Archivio | aprile, 2015

Il Petrarca e la Musica

28 Apr

 

Andrea del Castagno: Francesco Petrarca

Andrea del Castagno: Francesco Petrarca

Adolf Mucha: La Musica

Adolf Mucha: La Musica

Adolf Mucha: La Poesia

Adolf Mucha: La Poesia

 

 

Con vero piacere pubblico oggi nel mio blog questo testo di Carlo Culcasi (1883-1947), insegnante di lettere, preside, poeta e saggista, inserito nel suo libro Musica e poesia (prima edizione Istituto Editoriale Cisalpino, Varese 1936). L’autore vuole indurci a rileggere i versi del Petrarca quasi fossero una spartito, anche se non sappiamo leggere le note musicali? Proviamo, ascoltiamo le immortali strofe del Canzoniere come se uscissero da un liuto, dalla gola di un uccello canterino, da un ruscello che scroscia tra le rocce, e scopriremo che Petrarca non fu solo un grande poeta, ma anche un grande musicista della parola. Ecco uno dei miei sonetti preferiti:

 

Solo et pensoso i più deserti campi

vo mesurando a passi tardi e lenti,

et gli occhi porto per fuggire intenti

ove vestigio human l’arena stampi.

 

Altro schermo non trovo che mi scampi

dal manifesto accorger de le genti,

perché negli atti d’alegrezza spenti

di fuor si legge com’io dentro avampi:

 

sì ch’io mi credo ormai che monti et piagge

et fiumi et selve sappian di che tempre

sia la mia vita, ch’è celata altrui.

 

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge

cercar non so ch’Amor non venga sempre

ragionando con meco, et io co’llui.

 

 

 

 

Il Petrarca e la Musica

 

 

Se Dante, poeta austero e profondo amò la musica, tanto più doveva amarla il Petrarca, per le disposizioni stesse del suo spirito, aperto a tutte le effusioni soavi, per il carattere della sua poesia così delicata e armoniosa.

Messer Francesco sortì dalla natura tutte le doti che sono necessarie a un musico: ebbe un senso squisito dell’armonia e del ritmo, ebbe dolce e canora la voce, possedette, insomma, il genio della musica.

Il Boccaccio, che gli fu amico e lo conobbe da vicino, scrisse che il Petrarca: «In musicalibus vero, prout in fidicinis et cantilenis, et nondum hominum, sed etiam avium, delectatus ita ut ipsemet se bene gerat et gesserat in utrisque».

Filippo Villani, che gli fu contemporaneo e ne scrisse la vita in latino, così parla di lui: «Petrarcha doctus insuper lyra mire cecinit, unde labores studii modeste levabat… Fuit vocis sonorae atque reduntantis, soavitatis tantae atque dulcedinis, ut nescirent etiam doctissimi ab eius collocutione discedere».

Oltre a questi, parecchi altri biografi, tutti contemporanei o di poco posteriori al Petrarca, concordano nel dire che egli si dilettava moltissimo di musica, e che aveva una singolare attitudine e disposizione per le cose musicali.

Che poi il Petrarca possedesse qualche strumento, si ricava con certezza da una notizia che ci dà egli stesso nel suo testamento, dove lasciò scritto: «A maestro Tomaso Bambasio lego il più buono dei miei liuti, onde si valga suonandolo non ad usi profani, ma in lode di Dio».

E se possedeva parecchi liuti, se aveva una bella voce, e suonava e cantava, non può dubitarsi che conoscesse anche la musica.

                                                                                 * * *

Il Petrarca cantò per tutta la vita; chè il suo lungo esercizio poetico può considerarsi come un canto continuo, ispirato e soavissimo. Se non si fosse tanto dilettato di musica, di armonie di corde e di liuti, egli non sarebbe stato il poeta che fu. Egli trasfuse nel Canzoniere tutto il suo entusiasmo per la musica, e fece sì che la poesia fosse materia di suoni e d’accordi, di numeri e di cadenze musicali. Nella sapiente architettura delle strofe, nell’accorto uso della lingua, nella scelta delle parole, nella stessa disposizione delle sillabe nel verso, egli si palesò, più che poeta, musicista di rarissimo talento.

Egli, grazie al suo squisito sentimento dell’armonia e del ritmo, non solo perfezionò lo strumento della lingua, liberandola d’ogni suono duro e aritmico, d’ogni scoria arcaica e plebea, raffinandola e nobilitandola, ma la rese anche snella, flessuosa, trasparente, come una musica viva e pulsante, rispondente ad ogni voce interna, ad ogni moto dell’anima.

