Archivio | febbraio, 2023

Sylvia Plath (1932-1963) e Waclaw Iwaniuk (1912-2001)

26 Feb

Sylvia Plath (1932-1963) e Wacław Iwaniuk (1912-2001)

     60 anni fa, l’11 febbraio 1963, un altro bellissimo fiore lasciava per sempre il Giardino della Poesia, unendosi alla folta schiera di poeti uccisi dal proprio genio, o dalla crudeltà del mondo o dal Fato. Il fiore di turno è Sylvia Plath, uccisasi col gas a soli 30 anni.

     Spulciando l’antologia poetica polacca in due volumi Da Staff a Wojaczek (1939-1988) ho trovato per caso la poesia intitolata Sylvia Plath di Wacław Iwaniuk. Ho voluto tradurla e pubblicarla nel mio blog insieme con la mia traduzione di Ariel – una delle ultime e più note liriche dell’infelice poetessa americana. Ariel è il nome del cavallo di Sylvia. È una poesia profondamente metaforica, scritta per il suo trentesimo compleanno, pochi mesi prima della morte. Si può intendere come l’ultima precipitosa delirante cavalcata verso il suicidio.

Sylvia Plath

Ariel

Ristagno nel buio.

Poi un blu privo di sostanza

Fusione di colline e distanze.

Lionessa di Dio,

Come unità cresciamo,

Perno di talloni e ginocchi! – Il solco

Divide e passa, fratello

Del bruno collo

Arcuato che stringere non posso,

Bacche – occhi di un Nero

Lanciano scuri

Uncini –

Dolci bocconi di sangue nero,

Ombre.

Qualcos’altro

Mi trascina in aria –

Cosce, capelli;

Scaglie dai miei talloni.

Bianca

Godiva, io mi sbuccio –

Morte mani, morti rigori.

Ed ora sono

Spuma al grano, bagliore di mari.

Il pianto del bambino

Si scioglie nel muro

Ed io

Sono la freccia,

La rugiada che vola

Suicida, con unico impeto

Nel rosso

Occhio , la caldaia del mattino.

27 ottobre 1962

Wacław Iwaniuk

Sylvia Plath

La conoscevo – piccola come diamante –

la luce a corona delle sue parole.

Se la paragono a un bambino,

era ancora più piccola e più pura –

se a un angelo,

vedeva tutto in modo nitido.

Nella sua fantasia il mondo si contraeva,

s’illuminava. I suoi occhi chiari

si mutavano in due candele accese

e spente al tempo stesso –

due ditali di cenere.

È entrata nella gola della terra

come rosa infiammata.

Era la voce che annuncia una battaglia.

Col bocchino di corno dorato alle labbra,

recitava la Madonna nell’omicidio universale –

volando in cielo.

La vedevo a Chicago,

come si guarda a un mattino di giugno.

Un convento della città

insinuava sulla sua fronte giovani catene di timori.

Già allora aveva una saggia avarizia di parole –

la loro dolorosa bellezza,

ossuti marciapiedi,

case sudate nelle strade

e l’onda whitmaniana di una frase ardente.

La conoscevo –

Leggevo di lei.

È morta all’improvvviso –

Il tempo si è accasciato.

E soltanto la Poesia

con un dito sulle labbra

dice sottovoce – si è addormentata.

(C) by Paolo Statuti

Andrej Usachòv: La lumaca

26 Feb

    Care Amiche e Amici di FB, oggi ho trovato per caso una poesia del russo Andrej Usachóv, scrittore per l’infanzia, poeta e drammaturgo. I suoi libri sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, olandese, cinese, coreano, ebraico, vietnamita, tailandese, moldavo, polacco, serbo-croato e ucraino. Ho riletto tutte queste lingue, temendo che mi fosse sfuggito l’italiano. Purtroppo no, l’italiano ancora non c’è. Aspetto fiducioso che un degno traduttore letterario dal russo suggerisca con successo questo autore agli editori nostrani. Io da parte mia ho rinunciato da un pezzo a rovinarmi il fegato con loro. La poesia è intitolata “La lumaca” e mi sembra particolarmente adatta per riflettere sulle attuali vicissitudini e prendere esempio dalla simpatica e saggia lumaca.

Andrej Usachòv: La lumaca

pioveva a catinelle.

in una pozza adagiata

ho visto sorridente

una stupida Lumaca.

– sei tutta infracidita!

ho esclamato con scherno…

e lei a me da dentro:

– sì, questo è all’esterno!

ma dentro è primavera,

il giorno è una meraviglia, –

ha soggiunto ancora

dall’angusta conchiglia.

le dico: – intorno è tutto buio,

prenderai tre raffreddori…

e mi ha risposto: – sciocchezze,

è soltanto di fuori!

dentro è così accogliente:

fioriscono le rose,

le libellule brillano,

trillano gole graziose.

– allora resta pure lì,

se vuoi essere malata! –

e sorridendo ho lasciato

la stupida Lumaca…

da un pezzo non pioveva più,

di nuovo il sole splendeva…

ma dentro di me era scuro,

umido e il freddo pungeva.

(Trad. Paolo Statuti)

poesie polacche per bambini

26 Feb

UN’ANIMA E TRE ALI – IL BLOG DI PAOLO STATUTI

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Tag Archives: La locomotiva tradotta da Paolo Statuti

Poesie polacche per bambini

29FEB

Julian Tuwim (1894-1953)

LA LOCOMOTIVA

(Ho tradotto questo capolavoro della poesia polacca per bambini abbastanza liberamente e piuttosto come una “variazione sul tema” o, se preferite, come “trascrizione”. Come ogni traduzione poetica, essa è frutto di un compromesso tra la fedeltà e la libertà del traduttore, inevitabile specie quando si devono rispettare ritmo e rime del testo originale).

Nella stazione la locomotiva –

Enorme, pesante,

Di olio grondante.

Soffia, ansima e dalla pancia

Il fuoco avvampa:

Bum – che caldo!

Uh – che caldo!

Puff – che caldo!

Uff – che caldo!

Ansima e sbuffa, sbuffa a malapena,

E di carbone la pancia è strapiena.

I vagoni sono già agganciati,

Grandi, pesanti come carri armati

E ognuno è pieno di adulti e bambini,

In uno cavalli, in un altro bovini,

In un terzo siedono solo grassoni,

Siedono e mangiano grassi capponi.

Nel quarto dodici casseforti,

E nel quinto sette pianoforti,

Nel sesto una bombarda blindata!

Sotto ogni ruota una zeppa ferrata!

Nel settimo tavoli tondi e caraffe,

Nel seguente un orso e due giraffe,

Nel nono tanti maiali ingrassati,

Nel decimo casse e bauli borchiati,

I vagoni sono circa quaranta,

Anzi no, forse anche cinquanta.

E se venissero sia pur mille atleti

E mangiasse ognuno sei pasti completi,

E tutti avessero ogni muscolo teso,

Non reggerebbero tutto quel peso!

A un tratto – un fischio!

A un tratto – fiffiì!

Il vapore – bum!

Le ruote – tutum!

Dapprima

lentamente

come una tartaruga

pesantemente

Si è scossa

si è mossa

sulle rotaie

pigramente.

Uno strappo ai vagoni e tira,

E ruota dietro ruota gira,

Accelera e corre, corre più sicura,

Martella, batte ribatte e tambura.

Dove va? Dove va? Sempre diritto!

Sempre sui binari, a capofitto,

Per monti, per campi vola come un dardo,

Per evitare di giungere in ritardo,

A tempo rimbomba e batte to–to-to:

Tac to-to, tac to-to, tac to-to, tac to-to,

Fluida e lieve  vola lontano,

Come se fosse un aeroplano,

Non una macchina così trafelata,

Ma un’inezia, una baggianata.

E dove, e come, perché così incalza?

Perché to-to, to-to in avanti balza?

Corre, martella, avvampa, bum-bum?

Il vapore l’ha mossa con forza puff-puff,

Puff – il vapore dalla caldaia ai pistoni,

E i pistoni come duecento polmoni

Pompano, pompano e il treno avanza,

Tac to-to tac to-to con forza e baldanza,

E le ruote rombano e batton to-to-to:

Tac to-to, tac to-to, tac to-to, tac to-to!…

 (Versione di Paolo Statuti)

RADIO UCCELLI

Pronto, pronto! Qui radio uccelli dal querceto,

Trasmettiamo il programma consueto.

