Archivio | ottobre, 2019

Bogdan-Igor Antonich

29 Ott

    

Bogdan-Igor Antonič, prosatore, critico letterario e uno dei più importanti poeti ucraini, creatore della moderna lirica del suo paese, nacque a Nowica il 5 ottobre 1909. A 14-15 anni scrisse le prime poesie in polacco che furono pubblicate da riviste quali Segnali, Skamander, Notizie letterarie. A causa della censura restò quasi in ombra fino agli anni ’60 del secolo scorso. Sia il padre che il nonno erano parroci della chiesa di rito greco-cattolico. Ricevette in casa l’istruzione elementare fino al 1920, quando entrò nel ginnasio statale “Regina Sofia” a Sanok che frequentò otto anni, rivelando il suo talento non solo nella poesia, ma anche nel disegno e nella musica, infatti sonava il violino e componeva.

     Nel 1928 iniziò gli studi di filologia polacca e slavistica presso l’Università “Jan Kazimierz” di Lwów, e nel 1933 conseguì la laurea in filosofia. Questa tappa della sua vita ebbe un’influenza decisiva per lo sviluppo della sua attività creativa, perché sebbene l’Università fosse polacca, molti studenti erano ucraini e incoraggiavano il giovane poeta a scrivere nella madrelingua, aiutandolo anche nello studio della lingua letteraria del suo paese.

     Quando era in vita apparvero tre raccolte di poesie: Benvenuto alla vita (1931), Tre anelli (1934) e il Libro del leone (1936). Postumi uscirono nel 1938 Il Vangelo verde e Rotazioni. Da ricordare anche la raccolta La grande armonia, una serie di poesie su temi religiosi, scritta nel 1932 e intesa come sottile esame del suo cammino verso la fede, con tutte le relative verità e incertezze. Durante il periodo sovietico essa fu proibita per il suo contenuto religioso. E’ stata pubblicata per la prima volta nel 1967 a New York. L’editore emigrato e poeta Bohdan Bojczuk ha stampato nel 1977 una raccolta di poesie scelte di Antonič, tradotte dai più noti poeti americani, dal titolo Piazza degli Angeli.

     Nella sua poesia emergono idee indipendentiste, l’armonica unità di uomo e natura, di uomo e cosmo, temi mondani, urbani, la gioia della vita nelle piccole cose, la profondità metafisica, l’incombente apocalisse. Assorbiva avidamente tutti i colori, i toni e i suoni del mondo circostante. Poeta innovatore e di grande talento, è una figura sfolgorante e originale nella letteratura ucraina. Secondo il poeta e critico letterario Dmytro Pawłyczko, “egli passa attraverso i rovi spinosi delle false strade ideologiche nella via che unisce il suo cuore a quello del suo popolo”. Si autodefinì uno “scarabeo sull’albero della poesia ucraina”, che affonda le sue radici nella tradizione risalente a Ševčenko. Nella sua poesia egli abbina i principi dell’immaginismo con un paganismo ispirato dal folclore di Lemko, cioè della regione dov’era nato. Si dichiarò “pagano innamorato della vita” e “poeta dell’ebbrezza di primavera”.

     Benché Antonič non sia un nome familiare nel campo del modernismo, che include grandi poeti slavi quali ad esempio Mandel’stam, Pasternak e Miłosz, come anche i loro equivalenti dell’Europa Occidentale Eliot, Rilke e Lorca, secondo il giudizio di molti critici letterari, egli dovrebbe indiscutibilmente farne parte. Alcuni critici lo hanno paragonato anche a Walt Whitman e a Thomas Dylan.

     Antonič, che nella poesia Autoritratto si definisce “folle poeta pagano” e “bambino ubriaco col sole in tasca”, morì a soli 28 anni in conseguenza di una pleuropolmonite il 6 luglio 1937. Malgrado la sua breve vita, tuttavia, ha lasciato versi incantevoli, pieni di fascino e di magia, veri modelli di arte poetica superiore, unica per le sue scoperte ed esteticamente perfetta, fino ai limiti del possibile. In veste di critico letterario è interessante ricordare che egli fu uno dei primi a scoprire il talento dell’allora giovane futuro premio Nobel Czesław Miłosz. Tradusse tra gli altri in ucraino le opere di Rainer Maria Rilke.