Il Petrarca diede molta importanza all’elemento musicale che è insito nelle parole, e fece sì che esse esprimessero, per la virtù stessa del suono, molto più di quanto significano nel linguaggio ordinario e comune. Infatti, nella melodia strofica del Canzoniere, le parole son così disposte che acquistano spesso una individualità tutta nuova ed assumono una significazione che, se è vaga ed imprecisa, desta una infinità di echi maliosi e suggestivi, indefinibilmente dolci e soavi, che sembrano quasi imitare le voci e i suoni della natura: il canto degli uccelli, il mormorio delle acque, il sussurro delle fronde. Il Petrarca ci fa sentire più di quanto dice, ci desta delle sensazioni nuove e imprevedute che non sappiamo spiegarci e sono dovute a una parola, ad un verso, ad una semplice successione di vocali e di consonanti, le quali, così disposte, assumono un valore più alto, e prendono una significazione nuova, che trascende quella abituale, e ci commuove e suggestiona, e non sappiamo come, e non sappiamo perché.

L’acquisto di questa forma, così bella e varia, così perspicua e melodiosa, costò molto al Petrarca. La politezza del Canzoniere è dovuta ad un lungo lavorìo di pazienza e di amore, di cui ci danno testimonianza sicura le numerose postille che il sapiente artefice appose nei suoi manoscritti. Egli lavorava, come si dice, di cesello, con cura minuziosa e sottile, faceva e rifaceva i suoi versi parecchie volte, leggendoli ad alta voce, cantandoli a suon di liuto, fin quando avesse raggiunto quella perfezione che il suo fine senso estetico gli additava. In fine, contento, scriveva la formula sacramentale: Hoc placet.

   E in questo suo Canzoniere, così martellato e tormentato, quanta ricchezza di lingua, quanta fluidità ed armonia, quale abbondanza di rime, di assonanze, di allitterazioni! Il musicista vi si appalesa ad ogni passo: certe canzoni son così bene armonizzate nelle varie parti, che fan pensare, più che a un componimento poetico, ad una sinfonia dalle linee belle e grandiose. Parecchi sonetti hanno, direi quasi, un’andatura musicale, c’è in essi qualcosa per cui somigliano ad una sonata piccola e dolce, dotata di uno straordinario potere suggestivo. In alcuni sonetti c’è quasi lo spunto d’una melodia, d’una romanza soave e melanconica, che potrebbe essere di un Marcello o di un Pergolesi. In alcuni altri, in quelli per esempio che incominciano: Io canterei d’amor sì nuovamente – Se amor non è, che dunque è quel che sento, vi è una così sapiente disposizione di rime in ale e in ento, in ente e in ivi, da far pensare ad una arietta metastasiana, musicata da un mellifluo maestro del settecento.

Non per nulla i poeti che vennero dopo, quelli specialmente più dolci e musicali, dal Poliziano al Metastasio, tennero sempre gli occhi rivolti al Petrarca, considerandolo come il vero e l’unico modello da imitare, come l’artista impareggiabile, che aveva creato il più soave eloquio della poesia, e aveva fatto del patrio volgare la lingua più melodiosa e musicale del mondo.

 

                                                                                       Carlo Culcasi

Lamento per san Giorgio

23 Apr

 

Icona: San Giorgio e il drago

Icona: San Giorgio e il drago

 

Andrzej Mandalian (1926-2011)

 

Lamento per san Giorgio

 

San Giorgio non esiste Non è morto

Né trafitto dalla lancia né con la lancia in mano

Né vincitore né morto da prode Non sulla sella

Né gettato di sella Non fu

Sottoposto a dura prova dai pagani

Né venduto né condannato al martirio

Né immerso nel piombo nella pece nell’immondizia

San Giorgio non è mai esistito

San Giorgio non fu san Giorgio

 

Le deposizioni di testimoni degni di fede

Non permettono di stabilire l’identità

Si parla di subdole icone

Di leggenda fraintesa L’armatura non era un’armatura

Il cavallo non era un cavallo le gesta non erano gesta

La vergine presente al fatto è scomparsa senza tracce

L’occhio della provvidenza ammicca anziché rispondere

E non servono più le tavole dipinte

Le tele stillanti oro la pietra rozzamente scolpita

 

San Giorgio non esiste

Il canone della virtù cavalleresca fu creato

In circostanze sospette

Secondo alcuni da un paio di Zingari

Che vagabondavano con la luna e con la favola eterna

Secondo altri in una locanda da frati questuanti

Con le mani vuote certo ma col boccale pieno

Al servizio di qualche impostore vagabondo

 

La Chiesa accolse la notizia con la dovuta riserva

Ma il popolo la prese subito per buona

Il drago affollò le terre il cavaliere levò la lancia

Per difendere le caste fanciulle e i dolci neonati

Adesso è tutto un abbaglio una sembianza illusoria

Ben presto si saprà che il drago non sputava fuoco

Né sferzava con la coda E’ vero diamine

Il mondo non si compone più di quattro elementi

Il mondo finisce

S’adegua all’occhio ingannatore

Che scorge solo il multiforme anziché l’unità

Nessuno bada più alla liturgia ambrosiana

Nulla più vale la parola di papa Gelasio

 

