Archivio | ottobre, 2015

William Stanley Merwin

29 Ott

 

 

William Stanley Merwin

William Stanley Merwin

 

Nato a New York il 30 settembre 1927, è considerato uno dei più grandi poeti americani contemporanei. E’ anche drammaturgo e traduttore. Buddista praticante. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. La prima A Mask for Janus uscì nel 1952 e fu scelta da W.H. Auden per il Yale Younger Poets Prize. Ha ricevuto molti prestigiosi premi, tra i quali per ben due volte il Pulitzer (nel 1971 e nel 2009), e nel 2013 è stato il primo vincitore del Premio Letterario polacco “Zbigniew Herbert”. Tra l’altro ha tradotto il Purgatorio di Dante, i drammi di Euripide e di Lorca, poesie di Neruda e Mandel’stam.

Vive serenamente in una ex piantagione di ananas di diciotto acri, in cima al vulcano spento Haleakala, sulla costa nord-est dell’isola di Maui (Hawaii), dove si batte per la difesa delle foreste pluviali.

Ho scoperto questo straordinario poeta per caso, perché tra gli altri lo ha tradotto in polacco Czesław Miłosz, e lo considero davvero un caso fortunato.

Ecco alcune sue poesie nella mia versione.

 

Distacco

La tua assenza è passata attraverso me

Come il filo attraverso l’ago.

Tutto ciò che faccio è cucito col suo colore.

(1963)

 

Isole

 

Ovunque io guardi tu sei le isole

una costellazione di fiori che respira sul mare

isole montuose con fitte foreste fragranti

i fuochi sull’oceano lucente

il fuoco alla radice

tutta la vita volevo toccare la tua caviglia

correndo verso la sua riva

mi ormeggio a te

io ascolto

io ti vedo tra le le immobili foglie

stagno tra le rocce ti guardano

il sole la luna e le stelle

le cascate dell’isola e i loro echi

sono la tua voce le tue spalle tutta te stessa

e ti giri verso di me coi piedi bagnati di foschia

i fiori gli uccelli i colori

sono il tuo respiro

i fiori volutamente profumano di te

gli uccelli fanno le loro piume

non per volare ma per

sentire il tuo corpo

(1982)

 

Nell’anniversario della mia morte

 

Ogni anno senza saperlo ho trascorso questo giorno

Quando mi saluteranno gli ultimi fuochi

E il silenzio allontanerà

L’instancabile viaggiatore

Come un raggio di stella priva di luce

 

Allora non mi sentirò più

In vita come in un abito non mio

Stupito della terra

E dell’amore di una donna

E dell’impudenza degli uomini

Come oggi che scrivo dopo tre giorni di pioggia

Che sento cantare uno scricciolo e cessare lo scroscio

E che non so dove andare

(1993)

 

Alla luce di settembre

 

Quando tu sei già qui

sembri essere soltanto

un nome che parla di te

che tu sia presente o no

 

e per ora sembra come se

tu fossi ancora estate

ancora la nostra intima

estate senza fine

coi suoi riflessi

bronzei nei freschi mattini

e i tardi petali gialli

del verbasco che oscillano

sui gambi piegati

sulle loro ombre interrotte

lungo il suolo spaccato

 

ma tutti loro sanno

che sei arrivato

le cime dei semi di salvia

gli uccelli sussurranti

non c’è modo di nasconderti

per scoprirti più tardi

 

tu

che voli con loro

 

tu che non sei né

prima né dopo

tu che arrivi

con le prugne blu

cadute nella notte

 

perfetta nella rugiada       (2005)

 

Buonanotte

 

Dormi dolcemente mio vecchio amore

mia bellezza nel buio

la notte è un sogno che abbiamo

come tu sai come tu sai

 

la notte è un sogno lo sai

un vecchio amore nel buio

intorno a te quando vai

senza fine come tu sai

 

nella notte dove tu vai

dormi dolcemente mio vecchio amore

senza fine nel buio

nell’amore che tu sai

(2008)

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

Nero su nero

27 Ott

 

 

Urszula Kozioł, già presente da tempo nel mio blog – una delle poetesse polacche più note e apprezzate, nonché mia grande amica, mi ha inviato questo suo testo “da brividi”. Eccolo nella mia versione.

Urszula Kozioł

Nero su nero

 

Tu con neri rotoli e turbanti

sì, proprio a te penso – qui in un angolo sicuro –

mentre tu abiti nella nera città-inferno

dove anche il paradiso è nero

e anche i tuoi sogni sono neri

ma la veglia è più nera dei sogni

com’era là – chiedono a una bambina

che con la nonna è riuscita a fuggire

com’era – chiedono

tutto nero – risponde – nero su nero

un orfano di quattro anni è fuggito con estranei

dal nero paradiso dei jihadisti

dritto nelle mani dei volontari-salvatori

appostati per questo al confine con l’inferno

uno dei salvatori ha perso la vita correndo in aiuto

di alcune donne schiavizzate e di bambini

un ragazzino mostra come tagliano le teste

lui ha visto lui lo sa

sa già come si tagliano le teste

rifà il gesto sghembo con un colpo deciso della mano

così, proprio così – ripete il piccolo

tremo tutta al solo guardare alla TV il film di Ewa Ewart

dal fondo dell’inferno cioè dal paradiso nero (se è in nome del loro Dio)

gli occhi febbrili dei perversi come quelli

di un barbaro primitivo

poco fa hanno distrutto un’altra reliquia di Palmira

poco fa hanno ripetuto uno stupro di gruppo

il loro Dio ha dato il suo placet per questo

e anche per lapidare un’altra e trascinare

una piccola e violentarla sotto gli occhi della madre

le parole si pressano impaurite in un branco balbettante

nessuna vuole nessuna sa dare un nome a ciò che è stato visto

preferisce non essere non sopportare il mostruoso senso

ma dov’è COLUI

che potrebbe avere pietà se ci fosse

se non altro per liberare il nostro pianto imprigionato nella gola

come zolla gelata

(Versione di Paolo Statuti)

