Archivio | gennaio, 2013

A un uomo semplice

24 Gen

 

 220px-Robotnik_28.10.1931

  

Il 7 novembre 1929, quando il capo del governo in Polonia era Józef Piłsudzki, il poeta ebreo polacco Julian Tuwim (1894-1953), già presente nel mio blog con alcune poesie, pubblicò sul quotidiano “Robotnik”, organo del Partito Socialista Polacco, una poesia pacifista sul pericolo derivante dalle forze nazionalfasciste. Il poeta denuncia in modo esplicito la menzogna della propaganda di guerra. Indica che è un linguaggio ipocrita, che si serve di argomenti elevati (“patria”, “ragioni storiche”, “onore”) per raggiungere scopi ignobili, che si appella ai sentimenti patriottici, apparentemente per difendere il paese, ma in realtà per proteggere gli interessi della classe al potere, a costo delle distruzioni che ogni guerra porta con sé. La critica di destra reagì violentemente, accusando il poeta di plaudire alla distruzione delle armi (“Scaglia il fucile sull’asfalto”) e alla diserzione. Tuwim rispose così:

“Nella mia poesia mi rivolgo chiaramente a tutti i popoli, affinché in un momento cruciale si oppongano a una guerra di aggressione, che come uomo onesto e ragionevole, considero un crimine. E’ assurdo supporre che io non provi stima e ammirazione per l’eroismo a difesa della indipendenza di un paese”.

                                                                                                 Julian Tuwim

E’ sorprendente l’attualità di questa poesia. La pubblico qui nella mia versione.

 

 

 

“A un uomo semplice” tradotta da Paolo Statuti

 

Quando di nuovo sopra i muri

Incolleranno i proclami,

Quando “al popolo”, “ai soldati”

La stampa l’allarme sonerà

Ed ogni stupido e ignaro

Alla vecchia “canzone” crederà,

Che bisogna andare e sparare,

Uccidere e saccheggiare;

Quando la patria in mille maniere

Cominceranno a declinare

Usando emblemi colorati,

Parlando di “storiche ragioni”,

Di terra, di gloria e di frontiere,

Di padri, avi e bandiere,

Di eroi e di sacrifici;

Quando vescovi, pastori e rabbini

Verranno a benedirti il fucile,

Perché Dio stesso ha sussurrato,

Che per la patria – bisogna lottare;

Quando urleranno le lettere

Sulle prime pagine dei giornali,

E donne focose in due ali

Lanceranno fiori “ai soldatini”. –

– Oh, amico semplice e ignorante,

Compagno di questi e altri confini!

Sappi che suonano l’allarme

I re con i padroni panciuti;

Sappi che sono fandonie – tutte –

Quando ti gridano: “Arma in spalla!”

Per loro il petrolio è sgorgato

E molti dollari ha fruttato;

Nelle loro banche qualcosa non va,

E altrove han fiutato casse colme

O grassi furfanti han visto già

Un dazio più alto sul cotone.

Scaglia il fucile sull’asfalto!

Tuo è il sangue e loro è il petrolio!

E da un paese a un altro

Grida difendendo il tuo sudore:

“Io sono onesto e questo è un imbroglio!”

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Poveri noi…beati loro

23 Gen

 

Poveri noi

che abbiamo tutto:

i negozi pieni

strade e auto

che tolgono la pace

e il respiro

cielo terra e mare inquinati

la TV che riempie le giornate

il pallone che alimenta

i sogni della domenica

e le chiacchiere del lunedì

superficialità e arroganza

mafia e camorra

il pianto delle madri

dei drogati

bambini contesi e picchiati

spacciatori e donne violentate

vecchi deboli e indifesi

arrivismo e indifferenza

tanta libertà e ingiustizia

gente che non vede

e campa alla giornata

poveri noi

che abbiamo tutto questo

(e sappiamo di averlo)

 

Beati loro

che non hanno niente

e muoiono di fame

che non conoscono

rivalità e rancori

che vivono in capanne

senza corrente né acqua

ma con la luce della speranza

e lo sguardo mansueto

aspettando le briciole

dei fratelli ricchi e lontani

che vivono del pianto dei figli

con gli occhi rivolti al cielo

che non hanno negozi

né auto né TV

che non lottano per la libertà

e per la giustizia

perché non ne hanno la forza

che ancora credono

nell’amore umano

beati loro

che non hanno

tutto ciò che abbiamo noi

e che non sanno

quanto tutto ciò

sia così disumano.

 

 

(Paolo Statuti)

 

(C) by Paolo Statuti

Teresa Ferenc

19 Gen

 

 

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Poetessa polacca nata il 27 aprile 1934 a Ruszów, nella Bassa Slesia. Nel 1943 i nazisti incendiarono il villaggio di Sochy dove viveva, uccidendo quasi tutti gli abitanti, compresi i suoi genitori. Aveva nove anni e scampò miracolosamente alla morte insieme con il fratello di cinque anni e la sorella di due. Il ricordo della tragedia troverà espressione nella sua poesia, e proprio esso la riconcilierà con la vita, la libererà dalla paura e dall’odio. Trascorse l’adolescenza negli orfanotrofi a Zamość e a Międzyrzec Podlaski. Terminò gli studi di pedagogia a Katowice, conseguendo il diploma di insegnante di arti plastiche. Nel 1956 sposò il poeta Zbigniew Jankowski. Insieme organizzarono il Club Letterario “Contatti” e annualmente le “Giornate di Letteratura” a Rybnik (1959-1965). Nella stessa città nacquero le future poetesse Aneta (Anna Janko) e Milena (Milena Wieczorek).