San Giorgio è stato abolito

Tutto in regola

Nessuno più cavalcherà nei campi con la bianca armatura

Con la rossa croce

Nessuno più si mostrerà alle schiere presso Gerusalemme

Nulla rimarrà della leggenda nulla resterà delle gesta

Ma che accadrà della fanciulla

Fino a quando deve mantenersi casta

Che accadrà dei neonati

Fino a quando si riuscirà a tacere

In verità vi chiedo

Chi ucciderà il drago

 

Noi mansueti e poveri di spirito

Che facciamo fiduciosi  la pace umili misericordi

Sempre puri di cuore Noi che soffriamo

Noi che piangiamo che abbiamo fame e sete

Noi la cui salvezza è tutta in questa frase

La realtà è menzognera e la vita fallace

Strappandoci a brandelli gli abiti da lutto noi gridiamo

San Giorgio non esiste

Guidaci san Giorgio!

(1972)

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

Rupert Brooke: Centenario della morte

21 Apr

 

Rupert Brooke

Rupert Brooke

 

 

Il poeta inglese Rupert Brooke, noto soprattutto per i suoi sonetti ispirati dalla guerra, tra i quali assai noti I morti e Il soldato, nacque nella città di Rugby nel Warwickshine il 3 agosto 1887, secondo di tre figli. Studiò nel King’s College di Cambridge e fu eletto Presidente della Cambridge University Fabian Society. Viaggiò in Germania e in Italia e pubblicò il primo volume di Poems nel 1911; fu poi nell’America settentrionale e in Oceania. Al successo dei suoi sonetti contribuì non poco il fascino della bella figura del poeta, che W.B. Yeats descrive come “il più bel giovane d’Inghilterra”. Ebbe diversi amori, tra i quali quello per una taitiana di nome Taatamata che con lui procreò una figlia.

Scoppiata la guerra, entrò a far parte della Royal Naval Division e s’imbarcò per Gallipoli il 28 febbraio del 1915, ma la puntura di una zanzara gli infettò il sangue e morì di setticemia il 23 aprile dello stesso anno a bordo di una nave-ospedale francese nel Mar Egeo, al largo dell’isola di Sciro, dove fu sepolto. L’amico William Denis Browne descrisse così la sua morte: “…Io sedevo accanto a lui. Alle 4 del pomeriggio le sue condizioni peggiorarono e alle 4.46 morì, con il sole che illuminava la sua cabina e il fresco vento del mare che soffiava attraverso la porta e le finestre socchiuse. Difficile immaginare una fine più serena e tranquilla della sua: in quella baia così bella, protetta dai monti e profumata di salvia e di timo”. Aveva solo 27 anni.

 

Tre poesie di Rupert Brooke tradotte da Paolo Statuti

 

I morti

Questi cuori erano orditi di gioie e di cure,

Mondati dalla tristezza, pronti all’allegria.

Gli anni li resero gentili. L’aurora era loro,

E il tramonto, e i colori della terra.

Hanno visto il movimento e udito la musica,

Conosciuto il sonno e la veglia, gioito degli amici,

Provato un fulmineo stupore e la pace dell’esser soli,

Sfiorato fiori e guance. Tutto questo è finito.

 

Ci sono acque spinte alla gioia da venti mutevoli

E illuminate da cieli splendenti, tutto il giorno.

E poi il gelo, con un gesto, ferma le onde danzanti

E la loro vagante bellezza. E lascia una bianca

Immacolata gloria, un’intensa radiosità,

Una vastità, una pace luminosa, sotto la notte.

 

Il colle

 

Senza fiato ci lanciammo sul ventoso colle,

Ridendo al sole e baciando lo splendido prato.

Tu dicesti “Attraverso la gloria e l’estasi passiamo;

Il vento, il sole e la terra restano, gli uccelli cantano,

Quando noi siamo vecchi…” “E quando moriamo

Finisce ciò che è nostro; e la vita arde ancora

In altri amanti, in altre labbra” dissi io,

“Cuore del mio cuore, il Cielo è ora ed è nostro!”

 

“Siamo il fiore della terra e impariamo la sua lezione,

La vita è il nostro grido. La fede è con noi! “dicemmo;

“Noi scenderemo con passo fermo nell’oscurità

Incoronati di rose!”… Siamo fieri,

E ridiamo per avere tante cose vere da dire.

– E allora a un tratto tu piangesti e volgesti lo sguardo.

