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Eliasz Rajzman (1909-1975) e Arnold Słucki (1920-1972)

7 Lug

 

Arnold Słucki

Arnold Słucki

Eliasz Rajzman

Eliasz Rajzman

 

   Diversi anni fa il mio amico poeta, prosatore, drammaturgo, traduttore e critico letterario Marian Grześczak (1934-2010), presente nel mio blog, dedicò questo suo articolo a due poeti ebrei: Eliasz Rajzman, che scrisse in lingua yiddish, e Arnold Słucki che scrisse in polacco. Lo propongo oggi nella mia traduzione ai lettori del mio blog, con alcune poesie degli stessi autori, anch’esse nella mia versione.

 

La patria esterna e la patria interna del poeta

 

      In una stradina dell’Europa centrale

ho udito il sole

e ciò accadeva nell’esilio da tutte le patrie, fedi, ideologie…

 

– così inizia la poesia Socrate di Arnold Słucki, scritta a Bad Gedesberg.

I poeti portano la patria in loro stessi, la prendono con loro nelle peregrinazioni temporali e spaziali, la proteggono gelosamente, si dolgono, piangono e ridono assieme ad essa. Se il poeta vede bianco, anche la parola biancore il più delle volte germoglia nei suoi versi, possiamo essere certi che i suoi occhi, i suoi occhi dell’infanzia, si sono nutriti del paesaggio coperto di neve. Se il poeta vede luminoso, anche il gioco di luci e ombre s’inserisce nei suoi versi, possiamo essere certi che egli ha tratto il sapore del mondo dal sole e dal calore. Ma accade anche il contrario. Alimentato da un paesaggio uniforme, nella monotonia di un piatto orizzonte, egli cercherà la dinamica; metterà nel verso una montagna, porrà un albero trasversalmente all’orizzonte, aggiungerà al mondo qualcosa che esso non ha. Ma resterà sempre in contatto diretto con la sua patria, in questo caso – con la sua patria esterna. Nell’ambiente più prossimo, già quasi a portata non della vista ma della mano – si trovano gli oggetti di uso quotidiano, gli  aspetti della vita corrente, l’intera materialità della realtà, che grazie al duro lavoro dei produttori e degli utenti si è trasformata in un valore più alto. Il poeta canta volentieri l’albero (sia esso una betulla, un tiglio o una quercia), ma meno volentieri il legno. Si sceglie piuttosto una sedia o un tavolo di legno, sceglie gli oggetti, per definirsi meglio attraverso essi.

La patria esterna del poeta è come una carta topografica della sua memoria e delle sua poesia. Con essa non si può sbagliare, ma non si può nemmeno uscire dai suoi confini senza rischio; ogni passo ulteriore può minacciare una sciagura. E tuttavia i poeti continuano a scrivere versi, versi differenti, che non ripetono le stesse vedute e gli stessi aspetti. E questi versi essi leggono, premiano, analizzano, apprezzano (oppure biasimano). Ciò è possibile solo in quanto esiste una seconda grande patria del poeta, la patria interna, protettrice dei pensieri, dei simboli, delle suggestioni, dei timori. Patria oscura e non riconoscibile. I poeti, si capisce, riescono a individuarla, ma non riescono – o non vogliono – parlare francamente di essa. Quale ninnananna li ha assopiti? Con quali immagini si è manifestata la paura delle tenebre? Di chi era la voce che sussurrava la preghiera in casa – del padre o della madre? Quali canti s’intonavano a Dio, e quali intorno al fuoco? Era più dolce l’odore delle erbe selvatiche o l’odore dei frutteti in fiore? Dove e quando cominciarono le prime iniziazioni, i primi slanci e le prime cadute? In quale luogo e in quale momento è avvenuto il passaggio dal chiaro mondo esterno all’oscuro mondo della patria interna? All’ordinato o simulato assetto, al mondo della cultura? E poi come si è mescolato tutto questo?

Davanti a simili domande i poeti fuggono furtivi, imbattendosi in un episodio del tempo della scuola o dell’università, recitando i nomi dei propri insegnanti e istruttori. Un aneddoto e un elenco di letture non spiegano nulla in poesia. Su questo sfondo abbozzato in modo approssimativo, desidero occuparmi di due poeti dei quali si può dire, generalmente parlando, che sono stati formati da identiche o assai simili patrie esterne ed interne, e ancora di più – da simili  destini della vita. I risultati poetici di queste somiglianze sono tuttavia sorprendentemente diversi. Mi sia consentito di presentare brevemente questi poeti.