(C) by Paolo Statuti

 

 

William Blake

25 Ott

 

William Blake

William Blake

 

   Poeta, incisore, pittore, mistico. Nacque e morì a Londra rispettivamente nel 1757 e nel 1827. Terminò La scuola di disegno e ancora giovanissimo studiò incisione con Henry Basire. Su commissione copiava note opere, progettava lapidi e illustrava i libri. Nel 1779 si iscrisse alla Royal Academy of Arts, ma non la terminò a causa del suo carattere troppo eccentrico e della sua indipendenza di giudizio, che contrastavano con il rigido tradizionalismo della scuola. In particolare irritavano le sue opinioni sulla creazione di Joshua Reynolds, fondatore e primo presidente dell’Accademia, la cui pittura Blake aveva definito “deprimente”. Blake criticava anche i paesaggisti alla moda, come ad esempio Claude Lorrain, nonché la pittura veneta e fiamminga di Tiziano e Rubens. Verso la fine degli anni ’70 incontrò il favore dei mecenati John Flaxman e George Cumberland, che lo aiutarono a pubblicare la sua prima raccolta di poesie (1783).

Fu un visionario affascinato dal misticismo e dalle illuminazioni religiose, che ritroviamo nella sua produzione artistica e letteraria. Asseriva di aver avuto visioni fin dall’infanzia. A quattro anni gli era apparso Dio dietro la finestra, mentre a nove anni, passeggiando nei campi, aveva visto un albero pieno di angeli.

Nel 1793 uscì The book of Thel, e negli anni seguenti videro la luce i libri della mitologia di Blake: The book of Urizen e The book of Los, espressione del misticismo dell’autore e ricchi di contenuto esoterico.

Trasferitosi da Londra in campagna (1800), scrisse i poemi Milton, considerati la più importante opera mistica del poeta. Verso la fine della sua vita illustrò il Libro di Giobbe. Queste incisioni sono ammirate ancora oggi e paragonate alle opere di Rembrandt. Cominciò a illustrare anche la Divina Commedia, ma non terminò questo suo lavoro.

Non compreso dai contemporanei, che vedevano in lui soprattutto un folle, Blake fu particolarmente apprezzato nell’ambito della corrente preraffaellita, e annoverato in seguito tra i precursori del romanticismo nell’arte inglese del XVIII secolo, nonché del simbolismo.

 

Di William Blake ho tradotto i quattro Canti delle Stagioni. Numerose sono le interpretazioni date a queste poesie. In generale esse possono riferirsi alle differenti fasi della vita e della civiltà umana. Alcuni ritengono che il soggetto sia la poesia stessa, mentre altri credono che attengano più alla religione e alla natura. La quattro invocazioni possono essere lette come poesie a se stanti, ma Blake le considerava anche come un ciclo, e in quanto tali vengono spesso interpretate come espressione di rinascita e di morte. Inoltre questi Canti possono essere letti anche come raffigurazioni degli spiriti di Blake: Tharnas (la primavera), Orc (l’estate), Los (l’autunno) e Urizen (l’inverno).

 

I Canti delle Stagioni tradotti da Paolo Statuti

 

Alla primavera

O Tu, cui la rugiada i capelli irrora, e guardi

Attraverso i chiari vetri dell’aurora, volgi

I tuoi angelici occhi alla nostra isola

Che ti saluta intonando un coro, o Primavera!

 

Le colline ripetono il tuo nome e le valli

Ascoltano; i nostri occhi con nostalgia

Guardano i tuoi lucenti tendaggi: vieni,

Permetti ai tuoi santi piedi di visitarci!

 

Fermati sui colli dell’est, lascia che i venti

Bacino i tuoi abiti fragranti; lasciaci

Gustare il tuo respiro al mattino e alla sera.

Imperla la nostra terra malata d’amore per te.

 

Oh adornala con le tue leggiadre dita,

Versa i tuoi soffici baci sul suo petto; posa

La tua corona d’oro sulla sua languida testa,

Le cui modeste chiome ha intrecciato per te.

 

All’estate

 

O Tu, che attraverso le nostre vallate

Passi con forza, frena i tuoi selvaggi corsieri,

Mitiga il calore che erompe dalle loro narici!

O Estate, pianta spesso qui la tua tenda d’oro,

Sotto le nostre querce, addormentati mentre

Guardiamo con gioia le tue rigogliose chiome.

 

Tra le nostre dense ombre spesso abbiamo udito

La tua voce, quando al meriggio sul carro ardente

L’oceano dei cieli solcavi; presso le nostre fonti

Siediti, e nelle nostre valli muschiate,

Sulla riva di un limpido fiume, togliti i tuoi

Serici drappi, e lasciati portare dalla corrente:

Le nostre valli amano l’estate nel suo sfarzo.

 

Qui sono celebri i bardi e le loro corde d’argento,

Qui i giovani sono più audaci dei pastori del sud,

Le nostre fanciulle sono più belle nella danza.

Non ci mancano i canti, né strumenti di gioia,

Né dolci echi, né acque terse come i cieli,

Né ghirlande di lauro contro il caldo afoso.

 

 

All’autunno

 

O Autunno, carico di frutti e macchiato

Di sangue dell’uva, non andartene, ma siedi

Sotto il mio tetto ombroso; qui puoi riposare,

Accorda la tua lieta voce al mio flauto,

E tutte le figlie dell’anno danzeranno!

Canta ora il canto rigoglioso di frutti e fiori.

 

 

“Un bocciolo stretto schiude la sua bellezza

Al sole, e l’amore corre nelle frementi vene,

I fiori pendono dalla fronte del Mattino, e

Avvolgono il luminoso volto della Sera,

Finché dell’estate di san Martino si udrà il canto,

E nuvole piumate copriranno di fiori la sua testa.

 

Gli spiriti dell’aria vivono negli odori

Dei frutti. E la gioia, aleggia intorno

Ai giardini, o siede cantando sugli alberi.”

Così cantava l’allegro autunno e si sedette.