   Debuttò nel 1962 con la poesia Poród (Il parto) sulla rivista “Współczesność” (Tempi moderni). La sua prima raccolta poetica – Moje ryżowe poletko (Il mio campicello di riso), uscì nel 1964. La sua propria casa diventò il suo mondo poetico. “Per me – confessò – non fu una questione scontata. A nove anni persi tutto, anche la casa, ed ora eccola riapparire di nuovo nella mia vita. Ogni nuovo oggetto era una gioia. C’era nell’arredamento un amore buono e difficile, quindi vero. C’era tutto ciò che riempie ogni casa, ma c’era anche la poesia. Proprio essa mi diceva come guardare una ciotola di argilla, un grigio pentolino, la prodigiosa riproduzione del riso”.

   Nel 1975  la famiglia si trasferì a Sopot. Qui la poetessa entrò subito in contatto con gli scrittori e gli artisti del luogo, iniziando una assidua collaborazione con l’Almanacco “Punkt” (Il punto), edito dagli ambienti artistici di Danzica. Commentando nel 1978 un numero della rivista in cui erano state pubblicate alcune poesie di Teresa Ferenc, Julian Rogoziński (1912-1980), critico letterario, saggista e traduttore dal francese, scriveva tra l’altro: “Questo numero inizia con le poesie di Teresa Ferenc, una poetessa che insieme con Wisława Szymborska e Urszula Kozioł considero una delle tre “dame” della nostra odierna poesia…Ella pratica una lirica, la cui “femminilità” esprime mondi di sensazioni ed esperienze psichiche con una sorprendente, delicata e infallibile maestria… E’ una lirica a doppio senso: dal corpo allo spirito e viceversa”.

   La poetessa Anna Kamieńska (1920-1986), già presente nel mio blog, scrive: “La poesia di Teresa Ferenc è la vita. La vita nel suo dinamismo biologico e fisiologico, con la sua misteriosità, con la metafisica del concepimento, della nascita e della crescita. La vita che duole e che arreca diletto, la vita nel timore di se stessi, nei reciproci legami dell’amore che nasce, la vita – così vicina alla natura. I motivi della maternità, del parto, dell’amore fisico, tutta la biologia – è al tempo stesso una grande festa della vita, cui questa poesia sensibilizza e invita”.

   Semplicità, concisione, essenzialità delle immagini, contemplazione della natura – sono tipici aspetti delle lirica di Teresa Ferenc. Ecco cosa dice di se stessa: “Vivo nel raccoglimento. Soltanto nell’isola del raccoglimento e della verità interiore può prendere la parola il poeta. Solo da lì egli può dialogare con la sua società, proporre valori e sentimenti”.

   Dal 1993 al 2001 ha collaborato con il bimensile letterario di Sopot “Topos”, tramite la rubrica di poesia “Gli ospiti di Teresa Ferenc e Zbigniew Jankowski”. Ha ricevuto diversi importanti premi letterari.

Raccolte di poesie pubblicate:

Moje ryżowe poletko (Il mio campicello di riso, 1964), Zalążnia (Ovario, 1968), Godność natury (La dignità della natura, 1973), Ciało i płomień (Il corpo e la fiamma, 1974), Małżeństwo (Moglie e marito, 1975), Wypalona dolina (La valle bruciata, 1979), Pietà (1981), Grzeszny pacierz (Preghiera peccaminosa, 1983), Nóż za ptakiem (Il coltello dietro l’uccello, 1987), Kradzione w raju (Rubato in paradiso, 1988), Cztery twarze domu. Antologia rodzinna (I quattro volti della casa. Antologia di famiglia, insieme con il marito Zbigniew Jankowski e le figlie poetesse Anna Janko e Milena Wieczorek, 1991), Wiersze (Poesie, 1994), Boże pole (Il campo divino, 1997), Psalmy i inne wiersze (Salmi e altre poesie, 1999), Dzieci wody (I figli dell’acqua, 2003), Stara jak świat (Vecchia come il mondo, 2004), Wybór wierszy (Poesie scelte, 2009), Raccolte di poesie per bambini.

   Le poesie di Teresa Ferenc sono state inserite in molte antologie in Polonia e all’estero. Negli USA è uscita una sua raccolta di poesie dal titolo Swallowing paradise (1992).

 

 

Poesie di Teresa Ferenc tradotte da Paolo Statuti

 

Accoglienza

 

Attraverso questa nube –

sparso brulichio di uccelli

 

Attraverso questa parola –

il buco per la chiave

che non passerà

 

Attraverso questi passi

versati da me

 

ogni giorno

ogni giorno

la mano non data quando occorre

la bocca non aperta in tempo

gli occhi cui non si crede

 

guardando tutto questo

buongiorno

 

In casa

 

In casa

spesso è così vuoto

che senti sonare

i semi nella zucca

 

cammino come un topo

mordo la lingua perché non si ripeta

mi nascondo per conservarvi

il mio cieco amore

cui bisogna umanamente

restituire la vista

la tenerezza pesare

andarsene quando occorre

e tornare in tempo

conoscere il sapore e la saggezza del mentire

 

in una casa

che si dissemina

 

 

 

 

L’albero

                                             …cosa bisbigliano le pietre, i fiori, la pioggia!

                                                     Forse ci chiamano ma noi non sentiamo.

                                                     Proprio come noi chiamiamo e nessuno

                                                     ci sente.

                                                                                                 Nikos Kazantzakis

 

L’albero in piena fioritura –

nello scoppio solleva la sua gioia legnosa

Ecco di nuovo l’ha invaso la vita

 

La larva tra un attimo

si aprirà con ali solari

misurerà l’est fino all’ovest

il grave istante – la sua labile vita

 

La mia gioia per l’albero priva di voce

Rinchiudo in me come legno in una trama di rami

 

Il mio rammarico per la farfalla vacilla

vola a stento sulle labbra

 

La parola si spezza come larva muta

sulla mia testa inizia il suo volo notturno

 

 

Ti amo

 

Invecchiano dapprima gli occhi,

 

Ti amo con le dita

che vedono meglio

quando le rimuovi

in ciuffi di erba selvatica

 

Invecchia dapprima il collo,

 

Ti amo con la morbidezza della guancia

dei fianchi del ventre del petto

e non mi affliggo per le rughe del collo

che a noi insieme

nel sudore si celano

 

Invecchio prima,

 

Ti amo fino allo stupore

della lingua e del linguaggio

che ci ha posti

in un fuoco comune.