Prego ognuno di sintonizzarsi,

Discuteremo sul da farsi,

Chiariremo questioni nebulose:

Anzitutto – come stanno le cose?

Inoltre – dov’è nascosto

L’eco nel bosco?

Chi può lavarsi per primo

Nella rugiada al mattino?

Come capire all’istante

Chi è un uccello e chi un intrigante?

Nei loro interventi

Pigoleranno, cinguetteranno,

Fischieranno, strideranno

Gli uccelli seguenti:

Usignoli, passeri, cardellini,

Galli, picchi, cuculi, beccaccini,

Civette, corvi, cince, cappellacce,

Papere, upupe, storni, beccacce,

Gufi, tordi, picchi, beccofrusoni,

Capinere, cicogne, mestoloni,

Rigogoli, marzaiole, fringuelli

E tanti tanti altri uccelli.

Per primo l’usignolo

Così cominciò:

“Pronto, o, to to to to!

Tu tu tu tu tu tu tu

Radio, radijo, dijo, ijo, ijo,

Tijo, trijo, tru lu lu lu lu

Pio pio pijo lo lo lo lo lo

Plo plo plo plo pron-to!”

Al che il passero trillò:

“Ma che musica è mai questa?

Ah! Mi viene il mal di testa

Per capirla, oibò oibò!

Cip cip ciiip!

Cip cip ciiip!

Usignolo guastafeste,

Non siam mica al circo equestre!

Guardate! Ha rizzato le piume!

“Basta! – grida a tutto volume!

Cip cip ciiip,

Cip cip ciiip!”

E trilla, soffia, strilla,

Cippia, scrippia, zirla,

E alla fine infuriata

Risonò una chicchiriata:

“Cucurìcu! Cucurìcu!”

Urla il cuculo: “Che sento!

Un momento! Un momento!

Cucu-rìcu? Cucu-rìcu?

Malandrino! Non consento!

Prendi ricu e vola via,

Ma il cucu è cosa mia!”

Cucu! Cucu! – ripeteva,

Al che il picchio: toc toc toc!

Ed il gufo ora a gridare:

Ma chi sei? Hai bevuto? Puoi andare!

E la quaglia: vieni qui! vieni qui!

Hai qualcosa? butta qui! butta qui!

Ad un tratto, ma che strano!

Trilli, strilli – che baccano:

“Dallo a me! Butta qua! Un rametto?

Una piuma? Uno spago? Un insetto?

Vieni qui, dammi la metà!

Faccio il nido, mi servirà!

Ma guarda che tipo! Non te lo do!

Non me lo dai? Vergogna, oibò!

Ma che roba! Dovresti arrossire!”

E tutti gli uccelli ad inveire.

La polizia dei pennuti fece irruzione

E così finì la trasmissione.

(Versione di Paolo Statuti)

 Jan Brzechwa  (1900-1966)

Nelle isole Bermude…

Nelle isole Bermude

Non ci sono tartarughe,

Ma c’è un piccolo pulcino

Che trasporta un vitellino.

Ci son oche stravaganti

Che fan uova di diamanti.

Sulle querce e sugli ontani

Crescon mele e aranci strani.

E c’è anche una balena

Che somiglia a una murena.

E salmoni tanto buoni

Nel sughetto di lamponi.

Ed i topi vanno a scuola

Di chitarra e di mandola.

Le formiche hanno il chimono,

Ma quest’isole ci sono?

Non ci sono!

Non ci sono!

(Traduzione di Paolo Statuti)

Bugiardella

Un momento, un momento,

E’ avvenuto un cambiamento:

Mia cugina Serenella

S’è mutata in pavoncella

E ripete tutto il dì:

“Cipi, cipi, cipicì!”

–  Ma che dici, ma va’ via!

Questa è solo una bugia.

Un momento, un momento,

E’ successo un gran portento:

Da un enorme nuvolone

E’ caduto un acquazzone,

Ma di vino, oh oh oh,

E sapeva di bordeaux.

– Ma che dici, ma va’ via!

Questa è solo una bugia.

Non è tutto , un momento!

E’ successo un grande evento:

Dalla zia ieri mattina

Una stupida gallina

E’ saltata, ah ah ah,

Nella pentola sul gas.

– Ma che dici, ma va’ via!

Questa è pura fantasia.

Un momento, aspettate,

Una papera, pensate!

Che voleva fare il bagno

E’ affogata nello stagno,

Ed i pesci dal dolore

Hanno pianto per tre ore.

– Ma che dici, che bugia!

Questa è pura fantasia.

Lo diremo al tuo papà,

Alla mamma e ben ti sta!

(Traduzione di Paolo Statuti)

La tinca, la rana e il granchio

La tinca, la rana e il granchio rosa

Tanto per fare qualcosa,

Decisero di lasciare lo stagno,

Per cantare sotto il castagno.

Eh, sì, ma come?

La tinca

Cantava per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

La carpa gonfiò allora le branchie:

“Amici ho un’idea brillante,

Tutti insieme, di botto,

Costruiamo un viadotto!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Costruiva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

Il granchio disse allora:

“Non mangia chi non lavora,

Ho un’idea proprio geniale –

Mettiamoci tutti a fare le scale!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Faceva finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

Ed ecco il rospo gridò da un fosso:

“La carestia ci è addosso,

Coraggio, amici cari,

Compriamo alimentari!

E per fare quattrini,

Produciamo calzini!”

Eh, sì, ma come?

La tinca

Produceva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

La tinca alla fine sentenzia:

“C’è di mezzo la nostra esistenza,

Lasciammo lo stagno scioccamente,

Torniamo allo stagno immantinente.”

E andaron, ma – che peccato! –

Lo stagno era stato svuotato!

Allora tutti piansero tanto.

Ma bastava quel pianto

A empirlo tutto quanto?

Tanto più che

La tinca

Piangeva per finta,

La rana

Come una frana,

E il granchio rosa

Alla ritrosa.

L’anatra strampalata

Sul ruscello presso la fermata

Viveva un’anatra strampalata,

Che non nuotava con le compagne

Ma andava a piedi per le campagne.

Una volta andò dal barbiere:

“Per favore, un chilo di pere!”

Lì vicino c’era la farmacia:

“Un litro di latte per mia zia”.

Da lì poi andò dallo speziale

Per spedire un vaglia postale.

Le anatre dicevan disperate:

“Ma che roba, guardate, guardate!”

Faceva le uova sopra il tetto

E sul ciuffo aveva un fiocchetto,

E per indispettire i presenti,

Si pettinava con lo stuzzicadenti.

Sia che il tempo fosse brutto o bello,

Lei si portava sempre l’ombrello.

Mangiando una fettuccia lunga e fina,

Diceva: “che buona fettuccina!”

E quando inghiottì due monete,

Diceva: “ve le ridò, non temete!”

Le anatre si chiedevano in tante:

“Che ne sarà di questa stravagante?”

Ma alla fine arrivò un acquirente,

Che un bell’arrosto già aveva in mente.

E così fece con grande bravura,

In una teglia speciale, con cura,

Ma servendo il pranzo il cuoco esclamò:

“Ma questa è una lepre oibò oibò!”

E con un contorno d’insalata.

Eh sì era proprio strampalata!

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

Afanasij Fet

26 Feb

Afanasij Fet  (1820-1892)

Poesie tradotte da Paolo Statuti

* * *

Come moscerini all’alba,

Di suoni alati un turbinare;

Un dolce amabile sogno

Nel cuore vorrebbe restare.

Ma il fiore dell’ispirazione

È triste tra le spine abituali;

Aspirazioni passate e lontane

Sono come barlumi serali.

Ma il ricordo del passato,

Sgomento nel cuore ancora cova…

Oh, potessi con l’anima esprimermi

Senza dire una sola parola!

*  *  *

Un sussurro, un timido respiro,

I trilli dell’usignolo, l’argento

E il quieto ondeggiare

Di un ruscello sonnolento,

La luce notturna, le ombre notturne,

L’ombra incessante;

Una serie di magici mutamenti

Di un diletto sembiante.

Porpora di rosa in nuvole di fumo,

Barlume di ambra,

E baci, e lacrime

E l’alba, l’alba!..

*  *  *

Che frescura sotto il folto tiglio –

I raggi dell’afa qui non sono entrati,

E a migliaia pendono su di me

E oscillano ventagli profumati.

E là, lontano, brilla l’aria ardente,

Cullandosi, come se appisolata.

Stridente e secca, come narcotico

La voce dei grilli continua immutata.