Poi si alzò, si cinse, e sulle pallide colline

Sparì dai nostri occhi. Ma lasciò tutto il suo oro.

 

 

All’inverno

 

O Inverno! Spranga le tue porte adamantine:

Il nord è tuo; là nella fonda terra hai eretto

La tua oscura dimora. Non scuotere

I tuoi tetti, né le colonne col tuo carro di ferro.

 

Non mi ascolta e sull’abisso spalancato

Rotola greve. Le sue tempeste infuriano;

In una guaina d’acciaio, non oso alzare gli occhi

Perché ha levato in alto il suo scettro sul mondo.

 

Guarda! Un orrido mostro, la cui pelle aderisce

Alle sue forti ossa, corre sulle gementi rocce:

Riduce tutto al silenzio, e la sua possente mano

Spoglia la terra, e congela la fragile vita.

 

Prende posto sulle scogliere, il marinaio

Grida invano. Povero diavolo! Egli fronteggia

Le tempeste, finché il cielo non sorride e il mostro

Torna urlando alle sue caverne nel monte Hekla.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

Il tiglio

21 Ott

 

Il tiglio nel mio giardino

Il tiglio nel mio giardino

 

Il tiglio più noto della Polonia è senza alcun dubbio quello non più esistente, ma eternamente vivo nelle menti e nei cuori dei Polacchi, vale a dire il tiglio che cresceva a Czarnolas qualche secolo fa, vicino alla casa di Jan Kochanowski (1530-1584), sotto il quale il padre della poesia polacca riposava e scriveva. Il tiglio meno noto della Polonia invece, è quello che si trova da un po’ di tempo nel mio giardino a Chmielno. Cresce a vista d’occhio e ogni anno mi fa sentire sempre più un tesoriere, con tutto quell’oro che ostenta. Potete ammirarlo in questa foto che gli ho fatto oggi. Per rendere omaggio a questo gioiello naturale, i cui fiori hanno il profumo del miele, e che dà il nome al mese in cui fiorisce, cioè luglio (tiglio in polacco si dice “lipa” e luglio – “lipiec”), ho scelto e tradotto proprio la celebre poesia di Jan Kochanowski: “Il tiglio”. Tempo fa ho già pubblicato sul mio blog un profilo di questo grande poeta con alcune sue poesie nella mia versione.

 

Il tiglio

O viandante, sotto il mio fogliame riposa alquanto!

Qui il sole non ti raggiungerà, nemmeno quando

Il suo apice toccherà e i raggi saranno più ardenti,

All’ombra dei miei rami le tue membra distendi.

Qui sempre un fresco vento dal campo sentirai,

Qui degli usignoli e degli storni il dolce canto udrai.

Le api prendono il miele dai miei fragranti fiori,

Il miele che poi adornerà le mense dei signori.

Io col mio sommesso sussurro come un afflato,

A chiunque è con me arreco un sonno beato.

Da me non nascono le mele, questo non l’ignoro,

Ma prendimi come innesto nel Giardino dei pomi d’oro.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 (C) by Paolo Statuti

Urszula Kochanowska

19 Ott

 

Jan Matejko: Jan Kochanowski abbraccia la salma della piccola Urszula (1862)

Jan Matejko: Jan Kochanowski abbraccia la salma della piccola Urszula (1862)

 

Era la figlia amatissima di Jan Kochanowski (1530-1584), il padre della poesia polacca. Morì quando non aveva ancora compiuto tre anni. Kochanowski riversò il suo immenso dolore nel bellissimo ciclo dei Treni lirici. Il grande poeta polacco Bolesław Leśmian dedicò a Urszula Kochanowska una sua celebre poesia che ho appena tradotto in italiano. Dedico questa mia traduzione a tutti i bambini morti per qualsiasi motivo e in qualsiasi circostanza. Prego Dio che dia pace alla loro anima innocente, anche se li immagino già volare felici con gli angeli, senza odio per chi o cosa li ha uccisi.

Bolesław Leśmian

 

Urszula Kochanowska

 

Quando dopo morta arrivai in paradiso,

Dio mi guardò a lungo accarezzandomi il viso.

“Urszula, sembri ancora viva, lo sai?

Farò per te tutto ciò che tu vorrai.”

“Oh – gli risposi – fa’ che nel tuo bel cielo

Ogni cosa sia come là dove io vivevo!”

E tacqui alzando gli occhi con timore,

Spaventata che di ciò io pregavo il Signore.

Sorrise, fece un cenno con la mano e allora

Apparve una casa uguale alla mia dimora.

E i tavoli, le sedie, il mio stesso letto,

Eran così simili, che provai un gran diletto!

E disse: ”Ecco qui i mobili e i vasi di fiori,

E ora aspetta che arrivino i tuoi genitori!

Quando metterò le stelle in cielo a riposare,

Qualche volta busserò e ti verrò a trovare!”

E mi lasciò, e io senza perdere un momento –

Apparecchio la tavola, pulisco il pavimento,

E il vestito più bello e più rosa mi metto

E il sonno eterno scaccio, e veglio, e aspetto…

La stanza nell’oro dell’alba è già avvolta,

Quando sento dei passi e dei colpi alla porta…

Mi alzo di scatto! Il vento soffia sonoro!

Il cuore si arresta…No! E’ Dio, non sono loro!…

(Versione di Paolo Statuti)

(C) by Paolo Statuti

 

 

Thomas Merton Poeta

17 Ott

zen-uccelli-rapaci-thomas-merton

La tomba di Thomas Merton nell'abbazia di Getsemani

La tomba di Thomas Merton nell’abbazia di Getsemani

 

Quest’anno è ricorso il centenario della nascita di Thomas Merton: prosatore, poeta, monaco trappista, uno degli scrittori più prolifici e più spirituali del XX secolo, autore di opere edificanti e meditative e di poesie d’ispirazione mistica. Nacque il 31 gennaio 1915 a Prades, in Francia. Il padre era un pittore neozelandese e la madre una quacchera americana. Trascorse l’infanzia e la giovinezza in Francia e in Inghilterra. Rientrato negli Stati Uniti, si laureò in lettere alla Columbia University con una tesi su “La Natura e l’Arte in William Blake”. Abbandonata la giovanile simpatia per il comunismo, nel 1938 si convertì al cattolicesimo. Prima della conversione era stato un buon bevitore e un buon pianista di jazz, gaudente con la passione per la poesia e il romanzo, vagabondo amatore, in realtà con la nostalgia del cielo e con un conto in sospeso con Dio.

