepuscolo, quando si arrampica in alto:
com’è facile rivangare nella memoria,
ma com’è difficile forgiare una statua o una tempesta minacciosa.
1933
* * *
Abiterai una casa di legno e ci starai bene.
Una scatola di travi di pino. Di nodi tramata.
La foresta lambirà la veranda, alla tua portata.
Abiterai una casa di legno e ci starai bene.
Come fumo fluisce all’alba la nebbia dal prato.
Il mondo è una piana negli occhi di vetro offuscato.
Di giorno l’iride sul bosco. Non ti verrà vicino,
se ne andrà oltre il sipario degli alberi di pino.
Da tutto ciò ch’è più prossimo e che si può abbracciare,
è nata l’idea di patria, e poiché ci sono cose
più distanti, sono nate altre idee più tristi e preziose,
che quanto è più buio tra noi, tanto più sembrano brillare.
Nebbia. Fumi. Nuvole. O notte, quando serena appari,
forse allora ci sorvola la densità delle galassie,
affinché guardando, e credendo a quelle limpide masse,
della tua profondità si resti sempre ignari?
Quel che di giorno è un prato, di notte un nero abisso diventa,
sul quale non sai cosa splenda: deserto, sogno o tormenta.
Dagli alberi cresce il fruscìo dei pipistrelli, e tra la gente
c’è l’amore oscuro – e dal timore proprio lui difende.
Amore rapace e tenero. Invano per nome lo chiami,
invano in forma di bulbi e d’animali lo scolpirai,
perché lui ci lega a sé, ma lo spirito non s’unirà mai,
benché spirito e amore siano sparsi nel fumo e negli astri lontani.
1937
O acqua!
– O acqua, acqua azzurra,
Chi vedevi in quelle ore?
– Vedevo giovani che morivano
E delle madri il dolore.
– Ricordo tre bianche betulle,
Ho veduti
Cimiteri devastati,
Boschi abbattuti,
– La terra delle tigri, degli sciacalli
Dalle bombe scavata,
La gente che passava
Con la faccia celata.
– Il cielo, il soffitto ribollente,
Portoni come ombre,
Come folgore mi gridavano,
Sarà un’ecatombe.
1942
Salmo
(frammento)
Città diletta, città scarnita,
Strade dalla lotta divelte…
Sempre una nuova ferita
L’occhio sulle vostre pietre legge.
Presso piazza Krasiński rabbiosi
I cannoni colpivano il ghetto.
Guizzavano le creste dei fuochi
Da ogni muro, da ogni tetto.
Uomini induriti e spietati
Gelidamente guardano intorno –
I cuori da tempo gelati
E immersi in un buio profondo.
Fluisce degli spari il chiasso
Assieme al fumo da Muranów:
Come grigiastra nebbia in basso,
Come gialla nube lontano.
O sole dei bambini sgozzati
E gettati nel fuoco orrendo,
Sei una macchia di sangue rappreso
Nel fumo bruno dello spavento.
La Madonnina masoviana
Pallida in volto e disperata
Come trepida popolana
Guarda dall’angolo della strada.
Sta lì dietro il vetro della nicchia
Di fronte al bagliore crescente:
Mostra le mani inerme e afflitta –
Non ha più fulmini…non ha più niente.
1943
Poetica
Il mio nome è freschezza. Io, quando tocco con la parola,
È come se tu mettessi in mano l’archetto a un violinista,
E le belle operaie ballassero come regine
Al ritmo di una mia nuova canzone imprevista.
Come la Musa nell’Onegin adattato da Kotlarczyk*
Sorrido, guardo attraverso un giallastro nebbione,
Procedo come i cavalli di notte nel sogno di Alcmena,
Al teatro Marigny di Parigi nell’Anfitrione.
Ma sono anche nella soffice polvere
Che pàtina degli stanchi soldati il cappotto,
Perché non soltanto al manuale di Bach-organista,
Ma anche alle mazze dei minatori l’amore è rivolto.
