La morte di Isotta ovvero l’abbraccio della Morte con l’Amore
Questa mattina ho pianto riascoltando la morte di Isotta diretta da Arturo Toscanini. Toscanini e Wagner – binomio indimenticabile! Musica di una struggente assoluta bellezza. Si sente l’ombra della Morte che cresce…cresce e in un travolgente crescendo abbraccia l’Amore ed insieme escono dalla scena, accompagnati dai sospiri della musica. Ascoltatelo anche voi. Concedetevi un attimo di commozione e di gioia interiore!
Ho incontrato Nina Kossman (in Russian Kosman) in Facebook, grazie a un “Mi piace” da lei messo a un mio testo. Incuriosito, ho voluto sapere chi fosse e ho scoperto un “mondo nuovo”, un talento multiforme con una straordinaria creatività. Scrive poesie, romanzi, racconti, drammi, dipinge e scolpisce, traduce poesie russe in inglese. E’ nata a Mosca. Durante la guerra molti membri della famiglia del padre morirono nell’Olocausto a Riga (Lettonia), mentre molti famigliari della madre morirono nell’Olocausto in Ucraina, dove allora vivevano. Nel 1972 con la famiglia emigrò dall’Unione Sovietica. Dopo un anno trascorso tra Israele e Roma, si stabilì prima a Cleveland e poi a New York, dove tuttora vive.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie in russo e in inglese, due raccolte di racconti e un romanzo in inglese. I suoi quadri sono stati esposti in Canada e in America. La sua prima raccolta di poesie fu stampata dalla casa editrice “Belle Lettere” nel 1990. Racconti e poesie in inglese sono apparsi in riviste americane e canadesi. La sua prosa e i suoi versi sono stati tradotti dall’inglese in francese, spagnolo, giapponese, olandese, persiano, greco, ebraico, cinese, e adesso pubblicate per la prima volta le mie in italiano. Il suo romanzo di successo La regina degli ebrei (2019) è uscito prima in Inghilterra e successivamente anche in russo. Nel 1995 ha ricevuto il premio del Pen Club inglese e dell’Unesco per la prosa in inglese, e una donazione dalla National Endowment of Arts per la sua traduzione delle poesie di Marina Cvetaeva. Riguardo ad essa il noto poeta e scrittore V.S. Mervin (1927-2019) ha scritto: «Sono versioni chiare, forti, udibili, sento in esse la voce di Cvetaeva in misura maggiore e in un tono nuovo che svela nei suoi versi qualcosa che prima avevo appena intuito».
Nina Kossman è dunque bilingue e a tale proposito dice: «L’ inglese è la lingua che dovevo usare nel mondo esterno – a scuola, in città, ecc., mentre la mia poesia scritta in russo è emersa dal mio mondo interiore, tutto mio».
Il critico letterario Pjotr Tartakovskij (1926-2015) in un suo articolo sulla poesia di Nina Kossman scrive: «La parola di questa poetessa è duttile, pungente e soprattutto attuale ed eterna, non perché ambisca a una qualche immortalità, ma perché sceglie per la personificazione artistica non ciò che è temporaneo, ma ciò che è eterno, trasmessoci dalla Natura e dal Tempo».
Il poeta, critico e giornalista Daniil Čkonja nella sua prefazione alle poesie di Nina Kossman, pubblicate nella più importante rivista di poesia russa La Lira dell’emigrazione afferma: «Le poesie di Nina Kossman abbinano i miti dell’antica Grecia alla sensualità contemporanea…Questa poetessa intreccia abilmente strati storico-culturali con gli avvenimenti del nostro tempo, creando un suo proprio quadro della vita nella sua continuità e unità».
Ed ecco infine il commento del mio amico poeta e slavista Antonio Sagredo, al quale ho fatto leggere le poesie di Nina Kossman da me tradotte: « Ciò che più colpisce in questa poetessa è la forte personalità che possiede e che dimostra come ha ingerito al massimo grado la lezione e la vita della poetessa russa Marina Cvetaeva, della quale è stata fine traduttrice di tanti suoi versi. Questa sua personalità mi richiama un’altra grandissima figura femminile: Anna Politkoskaja (uccisa sotto casa dagli uomini del Cremlino) che fu pure lei affascinata dalla Cvetaeva tanto da scriverne la sua tesi di laurea; questa grande giornalista soltanto lei poté affrontare con coraggio il potere, come ai suoi tempi spietati la poetessa.
Donne dunque di carattere inflessibile, e questi versi della Kossman – così attuali in questi nostri tempi odierni – ne testimoniano il piglio irremovibile di fronte ad eventi tragici che si ripetono crudelmente, tanto da marchiarli ancora di più:
Sono nata nel paese Dei morti a milioni, Nel silenzio soffocante Di guardinghe passioni,
Dove il cielo di notte Era detto assolato, Coi teschi così a lungo Sotto il suolo ghiacciato.
Non verranno sepolti, I nomi scorderanno; I nomi degli uccisi Le lapidi non sapranno,
Delle anime riconosciute Per il sangue loro: Io sono della stessa valle, Ma non dello stesso coro.