Nel 1941, dopo aver rinunciato a un posto da insegnante al Collegio S. Bonaventura, nello stato di New York, entrò nell’abbazia trappista di Nostra Signora di Getsemani, nel Kentucky, dove col nome di Father Louis fu ordinato sacerdote nel 1949. Incoraggiato dal suo abate, descrisse l’itinerario che lo aveva portato a convertirsi e a scegliere la vita monastica. Nacque così la celebre autobiografia La montagna dalle sette balze (1948), che vendette nel giro di un anno più di 600.000 copie, non solo per la ricchezza dell’itinerario spirituale, ma anche perché – negli anni della nascente guerra fredda – era una lettura edificante. Ad essa fecero seguito altre opere di grande successo. Per anni i suoi temi principali furono la contemplazione, la preghiera e la ricerca della santità, ma c’erano anche prese di posizione critiche e battagliere, come ad esempio il suo attacco al razzismo proprio nella summenzionata autobiografia. Thomas Merton era un tenacissimo oppositore della guerra in Vietnam e aveva usato parole molto dure contro il suo Paese, gli Stati Uniti. Era “padre spirituale” dell’organizzazione pacifista cattolica americana Catholic Peace Fellowship e nei suoi libri Semi di distruzione, Fede e violenza, Fede protesta e resistenza, Diario di un testimone colpevole, aveva espresso la sua maturazione cristiana e le sue scelte: il primato della nonviolenza, la lotta contro il razzismo, l’ecumenismo, il dialogo con l’Oriente, il discepolato di Gandhi, la difesa e la promozione dell’obiezione di coscienza. Malgrado il voto del silenzio fu amico di Giovanni XXIII, Martin Luther King, Dorothy Day, Erich Fromm, Jacques Maritain, Joan Baez, Bob Dylan, Henry Miller e Boris Pasternak e intrattenne con loro una fitta corrispondenza. Quando morì il grande poeta russo, annotò sul suo diario: “Pasternak è morto lunedì. La sua storia è finita. Ora non resta che comprenderla”.

Proprio durante la guerra del Vietnam, Merton maturò un profondo interesse

per il monachesimo buddista e nel 1968 intraprese un lungo viaggio in oriente, incontrando anche il Dalai Lama che gli manifestò profonda stima.

Morì a Bangkok il 10 dicembre 1968, durante un convegno di monaci e monache benedettini e di monaci buddisti. Aveva svolto una relazione su “monachesimo e marxismo”. Nel pomeriggio avrebbe dovuto rispondere alle domande. Visto che tardava ad arrivare, un monaco andò a cercarlo nella sua stanza d’albergo e lo trovò morto, disteso di schiena con il ventilatore di un metro e mezzo in diagonale sul corpo. Da un esame della polizia risultò che «un filo elettrico difettoso era installato nel ventilatore. La corrente elettrica era abbastanza forte da causare la morte di una persona, se questa avesse toccato la parte metallica». Per una fatale coincidenza Merton era morto nello stesso anno in cui erano stati uccisi sia Martin Luther King che Robert Kennedy, entrambi decisi fautori, come lui, della integrazione razziale e della parità dei diritti civili per tutte le minoranze.

Notevole è stato il contributo di Thomas Merton al dialogo interreligioso. Affermava che sarebbe stato un cattolico migliore conoscendo i “lampi” di verità presenti non solo nei protestanti o nei mistici russi, ma anche quelli presenti nell’islamismo, induismo e buddismo.

Anche nella trappa conservò inquietudini e ansie ribelli, diviso tra monastero ed eremo, letteratura e contemplazione, interventi impegnati e silenzio, protesta politica e vocazione mistica. Un uomo dalle mille sfaccettature, un pensatore impossibile da catalogare e classificare, una figura che continua a provocare, suscitando interpretazioni sempre nuove.

Con i suoi libri tradotti in tutto il mondo, è stato maestro di spiritualità e profeta anticipatore del Concilio. Ha lasciato una eredità proiettata verso il futuro: i suoi versi, i suoi scritti, le sue proteste saranno fonti per la generazioni di domani.

Presento qui alcune poesie di Thomas Merton nella mia versione.

 

 

 

Poesie di Thomas Merton tradotte da Paolo Statuti

 

 

 

San Malachia

 

A novembre, nei giorni in cui si ricordano i morti,

Quando l’aria profuma di freddo come la terra,

San Malachia, che è molto vecchio, si alza,

Scosta la sottile tenda degli alberi e sorge sul nostro suolo.

Sul suo mantello tante gocce d’acqua, sul suo volto –

La barba di tutti i mari di Poseidone.

(Ha il pastorale o il tridente nella mano?)

Dietro la finestra gotica piange, e il vuoto convento

Geme come conchiglia dell’oceano.

Due campane con flebile voce

Accolgono il vecchio forestiero

E la torre osserva le sue acque.

“Mi hanno mandato per vedere la mia festa,” (la sua caverna parla!)

Devo scuotermi le gocce dai riccioli e restare nel transetto,

O lasciarvi e riposare nel silenzio della mia storia?”

E risonarono le campane e noi aprimmo le antifone

E gli scriccioli e le allodole volarono via dalle pagine.

I nostri pensieri diventarono agnelli e i cuori si agitarono come mari.

Un monaco pensò che dovessimo cantargli

Un inno dell’età della pietra

O qualcosa nella lingua dei giganti.

Così scegliemmo per lui il canto del gigante Gregorio:

Oceani di Scrittura cantarono l’ossuta Irlanda.