Sorella di bronzo della moda, figlia della fantasia,
Duratura come pantera nella pietra scolpita,
E tanto volubile come nuvoletta tigrata, quando
A un tratto nell’ombra lunare è sparita.
1951
*Mieczysław Kotlarczyk (1908-1978), regista teatrale, attore, drammaturgo, critico letterario e teatrale polacco, nel 1948 mise in scena un adattamento dell’Oneghin di Pushkin, il cui successo lo salvò dalla repressione comunista.
La poetessa polacca Anna Pogonowska nacque a Łódź il 7 gennaio 1922. Studiò al ginnasio privato “Helena Miklaszewska” della stessa città. Questa è la sua prima poesia datata, scritta quando aveva 22 anni:
La mia gioia e la mia felicità
Sono le mie tragiche lotte con l’eternità
Che mi tenta col suo accento divino –
La mia tristezza e i miei tormenti
Sono i sorrisi della vita cioè i momenti
In cui mi sono rassegnata al mio destino.
gennaio 1944
Durante l’occupazione tedesca lavorò come taglialegna. Nel 1945 si iscrisse alla facoltà di Lingua e Letteratura polacca dell’Università di Łódź. Due anni dopo sposò l’architetto Jerzy Oplustil, che sarà il padre di una figlia e di un figlio, e si trasferì a Cracovia, dove proseguì gli studi all’Università Jaghellonica. Tornata a Łódź, nel 1950 si laureò con una tesi sul poeta Bolesław Leśmian. Nel 1948 uscì la sua prima raccolta di versi Nodi. Negli anni peggiori dello stalinismo e del realismo socialista, cioè dal 1950 al 1955, la poetessa smise di pubblicare e si rifiutò di collaborare con le riviste e con le case editrici propagandistiche, consapevole delle conseguenze materiali negative di tale decisione. In questi anni lavorò come insegnante nelle scuole medie. Dopo il disgelo, la casa editrice Czytelnik pubblicò la raccolta Cerchi.
Grazie a una borsa di studio del Ministero della Cultura, trascorse alcuni mesi a Parigi nel 1957, e 5 anni dopo poté visitare l’Italia. Nel 1963 si trasferì con la famiglia a Varsavia. Negli anni 70 soggiornò in Marocco, dove il marito lavorava a contratto e dove insegnò la lingua polacca presso l’Ambasciata di Polonia a Rabat.
Ha scritto e pubblicato 18 raccolte di poesie e un volume di saggi. Morì a Varsavia il 6 giugno 2005.
Ed ecco tre autorevoli giudizi sulla poesia di Anna Pogonowska:
Il poeta, saggista e critico letterario Bronisław Maj ha scritto: “La sua poesia racchiude in sé un vasto spazio di sensibilità e conoscenza, compreso tra la riflessione derivata da una sensazione istantanea e una diagnosi culturale universalizzante; tra sculture di nuvole e schiuma e un modello artistico permanente; tra sofferenza e paura, gioia ed estasi. È autentica poesia”.
Il poeta e critico Stefan Jurkowski afferma: “Immagini parsimoniose e al tempo stesso erspressive, immaginazione originale, giochi di parole e di significati – ecco i tratti tipici della poesia di Anna Pogonowska. Le sue liriche parlano al lettore con intimo raccoglimento, con la ricerca della verità interiore. Strumento di questa indagine è la poesia stessa. Punto di partenza della riflessione poetica è la ricerca della propria identità”.
Infine la saggista Katarzyna Kuczyńska-Koschany nella postfazione al libro Anna Pogonowska, Poesie (non)dimenticate, da lei curato, dice: “Se dovessi elencare le tematiche più rilevanti e dare una definizione di questa poesia, la chiamerei poesia delle relazioni uomo-fauna, uomo-flora, poesia fiabesca e cosmica, filosofica e religiosa, poesia di cultura in senso lato, di sensiblità artistica, poesia intima e drammatica”.