Eliasz Rajzman nacque a Ratno, vicino Kowel, da una povera famiglia ebrea. Sin dagli anni della prima giovinezza lavorò per guadagnarsi la vita (commercio, artigianato), e si istruì come autodidatta. Durante la guerra soggiornò in Unione Sovietica. Negli anni 1941-1943 prestò servizio nell’Armata Rossa. Dopo il ritorno in Polonia, nel 1945, si stabilì nella parte occidentale del paese, dove lavorò in una cooperativa di produzione come lavoratore dei campi. Nel 1950 si trasferì a Stettino, ove fino alla morte lavorò come artigiano. Morì nel 1975.

Pubblicò il primo libro di versi – I campi verdeggiano nel 1950. Successivamente uscirono le raccolte: Ho piantato un albero (1954), Solo con me stesso (1957), Ho sognato il sole (1961), Il linguaggio dei tuoi occhi  (1967). Scrisse nella lingua yiddish. Sono apparse tre raccolte di traduzioni di sue poesie in lingua polacca: Albero autunnale (1966), Il colombo bruciato (1967), La preghiera del lupo (1979).

Arnold Słucki nacque nel 1920 a Tyszowiec, nella Polonia orientale. Nel 1934 si trasferì a Varsavia, dove terminò i suoi studi. Frequentò a quel tempo l’ambiente radicale, filocomunista dei giovani. Durante la guerra soggiornò in Unione Sovietica. Dal 1942 prestò servizio nell’Armata Rossa. Un anno dopo entrò nell’Esercito Polacco. Dopo la fine della guerra si stabilì a Varsavia, dove lavorò come redattore e giornalista. Dopo i fatti del marzo 1968 emigrò in Israele. Morì a Berlino Ovest nel novembre del 1972.

Il suo primo libro di versi – La terra risplende uscì nel 1950. Negli anni seguenti pubblicò altre raccolte poetiche, di cui le più importanti sono: Campane sulla Vistola (1958), La valle delle stranezze (1964), Egloghe e Salmodie (1966). Vanno menzionate inoltre alcune edizioni di Opere scelte, tra le quali la più interessante – Poesie scelte (1982), include anche i versi dell’emigrazione. Scrisse in polacco.

La gamma della voce poetica di Rajzman si potrebbe dire consapevolmente limitata. Tono semplice e raccolto. Espressione repressa. No, questa poesia non vuole descrivere. Essa vuole pensare. In essa il mondo visibile è suddiviso in alto e basso. Forse le immagini di questo spazio chiuso possono essere a tal punto irripetibili, che vale la pena di cercarle e studiarle? Rajzman risponde: no. L’alto è semplicemente il cielo con tutti i suoi attrezzi poetici: stelle, aurore, crepuscoli, mattini, i baldacchini delle nuvole e via dicendo. Il basso è semplicemente la terra, i sassi, la polvere, i fiori, la cenere, il fuoco, la strada e via dicendo. Non molto della patria esterna. Ma anche con quello che c’è il poeta potrebbe comporre più di un bel quadro poetico. Non vuole, perché è un lavoro troppo facile e come in contrasto con l’atteggiamento spontaneo verso l’intimità. Eppure nella sua patria interna Rajzman non cerca sostegno. Del mondo della cultura ebraica in questi versi non c’è quasi nulla. Alcuni nomi, alcune allusioni, citazioni. Poco. Molto poco. Appare chiaro che l’artista rinuncia con ostinazione e consapevolezza all’attrazione del lettore. Riduce la poesia creativa ad una materia autorisonante – se così possiamo esprimerci. Respinge tutto ciò che potrebbe impedire alla poesia di essere se stessa. Che cos’è in tal caso il “poetico essere se stesso”? E’ il più diretto colloquio dell’individuo tormentato con la memoria concreta, con l’orrore di questa memoria che non si lascia denominare né descrivere. Il poeta di fronte al suo destino assume un contegno pudico, come se temesse che un eccesso di sofferenza potrebbe diminuirla. Coerentemente quindi   r e s p i n g e  tutto. In una poesia constata addirittura: ”siamo giunti sulla…terra appesa al vuoto”. In un’altra scrive:

 

In quale posto della terra

devo posare la lapide per te

popolo mio?

Dove comincia,

dove finisce

la tua valle di pianto?