 

 

 

 

 

 

 

Il soldato

 

Se devo morire, questo solo pensate di me:

Che c’è un angolo in un paese straniero

Che sarà sempre l’Inghilterra. Sarà celata

Nella fertile terra una polvere più fertile ancora;

Una polvere che l’Inghilterra generò e plasmò;

Cui diede i suoi fiori da amare, le sue vie da seguire;

Un corpo inglese, che respira aria inglese,

Bagnato dai fiumi, benedetto dai soli di casa.

 

E pensate che questo cuore, libero da ogni male,

Che pulsa nello spirito eterno, da qualche luogo

Restituisce i pensieri ricevuti dall’Inghilterra,

Le sue vedute e i suoni, i sogni felici,

L’ilarità appresa dagli amici, e la gentilezza,

Nei cuori in pace, sotto un cielo inglese.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

Walt Whitman (1819-1892): Il dio Pan in persona

17 Apr

 

Walt Whitman nel 1855

Walt Whitman nel 1855

 

 

   Walt Whitman, definito dallo scrittore americano Amos Bronson Alcott (1799-1888) “il dio Pan in persona”,  è considerato uno dei precursori della moderna letteratura statunitense, e il più grande poeta americano, nonché il padre del verso libero. La sua creazione influì sul trascendentalismo e sul pragmatismo (James). La sua prima raccolta di poesie Foglie d’erba (Leaves of Grass, 1855), pubblicata a sue spese, fu considerata scandalosa e controversa per il suo audace contenuto erotico. Il tipico protagonista delle sue poesie è un umanista (I piaceri del cielo sono con me e i tormenti dell’inferno sono con me), e  un solitario viandante che crede nell’armonia dell’universo, che celebra la natura, la fecondità e il primordiale istinto sessuale.

Scrive Valerio Massimo De Angelis: “Walt Whitman ha celebrato con i suoi versi liberi e audaci la grandezza della democrazia del suo paese, e lo spirito di fratellanza che dovrebbe unire tutti gli esseri umani. La novità del linguaggio e del contenuto hanno reso il suo capolavoro Foglie d’erba, il titolo più importante della lirica statunitense. Nella prefazione Whitman propone il suo programma poetico, una dichiarazione d’amore sintetizzata nella frase “l’America è il poema più grande”, e definisce il ruolo del poeta quale cantore dei valori della libertà e della democrazia incarnati nella nazione americana. Nella raccolta Canto di me stesso,il poeta abbraccia con il suo corpo-nazione l’America intera e ogni individuo che ne fa parte, in un rapporto di amore totale e disinteressato. La sua è una eredità inestimabile di coraggio politico e spericolatezza linguistica, e soprattutto una testimonianza di amore sconfinato per l’umanità.”

Tra i miei libri ho trovato una vecchia edizione de La coscienza religiosa (F.lli Bocca Editori, Torino, 1904) del filosofo e psicologo americano William James (1842-1910). Nel libro egli cita questo bel ritratto di Walt Whitman, scritto da Richard Maurice Bucke (1837-1902), psichiatra e scrittore canadese che diventò il medico personale del poeta e suo intimo amico: “La sua occupazione favorita era quella di andare girovagando e oziando all’aperto, solo, guardando l’erba, gli alberi, i fiori, gli effetti di luce, i vari aspetti del cielo, ascoltando gli uccelli, i grilli, le rane canterine, e i mille suoni della natura. Era evidente che tutte queste cose davano a lui un piacere ben maggiore di quello che esse diano agli uomini ordinari. Prima di conoscerlo, non mi era mai capitato di vedere un uomo trarre un piacere, una felicità così assoluta da simili cose. Egli era innamorato dei fiori, tanto selvatici che di giardino, di qualunque specie fossero. Egli ammirava, credo, i lillà e i girasoli quanto le rose. E forse nessun uomo al mondo ha amato tante cose ed è stato indifferente per un così scarso numero di esse quanto Walt Whitman. Tutti gli oggetti naturali possedevano, secondo lui, una grazia speciale. Tutte le viste, tutti i suoni gli aggradivano. Sembrava che amasse (ed io credo che li amasse davvero) tutti gli uomini e tutte le donne e tutti i bambini che vedeva (sebbene non lo abbia sentito dire che ne prediligesse alcuno), ma ognuno che lo conoscesse sentiva di essere amato da lui, non meno che gli altri. Non l’ho mai sentito arrabbiarsi o discutere, né mai l’ho inteso parlar di denaro. Egli trovava sempre una giustificazione, talvolta scherzosa, talvolta seria, per quelli che parlavano duramente di lui e dei suoi scritti, e spesso mi parve che l’opposizione dei nemici gli facesse piacere. Quando lo conobbi la prima volta, pensavo che egli si sorvegliasse, non volendo dar seguito al risentimento, all’antipatia, al rimprovero. Non potevo capacitarmi che un individuo potesse essere assolutamente privo di certi stati d’animo. Ma dopo una lunga osservazione, compresi che una tale indifferenza o una tale incoscienza erano cose perfettamente reali. Non parlava mai con asprezza di alcuna nazionalità o di alcuna classe di persone, né di alcuna epoca della storia del mondo, né di alcun mestiere o di qualche occupazione commerciale, neppure di alcun animale, di alcun insetto, né di cose inanimate o leggi della natura, né di alcun effetto di queste, quali le malattie, le deformità, la morte. Non brontolava, né si lamentava mai del tempo, dei dolori, delle malattie o d’altre cose. Non imprecava mai. Non l’avrebbe potuto, infatti, poiché mai parlava irritato. Mai mostrò di aver paura, né credo l’abbia sentita mai.”