Poesie di Anna Pogonowska tradotte da Paolo Statuti
Un’altra oscurità
Quest’altra oscurità
che come il fegato
martoriato dall’artiglio di un avvoltoio
sento sotto la mia liscia
mano Quest’altra oscurità
il cui polso batte
come ferita nelle nuvole
portate in fretta
come cicatrice
taglio
nero che salda
Vattene
Non ti perdonerò il battito affrettato del cuore,
Quando squillava – non da te il telefono,
Non ti perdonerò le parole – che mi volevano
Sì – alla leggera.
Se ne andranno Il sole trascina la folla sul marciapiede,
Una larva di strada mi taglia.
Non salvarmi con un sorriso. Il selciato è duro. È duro.
Il vuoto riempirò di pietre.
Prima di andarmene
Gli afflussi di brusio e nebbia allagano i campi –
Me ne vado da qui tra poco nel paese della gente e dei muri –
Frusterò di nuovo le parole perché seguano la corrente del dolore
Lungo il quale salgo nella gioia indifferente come la volontà.
Il moto delle foglie era l’unico moto qui –
L’aumento delle nebbie – come musica –
Consapevolmente – soltanto l’abete cresceva
A parte questo, c’era silenzio.
E i binari tacciono in fretta
E in me – qualcuno chiude gli occhi
Ed ogni istante silenzioso
Colpisce – come tuono – con l’eco.
Dei insettivori
Dalla sabbia i viola del cardo porgono
Fiori pungenti alle lucenti vespe
Il mare col suo moto sperimentato
Si rizza in schiume
Cosa mai contro i moti e le leggi di natura
Possono le nuvole o i poeti
Sul ritmo del cuore e il polso delle acque
Tùrbina uno sciame di dei insettivori
* * *
con gli anni diventa sempre più difficile per me parlarTi
solo la tua mancanza sento sempre fortemente
paura dolore infine stanchezza
diventano in me un’ancora
di fede di speranza e forse anche d’amore
questa mancanza è il mio sostegno
la roccia che ripesco dall’abisso
il suolo su cui rinsaldo i miei piedi
tu taci
e per questo Ti dico
dove ti nascondi?
dove stai?
nel tempio del mio cuore
nel nucleo della mia oscurità
nella speranza della mia disperazione
Tentativo di distinguere la vita dalla morte
Una falena sbatte contro il vetro calamitata
Dalla mia lampada Si strappa il cappotto di chetina
Il vento accoglie le insegne della vita
Spiritus fiat
Indossa l’abito lacerato
Con le ali spezzate sbatte
Contro la mia finestra spenta
Sulla gioia
Là dove stridono i rami strusciandosi
c’è il cancelletto Dietro ad esso una casa malandata
Poetessa, prosatrice e traduttrice polacca, nacque il 22 agosto 1898 a Łódź. Geniale sorella del celebre fratello poeta Julian. Frequentò il ginnasio “Eliza Orzeszkowa a Łódź. Nell’adolescenza leggeva Staff, Tetmajer, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire e scriveva poesie. Come poetessa debuttò nell 1914 sul numero unico Vita a Łódź con le poesie Presso il camino e Felicità con lo pseudonimo Ira Blanka. Per diversi anni fece parte del celebre gruppo Skamander, in cui il fratello era uno dei membri più autorevoli.
Nel 1921 la prestigiosa casa editrice Jakub Mortkowicz pubblicò la prima raccolta di Irena Tuwim 24 poesie, accolta con entusiasmo dalla critica. Si può dire che essa fece la stessa impressione del fratello Julian, quando lui stampò la sua prima raccolta. Nei suoi versi innovativi e originali la poetessa mostra il corpo della donna, le sue vicissitudini, i suoi desideri e il suo dolore. Quando però i Tuwim si trasferirono a Varsavia, la carriera letteraria di Julian prese quota. In vita egli diventò un gigante della cultura polacca, mentre Irena, pur continuando a scrivere poesie, cominciò a dedicarsi piuttosto alla traduzione di importanti e note opere inglesi e russe, e soprattutto della letteratura per l’infanzia e la gioventù.