 

Il poeta non sa, di conseguenza egli stesso non intende trasformare i suoi versi in lapidi.

 

Ho visto una tale scintilla

Il mio sguardo è arso

sui sacri candelieri del sabato

e il mare non poteva spegnerla

 

– dice in un’altra poesia, come se una scultura nell’aria e la composizione di uno stato d’animo diventassero la sua più alta vocazione. Non è forse questo una conseguenza “dell’atteggiamento di rifiuto”? Rinunciare al sovrabbondante del mondo, agli attrezzi creatori di poesia, rinunciare perfino alla ebraicità. Lasciare soltanto il verso nudo, il verso-vento, il verso-cenere, il verso scintilla della memoria. Occorre avere un’incredibile coscienza poetica per trovarsi semiscalzi e a mani nude davanti a una così grande montagna qual è il destino dell’Ebreo, e tuttavia scalarla.

Arnold Słucki scelse un diverso atteggiamento, una posizione di  a s s o r b i m e n t o.  Egli sfrutta senza limitazioni l’attrezzeria della patria esterna, volentieri spolvera gli oggetti dell’ambiente circostante (un violino, un bilancino, una secchia), illustra paesaggi e vedute, canti e usanze. Baldanzosamente si aggira tra i valori della cultura ebraica e antica. In moltissimi versi troviamo i segni e i simboli della patria interna del poeta: la Valle di Josafat, i Canti della Sulamita, David, Hebron, Adamo, Eva, le Dodici Tavole, la cabala, l’arca. Il bel poemetto “Chagalliana” è come una replica poetica dei quadri di Marc Chagall. Tutto è chiaro: qui regna la sovrabbondanza. Ecco un esempio:

 

Ci sono ancora

le erbe di chitea, le erbe di Kanaan,

le erbe del libro di Gilgamesh,

le erbe di Sodoma e Gomorra,

che non tutti digeriscono

ma io le digerisco.

 

Słucki ama complicare e moltiplicare la materia dei suoi versi anche con l’impiego dei più svariati artifizi stilistici. Volentieri, ad esempio, sfrutta la stilizzazione in canzone, espone il significato di un quadro; vale la pena di citare alcuni esempi molto visivi:

 

  • Sul verde pagliericcio

le mani sotto la testa

dorme il fiume

  • Le belle nuvole-cavalli dai collari scarlatti

scavano la fossa al sole

  • Guarda,

come scorre il borgo

con le lacrime sul collo

 

 

E a questa opulenza si aggiungono continuamente nuovi elementi; a volte sono tecnicismi (elicottero, radar, DNA), a volte sentimentalismi, a volte autodefinizioni, di cui il poeta ha incrostato molti versi. Essi forniscono una traccia, per cui è bene ricordarne alcuni:

 

  • Io non sono Goethe – – –

Sono un vecchio Ebreo

nella polonizzata poetica miseria

  • Da dove vengono questi paesaggi? –

Dal Salterio

escono

e chiedono asilo

nella mia attonita lingua polacca

  • Chi sono qui per loro?

Nessuno.

Un poeta senza generazione,

un fulmine fuggiasco

senza indirizzo.

 

Qual è dunque la traccia? E’ una traccia outsider, che vuole risultare visibile non attraverso l’indigenza, ma attraverso l’opulenza. Attraverso la sovrabbondanza. Si è perso in essa ed è come se avesse rimpiccolito il dramma dell’uomo. Suona ironico, ma è la verità. Forse non esistono limiti di forma nel legame con il contenuto? Forse con un vestito troppo elegante si può – per maggiore contrasto e per la forza dell’espressione – coprire anche un corpo malato? La patria interna in tali casi concede asilo ai poeti.

Il mondo di Rajzman riduce e respinge. Il mondo di Słucki moltiplica e assorbe. Eppure con la sua sovrabbondanza egli è un poeta assai significativo per la poesia e molto importante per la poesia polacca.

Ripetiamo la domanda: come è possibile che condizioni esterne ed interne somiglianti abbiano formato due personalità così diverse, due estetiche così diametralmente differenti? Come è possibile?