Allora gli ultimi fiori salvati

(Coltivati sotto vetro dopo il crollo dei giardini)

Alzarono le loro piccole lampade sull’altare di Malachia,

Per fissare i suoi occhi di legno prima dell’inizio della Messa.

La pioggia sospirò sui fianchi della chiesa di pietra.

Le tempeste veleggiarono tutto il giorno in flotte da combattimento.

Alle cinque, quando cercammo di vedere il sole, l’ospite muto

Si alzò, sospirò e scosse il fango dai piedi

E col suo tridente agitò i nostri alberi

E lasciò il sottobosco, scotendo qualche goccia sul terreno.

E cadono lingue ramate, cadono lingue di fuoco

Le foglie a centinaia cadono al suo passare,

Mentre la notte distende la sua oscurità corazzata

Su questa spuria Pentecoste.

E il Melchizedek della fine del nostro anno

Che è giunto senza una causa, se ne va senza traccia,

E la pioggia viene cigolando sulla nostra foresta

Come le porte di una prigione.

Prima lezione sull’uomo

 

L’uomo comincia nella zoologia.

Egli è il più triste degli animali.

Egli guida una grande vettura rossa chiamata ansia.

Sogna di notte

Di prendere tutti gli ascensori.

Smarrito nelle hall,

Non trova mai la porta giusta.

L’uomo è il più triste degli animali.

Mangiatore di fiocchi la mattina,

Bevitore di latte.

Riempie la pelle di caffè

E perde la pazienza con gli altri della sua specie.

Egli disegna il suo peccato sul muro,

Su tutte le réclame nei sottopassaggi.

Egli disegna i baffi a tutte le donne,

Perché può trovare la sua gioia

Soltanto nella zoologia.

Ogni volta che vuole telefonare alla Gioia,

Risponde un numero sbagliato.

Quindi egli ama le armi.

Conosce i nomi di tutti i fucili.

Guida una grande Cadillac nera chiamata morte.

Adesso mette la sua ansia nello spazio.

Fa volare le sue inquietudini intorno a Venere,

Ma senza alcun vantaggio.

Nello spazio dove da tanto tempo c’è solo il vuoto,

Egli guida un grande globo bianco chiamato morte.

Cari bambini

Ora che avete imparato la prima lezione sull’uomo,

Svolgete questo tema:

“L’uomo è il più triste degli animali.

Egli comincia nella zoologia

E si smarrisce

Nelle proprie cattive notizie.”

Canto funebre per l’altero mondo

 

Dov’è quel meraviglioso ladro

Che rubò l’intero raccolto all’adirato sole

E saccheggiò il terreno col suo luminoso sguardo?

Dove egli giace morto, la quieta terra lo disfa

E il vento ondeggia nella rivalsa della terra:

Campi di orzo, avena e segala.

Dov’è quel milionario

Che sperperò la luminosa primavera?

Le cui menzogne sonavano nel cielo d’estate

Come scadenti chitarre?

Che spese le fortune dorate dell’autunno

E morì nudo come un albero?

Il suo cuore giace aperto come una tesoreria,

Riempita di erba e abbondanti fiori.

Dov’è quel folle giocatore

Tra i centesimi del cui sangue sono caduti

I pesanti dollari della sua vita terminata?

Dov’è finito?

Le api irate passeggiano, luminose come gioielli

Su quel fiorente, scuro sole:

La ferita da pallottola nel suo immobile polmone.

Oh tu che provi odio per il giocatore o per il suo nemico,

Ricorda come le api

Visitano i morti che hanno pazientato

E prendono il miele dal loro sangue pietoso.

Tu che hai giudicato il giocatore o il suo nemico

Ricorda questo, prima del funerale dell’altero mondo.

Nel silenzio

 

Non dire niente.

Ascolta le pietre della parete.

Non dire niente, esse cercano

di pronunciare il tuo

nome.

Ascolta

le pareti vive.

Chi sei?

Chi

sei? Sei il silenzio

di chi?

Chi (sii quieto)

sei (come quiete sono

queste pietre). Non

pensare a cosa sei

ancora meno a

ciò che un giorno potrai essere.

Piuttosto

sii ciò che sei (ma chi?)

sii l’impensabile

che non conosci.

Oh non dire niente, mentre

sei ancora vivo,

e tutte le cose vivono intorno a te

parlando (io non sento)

al tuo essere,

parlando tramite l’ignoto

che è in te e in loro stesse.

“Cercherò come loro

di essere il mio proprio silenzio:

e ciò è difficile. Il mondo

intero è segretamente in fiamme. Le pietre

bruciano, perfino le pietre mi bruciano.

Come può un uomo non dire niente o

ascoltare tutte le cose che bruciano?

Come può osare di sedersi con esse

quando tutto il loro silenzio è in fiamme?”

Lo sconosciuto

 

Quando nessuno ascolta

I quieti alberi

Quando nessuno nota

Il sole in uno stagno

Dove nessuno avverte

La prima goccia di pioggia

O vede l’ultima stella

O saluta il primo mattino

Del mondo gigante

Dove la pace inizia

E la collera finisce:

Un uccello siede immobile

Osservando il lavoro di Dio:

Una foglia che ingiallisce,

Due petali che cadono,

Dieci cerchi sul laghetto.

Una nuvola sopra l’altura,

Due ombre nella valle

E la luce colpisce nel segno.

Ora l’alba ordina la cattura

Della più grande fortuna,

L’abbandono

Di una non meno stupenda preda!

Più preciso e più chiaro

Di ogni maestro della parola,

Tu intimo Sconosciuto

Che non ho mai visto,

Più profondo e più limpido

Del fragoroso oceano,

Prendi il mio silenzio

Tienimi nella Tua Mano!

Ora l’azione è una perdita

E la sofferenza è incompiuta

Le leggi diventano prodighe

I confini sono cancellati

Perché l’invidia è diseredata

E la passione è niente.

Guarda, l’immensa Luce è sospesa nel silenzio

La nostra più limpida luce è Lui.

Canto

 

Quando la pioggia canta sommessa e ha inghiottito la mia casa

E il vento avanza attraverso gli alberi,

I cedri fanno festa al temporale con le enormi zampe.