Dietro i rami le volte azzurre del cielo,

Come leggermente di fumo velate,

E, come sogni della natura che riposa,

Le nubi passano e ripassano a ondate.

Impara da loro – dalla quercia, dalla betulla…

Impara da loro – dalla quercia, dalla betulla.

Inverno. Del maltempo c’è la feccia!

Il loro vano pianto s’è ghiacciato,

S’è incrinata e contratta la corteccia.

La bufera strappa le ultime foglie

E con rabbia infuria sempre più,

E il cuore è stretto dal freddo crudele;

Essi stanno lì in silenzio, taci anche tu!

Ma credi alla primavera. Il suo genio

Giungerà volando per dare vita e calore.

Per giorni di luce e nuove rivelazioni

L’anima dolente esaurirà il suo dolore.

Estate piovosa

Non una nuvoletta all’orizzonte,

Ma annuncia tempesta del gallo il canto,

E nel distante suono di campana

Sembra esserci del cielo il pianto.

Non ondeggiano le spighe nel campo,

Coperte di ammalata erba,

E la terra non crede al sole,

Di piogge ormai così ebbra.

Sotto il tetto umido e aperto

La vita tristemente sfaccendata.

D’una falce con frullana battuta,

In un angolo la lama s’è offuscata.

*  *  *

Di nuovo d’ingannevole fuoco

Trema l’autunnale Diana,

E si accordano gli uccelli

Per fuggire dove il caldo chiama.

E con dolce e severo dolore

Lieto il cuore si lagnerà un po’,

E nella notte s’arrossa la foglia d’acero,

Che amando la vita, vivere non può.  

Primavera nel cortile

Come il petto respira fresco e a dismisura –

Le parole non esprimeranno niente!

Come per burroni, a mezzogiorno,

Chiassoso nella schiuma si agita il torrente!

Nell’etere un canto vibra e si scioglie.

Nelle zolle la segala inverdisce –

E una dolce voce canticchierà:

«Ancora la primavera t’intenerisce!»

Pavel Vasil’ev (1910-1937)

26 Feb

Pavel Vasil’ev (1910-1937)*

L’austero Dante non disdegnava il sonetto…

L’austero Dante non disdegnava il sonetto,

E Petrarca il fuoco dell’amore metteva in esso…?

Anch’io coi sonetti nel mondo vago spesso,

E di notte ho un fortuito fienile come tetto.

Nel fienile c’è l’erbosa estate,

Il roseo ovale della luna mesta.

Le scarpe che ho calzato nel vagabondare

Fanno da cuscino sotto la mia testa.

Ti saluto, mio rifugio ospitale,

Dov’è delle mucche il quieto ruminare,

Dove sento del gallo l’inatteso canto…

Qui sono sistemato come un pascià!

Temo solo, quando l’alba spunterà,

Che il proprietario mi scaccerà imprecando.

1932

Una poesia di Michael Drayton tradotta da Paolo Statuti

26 Feb

Michael Drayton (1563-1631)

Since there’s no help, come let us kiss and part…

    Since there’s no help, come let us kiss and part. 

    Nay, I have done, you get no more of me; 

    And I am glad, yea glad with all my heart, 

    That thus so cleanly I myself can free. 

    Shake hands for ever, cancel all our vows, 

    And when we meet at any time again, 

    Be it not seen in either of our brows 

    That we one jot of former love retain. 

    Now at the last gasp of Love’s latest breath, 

    When, his pulse failing, Passion speechless lies; 

    When Faith is kneeling by his bed of death, 

    And Innocence is closing up his eyes— 

    Now, if thou wouldst, when all have given him over, 

    From death to life thou might’st him yet recover!

Se così dev’essere, baciamoci e lasciamoci…

Se così dev’essere, baciamoci e lasciamoci.

Di me che ti ho dato non avrai più niente;

E sono felice con tutto il mio cuore,

Perché torno libero onestamente.

Stringiamoci la mano, senza più voti,

E se ci incontreremo prima della tomba,

Dell’amore che un tempo tra noi c’è stato

Non rimanga più nulla, nemmeno l’ombra.

Ora che l’Amore esala l’ultimo fiato

E la Passione ormai giace tacendo,

Con la Fede inginocchiata al suo capezzale,

E l’Innocenza che gli occhi sta chiudendo –

Ora, se tu volessi, anche se è una storia finita,

Tu potresti farlo ritornare dalla morte alla vita!

(C) by Paolo Statuti

Nina Kossman

26 Feb

    

Ho incontrato Nina Kossman (in Russian Kosman) in Facebook, grazie a un “Mi piace” da lei messo a un mio testo. Incuriosito, ho voluto sapere chi fosse e ho scoperto un “mondo nuovo”, un talento multiforme con una straordinaria creatività. Scrive poesie romanzi, racconti, drammi, dipinge e scolpisce, traduce poesie russe in inglese. E’ nata a Mosca. Durante la guerra molti membri della famiglia del padre morirono nell’Olocausto a Riga (Lettonia), mentre molti famigliari della madre morirono nell’Olocausto in Ucraina, dove allora vivevano. Nel 1972 con la famiglia emigrò dall’Unione Sovietica. Dopo un anno trascorso tra Israele e Roma, si stabilì prima a Cleveland e poi a New York, dove tuttora vive.

     Ha pubblicato tre raccolte di poesie in russo e in inglese, due raccolte di racconti e un romanzo in inglese. I suoi quadri sono stati esposti in Canada e in America. La sua prima raccolta di poesie fu stampata dalla casa editrice “Belle Lettere” nel 1990. Racconti e poesie in inglese sono apparsi in riviste americane e canadesi. La sua prosa e i suoi versi sono stati tradotti dall’inglese in francese, spagnolo, giapponese, olandese, persiano, greco, ebraico, cinese, e adesso pubblicate per la prima volta le mie in italiano. Il suo romanzo di successo La regina degli ebrei (2019) è uscito prima in Inghilterra e successivamente anche in russo. Nel 1995 ha ricevuto il premio del Pen Club inglese e dell’Unesco per la prosa in inglese, e una donazione dalla National Endowment of Arts per la sua traduzione delle poesie di Marina Cvetaeva. Riguardo ad essa il noto poeta e scrittore V.S. Mervin (1927-2019) ha scritto: «Sono versioni chiare, forti, udibili, sento in esse la voce di Cvetaeva in misura maggiore e in un tono nuovo che svela nei suoi versi qualcosa che prima avevo appena intuito».

     Nina Kossman è dunque bilingue e a tale proposito dice: «L’ inglese è la lingua che dovevo usare nel mondo esterno – a scuola, in città, ecc., mentre la mia poesia scritta in russo è emersa dal mio mondo interiore, tutto mio».

     Il critico letterario Pjotr Tartakovskij (1926-2015) in un suo articolo sulla poesia di Nina Kossman scrive: «La parola di questa poetessa è duttile, pungente e soprattutto attuale ed eterna, non perché ambisca a una qualche immortalità, ma perché sceglie per la personificazione artistica non ciò che è temporaneo, ma ciò che è eterno, trasmessoci dalla Natura e dal Tempo».

     Il poeta, critico e giornalista Daniil Čkonja nella sua prefazione alle poesie di Nina Kossman, pubblicate nella più importante rivista di poesia russa La Lira dell’emigrazione afferma: «Le poesie di Nina Kossman abbinano i miti dell’antica Grecia alla sensualità contemporanea…Questa poetessa intreccia abilmente strati storico-culturali con gli avvenimenti del nostro tempo, creando un suo proprio quadro della vita nella sua continuità e unità».

     Ed ecco infine il commento del mio amico poeta e slavista Antonio Sagredo, al quale ho fatto leggere le poesie di Nina Kossman da me tradotte: « Ciò che più colpisce in questa poetessa è la forte personalità che possiede e che dimostra come ha ingerito al massimo grado la lezione e la vita della poetessa russa  Marina Cvetaeva, della quale è stata fine traduttrice di tanti suoi versi. Questa sua personalità mi richiama un’altra grandissima figura femminile: Anna Politkoskaja (uccisa sotto casa dagli uomini del Cremlino) che fu pure lei affascinata dalla Cvetaeva tanto da scriverne la sua tesi di laurea; questa grande giornalista soltanto lei poté affrontare con coraggio il potere, come ai suoi tempi spietati la poetessa.