                                                                                       Paolo Statuti

Poesie di Bogdan-Igor Antonič tradotte da Paolo Statuti

Autoritratto

“Io – bambino ubriaco col sole in tasca”.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

“Io – pagano innamorato della vita”.

Rossi aceri, aceri argentati,

sugli aceri la primavera e il vento.

Bellezza insondabile e fugace,

è mai possibile che io non ti canti?

Io che ho venduto la vita al sole

per cento monete di follia vera,

pagano sempre estasiato,

poeta dell’ebbrezza di primavera.

Duetto

Torniamo lentamente alla terra come alla culla.

Verdi grovigli di vegetazione ci legano, due accordi in un intreccio.

La scure tagliente del sole conficcata in un tronco,

la quercia come superbo idolo nelle carezze del libeccio.

Sulla zattera del giorno che ci porta, i corpi caldi e docili

si legano come due sogni, come fiori di fedeltà.

Il muschio ci scalda come pelo di gatto. Fa’ di una stella un sussurro

e del sangue musica e verde. Il cielo al mondo risplende già.

Ai  margini del giorno, oltre il mare di cielo, la brezza del futuro dorme

e le nostre fedeli stelle le nostre sorti aspettano nel gelo,

finché non sarà eseguito l’ultimo ordine della terra. Lasciamo

ciò che è futile, prendiamo solo l’estasi alle stelle nel cielo.

La brama del sangue ferisce. I sopraccigli pungono come frecce,

mentre su di noi un muro di melodia echeggia e si diffonde

come ali dei quattro venti. La nostra sorte è legata ai pianeti.

Tu bruci, vegetale, assetata come la terra. Tu sei la musica del mondo.

La casa dietro una stella

Scorre l’inno delle piante che grida l’irrefrenabile crescita,

e il cuore, come dopo ripetuti sorsi, si ritrova ubriaco.

Ora me ne andrò. Qui ero solo un ospite occasionale.

Ora pregherò altre stelle e aspetterò altri mattini.

I boccioli rigonfi sbocciano in una schiuma viscosa,

come le stelle che s’incollano alle piante con un bacio,

e negli imbuti di viole la notte filtra l’incanto di primavera,

e versa manciate di profumo nel calici dei fiori.

La verde notte delle piante soffoca di estatico languore,

spasmi di voluttà negli arbusti, nelle radici e nelle foglie,

e i semi si gonfiano, la luna fora la terra col suo corno,

finché non si spegne, coperta dal giorno – lucente aquilone.

Le radici  nei teschi dei morti sono annodate e succose,

la vita introduce la trivella nei nidi della morte,

e quercia contro quercia si scaglia – due dee irate,

tronco contro tronco, in una lotta ostinata.

Girano le ruote di luce – imprendibili macine,

ecco l’annunciazione dell’alba e il sole la notte frantuma.

Bevi la settima coppa della gioia! Da’ al cuore luppolo e ali!

O fuoco della poesia vivo e saggio come il verde!

Vivo solo un breve istante. Non so quanto vivrò ancora,

dal verde imparo l’ebbrezza del crescere, lo slancio della linfa.

Forse la mia casa non è qui. Forse è dietro una stella.

Finché sono qui lo sento d’istinto: canto – dunque sono.

Sotto la crosta terrestre acque impetuose gorgogliano,

L’orizzonte è nelle nebbie dietro il mattino, come dietro un muro.

E’ ora di andarmene –  con le dita sulla lira dell’alba,

cantando tempeste verdi e tempeste sovrumane.

A una pianta orgogliosa, cioè a me stesso

Tronchi tarchiati. Vermi e giugno.

Delle stelle spente la polvere d’argento

si sparge sulle foglie di quercia. Il fondo

di fiumi sotterranei. Vibrano i nervi delle piante.

Un fazzoletto di nubi sulla faccia del cielo.

I vermi cantano un inno di putrefazione.

L’arco del mattino, come  sopracciglio assonnato.

Schegge di raggi, come steli di chiarore.

Come verde torretta è la quercia svettante,

s’innalza da una notte di ribes nero,

uccide i vermi e il fuoco della putrefazione

un dio testardo versando fresco nettare.