 

Difesa

 

Il giardino voglio difendere

conservare alla fonte

 

Pulsa ogni ramo

il bocciolo non ancora schiuso

ogni frutto che matura

 

Invoco

Sodoma è bruciata

Risparmiate i miei grappoli d’uva

appena spuntati

L’ascia su di essi è sospesa

 

Un certo re secoli orsono

sterminava i bambini

 

Nerone ha incendiato Roma

 

Caligola

gli amici e le amanti

con le proprie mani

 

Un folle sovrasta di nuovo

i giardini pensili

 

che conforto ho dalla toga

La mia difesa non giunge

Amara coscienza

amare mie ragioni

questo dirò a me stessa

fino al midollo

fino in fondo

Mi ascoltano fino all’ultimo

quelli che non hanno voce

Neanche come testi nessuno li chiamerà

 

Tacere – la cosa più semplice

Ma come cavarsi gli occhi

(Omero cieco vedeva di più)

 

Come togliersi la ragione

(Cassandra capiva per l’intero campo)

 

Come uccidere l’amore

 

Strappare tutto il giardino?

 

Siamo un giardino

 

Salmo del freddo

 

nevica e nevica

i colombi sbottonano il fragile corpo del gelo

l’aria oscilla col freddo nel cielo

e le tue dita sempre sotto la mia pelle

girano intorno alla casa dove il sangue indovino

conduce sempre a bere in te e Te

 

Qui ancora corre col fuoco la nostra prole

sulle braccia portando un friabile ramo del gelo

 

Quando sei giunto

 

Quando sei giunto a portata di un respiro

l’eco ha suonato da lembo a lembo

L’odore della terra ha legato

due correnti – due fiumi

Ci ha alzati con cura

un’onda trasparente

ha sollevato

te in oceano

me in nubi

Scorriamo guardandoci

e sappiamo

che l’orizzonte non unisce

che il tacere

non separa

che l’infinito scorre in noi

 

* * * (E il silenzio del tuo tacere)

 

E il silenzio del tuo tacere

è bianco

quando la neve alla finestra è saldata

 

ti dipingevo con sfumature di lode

ma un brivido ha turbato gli angeli

e in fretta raccogliendo i resti di umiltà

se ne sono andati

 

Sei una coccinella

così pensavo

come me frughi nel quotidiano

chiudo gli occhi

e sui raggi delle dita

ti sollevo alla dignità degli dei

 

Guerre

 

Maggio

era il primo di giugno

Fiorivano gli alberi del 1943

Dei boccioli si svolgevano

gli uccelli in torce

Agosto

era novembre

Le nere foglie del pioppo

tremavano

pianto nelle orbite

Sulle pietre muscose

l’umido vento

Settembre sì era

dicembre

In bianche oscurità

tutte le nostre questioni del giorno

Alle porte si preparava la neve

A un tratto la soglia si alzò

Su di essa col gesso nelle palpebre

non posso più chiudere gli occhi

 

Abdicazione

 

Va

la terra crepata

soltanto bere

 

Va

una appena nata

soltanto vivere

 

Il trono non le occorre

la corona

avrà

come a primavera gli alberi

 

Lo scettro

nella tua mano

 

Ma vieni

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

Olga Celuch

17 Gen

Poesie di Olga Celuch

 

Ossessione

Fotografo…

Incido…

Taglio…

Incollo…

Disegno…

Scrivo…

Devo fermare il tempo!

Voglio immortalare il mondo!

Devo imprigionare le emozioni!

Per liberare me stessa…

(gennaio 2003, Varsavia)

Pensieri

Pensieri instancabili

mi galoppano per la testa

Qualcuno insegni

ai cavalli

a dormire sdraiati

e ai miei pensieri

a riposare

nell’oscurità

della notte irriflessiva…

(febbraio 2003, Varsavia)

Sognando un fiore

Mi addormento

accogliendo sulle mie

le tue labbra

che non mi hanno baciata mai!

Chiudo gli occhi…

disegnando ogni tuo sguardo

che si posa su di me leggero.

Sogno un fiore sbocciarmi dentro

che non sarai tu a cogliere…

(febbraio 2003, Varsavia)

Il gelo

 La notte profuma di neve

Il gelo posa le stelle

sul vetro…

Che cosa mi scriverai oggi

col magico codice

del silenzio?

 

(gennaio 2003, Varsavia)

 

Il domatore di emozioni

 

Per scrivere poesia

bisogna vivere…

bisogna essere…

       anormali?

       squilibrati?

       estremamente felici!

       patologicamente infelici!

Annegare nei dubbi!

 

Soffocare nelle passioni!

Bisogna vivere!

Bisogna essere…

       privi d’un naturale

       domatore di emozioni

       cerco

       con urgenza

       la normalità!

 

(agosto 2007, Varsavia)

 

 

 Il giardino quasi a primavera…una nuova vita…

 

Dal cielo

Ancora grigio

Il sole spruzza

Allegri raggi

Annaffia il mondo

La speranza

Rinasce dopo il freddo…

Il venticello semina…soffia…

Sfiora anche me

Una nuova vita

Seme dopo seme

Presto fioriranno

Colorando il mondo

Con una piena di sorridenti sapori

Con un mazzo di rianimanti odori

La speranza

La nuova vita

Un inno canteranno

Gli uccelli

Sotto i riflettori del sole

Nell’azzurro anfiteatro del cielo

Scene di verde

Fresco in modo naturale!

Quanto amore

Sboccerà!

Quanto da un nuovo seme!

Quanto da un gambo irrigidito dal freddo

Del tempo trascorso!

Rifiorirà

Con nuova forza

Con nuova vita…

 

 Un granello di attimo

 

Granello dopo granello

Attimo dopo attimo

Si crea la vita

Deserto sconfinato

Visto erroneamente

Dove la fine c’è

Benché invisibile agli occhi

Di quelli che viaggiano ancora!