Per la scelta delle poesie mi sono servito dell’edizione Einaudi del 1950 a cura di Enzo Giachino. Devo sottolineare che nel frontespizio di questa raccolta è riportata la seguente nota: “La presente traduzione dell’opera poetica di Walt Whitman è nata e si è compiuta sotto la cura particolare di Cesare Pavese, che alle pagine del poeta americano fu legato da sensibile amore fin dagli anni della giovinezza. La casa editrice e il traduttore dedicano questo libro alla Sua memoria.”

Com’è noto, Pavese a 21 anni fece la sua tesi di laurea proprio su Walt Whitman. Nel suo libro La letteratura americana e altri saggi, Einaudi 1951, egli scrive: “…Walt Whitman ha voluto fare per l’America quello che i vari poeti nazionali hanno fatto nei tempi per i loro popoli: Walt Whitman è tutto invasato da quest’idea romantica che lui per primo ha trapiantato in America, Walt Whitman vede l’America e il mondo soltanto in funzione del poema che li esprimerà nel secolo XIX e tutto il resto al confronto non conta… Walt Whitman vive tanto intensamente l’idea di questa missione, che pur non salvandosi dal fallimento ovvio di un simile disegno, si salva per essa dal fallimento della sua opera. Egli non fece il poema primitivo che sognava , ma il poema di questo suo sogno. Non riuscì negli assurdi di creare una poesia adatta… ai caratteri della nuova terra scoperta – poiché la poesia è una sola… Per scrivere insomma l’apparente paradosso, egli fece poesia del far poesia.”

 

 

Poesie di Walt Withman tradotte da Enzo Giachino

 

 

1

 

Io celebro me stesso, io canto me stesso,

e ciò che io presumo devi anche tu presumere,

perché ogni atomo che mi appartiene è come appartenesse

anche a te.

 

Pigro m’attardo e invito l’anima mia,

pigro m’attardo a mio agio e mi curvo a osservare un filo

d’erba estiva.

 

La mia lingua, ogni atomo del mio sangue, formato da questo

suolo, da quest’aria,

qui nato, da genitori nati qui, i loro padri e i padri dei padri

nati qui parimenti,

io, a trentasette anni e in perfetta salute, incomincio,

sperando di non cessare che alla morte.

 

Credi e scuole in aspettativa,

un poco indietro ritrattomi, contento di ciò che essi sono,

ma non scordandoli mai,

accolgo il bene e il male, lascio parlare a caso,

la Natura senza alcun freno e con la nativa energia.

 

 

 

5

 

Credo in te, anima mia, e l’altro che io sono non dovrà mai

umiliarsi a te,

come tu non dovrai umiliarti all’altro.

 

Ozia con me sopra l’erba, libera la tua gola da ciò che l’impediva,

non parole né musica né rime ti chiedo, né convenzioni né

conferenze, sian pur delle migliori,

già mi soddisfa la cantilena, il cupo gorgoglio della tua voce velata.

 

Ricordo di come una volta si giacque, un trasparente mattino

d’estate,

il capo tu mi posasti di sbieco sull’anca, e dolcemente su me

ti volgesti,

mi apristi la camicia sullo sterno, dardeggiando la lingua sino

al cuore nudo,

poi ti stendesti fino a sentir la mia barba, fino a tenermi i piedi.

 

Rapida sorse in me, e per me si diffuse la pace e la scienza,

che superano ogni terrestre argomento,

e so che la mano di Dio è la promessa della mia,

e so che lo spirito di Dio è fratello del mio,

e che tutti gli uomini ovunque nati sono anche fratelli di me,

tutte le donne sorelle e amanti di me,

 

e che la controchiglia della creazione è l’amore,

e che infinite sono le foglie erte o avvizzite nei campi,

e le formiche brune nelle piccole tane sotto esse,

e le muschiose incrostazioni delle staccionate tortuose, e i

mucchi di pietre, il sambuco, il verbasco e la morella

in grappoli.