Come rame vivo dona forza alle piante

l’elettricità della terra,

anche tu, pianta orgogliosa,

che canti questo non sapendo perché,

cadrai come tronco dagli àfidi corroso

sul petto azzurro della terra.

Verde Vangelo

La primavera è come un carosello,

e sul carosello bianchi cavalli vanno.

Un villaggio tra giardini fioriti

e la luna come un rosso tulipano.

Un tavolo di acero, sul tavolo

una brocca slava e nella brocca il sole.

Tu inchinati soltanto alla terra

che è di mille colori come una visione.

I ciliegi

Antonič era uno scarabeo e viveva sui ciliegi,

cantati un tempo da Ševčenko con amore.

O mio paese stellare, biblico e rigoglioso,

patria dell’usignolo e dei ciliegi in fiore!

Dove le sere e i mattini sono come dal Vangelo,

dove il cielo inonda di sole i villaggi bianchi,

e fioriscono i ciliegi con un fiore inebriante,

come al tempo di Ševčenko, inebriando i canti.

I due tulipani

Due tulipani, come tu ed io,

ai due margini di questo nulla

si chiamano invano, solo come l’acqua

scorrono le luci dorate di un tunnel.

Le fiamme rosse dei due fiori

attraversano l’ombra e il silenzio.

Così nascono l’arte e i miti

dalla brama di ciò che è immenso…

Di ciò che è migliore, più grande, più alto,

che si sollevi sul terreno grigiore.

Due uccelli del paradiso – due tulipani

dissolvono la notte per un sogno-chimera.

La fiamma rossa dei due fiori

all’abisso del buio trasparisce,

la rossa fiamma dei tulipani –

fiorisce, arde, sparisce.

La notte

Un libro aperto, la lampada e le falene erranti,

la ruggine dei pensieri sul cuore si è posata.

Sulle pareti l’ombra ricama fiocchi rotondi

in una strana matassa non districata.

La sveglia come calabrone ronza,

Come un gatto nero è la panciuta teiera.

Come sono dolci i segreti che ci attirano

e questa parola più dura della pietra!

Il cielo di latta, la luna di stagno

e della notte i fumi cinerei.

Davvero nel mondo non c’è più posto

per gli irrealizzabili ardenti desideri?

L’aurora

La notte è balzata dagli alberi fruscianti,

fuggendo via sui tetti rosso scuri.

Volteggia un colombo e con le ali

lacera le macchie ruggine delle nubi.

Giunge una musica, luminosa,

come tintinnio di vetro infranto.

Fuma la nebbia dalla testa del mattino

e non ha confini il cielo di cobalto.

E il cuore si stringe più forte,

inquieto e inappagato ognora.

Con le labbra riarse in questo istante

voglio bere tutta l’ebbrezza dell’aurora.

Tre anelli

Un violino alato sulla parete,

una brocca rossa, una scatolina infiorata.

Nel violino dorme un fuoco creativo,

la rugiada della musica è blu e argentata.

Nella scatolina una radice che canta,

un’erba inebriante, cera e granelli,

sul fondo tre stelle splendono,

le luminose pietre di tre anelli.

Nella brocca rossa un liquore di menta,

gocce, lacrime verdi di acero.

Sonate, svegliate la corda alata,

sono pazzo d’amore e di primavera!

Il tetto come coperchio si apre,

la brocca gira, canta la scatolina.

E il sole, come uccello di fuoco,

al recinto si appoggia la mattina.

Il villaggio

                             A Volodimir Lasovs’ki

Le mucche pregano il sole

che sorge come fiammante ciclamino.

Un pioppo snello sempre più sottile,

come se l’albero diventasse un uccellino.

Si stacca la luna dal carro.

Il cielo è vasto e come di paglia.

Nel vento la lontananza è senza fine

e in un grigio fumo è la cresta della boscaglia.

Dai monti volano le foglie degli aceri.

La conocchia, il gallo e la culla.

Il giorno si riversa nella valle,

come latte fresco in una scodella.

Canto della materia indistruttibile

Smarrito nella macchia, avvolto nel vento,

coperto dai canti e del cielo preda,

come saggia volpe siedo sotto la felce fiorita,

e mi raffreddo, n’indurisco in una bianca pietra.