Il geniale saggista e critico letterario Stefan Napierski, dopo aver letto le 24 poesie, decise che doveva conoscere la poetessa. Per questo si recò appositamente da Varsavia a Łódź. Dopo l’incontro, Irena ricevette un cesto di giacinti con il biglietto: “A Irena Tuwim, ringraziando per la Sua poesia e per le sue labbra”. Tre mesi dopo si sposarono. Il matrimonio tuttavia durò pochissimo, perché il marito si rivelò un omosessuale.
Nell 1926 uscì il volume di poesie Lettere, accolto dalla critica con pareri discordi… Il critico letterario e storico dell’arte Karol Wiktor Zawodziński scrisse: “Alcuni dei migliori versi di questa raccolta hanno una costruzione metrica e strofica, una sintassi e una ritmica, un lessico e una intonazione, una composizione e una tematica che caratterizzano la poesia di Anna Achmatova. Sulla raccolta Amore felice, uscita nel 1930 e paragonata dalla critica alla poesia di Maria Pavlikowska-Jasnorzewska, Kazimiera Iłłakowiczówna e Zuzanna Ginczanka, lo stesso Zawodziński scrisse: “Parla di una amore senza futuro, pieno di presentimenti della fine. Negato alla felicità. Sono amoretti passeggeri e senza speranza (“sono una mendicante di amore, fate la carità”). Avvilimenti, separazioni e solitudine, un continuo vagare senza scopo tra gli alberghi europei, frequenti pensieri di suicidio – sono i motivi ricorrenti nel libro”.
Verso la fine degli anni ’20 conobbe Julian Stawiński, che nel 1935 divenne il suo secondo marito. Purtroppo neanche con lui la poetessa ebbe molta fortuna, perché era alcolizzato. Dal 1937 si impegnò maggiormente nella traduzione di libri per bambini, tra i quali ricordiamo ad esempio le favole dei fratelli Grimm, Mary Poppins della scrittrice Pamela Travers e nel 1938 i due libri dello scrittore inglese Alan Milne Winnie the – pooh e The house of pooh – Corner, tradotti in polacco coi nuovi titoli Kubuš Puchatek e Chatka Puchatka. Proprio questi due libri, rielaborati secondo lo spirito polacco, e che il noto scrittore Stanisław Lem giudicò migliori degli originali, Irena Tuwim entrò a pieno diritto nella storia della letteratura polacca.
Allo scoppio della II guerra mondiale, si trasferì col marito a Parigi e, dopo l’occupazione tedesca della Francia, in Gran Bretagna. Nel 1945 si recarono in Canada, a Toronto. Finita la guerra, trascorsero un preve periodo negli USA e nel 1947 tornarono in Polonia, dove Irena per diversi anni continuò a tradurre. Nel 1956 uscì il volume dei suoi racconti Le stagioni di Łódź e due anni dopo la raccolta Versi scelti, accolta entusiasticamente da Anna Kamieńska come “ritorno della poetessa”. Nella sua recensione del volume scrive tra l’altro: “L’amore nelle poesie di Irena Tuwim è sempre tragico e cupo, mai sereno e idilliaco… Questa donna che grida la sua nostalgia, il suo amore, i suoi timori, è pienamente consapevole del suo stato psicologico, ha cura della sua sensibilità come del volto e delle mani, e non è indifferente alla sorte di ogni femminilità… La sua poesia entra nei segreti delle donne di ogni condizione”.