Io amo questo viaggio…

Lo faccio con passione!

Raccolgo un granello

Da qualche duna

Uno dal deserto

Tre da un’oasi

Li chiudo nello scrigno dei ricordi

E li guardo e riguardo ogni tanto

E io stessa non so più

Cos’era la vita

E cosa un miraggio

Un desiderio un’attesa

Un frutto della mia sfrenata fantasia…

 

Canto del mare

 

La musica suonata

Dal vento sugli ormeggi

Accompagna il canto del mare

E poi un applauso…

Batte l’acqua

Sul fianco della nave

In questo anfiteatro

Di una indimenticabile notte scura

 

Per quell’unico

                                           Dedico questa poesia a quell’unico che

                                    troverà la chiave del mio cuore

 

Ogni sospiro

Un brivido d’emozione

Un pensiero e una parola

Tinta del rosso d’una rosa

Pensata

Detta

Scritta da me

Nello spazio della mia vita

Non importa in quale

Da quale tappa è nata

Perché tutte le dedico

Soltanto a Te – Unico!

E così ormai sarà…

Come se tu fossi il mio primo

E voglio credere l’ultimo

Mio vero respiro!

Da quando appartieni al mio cuore

Tutto ciò che soltanto…

Porta il profumo delle rose

Il pensiero sbocciatomi dentro

La parola da me espressa

L’attimo eternato dalla

Mia penna…

E’ nato esclusivamente

Grazie a Te…

Su di Te…

Per Te…

Le tue labbra

 

Ti bacio

anche se non

conosco affatto

il sapore

delle tue labbra…

dei tuoi baci…

Non posso neanche

contare su di essi nel sogno…

nella sequenza dei ricordi…

Quando chiudo gli occhi,

Quando non sei con me,

Quando m’ingoia la solitudine…

con dolore ruminando ogni

alba e ogni tramonto

Vedo soltanto

la vetta del Grostè

riflessa nei tuoi googles

sotto

scritti dalle

tue labbra

in un sorriso…

*  *  *

Non sono mie poesie,

ma attimi e pensieri,

emozioni e passioni,

sussurrate coi sassolini

nel ruscello delle parole.

Scritte, perché non annegassero

nel mare del tempo,

perché non evaporassero dalla nebbia

della vita.

 

 

 

   A Olga ho dedicato questa mia poesia

 

Il vecchio albero e il fiore

                                                       A Olga

Vedi, cara?

La mia corteccia è già crepata

come argilla arsa dal sole,

il sole che ho tanto amato

pur essendomi così lontano…

Nella mia lunga vita

ho visto tanti fiori

intorno a me,

ma non tutti mi apprezzavano,

non tutti mi amavano,

e nessuno era come te

che senti tra i rami

il mio cuore pulsare

e vedi con le foglie

i miei versi vibrare.

Ti ringrazio,

come la vela ringrazia il vento

che ancora la spinge sull’onda

verso l’ultima sponda.

 

 

 

 Olga Celuch in un ricordo di Paolo Statuti

 

    

Olga Celuch

Olga Celuch  

Questa poetessa esuberante, bella e sensibile, che prometteva molto è prematuramente scomparsa a Varsavia il 5 giugno 2010, stroncata da un male incurabile. Era nata nella stessa città il 7 gennaio 1980. Eravamo molto amici, veri amici, la nostra era un’amicizia fondata soprattutto sulla poesia e sulla pittura. Conservo di Lei un bellissimo ricordo.

Nel 2010 nel numero 78 della rivista polacca “Poesia oggi” sono apparse 12 poesie di Olga con un breve commento firmato da Daniel Zych. Eccolo nella mia traduzione: “Cos’è la poesia di Olga Celuch?… Forse un modo di rivelare la sensibilità e la capacità di meditare sul mondo? Più di tutto mi piacciono le sue miniature, che definirei flash poetici. Sono brevi lampi che illuminano la realtà, attimi di riflessione sulle stranezze del mondo, sui suoi misteri, sui sentimenti. E’ una poesia insolitamente emotiva, la poetessa assorbe il mondo sensualmente e lo vive in modo molto affettivo. In modo originale rivela anzitutto il fenomeno dell’amore. Ed è sorprendente che lo faccia non solo nella lingua polacca, ma anche in quella italiana”.

Aggiungo qui che Olga conosceva molto bene la nostra lingua per aver trascorso diversi anni in Italia frequentando la scuola italiana.

Sempre nel 2010 la casa editrice “Wydawnictwo Książkowe IBIS” ha pubblicato la sua prima e ultima raccolta di poesie intitolata “Raccontami di te…”

 

Trasloco

Mamma

non piangere

Papà

ora sto bene

non ho più le ambiguità e le illusioni terrene

soltanto azzurro e sole!

Vi ho

a portata di mano…

Vi proteggo finalmente

io veglio da lontano

Olga, luglio 2009  (scritto da Olga un anno prima di morire, immaginando di inviarla dal Cielo)

 

 

     (C) by Paolo Statuti

 

https://musashop.wordpress.com/

Stanisław Grochowiak

12 Gen

 

 

Stanisław Grochowiak

Stanisław Grochowiak

   Poeta, drammaturgo, prosatore, saggista polacco. Nacque a Leszno, nella Polonia occidentale, il 24 gennaio 1934. Dopo la guerra, intraprese gli studi di filologia polacca presso l’Università di Poznań. Collaborò con diverse riviste letterarie, tra cui Il settimanale dei cattolici di Poznań, Cultura, Lo schermo e con la casa editrice PAX. Nel 1958 entrò nella redazione del settimanale Współczesność (Tempo presente) di Varsavia. Ha ricevuto diversi prestigiosi premi, tra cui quello del ministro della cultura e dell’arte nel 1973. Morì a Varsavia il 2 settembre 1976, tormentato dall’alcoolismo.