Il silenzio è più rumoroso di un ciclone

Nella rozza porta, mio rifugio.

E là io inghiottisco la mia aria da solo

Con canti puri e solitari

Mentre gli altri sono in riunione.

Le loro finestre si rattristano e disapprovano

E il vetro si corruga per via dell’acqua

Finché non vedo più il loro parlare

Ed essi non conoscono più il mio teatro.

I fiumi rivestono le loro case

E celano la loro nuda saggezza.

Le loro conversazioni

Vanno in profondità come sottomarini:

Le sommergo, con le loro scialbe espressioni, nella mia tempesta.

Ma io bevo la pioggia, bevo il vento

Notevoli poemi

Che evaporano dalla fredda foresta:

Sollevo verso il vento i miei occhi pieni di acqua,

La mia faccia e la mente assetate di refrigerio.

E così io vivo sulla mia terra, sulla mia isola

E parlo a Dio, al mio Dio, qui sulla soglia –

Quando la pioggia canta sommessa e ha inghiottito la mia casa

E i venti si fanno strada attraverso gli alberi.

 

La sera

 

Ora, nel mezzo della limpida sera,

La luna parla lucente alla collina.

I campi di grano suonano la loro musica,

Lodano il quieto cielo.

E lungo la strada, da cui le stelle tornano a casa,

Gli strilli dei bambini

Che giocano all’aria aperta, a un miglio o più,

Giungono al nostro deserto udito,

Chiari come l’acqua.

Dicono che il cielo è fatto di vetro,

Che la luna sorride come una sposa.

Dicono che amano i frutteti e i meli,

Gli alberi, le loro innocenti sorelle, vestite di fiori,

Che ancora indossano, nel crepuscolo che si adombra,

I bianchi abiti della prima comunione del mattino.

E nel cielo blu dove il fuoco lancia gli ultimi bagliori

Essi nominano i pianeti che di nuovo giungono

Con parole che fioriscono

Sulle sottili voci, lievi come steli di gigli.

E nel cielo blu dove il fuoco lancia gli ultimi bagliori,

Riflessi nel mormorio di un pioppo,

Un piccolo vigile uccello

Canta come uno scroscio.

(C) by Paolo Statuti

Ezra Pound (1885-1972)

14 Ott

 

Ezra Pound a Spoleto,1968

Ezra Pound a Spoleto,1968

 

Ezra Pound tradotto da Paolo Statuti

 

Lo zingaro

“Est-ce que vous avez vu des autres-des camarades-avec des singes ou des ours?”

                                                                                     Uno zingaro smarrito-A.D. 1912

 

Il cammino volgeva al termine, quando chiese:

“Ha visto altri, qualcuno dei nostri

Con orsi o scimmie?”

– Un uomo bruno robusto

Non simile ai meticci,

sull’umida strada presso Clermont.

Arrivò il vento, e la pioggia,

E la nebbia si coagulò sugli alberi nella valle,

E io avevo già fatto molta strada,

grigia Arles e Beaucaire,

E lui aveva chiesto, “Ha visto qualcuno dei nostri?”

 

Io ne avevo visti tanti dei loro…

già da Rodez,

Che tornavano dalla fiera

di san Giovanni,

Con i carri, ma nessuno con una scimmia o un orso.

 

 

 

 

 

 

 

L’isola sul lago

 

O Dio, o Venere, o Mercurio, patrono dei ladri,

Datemi a tempo debito, vi supplico, una piccola tabaccheria,

Con piccole scatole lucide

bene allineate sui ripiani

E il fragrante cavendish sfuso

e lo shag,

E il chiaro Virginia

sfuso sotto il chiaro vetro,

E una bilancia

non troppo unta,

E qualche donnina che entra per chiacchierare,

E per aggiustarsi i capelli.

 

O Dio, o Venere, o Mercurio, patrono dei ladri,

Prestatemi una piccola tabaccheria,

o trovatemi un’altra professione,

Risparmiatemi questo dannato mestiere di scrittore,

in cui bisogna sempre spremersi il cervello.

 

 

ERAT HORA

 

“Grazie, qualunque cosa accada”. Allora lei si voltò,

E come un raggio di sole sui fiori sospesi

Sparisce quando il vento li spinge di lato,

Si allontanò in fretta. Ma, qualunque cosa accada

Un’ora fu piena di sole e i sommi dei

Non avevano niente di cui vantarsi di più

Dell’aver guardato come quest’ora è passata.

 

 

 

 

Ortus

 

Come ho partorito?

Ho partorito

Per far nascere la sua anima,

Per dare a questi elementi un nome e un centro!

 

Essa è bella come la luce del sole, e come un nettare.

Essa non ha nome, non ha un posto.

Come ho partorito per separare la sua anima,

Per darle un nome e l’esistenza!

 

Certo sei legata e avviluppata,

Tu sei intrecciata con gli elementi non nati;

Io ho amato una corrente e un’ombra.

 

Io ti supplico, entra nella tua vita.

Ti supplico, impara a dire “io”

Quando t’interrogo:

Perché tu non sei una parte, ma un tutto;

Non una porzione, ma un’esistenza.

 

Francesca

 

Sei giunta uscendo dalla notte

E c’erano fiori nelle tue mani,

Ora uscirai da una confusione di gente,

Da un tumulto di voci che parlano di te.

 

Io che ti ho vista tra le cose primarie

Ero infuriato quando pronunciavano il tuo nome

In luoghi ordinari.

Io vorrei che fresche onde solcassero la mia mente,

E che il mondo si seccasse come foglia morta,

O come semi di tarassaco fossi spazzato via,

Così che io ti possa di nuovo trovare,

Sola.

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Ernesto “Che” Guevara (1928-1967)

10 Ott

 

 

 

che guevara

 

Anna Świrszczyńska

 

Alla memoria di „Che” Guevara

 

Vado tra le pallottole,

accanto cammina la mia Leggenda,

essa non morirà.