 

(da: Il canto di me stesso)

 

 

Ho udito la vostra solenne dolcezza,

canne dell’organo

 

Ho udito la vostra solenne dolcezza, canne dell’organo,

domenica scorsa, passando al mattino davanti alla chiesa,

venti d’autunno, passeggiando tra i boschi al crepuscolo,

ho udito i vostri sospiri protrarsi così desolati lassù,

ho udito cantare all’opera il tenore italiano, perfetto,

ho udito il soprano cantare in un quartetto;

cuore della mia amata! anche te ho sentito mormorar fioco,

attraverso uno dei polsi attorno al capo,

ho udito il tuo polso che ier notte, nel grande silenzio, tante

piccole campanelle mi faceva squillare sotto l’orecchio.

 

 

(da: Figli d’Adamo)

 

 

Radici e foglie appena

 

Radici e foglie appena sono queste,

profumi recati a uomini e donne dai boschi selvaggi,

dal margine degli stagni,

acetosella del cuore e garofani d’amore, dita che avvincono

più strettamente che rampicanti,

gorgheggi da gole d’uccelli nascosti tra gli alberi, quando

il sole ascende,

soffi di terra e d’amore trasmessi da rive di vita su mari di

vita, sino a voi, marinai!

Bacche addolcite dal gelo, virgulti di marzo offerti freschi

a giovani che per i campi vagano, quando l’inverno

si scioglie,

germogli d’amore messivi innanzi, immessi in voi, ovunque

voi siate,

germogli che si schiuderanno secondo i modi d’un tempo,

se a loro recate il calore del sole si schiuderanno offrendovi

forma, colore, profumo,

se voi divenite alimento e umore, essi saranno fiori, frutti,

alti rami e alberi.

 

(da: Calamus)

 

 

Bassa marea

 

Bassa marea sotto il giorno che muore,

aulente frescura marina che soffi verso la terra, giungono

odori salmastri e di giunchi,

con voci vaghe trasmesse dai flutti,

confessioni velate – qualche singhiozzo, mormorio di parole,

quali di gente lontana o nascosta.

 

Come sui flutti volano e si spandono! come mormorano

sempre!

Poeti senza nome – artisti più grandi di tutti, disperse le loro

più vagheggiate ambizioni,

amore non corrisposto – un coro di secolari lamenti – parole

dell’estrema speranza,

il grido sconsolato di qualche suicida, Buttiamoci nell’infinito

          deserto, per non tornare mai più.

 

Verso l’oblio, allora!

Va’, compi l’opera tua, calante marea che intombi!

Va’ mentre dura il tuo tempo, tu che sfoci selvaggia.

 

La voce della pioggia

 

E chi sei tu? chiesi all’acquata, che dolcemente pioveva,

ed essa, strano a dirsi, mi diede questa risposta, ch’or qui

traduco:

della Terra sono il Poema, rispose dunque l’acquata,

eterna mi sollevo impalpabile dalla terra, dal mare

insondabile,

su verso il cielo, donde, in forma vaga, totalmente mutata

eppure sempre la stessa,

discendo a lavare le aridità, i detriti, gli strati di polvere

del mondo,

e quanto in essi, senza il mio ausilio, sarebbe seme latente,

non nato;

perenne, di giorno, di notte, restituisco la vita all’origine

mia, la abbellisco e purifico;

(perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il

compimento e l’errore,

ascoltato o non ascoltato, debitamente con amore ritorna.)

 

(da: Foglie dei settant’anni)

 

Ho personalmente rielaborato questo frammento della poesia 32 del ciclo

Il canto di me stesso, non tradotta da Enzo Giachino

 

Credo che potrei vivere  con gli animali, così placidi

e dignitosi,

Mi fermo e li osservo per ore e ore;

Non si affannano mai, non si lagnano per la loro condizione.

Non vegliano al buio a piangere i loro peccati.

Non mi annoiano discutendo dei loro doveri verso Dio.

Nessuno è insoddisfatto, nessuno impazzisce per mania

di possedere,

Nessuno s’inginocchia davanti a un altro, o a un suo simile,

vissuto migliaia di anni fa,

Nessuno è rispettabile o infelice sulla terra intera…

 

 

Desidero richiamare l’attenzione sulla casuale consonanza di questo brano con la poesia di Rabindranath Tagore del mio precedente post “Uomini e animali”.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Uomini e animali

15 Apr
Rabindranath Tagore

Rabindranath Tagore

 

   Spesso fantastico a riconoscere il limite fra l’uomo e l’animale il cui cuore non sa dir parola. Attraverso quale primo paradiso, in un remoto mattino della creazione, era il semplice sentiero accanto al quale i cuori si scambiavan reciproche visite?