   Debuttò nel 1951 con le poesie Ave Maria e Considero la pioggia, pubblicate sulla rivista Agli occhi dei giovani, supplemento del quotidiano cattolico Słowo Powszechne (La parola universale).

   Il tratto più tipico del primo Grochowiak è il suo programma antiestetico, definito dal poeta, saggista e teorico dell’arte Julian Przyboś (1901-1970) – turpismo (dal latino turpis). Grochowiak introduce nella poesia temi, oggetti e fenomeni fino a quel momento considerati non poetici, antiestetici, ripugnanti: bruttezza, morte, sangue, carne, bara, topo, decomposizione, muffa…Per il poeta, infatti, il mondo offre due generi di bellezza: uno convenzionale, limato, idealizzato, perciò non autentico, e uno legato alla reale esistenza dell’uomo, alla sua imperfezione, alla sua caducità e debolezza.

   Una delle sue poesie più note e considerata il suo manifesto programmatico è Czyści (I puliti). In essa il poeta ci dice che la bruttezza è più vicina all’uomo e all’arte, che solo essa incolla (crea) le forme più ricche, che senza di essa le pareti (bianche) dell’obitorio sono fredde, infatti la fuliggine le ravviva, così come le morte statue sono rianimate dall’odore di topo. Se le persone sono prive della bruttezza, quando passano nemmeno un cane ringhierà, perché sono irreali, non autentiche.

   Un’altra bella poesia programmatica è Płonąca żyrafa (La Giraffa in fiamme), ispirata dall’omonimo quadro surrealista di Salvador Dalì, dipinto nel 1937. Qui la giraffa simboleggia la vita umana che brucia. Il poeta si chiede quale sia il senso dell’esistenza dell’uomo, e paragona la vita alla carne, come organismo umano, di cui prende le difese. Ciò che a molti sembra brutto e indegno dell’attenzione dell’artista, per Grochowiak è bello. Egli vuole dire che non si può sempre parlare di cose belle, perché sono rare e quasi irreali. Bisogna accettare la bruttezza. Le parole: Ecco/Questo è qualcosa!, ripetute ben sette volte, indicano che vale la pena scrivere e parlare di essa.

   In Rozmowa o poezji (Dialogo sulla poesia) lottano tra loro due concetti opposti: estetismo e antiestetismo, personificati rispettivamente dalla Fanciulla e dal Poeta. Le belle frasi della giovane si scontrano con le risposte ironiche del Poeta. Infine la sua speranza di scoprire in lui il suo stesso modo stereotipato di intendere la poesia, è distrutta dalla sarcastica domanda del Poeta, con cui termina la poesia:

                              Perché lei è una tale peonia,

                              che vuole essere una bottiglia di colonia?…

   Nel secondo decennio della sua creazione, Grochowiak elimina sempre più spesso dal suo mondo poetico gli “attrezzi” del turpismo. Egli ora prova tutte le forme e tutti gli stili, si cimenta con l’epica, scrive un ciclo di sonetti smaglianti sotto il profilo formale. Il poeta si volge sempre più al classicismo, il cui punto culminante è rappresentato dalla raccolta Nie było lata (L’estate non ci fu). Questa svolta è particolarmente percepibile nel tono più sereno della sua poesia. Importanti elementi della sua creazione sono il grottesco e l’ironia, che scaturiscono dalla disarmonia del mondo, dalla coesistenza in esso di fattori contrastanti, dal richiamo alla tradizione letteraria barocca e romantica. Nella prefazione al volume di poesie da lui stesso scelte, uscito nel 1968, Grochowiak scrive: “Volevo essere forte, e dunque aperto a tutto ciò che offre la realtà, sincero verso gli altri e soprattutto verso me stesso. L’impronta che volevo lasciare di me, doveva essere un’impronta incisa nella terra, non nelle nuvole […] Concordo in pieno con quei critici che fanno derivare il carattere e lo spirito delle mie opere dalla grande tradizione della poesia polacca. Neanche una delle mie poesie importanti è nata senza l’eredità (e la consapevolezza di ciò) dei poeti barocchi e romantici polacchi. Qui mi trovo in un campo completamente diverso da quello dei rappresentanti della cosiddetta avanguardia, i quali nei cortili della tradizione nazionale si muovono con la fredda compuntezza delle persone che visitano i cimiteri […] Il verso non solo può, ma deve essere frutto di una piena abnegazione al lavoro, una forma di coraggio virile, il meno possibile una dimostrazione di virtuosismo, ma soprattutto una forma di espressione”.

Principali opere di Stanisław Grochowiak

Poesia: Ballada rycerska (Ballata cavalleresca, 1956); Menuet z pogrzebaczem (Minuetto con attizzatoio, 1958); Rozbieranie do snu (Spogliarsi per il sonno, 1959); Agresty (Uva spina, 1963); Kanon (Canone, 1965); Nie było lata (L’estate non ci fu, 1969); Polowanie na cietrzewie (Caccia al fagiano, 1972); Bilard (Il biliardo, 1975); Haiku-images (postumo, 1978).

Romanzi: Plebania z magnoliami (La canonica con le magnolie, 1956); Trismus, 1963; Karabiny (Carabine, 1965).

Racconti: Lamentnice (Lamentazioni, 1958).

Drammi: Szachy (Scacchi, 1961); Partita na instrument drewniany (Partita per legni, 1962); Chłopcy (Ragazzi, 1966); Król IV (Re IV, 1963); Lęki poranne (Paure mattutine, 1972); Okapi (Grondaie, 1974); Dulle Griet, 1976.

Numerosi articoli  pubblicistici.

                                                                                       Paolo Statuti

Poesie di Stanisław Grochowiak tradotte da Paolo Statuti

 

I puliti

Meglio la bruttezza

E’ più vicina al sangue

Delle parole quando radiografate

E tormentate

 

Essa incolla le forme più ricche

Salva con la fuliggine

Le pareti dell’obitorio

Nella gelità delle statue

Immette odore di topo

 

Perché ci sono persone così lavate

Che quando passano

Nemmeno un cane ringhierà

Benché non siano sante

E nemmeno quiete

 

1959

 

 

 

 

La giraffa in fiamme

 

Ecco

Questo è qualcosa!