La chiave probabilmente risiede nella lingua. Słucki scriveva in polacco e nella barriera di questa lingua doveva vedere un ostacolo alla trasmissione dell’immaginazione ebraica. Ritenne probabilmente che bastasse servirsi dell’attrezzistica ambientale e culturale. Il linguaggio poetico non si può tuttavia sormontare con gli attrezzi. Neanche la lingua polacca, sempre pronta all’esagerazione poetica, sempre tendente al pensiero e all’etica attraverso l’estetizzazione. E’ un po’ una via circolare verso la destinazione. Ma nell’Europa centrale ci sono vie più difficili. E non sempre in esse si trovano tracce lasciate da poeti come Eliasz Rajzman e Arnold Słucki. Per questo li ricordo.

                                                                              Marian Grześczak

 

Poesie di Eliasz Rajzman tradotte da Paolo Statuti

 

La stella

 

Una stella mi è caduta sulla mano,

il mondo ha parlato nella lingua stellare –

attraverso il verde e lacrime azzurre.

 

I pipistrelli raschiano il silenzio,

tirano la notte scura per i capelli,

i solai eseguono un canto funebre.

 

I neri branchi della notte strisciano,

si stringono stretti tra loro –

come attenuare l’intima oscurità?

 

Il cosmo si è spalancato,

il vuoto visita i suoi poderi,

dove si fermerà qui il mio pensiero?

 

Dove cercare il settimo cielo

qui, nel cuore della notte? –

Senza il cielo la Terra gira!…

 

(dalla traduzione polacca di Arnold Słucki)

 

Il poeta alato

 

Insegnami a cantare a modo tuo,

da’ spirito alla prima strofa,

il resto finirò di dirlo io,

l’alato poeta.

 

Hai una casa e un albero pieni di canto,

il suo succo alimenta il tuo ritmo

e il canto là sempre si anniderà,

o alato poeta.

 

Ma io sono andato troppo oltre

per poter udire i tuoi spensierati toni

e in me la tristezza, non il cinguettio,

poeta alato.

 

Insegnami a eseguire a modo tuo

il canto che si cela nelle chiome degli alberi;

verso il mondo volerà – un mondo più grande

dei miei sussurri in piatti slanci –

di alato poeta.

(dalla traduzione polacca di Piotr Michałowski)

 

Non sono

 

Non sono questo che non sono,

né quello

che voglio mettere in me.

 

Non cercare ciò

che io stesso non trovo

in me.

 

Sono un punto interrogativo

sulle strade della mia esistenza.

La grigia assurdità del mio

durare.

 

Il giorno e i suoi fardelli

allontano da me.

Ma io non mi rammarico del suo

calare.

Non io sono curioso

della nuova aurora.

 

Sotto i miei piedi c’è la terra.

Non un prato del paradiso.

Sono un domestico intruso

nel tuo sguardo,

che si posa su di me ogni notte

da un altro pianeta.

E forse?…

 

Mi sembra spesso

di essere ugualmente

diviso.

In società con qualcuno.

Perché è possibile

tutta la vita lottare

soltanto con me stesso?

 

(dalla traduzione polacca di Katarzyna Suchodolska)

 

Il colombo bruciato

 

Il colombo di carta

che un giorno mi volò via di mano,

volteggia oggi su di me

battendo le ali

e muto.

In gola

il tempo avvoltoio

soffoca la voce del colombo.

 

Il colombo di carta

dei miei teneri anni

mi pone sulla testa

una corona di spine.

 

(dalla traduzione polacca di Arnold Słucki)

 

L’astrologo

 

L’astrologo

al cielo

volge lo sguardo,

già vede

il giorno eterno

e

il sole

scorge

senza ombra.

 

Il sole –

esso sempre su di me,

sotto di me,

esso è in ogni

riflesso.

E che importa

se la luce lo

filtra

attraverso le dita del tempo?

 

Un virgulto del paradiso

germoglia

nel campo dei miei pensieri.

Chissà se i messi

di qualche nume

per esso non siano già giunti con l’ascia?

 

L’immagine del sogno

a lungo resterà limpida,

finché gli autunni non renderanno torbidi

i suoi occhi irreali.

 

L’astrologo

solleva la testa,

vede:

il sole muore

e un vecchio viandante

con la lanterna,

andando di grotta

in grotta,

cerca le ali infrante

che il tempo

ha spezzato nell’estro.

 

(dalla traduzione polacca di Arnold Słucki)

 

 

Poesie di Arnold Słucki tradotte da Paolo Statuti

 

Studio del parco

 

Guarda,

come a luglio,

nell’afa,

appaiono i parchi.