Quei segni, nel loro continuo andare, mai cancellati attraverso le discendenze, son stati lungamente dimenticati.

Eppure improvvisamente in qualche muta musica l’offuscata memoria si sveglia e le bestie guardano nella faccia degli uomini con una tenera fiducia, e gli uomini le guardano negli occhi con una allegra affezione.

Sembra che due fratelli mascherati s’incontrino e vagamente sappiano distinguersi l’un l’altro.

                                                 Rabindranath Tagore (1861-1941)

 

Da: Il giardiniere, Traduz. dall’inglese dell’editore Mammolo Zamboni, Bologna 1947.

 

 

 

Olga Boznanska: Una grande ritrattista

11 Apr

Olga Boznańska (Cracovia 1865 – Parigi 1940)

 

Quest’anno ricorre il 150esimo anniversario della nascita e il 75esimo anniversario della morte di una delle più celebri pittrici polacche: Olga Boznańska. Fin dall’infanzia prese lezioni di disegno. Studiò pittura con Antoni Adam Piotrowski e Kazimierz Pochwalski. Nel 1886 si recò a Monaco per continuare gli studi. Come donna non poteva entrare nell’Accademia di Belle Arti, e quindi si formò nelle scuole private di Monaco di Karl Kricheldorf e Wilhelm Dϋrr. Nel 1896 cominciò a esporre i suoi quadri a Monaco, Varsavia, Berlino, Vienna. Due anni dopo conseguì i primi successi. Per il Ritratto del pittore Paul Neuen ricevette dalle mani dell’arciduca Karl Ludwig la medaglia d’oro e a Londra un riconoscimento per il Ritratto della signorina Mary Breme. Nel 1898 si trasferì a Parigi. Nel 1912 a Pittsburgh rappresentò la Francia insieme con Claude Monet e August Renoir e di nuovo nel 1923, sempre a Pittsburgh, rappresentò la scuola francese con artisti quali Pierre Bonnard e Maurice Denis. Ma aveva già ricevuto significativi premi e riconoscimenti in diverse città europee, come Londra, Amsterdam, Venezia, Berlino. Negli ultimi anni di vita la sua fama andò calando. Nel 1932 si recò a Cracovia per l’ultima volta e nel 1937 alla Esposizione Mondiale di Parigi vendette cinque quadri, tra i quali il Ritratto della signora Dygat, acquistato dal re d’Italia. Fu il suo ultimo successo. Tre anni dopo morì a Parigi.

Olga Boznańska fu celebre soprattutto come ritrattista. Applicava il colore con piccoli tocchi di pennello e aspettava che si asciugasse. Con l’andare del tempo rinunciò alla tela, preferendo il cartone, grazie al quale otteneva la caratteristica opacità con raffinati effetti di colore. Sarebbe sbagliato legare Boznańska all’impressionismo. La differenziava da essi il rapporto con la natura. Alla esaltazione della luce degli impressionisti, ella sostituiva nei suoi ritratti una penetrante analisi psicologica e il raggiungimento di una forte espressione. La sua tavolozza velata di nebbia non ha molto in comune con la fantasmagoria dei colori tipica di Monet, Van Gogh, Renoir. Mentre gli impressionisti uscivano dai loro atelier e studiavano l’influenza della luce solare sul colore, Boznańska non dipingeva quasi mai all’aperto. Inoltre non trattava (al pari degli impressionisti) la figura umana come elemento del paesaggio. Si concentrava sul ritratto psicologico, che rispecchiava l’intima verità del soggetto dipinto, e non un istante fugace o una sfavillante macchia di colore. Nei suoi quadri la luce vive di vita propria, a prescindere dalle condizioni atmosferiche o dalle ore del giorno.

Verso il 1900 consolidò il suo stile così personale. Nella sua pittura dominano la relativa chiarezza del colore e il gioco dei toni e delle sfumature, che conferiscono ai quadri la loro particolare nebulosità e misteriosità. Per commissionare un suo ritratto bisognava mettersi in “lista di attesa”, e quasi implorare la pittrice, a meno che ella non rimanesse affascinata dal volto di qualcuno. Non abbelliva i visi, ma cercava di trovare i tratti caratteristici, la verità celata nel soggetto. E’ noto che gli occhi sono lo specchio dell’anima, e per questo essi sono così importanti nei ritratti di questa pittrice. Essi svelavano il reale carattere della persona. Per questo il risultato finale non sempre accontentava i suoi clienti. Alcuni di loro potevano sentirsi perfino smascherati e decidevano di non ritirare il ritratto commissionato.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Alcuni quadri di Olga Boznańska

 

 