La povera costruzione del timore umano

La giraffa che brucia pian piano

Ecco

Questo è qualcosa!

 

Qualcosa di quella parete di aspirina e sudore

Quel musetto simile a un mitra fracassato

Ecco

Questo è qualcosa!

 

Perché vi tarlate dal mento alla fronte

Quale dentino vi suona nel cranio vuoto

Ecco

Questo è qualcosa!

 

Qualcosa che ci aspetta

Utile e truce

Come una gamba

Come il cuore

Come il ventre e l’attizzatoio

 

La scura tomba del cielo umano

Ecco

Questo è qualcosa!

 

Oh questo verso scrivo

Per me e per due somari

Reumatizzati

Uno ha il mal di denti

Essi lo capiscono

Ecco

Questo è qualcosa!

 

Perché la vita

Significa:

 

Comprare carne Squartare carne

Uccidere la carne Ammirare la carne

Insegnare la carne e seppellire la carne

 

E fare della carne E pensare con la carne

E in nome della carne A dispetto della carne

Per il domani della carne Per la rovina della carne

Più di tutto più di tutto in difesa della carne

 

ED ESSA BRUCIA!

 

Non dura

Non si raffredda

Non durerà nemmeno nel sale

Cade

E marcisce

Si stacca

E duole

 

Ecco

Questo è qualcosa!

 

1958

 

 

 

 

 

Dialogo sulla poesia

 

Da – a Liebert…

 

La fanciulla:

Lei la vede? Oppure si sogna?

Oppure giunge fulminea come da un poggiolo?

 

Il poeta:

Essa nasce dalle verruche di un cetriolo…

 

La fanciulla:

Lei scherza.

Per lei è seta, è un amante

In dorati e tondi boschetti…

Come con Dafne in un dolce istante…

 

Il poeta:

Certo. Come mannaia

rudemente baciata.

 

La fanciulla:

Io la capisco. Fuori questa ironia,

ma sotto tenero è il cuore…

 

Il poeta:

Perché lei è una tale peonia,

che vuole essere una bottiglia di colonia?…

 

 

 

 

 

 

 

Bacio – paesaggio

 

Erravo nel bosco dei tuoi capelli – erbe

E il pianto scoprivo. E scendevo più in basso

Sulle bianche nevi della fronte invernale,

Dove il pianto era cessato, e c’era l’ombra dei candelieri.

 

Poi visitavo i ricordi del tuo volto,

Sempre più vicino – e sempre più vicino

La tua buona bocca di borgo addormentato;

In esso ciò che accade – solo una volta accade.

 

Ed entrai nel borgo. Ed era bel tempo

Sotto l’intero cielo del tuo palato.

Da qualche parte in un quieto angolo moriva il giovane

Pudore agreste nel profumo del timo.

 

D’un tratto tornai – e stavo nella loggia.

Guardando intorno il paesaggio che cambiava,

Il primo rametto di sambuco nato nei giardini,

E le ciglia che si rincorrevano nella rugiada del mattino.

 

Ebbrezza

 

C’è un vento che le narici d’un uomo schiude;

C’è un tale vento.

C’è un gelo che le mascelle d’un uomo marmorizza;

C’è un tale gelo.

Non sei per me né timo né rosa,

Nemmeno “tenero attimo sotto la luna” –

Ma scuro vento,

Ma bianco gelo.

C’è una pioggia, che le labbra di una donna cambia;

C’è una tale pioggia.

 

C’è un lampo che le cosce di una donna scopre;

C’è un tale lampo.

Non cerchi in me un forte braccio,

Nemmeno pensi a un “gioiello di fiducia”,

Ma pioggia salata,

Ma lampo dorato.

 

C’è un’afa che i corpi degli amanti incenerisce;

C’è una tale afa.

C’è una morte che gli occhi degli amanti dilata;

C’è una tale morte.

Ecco sulle roride radure delle Nozze

Una torre d’avorio si erge

Pura come l’afa

Liscia come la morte.

 

Canone

 

Respiro della poesia – è la neve o la fuliggine

Quando la neve è respiro – i cespugli sono neri

E se è fuliggine – copre le mani

Degli amanti o dei boia

Parimenti impallidite

 

Testa della poesia – è il cespuglio che arde nella notte

Accanto gli unicorni con le teste snelle

I corvi – i becchi ferrati in guaine d’oro

Nei ginocchi delle ragazze

Si disegnano anelli

 

Padre della poesia – suo dio – suo taglialegna

Un uomo malato con la spina dorsale tremante

Con la faccia rigida come se una sferza l’avesse tagliata

O l’ombra

Di un diavolo guizzante nelle nubi

Al buio

 

– Racconta l’uccello…

Bene. Racconto:

Il dardo aveva la punta dorata,

l’orefice lo fece a fini malvagi…

portandolo dal cielo, leggero si spegne.

 

– Racconta il pesce…

Bene. Racconto:

Questa matassa tenera e quanto sostanziale

qualcuno bello forse sul volto posava,

perché il volto è liscio come un pesce.

 

– Racconta il cavallo…

Bene. Racconto:

Con affetto impastoiare con la seta. E poi

la carezza d’un coltello sulla groppa lucente…

Un cavallo anche morto ricambierà la carezza.

 

– Racconta il mattatoio…

Bene. Racconto:

Ci sono unicorni dalle palpebre pesanti

vagano nei giardini di ciliegi,

le loro chiome piangono sui pigri fiumi…

 

La discesa

 

Purché fino a primavera

Ma la primavera?

Dov’è?

Dunque scendono in se stessi le scale di pietra

Con un ghiacciolo in mano come spada o lume

Che non spegneranno

I soffi di questi vuoti

 

Chi di noi non scende nella cava dell’infanzia?