“Irena nelle sue ultime annotazioni scriveva di non saper vivere senza amore. Quando restò sola, dopo la morte del fratello e del marito, cercava di trovare l’amore tra gli amici. Non ci riusciva e per questo soffriva molto” – scrive Anna Augustyniak, autrice del libro Irena Tuwim. Non sono morta di amore. Julian Tuwim morì il 27 dicembre 1953. Un anno dopo, in un quaderno Irena scriveva: “Non posso leggere i suoi versi, rileggendoli di nuovo provo un dolore indescrivibile. Forse è lo stesso dolore che sentiva lui quando li scrisse… È come se qualcuno restasse improvvisamente invalido e sapesse di restarlo per tutta la vita. Bisogna solo adattarsi a questa invalidità. Non posso immaginare che possa esistere ancora una forma di vita in cui io non sarei infelice. Perché tutto non ha più senso, non ha più luce”. Dopo la morte del fratello, moriva lentamente. Nei restanti anni della sua vita era incredibilmente sola. In una nota del 1976 scrisse: “Sono condannata non a morire, ma a vivere”.
La casa editrice Nasza Księgarnia, da sola, negli anni 1946-1976 pubblicò ben 30 libri di Irena Tuwim.
La poetessa morì a Varsavia il 7 dicembre 1987.
Poesie di Irena Tuwim tradotte da Paolo Statuti
Verso sul verso più importante
Lo so. Questo giorno dovrà arrivare,
Cioè l’indomani del mio funerale.
Ed è per me lo stesso, se ci sarà il sole,
Il cielo grigio, la neve o il temporale.
Come sempre le donne andranno in ufficio,
Il fornaio i suoi panini all’alba infornerà,
Nei caffè soneranno “Sérenade d’amour”,
E ai giornali chi ha perso qualcosa scriverà.
E io so, se per miracolo risuscitassi,
Che dei pensieri nel caotico viavai,
Il primo sarebbe: doveva accadere che, in realtà,
Il verso più importante io non scrivessi mai.
Dialogo con la fantesca
Nessuno notò. Solo la fantesca,
Quando tornai in albergo a tarda ora.
Lavava le scale. Sbirciò. Sapeva.
Si torse le dita: «Signora!»
Sul grembiule asciugò le mani,
Portò la biancheria all’istante,
Stremata, nera Madonna italiana,
Mi preparò il letto ansimante.
Aprì gli occhi – come due mari –
Con voce rotta disse all’improvviso:
«C’era qui una. Pure giovane. Occhi chiari
E a lei, signora, somigliava nel sorriso»
Portò le mani al florido seno:
«Ah, era un sorriso senza amore!
…Dovemmo abbattere la porta… Pensi…
…Al filo del ventilatore…
Dovemmo sotterrare il grazioso corpo,
I capelli di seta, il caro volto… »
– Certo non amava il mondo, se ha potuto… »
«O forse il mondo non l’amava molto?»
** *
Giaccio in fondo all’acqua, in fondo al fiume,
L’acqua su di me scorre come tempo vetroso senza sosta,
Più non ti chiamo, sei di una volta, lontano:
Forse sono morta.
Non sono morta di amore,
Neanche tu sotto il suo peso sei crollato –
Le alghe hanno sciolto su di me i capelli dal dolore.
Il mondo abbiamo eliminato.
Nei secoli dei secoli
Non ci perdonerà Dio Signore.
Confessione
Mi guardò in fondo al cuore, disse: “Cara”,
Mi scostò i capelli con la mano: “Poveretta,
Come hai potuto vivere senza di me,
Tu ultima, unica e mia diletta?”
“Ah, veniva a trovarmi il dolce vespro,
Quando in cielo tutte le stelle aveva steso,
Ogni giorno veniva da me dopo il lavoro,
Restava con me e felice mi ha reso:
Ah, non potevo restare sempre sola,
Troppo a lungo soli siamo rimasti…
Poi l’acquazzone… A volte aspettava all’entrata –
Ci baciavamo sotto gli astri.
Ah, sì ti ho tradito, mio caro… “
“Con chi? parla, in nome del vecchio amore!”
“Ogni notte il disco lunare dormiva con me –
Non lo vedi dal nostro pallore?”
Finalità
Che le parole finalmente si mutino in sorrisi, fontane e fiori –
E non serviranno più altri ristori.
Nei cuori come negli specchi ci guarderemo,
E i cuori come labbra per bere ci porgeremo.
La terra profumerà e ci sarà tanta fresca rugiada,
Quando la magica parola “giardini” sarà pronunciata.