E’ certo che ci vuole grande talento a tradurre la Cvetaeva!, e la Kossman lo ha di certo perché le stato riconosciuto in primis dal celebre critico americano Harold Bloom e dal poeta W.S. Merwin, e da tanti altri notevoli critici e poeti di varia estrazione culturale.
Dalla foto della Kossman noi miriamo il suo bel viso che tradisce un carattere determinato e pochissimo incline a giudizi lusinghieri e confortanti. Il suo verso è chiaro in forma e contenuto e di questo dobbiamo ringraziare la bravura del traduttore Paolo Statuti; questo verso non lascia al critico di dubitare affatto della sua missione, poiché è diretto e non ha tempo per fronzoli e ricami che possano rigenerare una speranza nuova e diversa:
Non più immune dagli eventi della sua anima,
egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.
Nina Kossman ha scritto tanto e la sua bibliografia giustifica il suo impegno là dove la poesia, la sua anche, ha diritto di abbarbicarsi su qualsiasi cosa che richieda un supporto, un aiuto, un richiamo all’umanesimo. Poesia dunque combattiva per la verità che svela i crimini impuniti, come appunto quella della poetessa Cvetaeva, e come i reportages coraggiosi – io scrivo quello che vedo! – della Politkovskaja.
E allora di nuovo i miei ringraziamenti, che mai finiscono, a Paolo Statuti vera talpa che scova la poesia dei poeti di ogni latitudine… un lavoro di scavo prezioso con cui le generazioni che verranno dovranno confrontarsi.
Ma ecco la poesia della Nina:
Eccola, vedi, scorre, l’acqua viva del torrente, l’acqua viva delle fiabe, per tutti e per niente».
Poesie di Nina Kossman tradotte da Paolo Statuti
Babi Yar
La madre diceva tua sorella mi fa impazzire,
Ma dov’è, oggi andiamo tutti a morire.
I fritzi* bussano alla porta, dobbiamo uscire.
Presto, svelto, perché quei libri, che te ne fai,
Là dove andremo a stare non li userai mai.
Sei sempre l’ultimo, figlio mio, continuava a dire.
Ecco, sono pronti, ma ora lui vuole dormire!
Dormirai là dove ci porta la nostra stella.
Lascia i libri e cerca piuttosto tua sorella.
Sei uno sciocco, davvero, ma quale stazione?
Ora c’è anche la sorella e vanno in processione.
Chi guidava la colonna loro al macello
Aveva nipoti e pronipoti e prendeva la pensione,
I nipoti hanno un animo gentile, non serve
Traumatizzarli parlando loro di un certo bosco,
Dicendo che nel mondo non c’è un solo posto,
Che è una radura, e nessuno è risuscitato;
Ma che il nonno alla loro madre ha mirato,
Che il giovane era mezzo addormentato,
E cadendo sulla madre gli è sfuggito il sacchetto,
Tra i libri sparsi sul corpo c’era anche un gessetto…
Taci, al nipote non serve il tuo boschetto.
*Soprannome peggiorativo per i tedeschi (N.d.T.)
* * *
Vedi come il nero stormo
di uccelli caduti senza chiasso
guarda, ingoiando l’aria,
l’aria che fissa in basso;
e la loro mente, diventata ali
e il loro sogno sorpreso
della volta celeste, perfidamente segata
fino all’azzurro stesso –
dal nero stormo, senza un grido,
nelle mute lame dell’erba:
della ferrosa terra centocchi
e del vedente cielo sono una lega.
* * *
Vedi come il sole nasconde
abilmente con le mani d’oro
il ricordo degli avi bruni
in lunghi vasi pagani;
sottili mani del sole,
agili gialle dita –
perché non si sappia nulla
dei visi sereni degli Etruschi,
delle lievi etrusche ceneri,
e del secolare specchio tra noi e la morte.
* * *
Sono nata nel paese Dei morti a milioni, Nel silenzio soffocante Di guardinghe passioni,
Dove il cielo di notte Era detto assolato, Coi teschi così a lungo Sotto il suolo ghiacciato.
Non verranno sepolti, I nomi scorderanno; I nomi degli uccisi Le lapidi non sapranno,
Delle anime riconosciute Per il sangue loro: Io sono della stessa valle, Ma non dello stesso coro.
Là dove mamma piangeva Per l’uccisione del padre, Dio di Abramo – Ozem nell’ade.
Nuovi paesi e l’amore Io non trovo, Se sotto la neve i resti Giacciono di nuovo.
* * * Eccola, vedi, scorre, l’acqua viva del torrente, l’acqua viva delle fiabe, per tutti e per niente. Nessuno vestirà d’oro, nessuno dall’insonnia salverà, l’acqua viva delle fiabe, limpida e lenta sarà.
Vedi come dolcemente scorre, si aggrappa alle mie fredde mani, l’acqua viva delle fiabe – via da me!* Cura prima i tuoi mali.
*L’espressione russa “Czur menjà”, da me tradotta “Via da me”, è usata per scongiurare una minaccia, un pericolo da parte di uno spirito maligno derivato dalla mitologia slava.
* * *
Vedi come i gabbiani assonnati, lentamente sonnolenti si aggirano, muovono le ali sulla rossa argilla presso il lago, l’argilla con cui i greci plasmavano stretti vasi con un accenno alla vita degli dei (custodi del segreto della morte, rivelatisi soggetti ad essa) – gli dei di argilla rossa presso il lago degli uccelli assonnati.
* * *
Se la morte non c’è,
allora puoi campare,
con una parola puoi la terra evocare,
con ogni parola la vita prolungare,
con ogni lettera gli uccelli invitare
a un convito di briciole di pensiero,
di scorza di sogno; il loro chiasso mattiniero
è un segno che la vita non è un inganno,
lascia che muovano la coda come fanno,
lascia che sia un indizio
che la morte non ha né fine né inizio.
* * *
Non più immune dagli eventi della sua anima,
egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.
Egli ora percepiva in esso non un ruggente nulla,
ma gli anelli e le crespe lasciate nell’aria
da un suono, un gesto, un commosso addio.
Pronto per l’età adulta, il mondo farà germogliare
viticci e petali in luogo di un sospiro
inudito dalle forze avvolte nelle nubi
o sotto il primevo suolo dove dormono gli amanti.
O scintillio di una vita faccia a faccia con un miracolo!
L’apparenza respinta per amore dei sentimenti!
Spruzzato di felicità come di dolce acqua,
egli si gettò a capofitto nel ridente grembo di lei
il cui viso egli poteva uguagliare al nulla,
la cui mano – ah, la più vera mano umana!
Pronto ad ammirare la purezza nella stagionale lite
di lei col vuoto, egli – come tutti i candidi amanti,
vedeva anziché il viso di lei, il suo proprio capriccio.
Quando il seme del miracolo generò lo stelo del dubbio,
egli udì una dolce melodia – la sua;
egli udì un ruggente vuoto – del mondo.
* * *
Irruppe a un tratto e come un cieco, Inciampando, il vagone attraversò. «Ehi, dove vai?! Fermati!» – Dalla banchina qualcuno gridò.
Ma egli parla con se stesso, Il bastone qua e là puntato, Proprio come un cieco, Alle tenebre abituato.
Ma chi è? Come si chiama? Come può l’angoscia superare? Si irrigidì al finestrino, Cercava di ricordare.
Chi è? Da dove è venuto? Alla luce come si strugge! Eppure ognuno, sempre Al nulla sfugge.
* * *
Ogni giorno più libere,
le parole che la morte ha preso:
cosa possono dire
che non è stato già chiarito,
più libere nella pioggia
ogni anno finito
parole che la morte ha preso,
cosa possono dire
che non è stato ancora detto
in ogni lingua, ogni libro;
se il silenzio è d’oro
allora le parole che la morte ha preso
sono oro in una rete da pesca,
io le aspetto in silenzio,
ogni giorno più libere.
* * *
Parole nella mia mano come ciottoli,
siete tonde e pacifiche.
Ma il frastuono della guerra
è giunto da lontano,
e il mare ha portato via i ciottoli,
ed è vuota di parole la mia mano.
* * *
Tra la spuma d’autunno
E la scorsa primavera,
Come libero uccello – un falco
Nello studio sulla tela,
Tra l’ombra e la forma
Di un’ombra in terra
Come di viventi al di fuori
Un’ombra che ricorre,
Tra la misura e l’immagine
Di mondi ripetuti uguali
Come orchestrazione di narcosi –
In preghiere di messali…
Scegli, se
Il soffitto blu posato
Sopra il tuo studio
Pace non ti avrà dato.
La lettera che Giordano Bruno non scrisse
17 febbraio 1600. Freddo gelido in Campo de’ Fiori.
La folla è accorsa per vedere l’eretico arso vivo.
È nudo e appeso a testa in giù,
reo di aver negato i dogmi della Chiesa Cattolica,
e mentre la turba urla e fischia,
Giordano Bruno, la cui mente è ancora lucida,
malgrado settimane di atroci torture
(neanche con lo stivale* ha ripudiato),
scrive una lettera nella sua testa a chi
si troverà in quella piazza secoli dopo,
quando anche un bambino saprà che è vero
ciò per cui oggi lo condannano al rogo:
che la terra gira intorno al sole
e non viceversa;
che Dio è dentro di noi, non ha la barba
e da una nuvola non prende spunti
da vecchi con la tonaca;
che per la libertà di pensiero è giusto lottare
e perfino morire, bruciato sul rogo.
Ma non fa in tempo a terminare la lettera
che sta scrivendo nella sua testa,
perché le fiamme già avvolgono il corpo
e la mente, non più forte come prima.
“Verrà il giorno” – cerca di continuare –
“In cui tutto ciò che ho scritto sarà provato…”
È l’ultima riga della sua lettera non scritta.
Qualche ora dopo il sacco con la sue ceneri
viene portato al Tevere. Aperto. Svuotato.
*Lo „stivale spagnolo”, orribile strumento di tortura. (N.d.T.)