Autoritratto

Autoritratto

Bambina

Bambina

boznanska

Ragazza con crisantemi

Ragazza con crisantemi

rose

Rose

natura morta con fiori

Natura morta con fiori

 

 

Donna bretone

Donna bretone

Dama con cagnolino sulle ginocchia

Dama con cagnolino sulle ginocchia

Il pittore Józef Czajkowski

Il pittore Józef Czajkowski

Ritratto del padre della pittrice

Ritratto del padre della pittrice

Giovane donna con bambino

Giovane donna con bambino

Il pittore Paul Neuen

Il pittore Paul Neuen

Pensierosa

Pensierosa

Paesaggio

Paesaggio

Ritratto della signora Dygat

Ritratto della signora Dygat

Ritratto di Franciszek Mączyński

Ritratto di Franciszek Mączyński

Ritratto di giovane donna

Ritratto di giovane donna

 

Aleksander Gierymski: Il poeta della luce

9 Apr
Aleksander Gierymski: Autoritratto

Aleksander Gierymski: Autoritratto

 

 

 

Aleksander Gierymski, uno dei più illustri rappresentanti del realismo, precursore degli esperimenti luministici e coloristici nella pittura polacca della fine del XIX secolo, nacque a Varsavia nel 1850 e morì a Roma nel 1901. Nei suoi quadri si vede il fascino della luce, che l’artista cercava di cogliere nella sua essenza e di mostrare con mezzi pittorici sulla tela. Aveva un carattere particolarmente difficile, era irruente, pedante, di scarsa autostima, soggetto a improvvisi mutamenti di umore. Fumava molto. Lavorava e dormiva nel suo atelier. A quanto pare spalmava il colore sulla tela con le dita. Artista di grande caratura e al tempo stesso figura tragica. Subordinava completamente la sua vita privata all’arte, non si creò mai una famiglia e fino all’ultimo restò un solitario. Consumandosi intimamente alla ricerca di un vago miraggio di ideale artistico, terminò la sua vita in uno stato di estremo esaurimento fisico e psicologico. La sua morte in un ospedale psichiatrico romano fu il compimento del suo destino di uomo sensibile, dotato di grande personalità, ma incompreso e non apprezzato dalla società.

Nel 1871 Gierymski si recò in Italia (Venezia, Verona) con il fratello Maksymilian, anche lui pittore, e il contatto diretto con la pittura rinascimentale italiana esercitò un’influenza notevole sul carattere della sua creazione giovanile. Negli anni 1873-79 soggiornò prevalentemente a Roma.

Il suo ritorno a Varsavia all’inizio del 1880 coincise con la fine del periodo delle ricerche e degli esperimenti giovanili e con la scelta di una nuova tematica dei suoi lavori. L’artista rinunciò definitivamente alla pittura di eleganti scene delle epoche passate e rivolse la sua attenzione alla vita quotidiana nei quartieri più poveri e trascurati di Varsavia. Giustamente celebre, ad esempio, è il bellissimo quadro “L’ebrea con la arance”. In esso vediamo una vecchia ebrea vestita poveramente con la cuffia in testa e un grande scialle. Sulle braccia due ceste di arance. Sullo sfondo i tetti sfumati di Varsavia. La donna ha un’espressione grave. Le guance sporgenti e le rughe accentuano la sua tristezza e fragilità. Le arance fanno da contrasto alla figura femminile, con il loro colore riferito alla vita, al calore, al clima meridionale.

 

Nell’inverno del 1884 il pittore si recò a Vienna per curarsi (già allora soffriva di nevrosi, che sul finire della sua vita si trasformò in una grave malattia mentale). Nel 1890 si recò a Parigi, dove per la prima volta in modo tangibile entrò in contatto con la pittura degli impressionisti, che lasciò una significativa impronta nei suoi esperimenti nel campo della luce e del colore. Nel 1894 Gierymski lasciò la Polonia per sempre e negli ultimi anni viaggiò molto. Dall’autunno del 1897 visitò soprattutto le città italiane, tra cui Venezia, Palermo, Amalfi, Roma e Verona.

 

Sono felice di poter presentare ai lettori del mio blog questo pittore polacco così legato all’Italia, eppure sconosciuto alla maggior parte degli Italiani.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Ecco alcuni quadri di Aleksander Gierymski

 

Amalfi

Amalfi

alek gierymski

Case sul canale

Case sul canale

La cattedrale di Siena

La cattedrale di Siena

Piazza Wittelsbachow a Monaco di notte

Piazza Wittelsbachow a Monaco di notte

Sera sulla Senna

Sera sulla Senna

L' ebrea con le arance

L’ ebrea con le arance

Mare

Mare

Roma: la pineta di Villa Borghese

Roma: la pineta di Villa Borghese

 

Il gioco della mora

Il gioco della mora

 

Osteria romana

Osteria romana