Quando diremo “cervi e viale alberato” –
Sarà cervineo e ombrato.
La parola “frutti” – come succo scorrerà,
E “triste” – uno scialle avvolto in una nuvola sarà.
Nel mondo non ci saranno poeti. Saremo tutti bimbi lieti.
Ci spunteranno le ali. Angeli – poeti.
Ricordo di Viareggio
Palme secche sulla spiaggia. La sabbia con macchie di sole,
La pineta africana, immobile, senz’ombra, spettrale,
Il mare si riversa. Sull’acqua a dismisura azzurra bianche vele
Come brevi sospiri del mare.
La fresca pensioncina in via Buonarroti.
Le tapparelle abbassate fino alle sei. Profumo di caffè e meloni.
Nella salle de lecture sotto la poltrona due gatti striati
Pensavano, mormoravano in italiano le loro gattesche questioni.
Dalla finestra, lontano, la spiaggia. Lucidi corpi abbronzati,
Variopinte bambine come palloncini sulla spiaggia assolata,
A un incrocio delle strade, bianche dalla calura,
L’ultima lettera d’amore nella cassetta è infilata.
La sera l’arietta della notte. La luna di latta che si rinfresca.
Un diverso mare, serico. E come un sonnambulo il molo –
Andava per di là un marinaio. Portava la luna sotto l’ascella.
Diceva che va a Le Havre, a Tolone, a Napoli e non solo.
Il pipistrello
Isterico cieco, per castigo espulso da un bel giardino.
Cade in una verde persiana semiscostata,
Invaghito dei capelli femminili, suicida alato,
Vuole avere un laccio speciale, di seta filata.
Scivola silenzioso, di sbieco, di colpo, basso, da sotto,
Rotea senza rumore, solca l’aria impaurito –
Finché disperato, impazzito, scarno orecchione,
Si appende al solaio come un ombrello sdrucito.
Notte di luglio nel parco
Brillano le stelle prese in una rete blu.
Una azzurra, due verdi e una miriade argentata.
Hanno ragione i cattivi poeti:
La notte è davvero vellutata.
Odora dolce la violacciocca e trasudano i tigli,
Per l’intenso aroma il folle turbine s’è addormentato.
Luglio profuma esageratamente. Ah, questa notte
È come un profumo fuori moda, antiquato.
Troppo bianche le ninfee. Troppo levigato lo stagno.
Dici indicando il cielo: “Ci sarà un temporale tra poco”.
Batte, come palpebra assonnata, un petalo che cade,
Stufa della sua bellezza una sciocca rosa rosso fuoco.
Il sorriso
Mi è rimasto dopo tutto questo
Solo un sorriso,
Un sorriso forse più simile al pianto.
Lo metto sulle labbra, come un vestito di linda lana grigia,
Come il vestito della maestra,
La simpatica signora Sofia.
Pensieri, parole, serate
Su strade occasionali,
Piazze scintillanti di pioggia e di luci,
Svolte inaspettate,
Ore segrete,
Indirizzi dolci e minacciosi,
Giardinetti fruscianti e bagnati,
Verdi, verdi –
Tutto ciò per cui ero viva,
E per cui oggi sono morta,
Si è racchiuso, si è ristretto
In questo piccolo impolverato sorriso di topo.
ù
Madre mia, soltanto te sgomenterebbe questo sorriso.
Estraneo
Adesso tutto è estraneo. Estranea è la casa, il cane, le questioni
Ed estraneo è il giorno dopo la vuota notte che ho passato.
Estraneo quest’anno è maggio. Ed estranea è Varsavia.
E quando all’alba mi sveglio, estraneo è ciò che ho sognato.
Su una barchetta malconcia, su un piccolo guscio ho lasciato la riva.
O terra! Pianeta di altri! Su di te un silenzio canuto.
Nell’acqua impetuosa e nera vado in cerca di qualcosa che è mio –
Buio. Non grido…Perché nessuno senta e venga in mio aiuto.