Di fiumi di piante si alza una verde piena,

di ore, di comete, di foglie un fruscio incessante.

M’inghiottirà il diluvio, mi schiaccerà il bianco sole

e il corpo diventerà carbone, finirà in cenere il canto.

Si riverseranno come lava migliaia di secoli,

cresceranno dove vivemmo palme senza nome,

e dal carbone dei nostri corpi fiorirà un fiore nero,

i picconi della miniera risoneranno nel mio cuore.

Rosso nanchino

Ardono come un falò i sortilegi

dei secoli andati – sogni sfavillanti.

Nel rosso nanchino del tramonto

la città dei miei verdi anni.

Chiacchierano le stelle sui pioppi.

La gente si segna per paura,

quando nelle nere sinagoghe

i chassidi accoltellano la luna.

La mia città i segreti

nei ricordi dell’infanzia occulta!

E di nuovo la passata gioventù grida,

come gridano i sortilegi di una volta.

(C) by Paolo Statuti

Janka Kupala

16 Ott

    

Janka Kupala (1882-1942), pseudonimo di Ivan Dominikovič Lucevič. Poeta, drammaturgo, pubblicista, traduttore, è considerato il principale creatore della moderna letteratura bielorussa. E’ uno dei simboli spirituali del suo Paese. Come tutti i classici, Janka Kupala è perennemente attuale e sarà sempre incluso nel novero delle figure più eminenti della Bielorussia. All’inizio del XX secolo, quando la lingua bielorussa viveva un momento difficile, ed era perfino in dubbio la sopravvivenza stessa della nazione, egli fece molto, affinché i bielorussi sentissero la propria individualità nazionale e lottassero per essa .

     Nel 1898 terminò la scuola bielorussa popolare. Scrisse le sue prime poesie in polacco. Pubblicò la prima raccolta poetica Rimpianto nel 1908 a San Pietroburgo. In essa sono ritratte le aspirazioni e le lotte del contadino bielorusso in un tono fondamentalmente pessimistico, che si accentuò nelle raccolte seguenti Il suonatore di gusli (1910) e Sulle orme della vita (1913), pervase da tendenze nazionalistiche. In quest’ultima, a differenza delle due precedenti, si sente l’influenza dell’estetica modernista e simbolista. Tra le sue opere drammatiche ricordiamo soprattutto Paulinka e Il nido distrutto, in cui la difesa dei contadini ha già un colorito liberale-rivoluzionario, dal quale tuttavia il poeta prenderà le distanze, per avvicinarsi, dopo la rivoluzione, alle idee bolsceviche. Il dramma Il nido distrutto, apparso nel settembre del 1913, è l’opera più importante del periodo prerivoluzionario. Nell’esempio di una famiglia di contadini che perde tutti i suoi averi, egli vede la tragedia del suo popolo. Il dramma fu rappresentato solo dopo la rivoluzione nel 1917 e stampato a Vilno nel 1919.

     Alla fine di settembre 1915 si trasferì a Mosca dove iniziò gli studi presso l’Università “A. L. Szaniavskij”. Qui sposò Vladislava Stankevič, che gli fu fedele compagna. Dopo la morte di Kupala trascorse la vita a collezionare il patrimonio letterario del consorte, e creò a Minsk il museo a lui dedicato all’ombra degli alberi dell’omonimo parco.

      A Minsk nel 1919 uscì il primo numero del giornale da lui redatto La campana. Per esso scrisse nuovi versi e pubblicò numerosi articoli sul tema del movimento nazionale bielorusso e della lotta per la libertà. Al tempo stesso tradusse Il canto della schiera di Igor. Nel 1922 contribuì alla creazione dell’Istituto di Cultura Bielorusso. Gli anni successivi videro la repressione dell’intelligentzia e Kupala fu costretto a scrivere poesie elogianti i risultati del socialismo. Subiva spesso interrogatori in merito all’organizzazione controrivoluzionaria “Unione per la Liberazione della Bielorussia”, che in realtà non esisteva. Avvilito dalla persecuzione, il 20 novembre 1930 tentò di suicidarsi. In preda alla disperazione firmò la cosiddetta “Lettera aperta di Janka Kupala”, nella quale rinnegava i suoi ideali nazionali. La sua creazione degli anni ’30, tranne poche eccezioni come un poema dedicato alla memoria di Taras Ševčenko, è priva di valori artistici, eppure (o direi proprio per questo) nel 1941 ottenne il premio Lenin. Queste poesie furono pubblicate nella raccolta L’annuncio del cuore.