(Si potrebbero considerare

come onde)

Gli alberi, come mostri intrecciati scorrono

attraverso paludi di luci

e sollevate le teste dei fisici, corrugando

i turgidi colli dei tronchi,

la formula del mondo in futili fenomeni traducono.

 

La neve

 

Nevicava, tutto

coperto. Così bianco

qui;

in me sono entrate a scaldarsi le zolle

randagie,

i ruscelli, come popoli

davanti a un tribunale

mormoravano.

Chiedevo

quante lingue morte

conoscono questo mormorio.

 

Gli elementi

 

Compromesso con la pioggia,

compromesso con la neve,

compromesso con l’angelicità di nubi sospette,

con terre fumanti immobili,

sempre lungo la sponda, lungo la sponda,

compromesso nella disputa sul metodo.

Tutto questo ci salverà dal fermento degli elementi?

O Terra!

O Fuoco!

O Acqua!

 

*  *  *

 

Una luce nuova,

che mi

punisce,

premia,

qui

su di me

isterilendo

s’è posata,

come lacrima

su consunte

vetrate.

 

St. Blasien, 17 settembre 1971

 

A mia moglie

 

Contami tra i fiori,

contami tra i sospiri,

sii per me l’amata, sii per me sorella,

e quando me ne andrò –

sii madre per il mio povero nome.

Spiega alla gente, che anche se a volte

il mio canto era complicato,

l’amore in esso era semplice –

e il cuore era in esso,

cara…

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

Marian Grzesczak

22 Feb

 Un poeta e amico polacco

 

Marian Grzesczak

   Marian Grześczak è nato il 22.3.1934 a Nochow in Poznania ed è morto a Varsavia il 27.1.2010. Lo conobbi nel 1981, durante il mio soggiorno di tre mesi a Varsavia, ospite dell’Unione dei letterati polacchi, dove Marian era responsabile dell’ufficio per i rapporti con l’estero. Ha debuttato nel 1960 con il volume di poesie Lumpenezje. Tema principale di questa raccolta è la città moderna, vista attraverso i tratti del paesaggio naturale e piena di esseri intermedi tra le creature della civiltà e quelle della natura. Oltre a molte raccolte poetiche, Grześczak scrisse anche radiodrammi, articoli letterari e il romanzo Odissea, Odissea…, che ha per argomento le drammatiche agitazioni degli operai a Poznań nel giugno 1956, da lui personalmente vissute. Molto apprezzate anche le sue traduzioni soprattutto dei poeti  cechi e slovacchi.

   La sua poesia attinge dalle tradizioni delle avanguardie polacca ed europea, dalla fantasia popolare e dai testi biblici. Sorprende per la varietà dei temi e delle forme, dal poema epico sulla problematica sociale, alle liriche molto intime, fino ai versi sperimentali nello spirito della poesia concreta. Molto spesso queste diverse tendenze si fondono e la lingua riesce ad essere al tempo stesso graffiante e tenera. Molto apprezzate in particolare le raccolte Kwartal wierszy, 1980 (Trimestre di poesie) e Snutki, 2006 (Orditi), dove l’invenzione lessicale e la libertà della fantasia permettono di toccare i temi più importanti dell’esistenza: la morte, l’amore, la fede e la problematica escatologica.

   Di Marian mi piace ricordare anche il suo humor, la sua sottile ironia, il suo sorriso compiaciuto dopo una buona battuta di spirito. Ho avuto il piacere e l’onore di averlo come traduttore in polacco delle mie poesie, e ho il piacere e l’onore di pubblicare nel mio blog alcuni suoi versi nella mia versione.

 

Poesie di Marian Grześczak tradotte da Paolo Statuti

 

Vita mia, allucinazione

 

Vieni signore vendicativo

Il cane  abbaia alla porta e un fiore si foggia

 

L’attimo mite dura in uno sbattito di rondine

Le nuvolette terra terra sono neri spettri

 

Appena giunto alla soglia prosegui oltre

Incrociare i coltelli ancora non sa la fede

 

Accendere il fuoco qui tu stesso vedi com’è arduo

Un ragno pende nel mezzo dell’aria soltanto esso

 

Io so che a fissarci così non resisteremo a lungo

Un lampo da noi sorgerà una rosa sotto la bianca camicia

 

Ancora un passo ancora la falce dell’onta e un sorriso

I vivi verranno ad ammettere la propria inesistenza

 

Il tenue rudere d’un vecchio canto incontra l’orecchio

La polvere solleva la palpebra d’un azzurro antico

 