Chi di noi non erra con la luce su questi muri

Dove nei neri rilievi di carbon fossile

E’ pieno d’impronte

Di felce

E di animali

 

Qui un uccello di primavera – di quale? – s’è irrigidito

Qui un bacio – timido o passionale?

Qui la propria figura

Tesa in un balzo

Verso una nera visciola su un albero angolare

 

Purché fino a primavera

Dunque avanti nei giacimenti

Sul fondo dell’infanzia dove a un tratto – dietro l’angolo

C’è soltanto l’eco

E il fruscio dei pipistrelli

Come se qualcuno lanciasse palle di lana nera

 

Sukumi

Svetlov chiedeva di vedermi Era già molto pallido

Specie nella gamba sinistra e nel letto d’ospedale

Che qui

Ai tropici

Era l’isola del sale

 

Le palme dietro la finestra

Sfilavano come le guardie di Amleto

Ma con indosso

Corazze di polvere

 

Svetlov sentiva quelle guardie

Le mostrava col dito

Dritto nel fuoco che roteava

Nel vano della finestra

E rideva piano

Ma ancora con forza

 

“Stanisław questo è il gong prima dell’Epilogo

E tu – impaziente – già lasci il teatro

Sbatti il sedile

Urti

La maschera passando

E tra un istante

Scenderai di corsa le scale in preda al panico”

 

Era stanco Svetlov e accanto a lui – un Negro

Dai forti denti e con un limone in mano –

E sbucciava il limone

E disse “Chvatit

No chvatit Svetlov

No dalše nie budiet”

 

Scendevo dal piano coperto di sudore

Come pioggia dirotta che stava aumentando

Nelle viscere dell’orizzonte

E nella luminaria d’un naviglio

Bianca come l’ostia

 

No dalše nie budiet

 

 

 

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Małgorzata Koehler

7 Gen

 

Małgorzata Gołąbek-Koehler

Małgorzata Gołąbek-Koehler

 

   Poetessa polacca nata a Wrocław e in seguito legata alla città di Kielce, dove debuttò nel 1973 sulla rivista “Przemiany” (Trasformazioni). Dal 1985 risiede in Germania.  Ha pubblicato due raccolte di poesie: “Zimne ognie” (Fuochi freddi, 1978) e “Zjedz ślimaka” (Mangia una lumaca, 1982), il romanzo “Zabieg” (Intervento, 1980) e il volume di racconti “W drodze do szpitala” (Strada facendo per l’ospedale, 1981). Dopo una lunga pausa, causata dalla emigrazione e dalla educazione dei figli, è tornata a scrivere. Successivi romanzi: “Szczęśliwa strona ulicy” (Il lato fortunato della strada) e “Cena plażowego psa” (Il prezzo di un cane da spiaggia). Raccolte di poesie pronte per la stampa: “Na smyczy z hieną” (Con una iena al guinzaglio) e “Tyle miłości” (Così tanto amore). E’ autrice anche di drammi: “Do nieba” (In cielo) e “Wojna” (La guerra), nonché di monodrammi: “Faul” (Fallo) e “Ruda” (La rossa).

   Di se stessa dice: “17 traslochi, 4 mariti, due figli, inguaribilmente felice, grande pacifista. Pubblico in internet nei siti letterari Rynsztok e Liternet, e ciò mi basta. Nella vita ho fatto un milione di cose, ma fin da bambina mi sono sempre sentita poetessa. Le mie poesie sono state tradotte in tedesco (da me stessa, perché sono bilingue), in inglese e adesso anche in italiano. Tratto la poesia con rispetto e non di rado elaboro a lungo i miei versi. Una parte di essi scompare, perché quando voglio perfezionarli, viene meno il fascino primitivo, e allora mi dico che evidentemente non erano importanti. Voglio che abbiano una loro dinamica, melodia, bellezza, che creino un collage di pensieri e immagini, che si compongano nella mente del lettore in qualcosa di rilevante e di nuovo. Cerco la chiave delle emozioni, senza sosta cerco la forma”.

Poesie di Małgorzata Köhler tradotte da Paolo Statuti

 

Armenia

Doveva avere in sé la noncuranza d’un capriolo,

saltellante sui monti – il tuo antenato, o Armeno,

del paese di lunga vita – con ciò mette conto fare,

salvare, esportare, anche se ad estranei.

 

Il mio avo armeno ha portato il ritmo d’un torrente

– la nostalgia della vetta innevata e della discesa –

sono in noi gli emigrati, sono in noi questi profughi

prima del verdetto della montagna.

 

Davanti alla gioielleria un mendicante, non dice niente,

soltanto si toglie il berretto davanti al denaro,

al dito oro russo, la fede. Qualcuno accanto:

“Signore, egli ha due case, una moglie

che indossa pellicce e una banda di fannulloni.

Quello che lei gli dà, subito se ne andrà”.

 

Guardo il suo berretto, sotto le gambe,

in cui hai gettato una moneta

– con l’agnello, di Armenia.

 

Tace sempre, prega – per la moglie,

per gli estranei,

per noi

e per il gioielliere.

Per le fedi, l’anello per la figlia più piccola, che non ce l’ha,

e per il tostapane, la scuola, la corrente e la medicina,

il tabacco, il biglietto,

per il biglietto.

 

E poi ce ne andiamo, in fretta, perché il pudore

del dare è maggiore del prendere.

Sui monti la neve, in macchina fa caldo.

Cominci a cantare e si sta subito meglio.

 

E il sangue in noi suona la stessa cosa: al diavolo i territori,

le finestre sono per rompersi, il muso è per cantare.

 

Siena bruciata

 

Hu! Da fing sie an zu heulen, ganz grauselich; aber Gretel lief fort, und die

gottlose Hexe muϐte elendiglich verbrennen.

 

(Uuu! Allora cominciò a ululare, terribilmente; ma Gretel scappò via e la

malvagia strega bruciò miseramente.)