     Nel 1941, in seguito all’occupazione tedesca della Bielorussia, Kupala si recò prima a Mosca e poi nel Tatarstan, da dove scriveva poesie-appelli alla nazione, spronandola alla lotta contro gli invasori. Il 28 giugno 1942 morì tragicamente a Mosca, cadendo nella tromba delle scale dell’albergo Mosca, dopo un volo di più di 10 metri. La versione ufficiale è quella del suicidio, ma ci sono particolari e considerazioni che suggeriscono in modo convincente la versione di un ennesimo omicidio del famigerato NKVD. Molti ritengono che negli archivi del Servizio Federale per la Sicurezza esistano documenti che potrebbero fare piena luce sulla morte del poeta.

     Scrisse di lui Ettore Lo Gatto: «Strettamente legato alla tradizione popolare, Janka Kupala ha tuttavia introdotto nella poesia bielorussa perfezione di tecnica, varietà di stile, ricchezza di motivi. Nell’opera drammatica è da rilevare anche la tendenza a far proprie le forme più moderne, quali per esempio il grottesco. Di grandissima importanza è stata l’opera del Kupala per la formazione dell’attuale lingua letteraria bielorussa, nella quale egli ha introdotto numerosi neologismi. A Kupala si richiama l’odierna generazione di poeti bielorussi».

     Le sue ceneri riposano nel  cimitero militare di Minsk, accanto alla tomba dell’altro illustre poeta e scrittore bielorusso, suo coetaneo, Jakub Kolas.

Poesie di Janka Kupala tradotte dal russo da Paolo Statuti

I meli fioriscono…

I meli fioriscono, fioriscono bene,

Con la loro veste di bianca peluria,

Le api sui fiori si posano qua e là

E ronzano, ronzano con goduria.

Ero seduto con lei sotto un melo –

Stanchi della passata settimana –

Il sole inondava l’orizzonte,

Sotto i raggi il prato si arrossava.

Il vento accarezzava il fogliame,

Spargeva il polline con magnanimità,

Il cinguettio per un attimo cessava,

Ma tornava con maggiore intensità.

Un paradiso era il nostro giardino –

E nel giardino io – Adamo, lei – Eva,

E il vento era Dio e mezzano,

E un albero una corona ci faceva.

Gli amici uccelli ci donavano un trillo,

Il sole era il padrino di noi sposi,

L’arcobaleno ci preparava il letto

Con morbidi e verdi cuscini erbosi.

Ci cadeva sugli occhi il fiore del melo,

Come muta nevicata scendeva,

Con la mente volavamo oltre le nubi,

Ci abbracciavamo con la Terra io ed Eva.

Mia dolce compagna, al mio cuore

Tutti i tesori terreni vuoi donare.

E quale tesoro io abbia in casa

Tu stessa non puoi immaginare.

O cara, mio fiore di primavera,

Perenne luce nei terreni dolori,

Saremo, come il sole tra la gente,

Come nei cieli – del mondo i signori!

La mia preghiera

Io pregherò con l’anima che canta,

Pregherò col cuore e con la mente,

Perché la bufera della cupa sorte

Risparmi questa terra e la sua gente.

Io pregherò il sole prodigioso

Di riscaldare d’inverno i poveretti.

Giocando con le spighe di frumento,

Porti luce sotto i miseri tetti.

Pregherò perché le nubi del cielo

Che minacciose giocano con la sorte,

Ai poveri degni di compassione

Né grandine né tuoni portino a volte.

Pregando le stelle mi addolorerò

Che si spengono lasciando il firmamento,

Io sento: se una di esse cade,

Qualcuno se ne va in quel momento.

Con forza pregherò un campo di biade

Che il raccolto premi il sudore versato,

Che nelle povere case ci sia il pane –

Che il popolo veda il sogno avverato.