Chi fu leggiadro rimanga pure spavento

Va da te la cieca sorte sorretta dalla brama

 

Solo un passo devi giungere dov’è il cerchio rosso

Ti conducono tutti quelli non riconciliati

 

Finché ti saluteranno con la bianca bandiera

Passate tristi e non chiedete nulla a nessuno

 

Dunque sei entrato in me al centro di questa polvere

Accomodatevi prego mie luminose immagini

 

Il vostro signore muto con il gran palmo è pronto a colpire

Due calde lacrime che lottano per una guancia

 

La via delle allucinazioni è il turbinìo del crepuscolo

Più oltre più non c’è nulla spine latrati abbandono

 

La Madonna Nera

 

Dovevo essere abbandonato quando desiderai credere

Nascosto nel buio come palmo nel guanto

Cercavo con le dita tepore e aroma

Intorno è lamento

Sotto le tende degli alberi errano le ombre dei simili

 

La campana sparge sui tetti il pattume della sua anima

Un’intera generazione in attesa a un tratto vede:

All’alba sale in cielo la nera aurora

Le sue gote un aereo incide

 

Questa immagine vede solo chi dimora in alto

Ed io tra loro nero e detestante

Ma poi l’immagine ci abbandonò  come se si celasse

Nei violini della Vistola. Palmi o una prece per essa?

 

Se non sai vedere, impara ad ascoltare, o Madre.

Se desideri entrare in me, entra o Dio.

Riscalda il tuo corpo nel guanto del verso.

Che importa se ci sono più miseri che parole?

 

Dite alfine

 

Dite alfine qualcosa di buono.

Questo il popolo chiede, la nodosa pena della lingua

Ha stremato i suoi cantori, d’ora in poi egli

Comanderà con i duri palmi dei contadini,

Paziente con il silenzio delle tessitrici,

Rovente fino al biancore, nero.

 

Dite alfine qualcosa di semplice.

Tornitori, cuoche, tipografi vogliono

Capire ciò che a loro si dice,

E anche il verso ha diritto alla difesa:

Ma come posso essere chiaro, se

Vi nascondete nella reticenza,

Iniziate voi stessi.

 

Dite alfine qualcosa dal cuore.

Il popolo esige che lingua e mani non lo derubino,

Proprio lui, quando tace, scuote le vette

Di alte montagne, e poi pianta in terra

I semi delle bare e si congeda con una salva.

 

Dite alfine il vero al vostro popolo.

Confessategli le vostre speranze,

Nominate i suoi torti,

L’umiliazione quando vuole

Far fronte alla miseria, raggiunge lo sconforto,

Che uccide, ricordate.

 

Riconoscetevi nel vostro popolo.

Dategli il coraggio, che dica,

Cosa pensa, anche di voi, e perché piange.

E se vi scaccerà, non troverete posto

Neppure nei cuori dei giornali, il verso ammonisce:

 

Sui piedistalli dei televisori i vostri monumenti,

Sotto i sudari delle tribune le vostre bare,

Il vostro popolo volerà su di voi dal vento trafitto.

 

Colui che così poco chiede,

Otterrà ancora meno.

 

La destinazione del bello

 

se il bello è vocazione alla fine:

nelle cave di pietra delle case,

nella bufera delle malattie e del non adattamento,

nella nebbia dei litigi,

nella corsa della miseria,

non è più semplice

essere pastore in montagna?

Mandriano di bestiame nella depressione?

Seminatore di bene nei campi femminili?

 

Poi prendere il tempo per mano

e sedendo sulla riva

guardare come sorge la luce

fino al confine dei tempi.

 

Gli abiti della musica

 

Le allodole sono cadute

nel pozzo del cielo

 

E da lì tanto lieto cinguettìo

negli strumenti,

in cui la musica

si corica.

 

E da sola si sveglia,

quando il vento più mattiniero

avvolge le piume

dell’erba.

 

 Amorevolezza dell’abete

 

Quando il picchio

ostinatamente bussava all’abete

e nelle pause del ticchettìo

diceva: apri, apri –

gli alberi vicini

pian piano ammutolivano,

per origliare,

cosa si sussurravano quei due.

 

Ma l’abete non disse niente,

soltanto adagio socchiuse la porta.

 

*  *  *

Il vento salta sulle spalle dell’erba.

 

La piega fino a terra.

 

Poi la raddrizza

e guarda,

se cresce bene.

 

 

(C) by Paolo Statuti