 

I fratelli Grimm

 

Sulla piazza: giugno, gli abiti appiccicosi,

lungo la diagonale dell’inferno, nelle fontane si riversa il sole,

aspetto l’imbrunire e le parole, una chiavetta magica,

ma tra i denti solo  cantucci.

 

    Eravamo così vicine, afferrai il suo sguardo.

 

Come quando si siede in treno, nella metro, in una stazione,

dove da ambo le parti sembra uguale, ci sono altri treni,

e d’un tratto qualcosa si muove, va lentamente, ma non sai,

se è il tuo treno o di altri, e senti solo un capogiro –

 

un’idea.

 

     Qualcosa in noi s’innalza: fly agli antipodi, via Roma

in piazza del Campo: nostro è il campo, come turiste giapponesi,

dovevamo incontrarci con la guida in mano

ma tutto anche così finisce

 

sulla piazza: giugno, gli abiti appiccicosi,

lungo la diagonale dell’inferno, nelle fontane si riversa il sole,

aspetto l’imbrunire e le parole, una chiavetta magica,

ma tra i denti solo  cantucci.

 

Un’idea.

 

     Qualcosa perdura in noi, sorelle appestate,

che non ha conosciuto la sazietà, si avventura

nei vicoli del medioevo, della gelosia

e cerca nelle ombre calate dei portoni, negli angoli della città,

dove il profumo toscano si posava

(quella primavera, sulla piazza, allorché fu acceso un rogo

per due donne: una per il marito e il tradimento,

l’altra per le erbe,

perché sconviene alle figlie di Eva, nate nel dolore dalle costole,

lenirlo con niente, ecco il castigo per la mela. Strette l’una all’altra

e al palo, bruciavano, unendosi a morte)

 

e si poserà ancora, ogni tarda primavera,

 

sulla piazza: giugno, appiccicoso,

lungo la diagonale dell’inferno, il sole si riversa,

la chiavetta, tra i denti i cantucci.

 

SUPPLEMENTO ***

 

    Abbi pietà, amore,

anche tu, patrona delle lavandaie e dei morenti,

regina d’Europa (con la rosa e la colomba), proteggi

dal mal di testa, dall’epidemia e dal fuoco.

 

No, non poteva andare meglio, la sua valva chiusa

cerca conforto negli affreschi, nelle prove,

olocausti, spasmi storici.

 

Io sono già bruciata, lei fa le foto e piange,

con la cagna lupo.

 

     Abbi pietà, amore,

anche tu, patrona delle lavandaie,

sulla fotografia

metto questa città.

 

Augusta

 

E’ una donna nel pieno degli anni.

I suoi lampi spegnerà soltanto gennaio.

Di questo non vuole sentire nulla,

ride – in dorate matasse, scosse, onde rossicce,

il suo riso – campi di girasole; la rabbia – vento che increspa;

 

                                                                             i grilli – le cicale.

 

Il suo uomo è giovane,

come la luna le gira intorno ammira

le rotondità dell’orbita le vertebre,

e come si fa la treccia, per scoprire la nuca,

la volta dei piedi, la linea dell’impronta,

e quel che di selvaggio ringhia nella gola, strappa il collier dal collo,

e di prima mattina apre le braccia come flusso

 

                                              nelle sue chiare baie l’alba lecca il sole.

 

Insieme formano un ordine mobile, costante;

un richiamo stellare, l’attrazione di due pienezze

da non saziare questo agosto,

da non realizzare in anni

luce –

 

E’ una donna nel pieno degli anni.

Le sue tempeste gelerà soltanto gennaio.

Di ciò non vuole sentire nulla,

ride – in dorate matasse, onde ramate,

il suo riso – olio di girasole; la rabbia – fumo sull’acqua,

 

                                                                                 i grilli – i motori.

 

Il suo uomo è duro come il suolo.

L’ammira, le gira intorno,

dalle loro congiunzioni nascono le eclissi –

allora qualcosa ringhia nella gola di lei,

finché il ventilatore, nero custode delle loro notti, non scuote le ali;

qualcosa spezza la diga,

apre il porto alle navi schiumose, il granaio alle loppe,

provoca il panico degli animali,

l’esodo dei roditori, rovina, rovina!

 

–    la segala cornuta e il cianuro dei nòccioli di albicocca,

                                                              il sale delle bianche ascelle di lei

– santi veleni e tu, dolce scirocco,

proteggeteli dalla follia dell’estate!

Abbiamo fortuna

 

E’ sempre più forte, più scuro, nell’intimo, là,

dove non c’è amore; c’è solo il desiderio

e la velocità superiore alla luce, mio caro, qui qualcosa non c’è

tra di noi

 

non c’è, non divide, né un seme, né un granello;

più vicino, ancora più vicino! Senti questo niente?

 

– esso non c’è, per questo non possono trovarlo,

la ricerca è una perdita; non c’è niente

                                                               per fortuna

                                       non c’è amore

                                                               per questo

 

Il giardino in tempi di crisi

Della nonna sono rimasti i barattoli e il giardino,

infestato così presto, che non ho avuto il tempo di sarchiare;

 

in mezzo ai campi di egopodio, nel pieno sole di maggio,

sentendo il sudore sulle cosce, ho scoperto cos’è

la vera fatica femminile: strappare, raccogliere, seminare,

tacere, tra i denti granelli di sabbia, imprecare –

lui non aiuta, non vuole, è inadatto, è un fannullone,

una scaglia d’amore,

quando si è al verde, malgrado i pronostici,

vorrei sapere cosa servirò a cena,

forse solo candele.

 

E allora ho trovato nel folto di una bianca schiuma

di fieri corimbi qualche decina di germogli,

verdognoli, dinamici, succosi.

 

Gli aborigeni percorrendo il deserto, credono

che tutto è e arriverà loro al momento giusto,

come gli asparagi, di quel tempo portati dal sole,

dall’acqua, scoperti dalla fortuita mano

di una nuova donna, che pettina il giardino.

 

 

(C) by  Paolo Statuti