 

Vado lungo una valle di scuro pianto,

lungo possenti paesaggi di disperazione.

Chiamo i morti e i vivi,

si alzano,

i vivi simili ai morti, così senza forza,

i morti simili ai vivi, così minacciosi.

Non sanno parlare, non hanno

volto. Io sono

il loro volto, la lingua ardente

della loro gola.

 

Vado tra le pallottole,

la mia Leggenda procede accanto,

ha il muso di leonessa,

sei ali

come sei cascate

di vittoria.

Quando cadrò strada facendo,

la sua pesante patetica scarpa

oltrepasserà il cadavere

come cosa irrilevante.

Andrà non trattenuta

con la gola di un toro,

da questa gola scaturirà

ieratico un canto

su di me.

 

La mia Leggenda

condurrà i morti e i vivi

più lontano di me.

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

(C) by Paolo Statuti

Gennadij Nikolaevich Ajgi

2 Ott

 

Gennadij Ajgi

Gennadij Ajgi

 

   Gennadij Nikolaevič Ajgi, il poeta nazionale della Ciuvascia, nacque il 21 agosto 1934 nel villaggio di Šajmurzino nella Repubblica dei Ciuvasci. Trascorsa l’infanzia nella sua terra natale, è rimasto sempre legato alla cultura ancestrale e alla lingua ciuvascia. Fino al 1969 il suo cognome fu Lisin. Uno degli antenati del poeta pronunciava la parola “chajchi” (“quello”) senza la prima lettera, e così si formò il soprannome di famiglia “Ajgi”. Egli cominciò a scrivere poesie in ciuvascio e pubblicò i suoi primi versi nel 1949. Dal 1952 visse stabilmente a Mosca. Dal 1960 cominciò a scrivere poesie anche in russo, grazie soprattutto all’incoraggiamento di Boris Pasternak, da lui conosciuto anni prima e che diventò suo grande amico. Ma per la sua poesia innovativa Ajgi fu accusato di formalismo e dichiarato persona non grata nella sua Ciuvascia, i cui campi e boschi pervadono la sua creazione. Per dieci anni lavorò al Museo Majakovskij, ciò che gli permise di approfondire la sua conoscenza dell’avanguardia russa della prima parte del XX secolo. La moderna poesia francese (soprattutto Baudelaire) ebbe anch’essa su di lui un’influenza determinante, ma il suo personale panteon includeva anche Nietzsche, Kafka, Norwid, Kierkegaard e molti scrittori religiosi.

Nel 1972 vinse il premio dell’Académie Française per la sua antologia della poesia francese in ciuvascio. Durante gli anni di Brežnev visse in condizioni precarie, mantenendosi con i magri compensi per le traduzioni. Grazie alla perestrojka la sua vita cambiò radicalmente. Gli fu permesso di pubblicare in patria e fu riconosciuto come una figura chiave della neoavanguardia russa. Cominciò a essere tradotto in molte lingue e a partecipare a diversi festival e congressi internazionali di poesia. Visitò quattro volte la Gran Bretagna, sentendo una particolare affinità con la Scozia, dove fece un pellegrinaggio alla tomba di Robert Burns, e con Londra, la città del suo amato Dickens. Sei volumi delle sue poesie sono stati pubblicati in inglese.

Ajgi è rimasto una figura controversa. Scrivendo come tra il sonno e la veglia, egli creò una poesia piena di silenzi, che suggerisce visioni, ansietà e gioie, e che può essere diversamente interpretata. La sua poetica è pacata e semplice, rifiuta la ricchezza del lessico e la retorica di alcuni suoi contemporanei, inoltre è intensamente orale – il pubblico era affascinato dalla sua potente dizione. E’ il poeta del silenzio e della luce. Una delle sue raccolte porta una epigrafe attribuita a Platone: “La notte è il tempo migliore per credere nella luce”.

Tradusse in ciuvascio molta poesia russa, francese, ungherese e polacca e i sonetti danteschi, mentre le sue poesie sono state tradotte nella maggior parte delle lingue europee. Ha ricevuto diversi prestigiosi premi internazionali e nel 2000 è stato il primo a ricevere il Premio Boris Pasternak. Scrive Damiano Rebecchini: “Pur vicina alla lirica francese del Novecento, la poesia di Ajgi è profondamente radicata nella tradizione poetica russa, ispirandosi in particolare all’opera di Osip Mandel’štam e di Boris Pasternak. Caratterizzata da un intenso impressionismo lirico, essa accoglie spesso dalla natura suoni e suggestioni che generano un tessuto fonico e ritmico accentuato dal verso libero, e a volte si muove verso un originale sperimentalismo, in alcuni casi orientato a esplorare la dimensione del sogno”.

“Col passare degli anni è cambiata la mia definizione della poesia, – disse il poeta in una delle interviste. – Prima dicevo: è la gravità della parola, adesso dico: la poesia è il respiro e l’uomo è il respiro. Respiro e ispirazione provengono dalla stessa radice… La poesia è il respiro di Dio. Noi fioriamo / soltanto per un tocco / di un’altra forza benevola e pacata, – ricorda Ajgi, – e l’essenza della poesia è questo tocco… La poesia è eterna… Essa come la neve – esiste dappertutto. Si scioglie, di nuovo cade, ma essa…è. La poesia è la neve. La poesia essenzialmente non cambia. Essa si autocustodisce. Ciò che in essa passa – è un’altra faccenda. E in questo senso la poesia non ha né ieri, né oggi, né domani”.

In italiano alcune poesie di Ajgi sono incluse nelle raccolte Poesia russa contemporanea da Evtušenko a Brodskij, a cura di G. Buttafava (1967) e Antologia ciuvascia. I canti del popolo del Volga, a cura di A. Scarcia (1986).

Gennadij Ajgi è morto a 71 anni il 21 febbraio 2006.

Come di consueto pubblico qui alcune sue poesie nella mia versione.