   Donne dunque  di carattere inflessibile, e questi versi della Kossman – così attuali in questi nostri tempi odierni – ne testimoniano il piglio irremovibile di fronte ad eventi tragici che si ripetono crudelmente, tanto da marchiarli ancora di più:

Sono nata nel paese

Dei morti a milioni,

Nel silenzio soffocante

Di guardinghe passioni,

Dove il cielo di notte

Era detto assolato,

Coi teschi così a lungo

Sotto il suolo ghiacciato.

Non verranno sepolti,

I nomi scorderanno;

I nomi degli uccisi

La lapidi non sapranno,

Delle anime riconosciute

Per il sangue loro:

Io sono della stessa valle,

Ma non dello stesso coro.

     E’ certo che ci vuole grande talento a tradurre la Cvetaeva!, e la Kossman lo ha di certo perché le stato riconosciuto in primis dal celebre critico americano Harold Bloom e dal poeta W.S. Merwin, e da tanti altri notevoli critici e poeti di varia estrazione culturale.

   Dalla foto della Kossman noi miriamo il suo bel viso che tradisce un carattere determinato e pochissimo incline a giudizi lusinghieri e confortanti. Il suo verso è chiaro in forma e contenuto e di questo dobbiamo ringraziare la bravura del traduttore Paolo Statuti; questo verso non lascia al critico di dubitare affatto della sua missione, poiché è diretto e non ha tempo per fronzoli e ricami che possano rigenerare una speranza nuova e diversa:

Non più immune dagli eventi della sua anima,

egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.

   Nina Kossman ha scritto tanto e la sua bibliografia giustifica il suo impegno là dove la poesia, la sua anche, ha diritto di abbarbicarsi su qualsiasi cosa che richieda un supporto, un aiuto, un richiamo all’umanesimo. Poesia dunque combattiva per la verità che svela i crimini impuniti, come appunto quella della poetessa Cvetaeva, e come i reportages coraggiosi – io scrivo quello che vedo!  – della Politkovskaja.

     E allora di nuovo i miei ringraziamenti, che mai finiscono, a Paolo Statuti vera talpa che scova la poesia dei poeti di ogni latitudine… un lavoro di scavo prezioso con cui le generazioni che verranno dovranno confrontarsi.

Ma ecco la poesia della Nina:

Eccola, vedi, scorre,
l’acqua viva del torrente,
l’acqua viva delle fiabe,
per tutti e per niente».

Poesie di Nina Kossman tradotte da Paolo Statuti

Babi Yar

La madre diceva tua sorella mi fa impazzire,

Ma dov’è, oggi andiamo tutti a morire.

I fritzi* bussano alla porta, dobbiamo uscire.

Presto, svelto, perché quei libri, che te ne fai,

Là dove andremo a stare non li userai mai.

Sei sempre l’ultimo, figlio mio, continuava a dire.

Ecco, sono pronti, ma ora lui vuole dormire!

Dormirai là dove ci porta la nostra stella.

Lascia i libri e cerca piuttosto tua sorella.

Sei uno sciocco, davvero, ma quale stazione?

Ora c’è anche la sorella e vanno in processione.

Chi guidava la colonna loro al macello

Aveva nipoti e pronipoti e prendeva la pensione,

I nipoti hanno un animo gentile, non serve

Traumatizzarli parlando loro di un certo bosco,

Dicendo che nel mondo non c’è molto posto,

Che è una radura, e nessuno è risuscitato;

Ma che il nonno alla loro madre ha mirato,

Che il giovane era mezzo addormentato,

E cadendo sulla madre gli è sfuggito il sacchetto,

Tra i libri sparsi sul corpo c’era anche un gessetto…

Taci, al nipote non serve il tuo boschetto.

*Soprannome peggiorativo per i tedeschi (N.d.T.)

*  *  *

Vedi come il nero stormo

di uccelli caduti senza chiasso

guarda, ingoiando l’aria,

l’aria che fissa in basso;

e la loro mente, diventata ali

e il loro sogno sorpreso

della volta celeste, perfidamente segata

fino all’azzurro stesso –

dal nero stormo, senza un grido,

nelle mute lame dell’erba:

della ferrosa terra centocchi

e del vedente cielo sono una lega.

*  *  *

Vedi come il sole nasconde

abilmente con le mani d’oro

il ricordo degli avi bruni

in lunghi vasi pagani;

sottili mani del sole,

agili gialle dita –

perché non si sappia nulla

dei visi sereni degli Etruschi,

delle lievi etrusche ceneri,

e del secolare specchio tra noi e la morte.

*  *  *

Sono nata nel paese

Dei morti a milioni,

Nel silenzio soffocante

Di guardinghe passioni,

Dove il cielo di notte

Era detto assolato,

Coi teschi così a lungo

Sotto il suolo ghiacciato.

Non verranno sepolti,

I nomi scorderanno;

I nomi degli uccisi

La lapidi non sapranno,

Delle anime riconosciute

Per il sangue loro:

Io sono della stessa valle,

Ma non dello stesso coro.

Là dove mamma piangeva

Per l’uccisione del padre,

Dio di Abramo –

Ozem nell’ade.

Nuovi paesi e l’amore

Io non trovo,

Se sotto la neve i resti

Giacciono di nuovo.

*  *  *

Eccola, vedi, scorre,
l’acqua viva del torrente,
l’acqua viva delle fiabe,
per tutti e per niente.
Nessuno vestirà d’oro,
nessuno dall’insonnia salverà,
l’acqua viva delle fiabe,
limpida e lenta sarà.

Vedi come dolcemente scorre,
si aggrappa alle mie fredde mani,
l’acqua viva delle fiabe –
via da me!* Cura prima i tuoi mali.

*L’espressione russa “Czur menjà”, da me tradotta “Via da me”, è usata per scongiurare una minaccia, un pericolo da parte di uno spirito maligno derivato dalla mitologia slava.

*  *  *
Vedi come i gabbiani assonnati,
lentamente sonnolenti si aggirano,
muovono le ali
sulla rossa argilla presso il lago,
l’argilla con cui i greci
plasmavano stretti vasi
con un accenno alla vita degli dei
(custodi del segreto della morte,
rivelatisi soggetti ad essa) –
gli dei di argilla rossa
presso il lago degli uccelli assonnati.

*  *  *

Se la morte non c’è,

allora puoi campare,

con una parola puoi la terra evocare,

con ogni parola la vita prolungare,

con ogni lettera gli uccelli invitare

a un convito di briciole di pensiero,

di scorza di sogno; il loro chiasso mattiniero

è un segno che la  vita non è un inganno,

lascia che muovano la coda come fanno,

lascia che sia un indizio

che la morte non ha né fine né inizio.

*  *  *

Non più immune dagli eventi della sua anima,

egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.

Egli ora percepiva in esso non un ruggente nulla,

ma gli anelli e le crespe lasciate nell’aria

da un suono, un gesto, un commosso addio.

Pronto per l’età adulta, il mondo farà germogliare

viticci e petali in luogo di un sospiro

inudito dalle forze avvolte nelle nubi

o sotto il primevo suolo dove dormono gli amanti.

O scintillio di una vita faccia a faccia con un miracolo!

L’apparenza respinta per amore dei sentimenti!

Spruzzato di felicità come di dolce acqua,

egli si gettò a capofitto nel ridente grembo di lei

il cui viso egli poteva uguagliare al nulla,

la cui mano – ah, la più vera mano umana!

Pronto ad ammirare la purezza nella stagionale lite

di lei col vuoto, egli – come tutti i candidi amanti,

vedeva anziché il viso di lei, il suo proprio capriccio.

Quando il seme del miracolo generò lo stelo del dubbio,

egli udì una dolce melodia – la sua;

egli udì un ruggente vuoto – del mondo.

*  *  *

Irruppe a un tratto e come un cieco,

Inciampando, il vagone attraversò.

«Ehi, dove vai?! Fermati!» –

Dalla banchina qualcuno gridò.

Ma egli parla con se stesso,

Il bastone qua e là puntato,

Proprio come un cieco,

Alle tenebre abituato.

Ma chi è? Come si chiama?

Come può l’angoscia superare?

Si irrigidì al finestrino,

Cercava di ricordare.

Chi è? Da dove è venuto?

Alla luce come si strugge!

Eppure ognuno, sempre

Al nulla sfugge.

*  *  *

Ogni giorno più libere,

le parole che la morte ha preso:

cosa possono dire

che non è stato già chiarito,

più libere nella pioggia

ogni anno finito

parole che la morte ha preso,

cosa possono dire

che non è stato ancora detto

in ogni lingua, ogni libro;

se il silenzio è d’oro

allora le parole che la morte ha preso

sono oro in una rete da pesca,

io le aspetto in silenzio,

ogni giorno più libere.

(C) by Paolo Statuti

Jerzy Zagórski

23 Feb

     Poeta, saggista e traduttore polacco, nato a Kiev il 13 dicembre 1907. Terminò il ginnasio “Jan Zamojski” a Varsavia. Studiò Diritto all’Università di Vilno. Con Teodor Bujnicki e Czesław Miłosz fu uno dei principali membri del gruppo Żagary, creato a Vilnonel 1931, e la cui nota fondamentale fu il catastrofismo. L’arrivo del nemico, pubblicato nel 1934, è un poema che mozza il fiato. Il poeta descrive una cupa visione apocalittica di sterminio. Potenti eserciti giungono dal Caucaso, nelle smisurate steppe asiatiche turbinano masse umane, nasce l’uomo mostro, l’Anticristo, che si cimenta con Dio. Negli anni ’50 l’autore dirà: “Era un’opera con una trama abbastanza confusa, nella poetica del surrealismo. Cercavo nella poesia anche i modi di uscire dalla disperazione. I miei versi successivi, durante e dopo la guerra, delineano già l’uomo in lotta con le disgrazie, col destino.

     Dopo la guerra fu addetto culturale presso l’Ambasciata polacca a Parigi. Dal 1957 visse stabilmente a Varsavia. Il 31 gennaio 1976 firmò il cosiddetto Memorial 101, che fu la prima decisa presa di posizione degli intellettuali polacchi contro il governo comunista. I firmatari protestavano per le modifiche apportate alla costituzione, che sancivano il ruolo guida del partito e l’alleanza duratura e inviolabile con l’URSS.

     Nel 1979 sia lui che la moglie Marina, traduttrice, ricevettero la medaglia “Giusti tra le Nazioni”, data a coloro che contribuirono a salvare gli ebrei negli anni dello sterminio nazista.

     Żaneta Nalewajk nellapostfazione alla raccolta di poesie di Zagórski Versi scelti, da lei curata, scrive: “La sua poesia è altamente ricettiva, influiscono infatti su di essa molte tradizioni: biblica e antica, romantica e simbolista, nonché estetiche contemporanee al poeta: surrealismo tra le due guerre, nonché linguismo nella prima metà degli anni ’70 del XX secolo”.

     Il suo lirismo ha avuto una peculiare evoluzione. Dal catastrofismo passò alla poesia classicheggiante, rinnovò generi dimenticati, tra l’altro il poema descrittivo e digressivo e il genere grottesco.

     Di Jerzy Zagórski lo storico, critico letterario e saggista Kazimierz Wyka scrive:

“Elementi narrativi si intrecciano nella lirica di Zagórski con la riflessione poetica sull’uomo contemporaneo di fronte alla mutevolezza e durabilità della natura, della storia e della cultura, e il punto di partenza di queste riflessioni sono, oltre agli eventi personali e ai fatti della vita quotidiana, anche motivi storici, fiabeschi e leggendari della cultura nativa e straniera, principalmente mediterranea e del Mar Nero (Crimea e Georgia)”.

     Dopo la guerra,  nelle sue dichiarazioni rilasciate alla Radio Polacca, dedicò ampio spazio alla sua nuova poetica. Dichiarò tra l’altro: “Sono un patito del contenuto, considero la forma come strumento di espressione. Non voglio essere schiavo della strofa e, se il tema lo richiede, mi discosto dal regolare andamento del verso. Inoltre la radio ci ha ricordato che la poesia è un’arte per le persone che reagiscono al suono, per questo nel verso sono così importanti i mezzi di espressione sonori”,

     Jerzy Zagórski, oltre a 19 raccolte poetiche, scrisse anche drammi, saggi e reportage, e tradusse opere letterarie dal russo, georgiano e francese.

     Morì a Varsavia il 5 agosto 1984

Poesie di Jerzy Zagórski tradotte da Paolo Statuti

Invocazione

Dai tessuti dorati del giorno

dalle fibre stellate della notte

ho coltivato un frutto.

È sul mio palmo

caldo al tatto

vermiglio dal sangue

aspro dal pianto.

Solo accostare le labbra

e consumare

fino a mordere coi denti

il nero nòcciolo della solitudine.

1933

Motivo

Una sera argenteoazzurra non è una sera, ma un trapezio di cielo

cala sugli occhi col crepuscolo, quando si arrampica in alto:

com’è facile rivangare nella memoria,

ma com’è difficile forgiare una statua o una tempesta minacciosa.

1933

*  *  *

Abiterai una casa di legno e ci starai bene.

Una scatola di travi di pino. Di nodi tramata.

La foresta lambirà la veranda, alla tua portata.

Abiterai una casa di legno e ci starai bene.

Come fumo fluisce all’alba la nebbia dal prato.

Il mondo è una piana negli occhi di vetro offuscato.

Di giorno l’iride sul bosco. Non ti verrà vicino,

se ne andrà oltre il sipario degli alberi di pino.

Da tutto ciò ch’è più prossimo e che si può abbracciare,

è nata l’idea di patria, e poiché ci sono cose

più distanti, sono nate altre idee più tristi e preziose,

che quanto è più buio tra noi, tanto più sembrano brillare.

Nebbia. Fumi. Nuvole. O notte, quando serena appari,

forse allora ci sorvola la densità delle galassie,

affinché guardando, e credendo a quelle limpide masse,

della tua profondità si resti sempre ignari?

Quel che di giorno è un prato, di notte un nero abisso diventa,

sul quale non sai cosa splenda: deserto, sogno o tormenta.

Dagli alberi cresce il fruscìo dei pipistrelli, e tra la gente

c’è l’amore oscuro – e dal timore proprio lui difende.

Amore rapace e tenero. Invano per nome lo chiami,

invano in forma di bulbi e d’animali lo scolpirai,

perché lui ci lega a sé, ma lo spirito non s’unirà mai,

benché spirito e amore siano sparsi nel fumo e negli astri lontani.

1937

O acqua!

– O acqua, acqua azzurra,

Chi vedevi in quelle ore?

– Vedevo giovani che morivano

E delle madri il dolore.

– Ricordo tre bianche betulle,

Ho veduti

Cimiteri devastati,

Boschi abbattuti,

– La terra delle tigri, degli sciacalli

Dalle bombe scavata,

La gente che passava

Con la faccia celata.

– Il cielo, il soffitto ribollente,

Portoni come ombre,

Come folgore mi gridavano,

Sarà un’ecatombe.

1942

Salmo

(frammento)

Città diletta, città scarnita,

Strade dalla lotta divelte…

Sempre una nuova ferita

L’occhio sulle vostre pietre legge.

Presso piazza Krasiński rabbiosi

I cannoni colpivano il ghetto.

Guizzavano le creste dei fuochi

Da ogni muro, da ogni tetto.

Uomini induriti e spietati

Gelidamente guardano intorno –

I cuori da tempo gelati

E immersi in un buio profondo.

Fluisce degli spari il chiasso

Assieme al fumo da Muranów:

Come grigiastra nebbia in basso,

Come gialla nube lontano.

O sole dei bambini sgozzati

E gettati nel fuoco orrendo,

Sei una macchia di sangue rappreso

Nel fumo bruno dello spavento.

La Madonnina masoviana

Pallida in volto e disperata

Come trepida popolana

Guarda dall’angolo della strada.

Sta lì dietro il vetro della nicchia

Di fronte al bagliore crescente:

Mostra le mani inerme e afflitta –

Non ha più fulmini…non ha più niente.

1943

Poetica

Il  mio nome è freschezza. Io, quando tocco con la parola,

È come se tu mettessi in mano l’archetto a un violinista,

E le belle operaie ballassero come regine

Al ritmo di una mia nuova canzone imprevista.

Come la Musa nell’Onegin adattato da Kotlarczyk*

Sorrido, guardo attraverso un giallastro nebbione,

Procedo come i cavalli di notte nel sogno di Alcmena,

Al teatro Marigny di Parigi nell’Anfitrione.

Ma sono anche nella soffice polvere

Che pàtina degli stanchi soldati il cappotto,

Perché non soltanto al manuale di Bach-organista,

Ma anche alle mazze dei minatori l’amore è rivolto.

Sorella di bronzo della moda, figlia della fantasia,

Duratura come pantera nella pietra scolpita,

E tanto volubile come nuvoletta tigrata, quando

A un tratto nell’ombra lunare è sparita.

1951

*Mieczysław Kotlarczyk  (1908-1978), regista teatrale, attore, drammaturgo, critico letterario e teatrale polacco, nel 1948 mise in scena un adattamento dell’Oneghin di Pushkin, il cui successo lo salvò dalla repressione comunista.

*  *  *

Solo la cupa umana disperazione

Del nostro secolo sarà la dimostrazione?

Dai secoli violati dalla stizza

Giungerà la colomba della giustizia?

La parola aperta non falsificata

Prenderà il posto della menzogna odiata?

Se tali domande ampliare vuoi,

Forse la risposta spetta a noi?

1955

Imprudenti

Fidanzata e fidanzato

Non vadano in due direzioni

Perché i treni scorrono sulla terra

Abitata da una stirpe corteggiatrice.

Lungo il tragitto ci sono stazioni e fermate,

Ci sono sere, notti e mattine.

Il treno a volte ferma in un campo,

A volte qualcosa lo trattiene nel bosco.

Nel campo la sosta può essere diversa,

E nel bosco l’eco si diffonde

E lentamente comincia a crescere

La crepa riempita di spazio.

Due persone ricordino

Quando iniziano un lungo viaggio:

Il solco cresce nelle auto, sulle navi

Ed è un muro per gli aerei in una nube,

E non sempre ritrovano la strada

Di quegli attimi perduti nello spazio,

Divisi dal giro delle eliche

O dalle scie del carburante bruciato.

Ma c’è anche un altro modo

Di viaggiare, che non allontana

Due persone immerse in loro stesse

Come onda doppiamente gonfia.

È un mistero lunatico­:

Imbrigliare un raggio d’argento,

Riflettere dal disco lunare

Un sogno inviato.

Ci sono sguardi più lunghi di una caccia

Di luci che sprofondano fra le oscurità,

Solo che il biglietto è molto caro:

Giornate di veglia, angoscia dell’eternità.

1957

La speranza

                                              A Marina

È appeso il mondo a una ragnatela,

Smisurato è il suo peso,

Per questo il filo può assottigliarsi,

La materia mutarsi in deserto.

Si spezzerà la trama biancastra,

Quando ci smarriremo nel bosco del ragno,

Dove il calpestio negli echi della risata risuona

Come nel Trono di sangue di Kurosawa?

Una stella verrà in aiuto?

Aldebaran cercherà di rinforzare

L’esile nastro col raggio,

Finché il deserto non si coprirà di luce?

Dove la vista le visioni non raggiunge,

Le funi delle altalene ondeggeranno,

Il filo della speranza è teso –

Una delle tre forze di attrazione.

1965

Perché ah perché?

Perché dopo la notte all’alba

Arriva del padre morto

Un amico proprio come vivo?

Perché il suo cognome non riesco

A dire correttamente?

Perché quella birra sulla tavola

Nei boccali non riempiti?

Chi così l’ha lasciata?

È una processione non un funerale

È un funerale non una processione?

Perché quei neri stendardi

Che come punti esclamativi

Dividono il corteo?

Chi ha dato l’ordine

Di uccidere i traduttori­?

Forse perché si vogliono

Rafforzare le divisioni tra i popoli?

Di sicuro l’alveare si frantumerà

Quando si spezzeranno le pareti di cera

E il miele sul muco dorato

Porterà le crisalidi indifese?

Ascolta quei passeri che

Nei rami dei carpini e dei viscioli

Non tacciono malgrado il fragore

Della macchina che macina i rifiuti

Come lo sbattere di secchi di metallo

Che ogni mattina nel sonno crea sgomento.

1973

(C) by Paolo Statuti

Anna Pogonowska

18 Feb

Anna Pogonowska

     La poetessa polacca Anna Pogonowska nacque a Łódź il 7 gennaio 1922. Studiò al ginnasio privato “Helena Miklaszewska” della stessa città. Questa è la sua prima poesia datata, scritta quando aveva 22 anni:

La mia gioia e la mia felicità

Sono le mie tragiche lotte con l’eternità

Che mi tenta col suo accento divino –

La mia tristezza e i miei tormenti

Sono i sorrisi della vita cioè i momenti

In cui mi sono rassegnata al mio destino.

gennaio 1944

     Durante l’occupazione tedesca lavorò come taglialegna. Nel 1945 si iscrisse alla facoltà di Lingua e Letteratura polacca dell’Università di Łódź. Due anni dopo sposò l’architetto Jerzy Oplustil, che sarà il padre di una figlia e di un figlio, e si trasferì a Cracovia, dove proseguì gli studi all’Università Jaghellonica. Tornata a Łódź, nel 1950 si laureò con una tesi sul poeta Bolesław Leśmian. Nel 1948 uscì la sua prima raccolta di versi Nodi. Negli anni peggiori dello stalinismo e del realismo socialista, cioè dal 1950 al 1955, la poetessa smise di pubblicare e si rifiutò di collaborare con le riviste e con le case editrici propagandistiche, consapevole delle conseguenze materiali negative di tale decisione. In questi anni lavorò come insegnante nelle scuole medie. Dopo il disgelo, la casa editrice Czytelnik pubblicò la raccolta Cerchi.

     Grazie a una borsa di studio del Ministero della Cultura, trascorse alcuni mesi a Parigi nel 1957, e 5 anni dopo poté visitare l’Italia. Nel 1963 si trasferì con la famiglia a Varsavia. Negli anni 70 soggiornò in Marocco, dove il marito lavorava a contratto e dove insegnò la lingua polacca presso l’Ambasciata di Polonia a Rabat.

     Ha scritto e pubblicato 18 raccolte di poesie e un volume di saggi. Morì a Varsavia il 6 giugno 2005.

     Ed ecco tre autorevoli giudizi sulla poesia di Anna Pogonowska:

     Il poeta, saggista e critico letterario Bronisław Maj ha scritto: “La sua poesia racchiude in sé un vasto spazio di sensibilità e conoscenza, compreso tra la riflessione derivata da una sensazione istantanea e una diagnosi culturale universalizzante; tra sculture di nuvole e schiuma e un modello artistico permanente; tra sofferenza e paura, gioia ed estasi. È autentica poesia”.

     Il poeta e critico Stefan Jurkowski afferma: “Immagini parsimoniose e al tempo stesso erspressive, immaginazione originale, giochi di parole e di significati – ecco i tratti tipici della poesia di Anna Pogonowska. Le sue liriche parlano al lettore con intimo raccoglimento, con la ricerca della verità interiore. Strumento di questa indagine è la poesia stessa. Punto di partenza della riflessione poetica è la ricerca della propria identità”.

     Infine la saggista Katarzyna Kuczyńska-Koschany nella postfazione al libro Anna Pogonowska, Poesie (non)dimenticate, da lei curato, dice: “Se dovessi elencare le tematiche più rilevanti e dare una definizione di questa poesia, la chiamerei poesia delle relazioni uomo-fauna, uomo-flora, poesia fiabesca e cosmica, filosofica e religiosa, poesia di cultura in senso lato, di sensiblità artistica, poesia intima e drammatica”.

Poesie di Anna Pogonowska tradotte da Paolo Statuti

Un’altra oscurità

Quest’altra oscurità

che come il fegato

martoriato dall’artiglio di un avvoltoio

sento sotto la mia liscia

mano Quest’altra oscurità

il cui polso batte

come ferita nelle nuvole

portate in fretta  

come cicatrice

taglio

nero che salda

Vattene

Non ti perdonerò il battito affrettato del cuore,

Quando squillava – non da te il telefono,

Non ti perdonerò le parole – che mi volevano

Sì – alla leggera.

Se ne andranno Il sole trascina la folla sul marciapiede,

Una larva di strada mi taglia.

Non salvarmi con un sorriso. Il selciato è duro. È duro.

Il vuoto riempirò di pietre.

Prima di andarmene

Gli afflussi di brusio e nebbia allagano i campi –

Me ne vado da qui tra poco nel paese della gente e dei muri –

Frusterò di nuovo le parole perché seguano la corrente del dolore

Lungo il quale salgo nella gioia indifferente come la volontà.

Il moto delle foglie era l’unico moto qui –

L’aumento delle nebbie – come musica –

Consapevolmente –  soltanto l’abete cresceva

A parte questo, c’era silenzio.

E i binari tacciono in fretta

E in me – qualcuno chiude gli occhi

Ed ogni istante silenzioso

Colpisce – come tuono – con l’eco.

Dei insettivori

Dalla sabbia i viola del cardo porgono

Fiori pungenti alle lucenti vespe

Il mare col suo moto sperimentato

Si rizza in schiume

Cosa mai contro i moti e le leggi di natura

Possono le nuvole o i poeti

Sul ritmo del cuore e il polso delle acque

Tùrbina uno sciame di dei insettivori

*  *  * 

con gli anni diventa sempre più difficile per me parlarTi

solo la tua mancanza sento sempre fortemente

paura dolore infine stanchezza

diventano in me un’ancora

di fede di speranza e forse anche d’amore

questa mancanza è il mio sostegno

la roccia che ripesco dall’abisso

il suolo su cui rinsaldo i miei piedi

tu taci

e per questo Ti dico

dove ti nascondi?

dove stai?

nel tempio del mio cuore

nel nucleo della mia oscurità

nella speranza della mia disperazione

Tentativo di distinguere la vita dalla morte

Una falena sbatte contro il vetro calamitata

Dalla mia lampada Si strappa il cappotto di chetina

Il vento accoglie le insegne della vita

Spiritus fiat

Indossa l’abito lacerato

Con le ali spezzate sbatte

Contro la mia finestra spenta

Sulla gioia

Là dove stridono i rami strusciandosi

c’è il cancelletto Dietro ad esso una casa malandata

Nella grande finestra scura al primo piano

vedo la bianca testa di mia madre

È molto vecchia Entro ansimante

I suoi occhi azzurri mi vedono

Corriamo con le braccia tese

per rallegrarci che esistiamo

E anche quando piangiamo c’è sempre più luce

Ascolto Bach durante la guerra

un tempo dalle geometriche cellette

del favo di cera

il miele colava nella brocca

vivo resinoso

come questa musica

che si riversa dall’organo

le livide mani gelate

strette nel manicotto

ecco ascolto Bach in chiesa

e sotto di lui polvere fino al cuore

della terra – intorno il cappio

della guerra – nel bosco stellato

la brina raggiante tesse

la coltre per gli Ebrei nascosti nelle trincee

per i partigiani di AL e AK*

per gli esse-esse per gli uccelli dell’aeroporto

per tutti gli eserciti per noi per noi tesse

e Bach è come il miele delle api

mi spaventavo

che con tale pesante dolcezza brillasse

che risplendesse così scuro

* AL: Armia Ludowa (Armata  Popolare)

   AK: Armia Krajowa (Armata Nazionale)

*  *  *

in casa mia è pieno di nuvole

girano i pannolini della mia nipotina

sotto il soffitto sopra i mobili

premono come falangi di neve

dietro la finestra gli uccelli

tirano il cocchio dell’aurora

impigliato in grigie nebbie –

il mondo è sempre più giovane –

invecchiano soltanto i ronzanti

reattori e sputnik –

invece le nonne

entrano nel paese delle fiabe

*  *  *

il mio scheletro è bianco

e tranne una certa calcificazione

non è cambiato molto

e i miei pensieri?

essi sono a onde corte

perdono fiato

e in generale si smarriscono

non posso ritrovarli

i sentimenti invece sono duraturi

ma hanno le facce scure

stanno in me come neri stagni

le loro acque sono quasi immobili

pesanti

cammino lentamente

ascoltando il loro borbottio

invece i desideri

balenano all’improvviso

tanto che mi acceco come un tempo

*  *  *

un critico ha bollato i miei versi

come “poesia del puro caso” –

è vero – non pianifico mai

di che devo scrivere –

il buio si illumina all’improvviso

e a fatica scandisco

il mio tremante messaggio

(C) by Paolo Statuti

Irena Tuwim

15 Feb

Irena Tuwim

     Poetessa, prosatrice e traduttrice polacca, nacque il 22 agosto 1898 a Łódź. Geniale sorella del celebre fratello poeta Julian. Frequentò il ginnasio “Eliza Orzeszkowa a Łódź. Nell’adolescenza leggeva Staff, Tetmajer, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire e scriveva poesie. Come poetessa debuttò nell 1914 sul numero unico Vita a  Łódź con le poesie Presso il camino e Felicità con lo pseudonimo Ira Blanka. Per diversi anni fece parte del celebre gruppo Skamander, in cui il fratello era uno dei membri più autorevoli.

     Nel 1921 la prestigiosa casa editrice Jakub Mortkowicz pubblicò la prima raccolta di Irena Tuwim 24 poesie, accolta con entusiasmo dalla critica. Si può dire che essa fece la stessa impressione del fratello Julian, quando lui stampò la sua prima raccolta. Nei suoi versi innovativi e originali la  poetessa mostra il corpo della donna, le sue vicissitudini, i suoi desideri e il suo dolore. Quando però i Tuwim si trasferirono a Varsavia, la carriera letteraria di Julian prese quota. In vita egli diventò un gigante della cultura polacca, mentre Irena, pur continuando a scrivere poesie, cominciò a dedicarsi piuttosto alla traduzione di importanti e note opere inglesi e russe, e soprattutto della letteratura per l’infanzia e la gioventù. 

     Il geniale saggista e critico letterario Stefan Napierski, dopo aver letto le 24 poesie, decise che doveva conoscere la poetessa. Per questo si recò appositamente da Varsavia a Łódź. Dopo l’incontro, Irena ricevette un cesto di giacinti con il biglietto: “A Irena Tuwim, ringraziando per la Sua poesia e per le sue labbra”. Tre mesi dopo si sposarono. Il matrimonio tuttavia durò pochissimo, perché il marito si rivelò un omosessuale.

     Nell 1926 uscì il volume di poesie Lettere, accolto dalla critica con pareri discordi… Il critico letterario e storico dell’arte Karol Wiktor Zawodziński scrisse: “Alcuni dei migliori versi  di questa raccolta hanno una costruzione metrica e strofica, una sintassi e una ritmica, un lessico e una intonazione, una composizione e una tematica che caratterizzano la poesia di Anna Achmatova. Sulla raccolta Amore felice, uscita nel 1930 e paragonata dalla critica alla poesia di Maria Pavlikowska-Jasnorzewska, Kazimiera Iłłakowiczówna e Zuzanna Ginczanka, lo stesso Zawodziński scrisse: “Parla di una amore senza futuro, pieno di presentimenti della fine. Negato alla felicità. Sono amoretti passeggeri e senza speranza (“sono una mendicante di amore, fate la carità”). Avvilimenti, separazioni e solitudine, un continuo vagare senza scopo tra gli alberghi europei, frequenti pensieri di suicidio – sono i motivi ricorrenti nel libro”.

     Verso la fine degli anni ’20 conobbe Julian Stawiński, che nel 1935 divenne il suo secondo marito. Purtroppo neanche con lui la poetessa ebbe molta fortuna, perché era alcolizzato. Dal 1937 si impegnò maggiormente nella traduzione di libri per bambini, tra i quali ricordiamo ad esempio le favole dei fratelli Grimm, Mary Poppins della scrittrice Pamela Travers e nel 1938 i due libri dello scrittore inglese Alan Milne Winnie the – pooh e The house of pooh – Corner, tradotti in polacco coi nuovi titoli Kubuš Puchatek e Chatka Puchatka. Proprio questi due libri, rielaborati secondo lo spirito polacco, e che il noto scrittore Stanisław Lem giudicò migliori degli originali, Irena Tuwim entrò a pieno diritto nella storia della letteratura polacca.

     Allo scoppio della II guerra mondiale, si trasferì col marito a Parigi e, dopo l’occupazione tedesca della Francia, in Gran Bretagna. Nel 1945 si recarono in Canada, a Toronto. Finita la guerra, trascorsero un preve periodo negli USA e nel 1947 tornarono in Polonia, dove Irena per diversi anni continuò a tradurre. Nel 1956 uscì il volume dei suoi racconti Le stagioni di Łódź e due anni dopo la raccolta Versi scelti, accolta entusiasticamente da Anna Kamieńska come “ritorno della poetessa”. Nella sua recensione del volume scrive tra l’altro: “L’amore nelle poesie di Irena Tuwim è sempre tragico e cupo, mai sereno e idilliaco… Questa donna che grida la sua nostalgia, il suo amore, i suoi timori, è pienamente consapevole del suo stato psicologico, ha cura della sua sensibilità come del volto e delle mani, e non è indifferente alla sorte di ogni femminilità… La sua poesia entra nei segreti delle donne di ogni condizione”.

     “Irena nelle sue ultime annotazioni scriveva di non saper vivere senza amore. Quando restò sola, dopo la morte del fratello e del marito, cercava di trovare l’amore tra gli amici. Non ci riusciva e per questo soffriva molto” – scrive Anna Augustyniak, autrice del libro Irena Tuwim. Non sono morta di amore. Julian Tuwim morì il 27 dicembre 1953. Un anno dopo, in un quaderno Irena scriveva­: “Non posso leggere i suoi versi, rileggendoli di nuovo   provo un dolore indescrivibile. Forse è lo stesso dolore che sentiva lui quando li scrisse… È come se qualcuno restasse improvvisamente invalido e sapesse di restarlo per tutta la vita. Bisogna solo adattarsi a questa invalidità. Non posso immaginare che possa esistere ancora una forma di vita in cui io non sarei infelice. Perché tutto non ha più senso, non ha più luce”. Dopo la morte del fratello, moriva lentamente. Nei restanti anni della sua vita era incredibilmente sola. In una nota del 1976 scrisse: “Sono condannata non a morire, ma a vivere”.

     La casa editrice Nasza Księgarnia, da sola,  negli anni 1946-1976 pubblicò ben 30 libri di Irena Tuwim.

     La poetessa morì a Varsavia il 7 dicembre 1987.

Poesie di Irena Tuwim tradotte da Paolo Statuti

Verso sul verso più importante

Lo so. Questo giorno dovrà arrivare,

Cioè l’indomani del mio funerale.

Ed è per me lo stesso, se ci sarà il sole,

Il cielo grigio, la neve o il temporale.

Come sempre le donne andranno in ufficio,

Il fornaio i suoi panini all’alba infornerà,

Nei caffè soneranno “Sérenade d’amour”,

E ai giornali chi ha perso qualcosa scriverà.

E io so, se per miracolo risuscitassi,

Che dei pensieri nel caotico viavai,

Il primo sarebbe: doveva accadere che, in realtà,

Il verso più importante io non scrivessi mai.

Dialogo con la fantesca

Nessuno notò. Solo la fantesca,

Quando tornai in albergo a tarda ora.

Lavava le scale. Sbirciò. Sapeva.

Si torse le dita: «Signora!»

Sul grembiule asciugò le mani,

Portò la biancheria all’istante,

Stremata, nera Madonna italiana,

Mi preparò il letto ansimante.

Aprì gli occhi – come due mari –

Con voce rotta disse all’improvviso:

«C’era qui una. Pure giovane. Occhi chiari

E a lei, signora, somigliava nel sorriso»

Portò le mani al florido seno:

«Ah, era un sorriso senza amore!

…Dovemmo abbattere la porta… Pensi…

…Al filo del ventilatore…

Dovemmo sotterrare il grazioso corpo,

I capelli di seta, il caro volto… »

– Certo non amava il mondo, se ha potuto… »

«O forse il mondo non l’amava molto?»

*  *  *

Giaccio in fondo all’acqua, in fondo al fiume,

L’acqua su di me scorre come tempo vetroso senza sosta,

Più non ti chiamo, sei di una volta, lontano:

Forse sono morta.

Non sono morta di amore,

Neanche tu sotto il suo peso sei crollato –

Le alghe hanno sciolto su di me i capelli dal dolore.

Il mondo abbiamo eliminato.

Nei secoli dei secoli

Non ci perdonerà Dio Signore.

Confessione

Mi guardò in fondo al cuore, disse: “Cara”,

Mi scostò i capelli con la mano: “Poveretta,

Come hai potuto vivere senza di me,

Tu ultima, unica e mia diletta?”

“Ah, veniva a trovarmi il dolce vespro,

Quando in cielo tutte le stelle aveva steso,

Ogni giorno veniva da me dopo il lavoro,

Restava con me e felice mi ha reso:

Ah, non potevo restare sempre sola,

Troppo a lungo soli siamo rimasti…

Poi l’acquazzone… A volte aspettava all’entrata –

Ci baciavamo sotto gli astri.

Ah, sì ti ho tradito, mio caro… “

“Con chi? parla, in nome del vecchio amore!”

“Ogni notte il disco lunare dormiva con me –

Non lo vedi dal nostro pallore?”

Finalità

Che le parole finalmente si mutino in sorrisi, fontane e fiori –

E non serviranno più altri ristori.

Nei cuori come negli specchi ci guarderemo,

E i cuori come labbra per bere ci porgeremo.

La terra profumerà e ci sarà tanta fresca rugiada,

Quando la magica parola “giardini” sarà pronunciata.

Quando diremo “cervi e viale alberato” –

Sarà cervineo e ombrato.

La parola “frutti” – come succo scorrerà,

E “triste” – uno scialle avvolto in una nuvola sarà.

Nel mondo non ci saranno poeti. Saremo tutti bimbi lieti.

Ci spunteranno le ali. Angeli – poeti.

Ricordo di Viareggio

Palme secche sulla spiaggia. La sabbia con macchie di sole,

La pineta africana, immobile, senz’ombra, spettrale,

Il mare si riversa. Sull’acqua a dismisura azzurra bianche vele

Come brevi sospiri del mare.

La fresca pensioncina in via Buonarroti.

Le tapparelle abbassate fino alle sei. Profumo di caffè e meloni.

Nella salle de lecture sotto la poltrona due gatti striati

Pensavano, mormoravano in italiano le loro gattesche questioni.

Dalla finestra, lontano, la spiaggia. Lucidi corpi abbronzati,

Variopinte bambine come palloncini sulla spiaggia assolata,

A un incrocio delle strade, bianche dalla calura,

L’ultima lettera d’amore nella cassetta è infilata.

La sera l’arietta della notte. La luna di latta che si rinfresca.

Un diverso mare, serico. E come un sonnambulo il molo –

Andava per di là un marinaio. Portava la luna sotto l’ascella.

Diceva che va a Le Havre, a Tolone, a Napoli e non solo.

Il pipistrello

Isterico cieco, per castigo espulso da un bel giardino.

Cade in una verde persiana semiscostata,

Invaghito dei capelli femminili, suicida alato,

Vuole avere un laccio speciale, di seta filata.

Scivola silenzioso, di sbieco, di colpo, basso, da sotto,

Rotea senza rumore, solca l’aria impaurito –

Finché disperato, impazzito, scarno orecchione,

Si appende al solaio come un ombrello sdrucito.

Notte di luglio nel parco

Brillano le stelle prese in una rete blu.

Una azzurra, due verdi e una miriade argentata.

Hanno ragione i cattivi poeti:

La notte è davvero vellutata.

Odora dolce la violacciocca e trasudano i tigli,

Per l’intenso aroma il folle turbine s’è addormentato.

Luglio profuma esageratamente. Ah, questa notte

È come un profumo fuori moda, antiquato.

Troppo bianche le ninfee. Troppo levigato lo stagno.

Dici indicando il cielo: “Ci sarà un temporale tra poco”.

Batte, come palpebra assonnata, un petalo che cade,

Stufa della sua bellezza una sciocca rosa rosso fuoco.

Il sorriso

Mi è rimasto dopo tutto questo

Solo un sorriso,

Un sorriso forse più simile al pianto.

Lo metto sulle labbra, come un vestito di linda lana grigia,

Come il vestito della maestra,

La simpatica signora Sofia.

Pensieri, parole, serate

Su strade occasionali,

Piazze scintillanti di pioggia e di luci,

Svolte inaspettate,

Ore segrete,

Indirizzi dolci e minacciosi,

Giardinetti fruscianti e bagnati,

Verdi, verdi –

Tutto ciò per cui ero viva,

E per cui oggi sono morta,

Si è racchiuso, si è ristretto

In questo piccolo impolverato sorriso di topo.

ù

Madre mia, soltanto te sgomenterebbe questo sorriso.

Estraneo

Adesso tutto è estraneo. Estranea è la casa, il cane, le questioni

Ed estraneo è il giorno dopo la vuota notte che ho passato.

Estraneo quest’anno è maggio. Ed estranea è Varsavia.

E quando all’alba mi sveglio, estraneo è ciò che ho sognato.

Su una barchetta malconcia, su un piccolo guscio ho lasciato la riva.

O terra! Pianeta di altri! Su di te un silenzio canuto.

Nell’acqua impetuosa e nera vado in cerca di qualcosa che è mio –

Buio. Non grido…Perché nessuno senta e venga in mio aiuto.

(C) by Paolo Statuti