Io pregherò con l’anima che canta,

Pregherò col cuore e con la mente,

Che delle forze oscure non ruggiscano

Sulla Patria e su di me le tormente.

La bellezza del mondo

O primavera! Tu hai donato

La gioia e una festa giuliva,

Hai illuminato la mia anima

E mi hai dissetato con acqua viva.

Sotto l’ardente azzurra volta

Hai dipinto il tuo verde affresco,

E sulla terra ridestata

Hai tessuto il tuo rabesco.

Guarda l’opera delle tue mani!

Benediscono il tuo operato

La terra, il cielo e il venticello,

Ti rendo omaggio e ti sono grato.

Torna a vivere il focolare!

Rifioriscono le campanelle,

Brilla il fiume, fischiano gli uccelli,

La loro voce sale alle stelle.

E il pensiero vola nell’azzurro

Per confidare a tutti – anche a Dio –

Con quali luminosi doni

La primavera è apparsa al cuore mio.

Vola, o pensiero, sempre più alto,

Fin dove lo sguardo arriverà,

Dammi un canto di acciaio tonante,

Portami una ferrea volontà.

Col canto esalterò l’amore

Nelle terre altrui, tra la mia gente,

Perché esso fiorisca nel mondo

Quando dormiremo eternamente.

La ferrea volontà tanto più

Serve all’amore per ripagare

Il pianto, la fame, la sventura,

Il peso che ha dovuto portare.

La mia scienza

Dio non mi ha dato di leggere i libri,

Non amava questi lussi mio padre.

I canti li ho imparati dai paesani,

L’idioma bielorusso da mia madre.

All’alba dei miei giorni infelici

La terra bielorussa mi ha cresciuto,

E io ascoltavo il brusio dei villaggi

E ai campi rivolgevo il mio saluto.

Le bellezze della terra esaltavano

L’anima mia ed essa volava

Nel cielo azzurro tra gli arcobaleni,

E iride-primavera diventava.

Ebbra d’incanti, ubriaca di canto,

Come un paradisiaco sognare,

Della prossima primavera parlava,

E in essa si versava il mio cantare.

E il fiume impetuoso, il mulino

Con la voce dell’acqua cadenzata

M’ispiravano temi melodiosi,

Nei versi creavano una cantata.

Sull’ampio sentiero gli alberi ombrosi,

Le oche che ogni anno migravano,

Creavano nel cuore pure armonie

E un tenero consenso ispiravano.

E il campo che col suo verde seduce,

La fienagione sotto il manto del sole,

Davano ai miei canti un dolce rabesco

E di parole creavano corone.

Di fruscio delle foglie del vecchio pero,

Di sussurro delle spighe di frumento

L’eco soave nell’anima scorreva

E dei miseri essa udiva il lamento.

La leggenda del bosco primordiale

Parlava di tristezza della vita

E nel mio cuore risvegliava i canti

E dal non essere la mente assopita.

E il sole con le sue eterne faville

Un calore celeste m’infondeva,

E il vento che l’erba dei prati piega,

Le ali di un’aquila mi metteva.

La falce, l’ascia e il correggiato

Mi davano una forza sovrumana,

Nell’afa, nel gelo sono cresciuto forte,

E il mio canto rispondeva alla campana.

Sono cresciuto senza altra scuola,

Cercavo nel buio e il mio dono ho trovato,

E la mia voce è larga come un campo,

Io al canto bielorusso sono destinato.

La mia strada…

La mia strada non è coperta di fiori,

Né rischiarata dal sole ridente,

Tra miseri campi immersi nella nebbia

Essa si dipana mestamente.

La mia strada è in una notte senza fine,

Buio e foschia intorno ad essa,

La lontananza è una chimera offuscata,

Come il sogno e la chimera stessa.

La strada mi sbarrano i nemici coi guai,

Mi tentano a fermarmi e a dormire,

Ma la fede nel futuro con forza

Mi dice che devo proseguire.

Incontrerò un fratello messo in catene,

Che lui stesso non vedrà, no.

«Dove vai per questa strada?» – chiederà.

«Sempre avanti!» – io gli risponderò.

Sempre avanti per aride sabbie

La mia natura indocile andrà,

Finché le albe la illumineranno,

Finché il mio cuore non si fermerà!

(C) by Paolo Statuti