 

 

Poesie di Gennadij Ajgi tradotte da Paolo Statuti

 

L’ovario

(Dall’omonimo poema ciuvascio)

                                     Ad R. A.

che io sia tra di voi

come polverosa moneta trovata

tra fruscianti banconote

in una lubrica tasca di seta:

potrebbe risonare a piena voce

ma non ha niente su cui battere

quando rombano i contrabbassi

e quando si rammenta

come nell’infanzia il vento fumava

di pioggia in un mattino autunnale –

che io sia

un’attaccapanni verticale

sul quale si possono

appendere non solo cappotti

ma si può appendere anche qualcosa

più pesante di un cappotto

e quando non crederò più in me stesso

che sia viva la memoria

per ridarmi la tenacia

per sentire di nuovo sul viso

la pressione dei muscoli degli occhi

1954

Il cammino

 

Quando nessuno ci ama

cominciamo

ad amare le nostre madri

Quando nessuno ci scrive

ricordiamo

i vecchi amici

E le parole ormai pronunciamo solo perché

tacere ci spaventa

e i movimenti sono pericolosi

Alla fine – in fortuiti parchi trascurati

piangiamo per le penose trombe

di penose orchestre

Un acero nella periferia della città

 

quanto silenzio

c’è nell’albero

come se nel mondo intero

ci fosse solo questo acero di settembre!

oh no c’è di più – come una presenza:

tu – davanti a una porta

taci e sai: solo ciò che è «là»

conta più dei concetti

senza una spiegazione… – entrare è possibile

(partenza – pace – oblio)

a un prezzo solo: non vedere più

questo acero di settembre

 

La neve

 

Vicino alla neve

i fiori sul parapetto sono strani.

Sorridimi almeno perché

non dico parole

che non capirò mai.

Tutto ciò che posso dirti:

sedia, neve, ciglia, lampada.

E le mie mani

sono semplici e lontane,

e le cornici delle finestre

sono come ritagli di carta bianca,

e là, dietro di esse,

intorno ai lampioni,

turbina la neve

dalla stessa nostra infanzia.

E turbinerà, finché sulla terra

ti ricordano e ti parlano.

E questi bianchi fiocchi una volta

li vidi essendo desto,

e chiusi gli occhi, e non posso aprirli,

e turbinano bianche scintille,

e fermarle

io non posso.

1960

Finestre su piazza Trubna in primavera

                                                   A V. Ja.

 

con gli oscillanti quadrati

della fioritura e del suono

di tutte le mie infanzie, note

alle diafane città abbandonate,

io le toccherò, e le nozze verginali

lo stesso dureranno

senza musica e senza porte;

ardono le profondità

verdastre e cupe,

e piangono là, dietro di esse,

i macellai sporcati dalla pioggia,

caduti su mucchi di pesci;

e di nuovo calpestio e passi –

io sono qui, io sono qui;

calpestio e passi –

una volta per sempre –

come una campana nella nebbia –

– e come pretitoli di acatisti –

io sogno una rossa lacerazione e concentrazione

1961

 

 

Silenzio

1.

nell’invisibile bagliore

di polverizzata malinconia

conosco l’inutilità come i poveri l’ultimo vestito

e i vecchi mobili

e so che questa inutilità

al paese è necessaria e me la chiede

fidata come un patto segreto:

tacere come la vita

per tutta la mia vita

2.

Il tacere è un tributo – ma il silenzio è per me.

3.

abituarsi a tale silenzio

come il cuore in azione non si sente

come anche la vita

come qualche suo posto

e in questo io sono – come la Poesia è

e io so

che il mio lavoro è arduo e solo per se stesso

come nel cimitero della città

l’insonnia del guardiano

Da 28 variazioni su canti popolari ciuvasci e udmurti

 

XVIII

 

Io canto, ed è come se tra le lacrime

qualcosa balenasse nel fuoco del tramonto, –

io che vado nel vecchio campo

col mio cavallo.

XIX

E nella nebbia

la verde quercia

non ha niente più forte di un ramo

per stormire.

XX

 

Queste mani e questa testa

resteranno morte in terra straniera

il fumo della locomotiva ci colpisce la faccia,

per perdere la memoria una volta per sempre.

XXI

 

E a un tratto – quiete, come se

io, per questo, fossi solo al mondo,

e la tormenta fuori, la tormenta nell’orto,

la tormenta nei campi.

XXII

 

E il giorno s’è quietato, come se

qualcosa fosse morto in esso,

e la volpe dorme ai piedi del monte,

coperta dalla rossa coda.

La morte

 

Senza togliersi il fazzoletto dalla testa

la mamma muore,

ed è l’unica volta

che io piango alla vista

del suo abito di tela grezza.

Oh, come sono placide le nevi,

come se le avessero spianate

le ali di un demone di ieri,

oh, come sono ricchi i cumuli,

come se sotto fossero celati

mucchi di sacrifici

pagani.

E i fiocchi

cadono senza sosta portando sulla terra

i geroglifici di Dio…

1960

Il silenzio

                           Ad A. Chuzangaj

 

ma che fa egli nel bosco?

mormora come un ramo… no è più inutile di un ramo

e con un motivo inferiore

di un ramo… –

non un segno non un’azione… –

ed esiste in lui

soltanto ciò che possiede

del Paese-Soglia… (più avanti – il fuoco)… –

e là

una certa ora

mostrerà la predestinazione

della fine… –

(ma la presenza qui – è illusoria!.. –

e – non c’è una sensazione

che possa risonare

come “paese”)… –

egli è qui – senza la pienezza e senza il tacere del bosco…

soltanto il silenzio – del passato… e qui il suo fruscio –

la sua ultima apparizione… soltanto – un’eco… –

(tutto – nel vuoto… senza fuoco… e perfino –

escludendo tutta la vastità – del bosco)

1975

Mezzogiorno

 

Luccichio

di rose –

come lungo asciugarsi

le lacrime.

1982

Il bambino e la rosa

 

il peso

di un bambino

(e là – dietro il cancelletto – quello

dal vento cullato

sul

lago)

il peso

di un bocciolo

di rosa (e nella stanza accanto – quello

con un lieve scalpiccio

sul pavimento)

 

1984

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti