Archivio | novembre, 2014

La “Trinità” di Andrej Rubljov

22 Nov
Andrej Rubljov: La "Trinità"

Andrej Rubljov: La “Trinità”

     Per il duecentesimo post del mio blog ho scelto la pittura, e precisamente l’“icona delle icone” – la “Trinità” o l’”Ospitalità di Abramo”, dipinta nel 1422 (?) da Andrej Rubljov. Essa raffigura la scena della visita fatta dalla Trinità ad Abramo per promettere a lui e alla moglie Sara una discendenza. Nel mese di agosto del 1969 frequentai a Mosca un corso internazionale di perfezionamento per insegnanti della lingua russa. In tale occasione conobbi Georgij Sergeevič Dunaev (1936-1978), scrittore, saggista e critico d’arte. Il suo nome è legato soprattutto ai suoi studi su Botticelli. Oltre all’arte rinascimentale italiana, egli si occupò di iconografia, filosofia, musica e della sintesi delle arti. Dopo il nostro incontro mi inviò una copia della rivista Dekorativnoe Iskusstvo SSSR.1972.3(172) (L’arte decorativa russa), dove alle pagg. 29-34 era stato pubblicato il suo saggio Il linguaggio simbolico della “Trinità” di Rubljov. Eccolo nella mia traduzione dalla lingua russa.

Com’è noto, la “Trinità” si trova nella Galleria Tret’jakov, ma il suo legame con il mondo delle forme dell’iconostasi sfugge al visitatore. Gli studiosi sottolineano in pari tempo, che l’iconostasi trinitaria è la prima iconostasi completa che si conosca (ove le icone rituali erano disposte come un fregio continuo e “non venivano alternate con le pitture dei pilastri orientali”), e che Rubljov ha introdotto qui “qualcosa di nuovo nella decorazione della parte orientale del tempio” (M. Il’in). Si possono spiegare il movimento più diritto della figura dell’angelo di sinistra, lo spostamento a sinistra dell’asse centrale e l’asimmetria che ne deriva, con l’originaria posizione della “Trinità” nell’iconostasi; e non è una contraddizione il fatto che l’asimmetria e  il sistema dei movimenti possano essere spiegati con la struttura interna dell’icona stessa, poiché esiste tra essi una reciprocità. L’iconostasi presenta una triplice struttura lungo la linea orizzontale – mensa del sacrificio, altare, diaconio. La posizione centrale della “seconda trinità” dell’iconostasi – il “Salvatore Onnipotente”, la Madre di Dio e il Battista, con le forme ovali e romboidali del “Salvatore” e le altre figure che si chinano verso di lui – dimostra anche che Rubljov seppe indovinare la melodia della “Trinità” nella generale risonanza dell’iconostasi, tanto più che in essa le forme tondeggianti appaiono come elementi predominanti della composizione. Le composizioni circolari prevalgono nelle icone delle festività “Trasfigurazione”, “Discesa dello Spirito Santo”, “Deposizione” ed altre ancora, ma nelle rimanenti troviamo forme arrotondate, cosicché la “Trinità” di Rubljov risulta straordinariamente “iconostatica”, a differenza ad esempio, di quella del pittore Feofan. Ma il “cerchio” stesso può essere inteso solo in relazione alle forme del calice e della croce, che arricchiscono la sua semantica. Se consideriamo le “composizioni arrotondate”, vedremo che la loro costruzione procede secondo forme ellittiche – ad esempio “L’ingresso a Gerusalemme”, “La lavanda dei piedi” ed altre ancora. In tal modo, il cerchio nell’iconostasi è la forma mobile le cui posizioni terminali sono il cerchio puro e la retta. Non s’incontra nell’iconostasi la brutta infinitezza del movimento rettilineo, mentre il cerchio come forma di ragionato movimento in sé e di moderazione s’incontra spesso. Il motivo del tondeggiare delle forme in Rubljov è chiaro ad esempio nella “Presentazione” (cattedrale della Trinità). Il motivo della processione solenne che ricorda l’offerta dei doni alla divinità nei fregi del Partenone e “l’isocefalia” nella “Presentazione” della cattedrale dell’Annunciazione, è sostituito da un componimento ellittico, dove vediamo non il sacrificio al dio, ma la gioia della liberazione, della risoluzione, i reciproci doni di amore della divinità e dell’uomo, cioè lo stesso principio dell’amore sacrificale e della libertà che troviamo anche nella “Trinità”. Così, nella “Apparizione dell’angelo alle donne” nella cattedrale della Trinità, è evidente la proficua influenza della “Trinità”. E non tanto nel campo della maestria formale – l’autore di questa icona è lontano dalla raffinatezza dell’esecuzione e dal “classicismo” delle figure delle pie donne nella cattedrale della Dormizione, – quanto nella costruzione ternaria, nella nobiltà delle proporzioni e, soprattutto, ciò che non era nemmeno in Rubljov al tempo dell’affresco nella cattedrale della Dormizione – nel linguaggio degli “inclinamenti”, svelato nella “Trinità”. Un unico movimento sembra penetrare le figure delle donne, allungando gradualmente, animando e assottigliando i loro corpi. Le figure, oltre un generale moto ellittico, hanno anche dal di dentro un moto ovaleggiante (la linea dei soprabiti) che le unifica in un tutto indissolubile. E’ importante notare che i contorni delle figure non si sovrappongono l’uno all’altro, creando intersecazioni spaziali, ma si completano a vicenda o, più esattamente, le figure sono come trasparenti e un contorno delinea due figure; grazie a ciò si creano legami ritmici che fondono i momenti non simultanei del moto. Cioè viene raggiunto ciò che a suo tempo sognavano di fare i futuristi,  scomponendo il moto in momenti distinti e sforzandosi di sintetizzarli, per trovare un’unica soluzione al problema “tempo-spazio”. Ma questa soluzione è data dal pittore di icone senza l’apporto di una deformazione, mediante una precisa ritmica costruzione. La composizione ellittica sembra rispondere al principio dell’accrescimento e dello sviluppo della maturità spirituale delle immagini, essa si nota anche nell’icona “La lavanda dei piedi” (cattedrale della Trinità), il che conferisce al rito quello stesso senso di formazione dell’amore reciproco della divinità e dell’uomo, che è un leitmotiv di Rubljov. Nella “Ultima Cena” (cattedrale della Trinità) è importante notare che il calice richiama il calice della “Trinità”, che esso è l’unico oggetto sulla tavola, e non ce ne sono altri, come avviene, ad esempio, nella stupenda icona di Kiev del XV secolo. In base al principio della “raffigurazione apparente” (1) – questo calice riceve una caratteristica simbolica, e questa composizione viene messa da noi automaticamente in rapporto con la “Trinità” che si trova sotto di essa e dove il tema calice-cerchio riceve pieno sviluppo e, in tal modo, ritroviamo il motivo della “Ultima Cena” nella “Trinità”, come parte di un tutto. Tralasciamo qui gli altri elementi della raffigurazione che scaturiscono da questa correlatività. Nella “Ascensione” la forma del cerchio è data “realmente” e quella del calice – “apparentemente”. Forse notiamo questo calice, formato dai contorni esterni degli angeli (2) e di un bianco accecante su fondo “scuro” (a differenza dello “scuro” sul chiaro della “Cena” e della “Trinità”) solo perché Rubljov ha usato il procedimento della formazione simbolica dell’intervallo, ripetendo il calice nei contorni interni degli angeli della Trinità, cioè egli ha saputo leggere anche ciò che si celava nella composizione della “Ascensione”. La composizione generale della “Ascensione” è analoga a quella della “Trasfigurazione”, e ne risulta anche un arricchimento della semantica (3). Noteremo che è difficile immaginare queste composizioni dell’iconostasi prescindendo dal confronto con la “Trinità”; essa, infatti, è come se le completasse. Per questo nella iconostasi russa è “invisibilmente” presente questa formula definitiva data da Rubljov (anche se in forza di una raffigurazione apparente). Ma perfino le composizioni “della croce” sono legate a quel significato che Rubljov attribuì al cerchio nella sua Trinità – giacché non v’è croce senza cerchio. E’ vero, i loro rapporti reciproci sono dissimili. Così, nella “Deposizione”, attraverso un sistema di piani ritmici il cerchio passa gradualmente nella croce, ed ogni piano, grazie alla intensità del colore e del correlativo movimento circolare, ha una sua propria semantica; occorre inoltre rilevare che l’immobilità nell’icona attesta non una insensibilità ma, al contrario, una grande tensione, perché la vita si comprende non dal di fuori, ma dal di dentro. Per questo la più immobile figura della Madre nella “Deposizione” sembra rimare con la figura dell’angelo di sinistra nella “Trinità”, in virtù della loro tanto maggiore tensione interna. Nella “Deposizione” il cerchio e la croce hanno pari dimensioni, ma la triplice superiore armonia trionfa, la croce si eleva come un grandioso monumento, come un segno di vittoria. Essa sembra riversare la benedizione sui presenti. Nella “Sepoltura” la croce interrompe il cerchio, ponendosi al centro della composizione, – le cadenze circolari, come singhiozzi, ondeggiano presso questo monumento dell’afflizione. Scorgiamo la croce come sostegno e il cerchio come motivo di gioiosa vittoria nella “Discesa agli Inferi”, che è anche una composizione in tre parti con il raggruppamento rubljoviano delle figure. La “Trinità” è organicamente legata all’iconostasi, poiché il cerchio, la croce come albero della vita, il calice come simbolo di amarezza e di risurrezione li ritroveremo nelle composizioni delle festività. Ma Rubljov, introducendo la “Trinità” nell’iconostasi, dette a queste forme un senso universale. Ciò riguarda soprattutto il tema del cerchio che emana nella Trinità tutte le sfumature dei valori iconostatici. Nella cattedrale della Trinità, nell’iconostasi sopra la “Trinità” si trova l’arcangelo Gabriele, la cui esecuzione si attribuisce al tardo Rubljov, mentre a sinistra della porta reale vediamo l’arcangelo Michele. In tal modo, il centro dell’iconostasi è come circondato dagli angeli e trasformato in simbolo di poesia liturgica, che invita l’uomo, in nome della Trinità, ad essere “come un cherubino”. Per l’osservatore moderno la pluralità di significati dell’immagine nell’icona, la comprensione dei livelli del suo simbolismo poetico presentano difficoltà note. La coscienza ontologica del pittore di icone ha sintetizzato l’etica e l’estetica, il sapere e l’universo, l’arte e il pensiero, il nome e l’essenza, unendo così un’abile differenziazione dei concetti con la sottigliezza filosofica del suo tempo. Ciò riguarda soprattutto Rubljov, il quale, secondo le parole di un contemporaneo “superava di gran lunga tutti gli altri per la sua grande saggezza”. Questo simbolismo plastico e poetico penetra tutti i livelli della realtà pittorica, e non possiamo ignorare la particolare complessità che ne deriva e la ricchezza della raffigurazione. Nella “Trinità” è possibile rinvenire moltissimi livelli di realtà artistica nella costruzione dell’immagine, come si vede nell’esempio del calice, benché questo principio si possa addurre per qualsiasi altra immagine. Al livello letterale e a quello storico-biblico seguivano quello analogico e quello cosmico-morale, poiché il calice non è semplicemente il calice per la refezione, ma è anche il prototipo del calice eucaristico e, di conseguenza, anche il segno di un miracolo-simbolo, esso è dunque il calice dell’amore e della morte (questo quinto livello si può chiamare “poetico”), e conduce a nobili azioni e alla perfezione (livello cosmico-morale), è “l’itinerario dell’anima a Dio”, che troviamo spesso anche nei maestri del Rinascimento. In Rubljov l’immagine del calice non si esaurisce in questi sei significati. La linea del calice è introdotta all’interno della triplice unità e serve da contorno interno degli angeli (cioè la plasticità attesta non solo l’inconoscibile e la perfezione dell’essenza della triplice unità –  “il cerchio”, ma anche il conoscibile della Trinità, attraverso l’amore sacrificale e l’incarnazione – cosiddetto “tema catafatico” – settimo significato). Inoltre incontriamo l’immagine capovolta del calice nella figura dell’angelo di centro; le pieghe del suo himation confluiscono verso il calice ed è come se si unissero ad esso in un’unica immagine. L’angelo sembra entrare nel calice o affiorarne. Qual è la semantica di questo procedimento? Forse vuol dire che “il re della gloria viene per sacrificarsi e farsi nutrimento dei credenti” (V.N. Lazarev dimostra che l’angelo di centro è Cristo, oppure è un uomo-angelo trasfigurato, e dopo aver ricevuto il sacramento? O l’una e l’altra cosa?). In ogni caso abbiamo qui alcuni altri significati dell’immagine. Ma non è tutto. Nel “testo” della icona il calice si ripete quattro volte: sull’altare, nel contorno interno degli angeli, capovolto nell’angelo di centro e nella parte inferiore dell’icona. Questa quadruplice ripetizione inserisce l’immagine del calice in un sistema di piani spaziali, di rapporti di luce e di colore, cioè in un sistema generale di plastica pluralità di immagini. La sua significazione si arricchisce di una simbologia lineare, coloristica e luminosa, poiché tutti i contorni dei diversi piani sono dati in modo diverso, ed essa sarà ora reale, ora apparente, ora semiapparente. Se ora rivolgiamo la nostra attenzione al sistema plastico “fuori testo”, vale a dire all’iconostasi, noteremo che un calice quasi della stessa forma e dello stesso ambiente (su bianco) si trova sopra la Trinità in un’altra composizione, vicina ad essa per il significato, cioè nell’”Ultima Cena”. Senza dubbio si verifica qui un’inversione, opera un intervallo diverso da quello della “Trinità”, e per il principio della raffigurazione apparente, tutti e quattro gli intervalli e, di conseguenza lo stesso calice, ricevono una diversa durata figurativa, una diversa “immagine del tempo”. Nell’”Ultima Cena” il tema del cerchio si ripete tre volte, e questa ritmica ripetizione: calice – tavolo – cerchio degli apostoli – agisce come i rintocchi di una campana e costringe a volgersi continuamente all’immagine del calice che risuona qui in modo drammatico. Del tutto opposta è l’immagine del calice d’un bianco accecante che appare tra gli apostoli nella “Ascensione”. Essa è raffigurata da due angeli , come nella “Trinità”, ma non secondo un contorno interno, bensì esterno. Il “calice degli angeli” unifica qui due mondi – quello terreno, rappresentato dagli apostoli, e quello celeste. Se il calice dell’”Ultima Cena” separa il traditore dal Dio-amico, nella “Ascensione” esso riunisce nuovamente gli apostoli. E’ stato osservato che una simile configurazione dell’icona è affine alla costruzione del tempio, ove la navata semioscura è chiusa dall’altare risplendente (4). In tal modo il motivo del calice si trasmette a tutto il tempio e i successivi risultano spazialmente inclusi all’interno di questa immagine. Emerge qui l’intensa vivacità spaziale dell’immagine anche in seguito alla raffigurazione apparente. L’icona della “Ascensione” è vicina, per lo schema compositivo, a quella della “Trasfigurazione”, dove l’intensa luce getta a terra gli apostoli, per cui chi osserva percepisce la luce del calice nella “Ascensione” come unificante e rasserenante. Egli stesso si paragona agli apostoli che videro la luce della Grazia, che assaporarono il calice dell’”Ultima Cena”, unificati infine, e illuminati dalla luce del calice della “Ascensione”. In virtù della interdipendenza tra il calice e il cerchio sia nella “Trinità, sia nell’”Ultima Cena, la raffigurazione del calice è legata ai significati infiniti del cerchio che penetrano tutta l’iconostasi. Se osserviamo il divenire della raffigurazione nell’icona stessa, nell’iconostasi, se ci poniamo al centro del tempio, ci inseriamo nel sistema “spaziale” della percezione e torniamo quindi alla “Trinità”, il suo calice, arricchitosi di tutte le varianti plastiche e poetiche, apparirà dinanzi a noi come il segno di un tutto unico. “L’angelicità” è il principale motivo di Rubljov, la sua intonazione. Se ne può cogliere il senso solo in rapporto alla formazione dell’immagine dell’angelo, le cui radici in Rubljov provengono dall’antichità, come più di una volta è stato osservato. Il legame degli angeli di Rubljov con il “linguaggio divino ellenico” è stato rilevato da molti studiosi. Inizialmente ci furono tentativi per dimostrare la parentela formale degli angeli di Rubljov con la scultura ellenica dell’epoca del suo pieno rigoglio, attraverso l’analisi della pulsazione interna della linea. In seguito venne osservata l’analogia della situazione storica nella Grecia successiva alle guerre persiane, e in Russia dopo la vittoria sui tartari. Adesso questa relazione viene analizzata sotto differenti aspetti. E’ stata giustamente messa in evidenza la somiglianza delle figure dei vasi con fondo bianco  del tempo di Sofocle e delle stele sepolcrali con le figure di Rubljov. Ma non meno rilevanti sono anche le differenze: le Niki elleniche sono dee, gli angeli bizantini sono virili, quelli di Rubljov non sono né femminei né virili, essi sono al di sopra del sesso. Per i Greci gli dei erano le forze fondamentali del cosmo, e per questo il più delle volte si mostravano in lotta con i propri antenati, con titani e giganti, o assistevano ai combattimenti mortali degli eroi. Queste “machie” sono estranee agli angeli, interamente dediti alla contemplazione. Gli angeli delle prime icone di Rubljov (la “Natività”, il “Battesimo”, entrambe nella cattedrale della “Annunciazione”) sono raggruppati, ma la variazione del motivo iconografico, ammessa da Rubljov nella “Natività”, li obbliga ad inchinarsi al Bambino e li accomuna agli altri personaggi dell’icona. Gli angeli della cattedrale della “Dormizione” di Vladimir sono affini “all’angelo di Chitrovo”. Essi sono ancora pieni dell’impeto e della dinamica del Rinascimento dei Paleologhi, di cui parla anche la composizione del “trono prestabilito”. Gli angeli appaiono di tre quarti, come nella “Trinità”, ma ciò è ancora soltanto un accenno al tipo di sviluppo dell’angelo rubljoviano. E’ stato notato che gli angeli della cattedrale di Vladimir somigliano a “grandi buoni bambini”. Noi non condividiamo il metodo psicologico nell’analisi delle forme dell’icona. Perciò è importante per noi rilevare l’incremento dei contorni parabolici nelle figure, il trattamento a spirale del moto, il generale allungamento delle proporzioni e la comparsa della tipica romboidalità, soprattutto nell’angelo che suona la tromba. E qui incontriamo per la prima volta la caratteristica rotondità delle spalle e lo scorrevole passaggio alla ondulazione continua della manica, come nell’angelo centrale della “Trinità”, ma si conserva la rotondità delle teste e “l’astrattezza” della trattazione. E’ interessante notare in Rubljov l’assenza di quella accentuata spiritualità e di quel particolare “aristocratismo” delle composizioni piane e lineari, tipiche negli angeli della scuola di Vladimir-Suzdal’. La spiritualità degli angeli rubljoviani proviene dall’immagine della “Madonna di Vladimir” – unica nel suo genere, che egli attentamente studiava e la cui bellezza profondamente umana e tragica si manifesta negli angeli della “Trinità” e negli altri angeli in generale. Gli angeli di Rubljov rivelano la personalità dell’amore creativo, il suo fondamento nell’unità della triplicità. Questo mistero della personalità non è rivelato immediatamente dagli angeli di Rubljov. Gli angeli si stupiscono di molte cose, molto per essi rimane incomprensibile. Non senza ragione i contemporanei di Rubljov – Palama, Kallist Katathigiot e Pico della Mirandola consideravano la natura umana superiore a quella angelica, anche per la verità in modo diverso, poiché l’italiano scorgeva la superiorità della natura umana nella libertà del volere e della autonomia, mentre i greci la ravvisavano nella forza della ragione. “E se chi non sa è schiavo, chi sa non lo è affatto, ma è libero…, e così la ragione deve tendere a un unico modello, affinché in seguito alla sua scoperta e contemplazione, risplenda anche l’amore per esso…” Negli angeli della “Trinità” Rubljov abbandona del tutto l’ovalità del volto, avvicinandosi alle linee più acute del volto della “Madonna di Vladimir”; la rotondità del contorno generale lascerà il posto alla parabola, i capelli saranno visibili su entrambi i lati fino alle spalle, e non si interromperanno dalla parte sinistra all’altezza degli occhi, come negli angeli di Vladimir, e inoltre i loro contorni si avvicineranno ai tratti dell’abito della “Madonna di Vladimir”. Il naso si allungherà, la fronte e il mento si ridurranno. Comparirà un esame approfondito delle linee del naso e delle sopracciglia, tra le quali sarà visibile una piccola ruga triangolare, come nella “Madonna di Vladimir”, un più generalizzato e marcato trattamento dei riccioli che accentuerà la delicatezza dei tratti del volto, una forma più pittorica dei vuoti. Tutto questo dice che l’ideale della bellezza, espresso nella “Madonna di Vladimir” e negli angeli di Rubljov, ha un unico fondamento spirituale. L’ideale armonia delle forme è raggiunta attraverso il superamento dell’antinomia del mondo. In arte ciò si manifesta come problema “segno-raffigurazione”. Per la trasmissione delle idee più sottili occorre anche un maggior grado di astrazione. I teorici bizantini effettuarono studi sulle “somiglianze dissimili” alla diataksis, che bene esprimono i principi del trattamento creativo dell’arte. Nell’arte greca c’è un alto grado di generalità, c’è il senso della bellezza assoluta che il greco coglieva mediante la contemplazione del mondo dei fenomeni, ma in essa prevalse presto il rapporto entecheletico di forma e materia – i principi diatattici della costruzione sono assenti. Ciò è chiaramente visibile almeno nell’esempio delle pieghe. Alla scorrevolezza dei contorni delle pieghe nelle stele greche si contrappone l’antinomia delle pieghe rettilinee, dei vuoti sfaccettati e degli angoli acuti, nonché la sinusoidalità e l’iperbolismo dei contorni nella pittura delle icone. Le pieghe degli abiti che scendono in verticale, con gli acuti lembi pendenti sui quali, sostanzialmente, poggia anche la figura, conferiscono a quest’ultima la volatilità e la “fragilità” in questo mondo, e il lieve tocco dei piedi – l’imponderabilità, quasi ci trovassimo in un mondo privo della legge di gravità. La pettinatura alla “Nefertiti” e il generale allungamento delle figure degli angeli nella “Trinità” (14:1 invece del consueto 8:1, secondo J. Olsuf’ev), la maestosità dei loro gesti e la “pace eterna” in cui essi dimorano, il rilievo delle loro pose, la generale tensione delle linee del movimento delle pieghe e dei contorni della figura, che sembra nascere, anziché dalle pieghe dell’abito, dalle onde di un oceano primordiale, con il suo ritmo, come presso gli Elleni, apparenta l’icona all’arte egizia tanto quanto a quella greca. Il  virtuosismo di esecuzione delle pieghe nella “Trinità” è sorprendente, e la “precisione geometrica” non stona ma, al contrario, dà a queste raffinate diversità un carattere di “autenticità superiore”. Tenteremo in modo ancora più evidente di spiegare il senso delle trasformazioni diatattiche e di interpretare il “segno” in Rubljov. I due angeli alle estremità formano presso l’asse centrale come i due bracci di un’iperbole. Questo iperbolismo dei contorni s’incontra anche nella forma delle maniche e nelle pieghe dell’abito – è come il leitmotiv delle linee rubljoviane. Alcune linee nella “Trinità” sembrano attraversare il piano da parte a parte, altre lo intersecano dall’alto o dal basso. La predilezione della parabola e soprattutto dell’iperbole per delineare i contorni degli angeli può essere spiegata con la cosmicità di questa figura. E’ come se “le estremità” dell’iperbole si ripiegassero in qualche punto infinitamente lontano  dello spazio, e ritornassero quindi verso di noi “alla rovescia”, cioè quello che era di sopra apparirà di sotto e viceversa. Di qui l’universo si immagina finito, come una figura che ricorda la sfera, ma schiacciata ai “poli” (5). Nella “Trinità” le forme iperboliche, paraboliche e spiraleggianti predominano nella stessa struttura dell’opera, esprimendo l’idea di un macrocosmo, integro nel suo isolamento e isolato nella sua unità. Di qui anche l’insolita monumentalità dell’opera, ma anche la compiutezza della composizione. La “pianicità” e la linearità di questa icona non sono affatto così semplici come solitamente si pensa. Il piano per Rubljov non è un valore autonomo, ma solo il punto di partenza. Egli immagina lo spazio che raffigura non solo a tre dimensioni, ma anche a “quattro dimensioni” – come unità spaziale-temporale, dove il tempo non è separato dallo spazio e ne definisce la struttura. E nondimeno, nelle sue costruzioni il pittore di icone parte dalla superficie piana, tiene conto delle sue condizioni. Ma il linguaggio della sua raffigurazione non è piatto, come ad esempio nel pittore egizio. Il pittore di icone, pensando in modo “quadrimensionale” costruisce uno “spazio sferico” sui generis, servendosi di una superficie piana intesa a parte, che possiede “elevatezza” e intensità. Già da alcuni secoli la tradizione dello spazio prospettico distrugge il piano e costruisce uno spazio fittizio e illusorio. Il pittore di icone, al contrario, inserisce il piano in un sistema generale di raffigurazione che riflette il tempo-spazio realmente esistente. E’ stato rilevato che la prospettiva “attira” l’osservatore nella profondità del quadro, mentre la “prospettiva inversa” respinge chi osserva, non lo lascia entrare nei confini di quel mondo ove si trova la “Trinità”, in “altri mondi” ove un’altra “misura” regola il tempo e lo spazio. Egli deve, come Dante, superare il “mezzo del cammin”, cambiare completamente il consueto orientamento, per penetrare nei segreti dell’icona. Il mondo delle cose diventa trasparente, poiché tutte le sue facce sono visibili simultaneamente, la massa dei corpi si fa apparente e la figura in tutta la sua forza diventa “volatile” come gli angeli di Rubljov, e “imponderabile”. Anche il mondo oggettivo muta, la terra e i ripiani dei monti si raffigurano di solito come tagliati in due dal piano; tutto acquista una netta “sfaccettatura” e fragilità, grazie al trattamento con i “quanti” d’oro della luce. Ma lo spazio s’infrange in presenza di velocità maggiori della velocità della luce, e il corpo nei confini estremi del mondo “si capovolge”, come accadde con Dante e Virgilio, assumendo caratteristiche apparenti: – la lunghezza di ogni corpo diventa pari a zero, la massa diventa infinita, e il tempo – eterno. In pratica non ci sono velocità maggiori della velocità della luce, ma il mondo dell’icona è mentale e non materiale. Uno studioso di Dante diceva che la Divina Commedia, spezzando il tempo, appare inaspettatamente non indietro, ma in anticipo rispetto alla scienza a noi contemporanea. Queste stesse parole possono e debbono dirsi anche per la creazione di Rubljov.   __________________________

  1. Con “raffigurazione apparente” (P. Florenskij, “Apparenza e geometria”, 1922) o minus-sistema (Lotman, “Lezioni di poetica strutturale”) si è convenuto di indicare la percezione di una concreta raffigurazione, come se fosse sovrapposta ad un’altra, legata ad essa nello spazio e nel tempo, nonché internamente inseparabile dalla stessa. Esse agiscono come da contrappunto e creano risonanze polifoniche. Così la “semplicità” di Rubljov e il suo rifiuto delle complesse quinte architettoniche e paesaggistiche, l’assenza di una narrazione letteraria sviluppata, il rifiuto dei movimenti forti che creano un’atmosfera tesa ed emozionale, e anche di aperti effetti di luce, cioè di tutto ciò che era la base della raffigurazione del suo tempo, aggiungono a questa “semplicità”, realmente percepita solo sullo sfondo di questo saturo “linguaggio paleologico”, una nuova supplementare raffigurazione – una “raffigurazione apparente”, come noi chiameremo questo sistema di rapporti artistici.
  2. M. Alpatov. Studi sull’arte anticorussa. Mosca,1967.
  3. Ibid.
  4. Ibid.
  5. N. Tarabukin. La filosofia dell’icona (Archivio della Biblioteca “Lenin”).

Alcune icone di Andrej Rubljov

L'"Ascensione"

L'”Ascensione”

Il "Battesimo"

Il “Battesimo”

La "Discesa agli Inferi"

La “Discesa agli Inferi”

La "Natività"

La “Natività”

L'"Ingresso a Gerusalemme"

L'”Ingresso a Gerusalemme”

la "Lavanda dei piedi"

la “Lavanda dei piedi”

La "Presentazione"

La “Presentazione”

La "Sepoltura"

La “Sepoltura”

L'"Ultima Cena"

L'”Ultima Cena”

La "Trasfigurazione"

La “Trasfigurazione”

La "Madonna di Vladimir" (copia a olio eseguita da Paolo Statuti)

La “Madonna di Vladimir” (copia a olio eseguita da Paolo Statuti)

La gru

12 Nov

gru

 

 

In una grande città, all’ultimo piano di un palazzone, viveva un uomo con un cane, un gatto e un pappagallo. Si tenevano compagnia e si cacciavano il malumore a vicenda. Nel quartiere l’uomo era considerato un saggio e dava consigli gratis a tutti. Quando il consiglio si rivelava particolarmente prezioso e portava dei vantaggi, ciò che accadeva piuttosto spesso, il beneficiato riconoscente si sentiva in dovere di dare una buona mancia all’uomo del palazzone. Nessuno conosceva il suo nome. Qualcuno affermava di aver sentito una volta il pappagallo gracchiare: “Benedetto!”, “Benedetto!”, ma chissà se l’animale si rivolgeva proprio a lui? Perciò lasciamolo senza nome, del resto la cosa non è poi così importante.

L’uomo però era conosciuto anche perché agli occhi della gente era un tipo alquanto originale. Ad esempio di sera girava con una torcia elettrica in mano come un moderno Diogene, solo che andava in cerca di sorprese, e per lui una sorpresa poteva essere qualunque cosa che per noi invece è assolutamente usuale. Ma l’uomo era fatto così, ad esempio se vedeva un bambino piangere, gli guardava attentamente le lacrime poi lo accarezzava sulla testa e sorridendo mormorava: “Sembra una pioggia di perle!” Un’altra volta vedeva una coppia che si baciava, e in quei baci vedeva il più bello dei suoi amori, cioè quello che ancora aspettava. A volte invece incontrava uno che gli chiedeva semplicemente la strada, e allora vedeva in quella persona l’uomo che cerca di continuo qualcosa e che ha bisogno di aiuto. Insomma era fatto così. Spesso negli ultimi tempi la sera spegneva tutte le luci e si sedeva vicino alla finestra. Accarezzava gli animali, parlava col pappagallo che di tanto in tanto gli rispondeva, sgranocchiava noccioline e cominciava a conversare con la gru che si ergeva proprio davanti alle sue finestre. Era lì da un mese, da quando cioè avevano iniziato la costruzione di un centro commerciale. La gru ormai lo conosceva bene. Si può dire che erano diventati amici e ogni sera si raccontavano ciò che avevano osservato durante la giornata. La gru era la prima volta che parlava con qualcuno. Tutti i manovratori che aveva avuto erano tipi silenziosi e non le rivolgevano mai la parola, tutt’al più dalle loro bocche aveva sentito solo delle imprecazioni. Invece la gru aveva visto tante cose nei vari quartieri della città e aveva tanto da raccontare. Era altissima e con un braccio lunghissimo che sembrava proteso verso l’infinito, inoltre non era più tanto giovane e, pensate un po’, sapeva anche sorridere. Si capiva che stava sorridendo quando si vedeva un leggero tremolio della luce riflessa sui vetri della cabina di comando.

Una sera, dopo un violento acquazzone, il cielo era diventato improvvisamente sereno. La luna gettava macchie d’argento sulla gru bagnata. le macchie si muovevano e la gru sembrava come se respirasse. L’uomo la guardò a lungo con ammirazione, poi alzò una mano verso di essa in segno di saluto e disse:

– Oggi sono un po’ giù di corda. E’ venuta da me una donna, madre di tre bambini. E’ rimasta sola. Il marito l’ha lasciata per un’altra. Mi ha fatto molta pena. Pensa, malgrado tutto non serba rancore al marito, non una parola di condanna, probabilmente lo ama ancora. Mi ha detto perfino che forse anche lei ha un po’ di colpa, se non è riuscita a tenerlo con sé…

– Ma come! – ha esclamato la gru: – Com’è possibile, con tutti i problemi che danno tre figli, riuscire a soddisfare il marito come il primo giorno di matrimonio?! Voi uomini siete semplicemente egoisti e crudeli, e tu che consiglio le hai dato?

– Le ho detto di non disperarsi, di farsi coraggio per amore dei figli, perché essi valgono assai più di un marito infedele. Oh, guarda! un uccello ti si è seduto sulla testa, non distinguo che uccello è, sei troppo lontana, avvicinati un po’…sì, ecco…così…mi sembra una cornacchia.

– Sì, è una cornacchia e mi sta raccontando che in una strada qui vicino c’è stata una sparatoria, un bandito è morto e un poliziotto è finito all’ospedale…

– Sai una cosa? – ha replicato l’uomo – Cambiamo discorso. Dimmi, sei contenta di essere una gru? O vorresti essere qualcos’altro?

– Sì, sono contenta di essere nata gru, ma mi piacerebbe tanto poter volare; a volte anche così mi sembra di essere un elicottero, ma vorrei volare là dove potrei essere utile a milioni di persone, vorrei vedere i loro occhi alzati su di me, raggianti di gioia e pieni di gratitudine. E tu?

– Cara mia, io…dipende…ad esempio in questo momento vorrei essere il tuo manovratore, mi piacerebbe azionare le leve che ti fanno muovere, sentirti docile e ubbidiente ai miei comandi.

– Ecco che salta fuori la tua, cioè la vostra mania del comando e dell’ubbidienza…Sai? ricordo che una volta ero impegnata nella costruzione di una grande chiesa, e a volte nel silenzio della notte sentivo Cristo che parlava, era una voce triste, mi faceva vibrare tutta. Ciò che lo rattristava di più era la mancanza di vera fede e di sincero amore. Una volta ha detto: “Che me ne faccio di una chiesa piena di gente che non mi segue fino in fondo, che non mi ama veramente per quello che io ho fatto per loro?

– Sì, ma questo che c’entra con l’obbedienza?

– C’entra, perché nessuno dovrebbe comandare. Il comando è già dentro di noi, basta ascoltare bene…

– Parli come un filosofo, ma come fai a sapere queste cose?

– Le so, perché essendo così alta mi arrivano alle orecchie migliaia di informazioni. I venti ad esempio mi sfiorano e mi sussurrano tante cose; gli uccelli si posano su di me e organizzano vere e proprie conferenze, in questo non sono meno noiosi di voi uomini, ma a volte sanno anche essere allegri e mi divertono con le loro facezie.

– Guarda, il mio cane ti sta fissando e muove la coda, gli sei simpatica.

– Sì?! E allora perché ieri mi ha fatto la pipì addosso?

– Questo è un segno di grande simpatia, non lo sapevi? Anche il gatto ti guarda avidamente. Di sicuro sta pensando di arrampicarsi su di te fino in cima…

– E il pappagallo che fa?

– Il pappagallo è il più saggio di tutti. Parla pochissimo e ascolta molto. Vorrebbe svolazzarti un po’ intorno. Può?

– Ma certo! mandamelo uno di questi giorni. Voglio rivelargli dove ho visto una bella pappagallina qui vicino.

– Ha arruffato tutte le piume, come se ti avesse sentito…

– Così l’uomo del palazzone e la gru davanti alle sue finestre trascorrevano le serate, discorrendo del più e del meno. E il tempo passava…Il centro commerciale era già ultimato. Cominciavano ad aprirsi i primi uffici. Un giorno decisero di smontare la gru. La sera prima, sapendo che sarebbe stata l’ultima, l’uomo del palazzone girava con la sua torcia elettrica attorno alla gru. La guardava attentamente e scopriva nuove sorprese. Qualcuno aveva scritto sulla base una data, erano semplici numeri, eppure all’improvviso essi gli sembrarono estremamente importanti, come solo può esserlo una data, un giorno che passa è importante perché non torna più, un giorno…sembrano solo poche ore e può decidere tutta la vita…ogni giorno che viene…quanti ancora? Così pensava l’uomo con la torcia in mano. Mentre girava intorno alla gru sentì una voce:

– Amico mio, permettimi di salutarti, voglio dirti arrivederci, non addio. Non vuoi salire un momento? L’hai tanto desiderato ed è l’ultima occasione che hai. Vieni, non è poi così difficile. Lascia la torcia ai miei piedi e arrampicati, su coraggio.

L’uomo fissava la gru come ipnotizzato. Era vero, lo desiderava tanto. Indugiò un attimo, poi si decise, posò la torcia e cominciò la salita. Saliva sempre più in alto, incoraggiato dalla voce della gru, la sentiva sempre più vicina al suo cuore…finalmente entrò nella cabina e si sedette al posto di comando. Si sentiva come nella cabina di un aereo, la città ai suoi piedi pullulava di luci e pulsava di sussurri. Il vento faceva oscillare leggermente la gru. Aveva l’impressione di essere cullato. Si sentiva felice, accarezzò le pareti della cabina e mormorò:

– Grazie, non lo dimenticherò mai…

Davanti a lui le sue finestre erano come macchie nere. A una di esse due piccole lampadine verdi lo fissavano piene di bramosia e d’invidia.

                                                                  Paolo Statuti

 

In treno

11 Nov

 

 

   Uff, appena in tempo! Saltai affannato (non sono più un ragazzino) sull’ultimo vagone e in quel preciso istante il capostazione diede il segnale di partenza. Il treno si mosse con uno strattone e lentamente acquistò velocità. Quando ripresi fiato entrai in uno degli scompartimenti. Salutai gli altri passeggeri che mi avevano preceduto e mi sedetti nel posto libero accanto alla porta. Presi il giornale e iniziai a leggere svogliatamente e senza un reale interesse. I pensieri mi distraevano e viaggiavano al ritmo del treno, portandomi lontano…

Riposi il giornale nella borsa e guardai le facce dei miei compagni di viaggio, preparandomi a sopportare con rassegnazione le quattro ore che mi separavano dal luogo ov’ero diretto. Andavo a …per la causa di separazione, voluta da mia moglie “con addebito di responsabilità e colpa del marito”, cioè – mia. – Chissà – pensavo – forse quella signora di mezza età che mi siede di fronte è felicemente sposata e non ha avuto una simile esperienza… oppure è già divorziata e magari rimaritata? Provavo l’impulso di farle delle domande, così per semplice curiosità, per sapere se anche nel suo caso si era parlato di colpa e come era finita l’intera questione. Nei momenti critici mi ha sempre aiutato constatare di non essere “l’unico” e trovare il conforto dell’analogia. Ma la signora di mezza età aveva socchiuso gli occhi e forse dormicchiava, cullata dal compiacente dondolio del treno.

Alla sua sinistra sedevano una ragazza e un ragazzo, ai quali assegnai rispettivamente sedici e diciotto anni. Si somigliavano molto e potevano essere fratello e sorella. Parlavano del programma delle vacanze e di altri impegni a breve scadenza:

– A proposito, tieniti libero domenica prossima, Luisa dà una festa e verrà anche Stefania…- gli disse lei.

– E dai con questa Stefania – sbottò lui. – Ma sei proprio fissata! Ma come devo dirtelo che di quella non me ne importa niente!

– Okay, okay, calmati, dicevo così per dire, del resto ci saranno facce nuove e potrai divertirti con chi ti pare – ribatté lei.

– Capirai, che divertimento! – replicò lui, aggiungendo dopo un po’: – D’accordo, verrò, ma sono sicuro che sarà uno strazio…

Vicino a me sedeva un signore sulla cinquantina, con occhiali e baffi. Aveva l’aria dello studioso sicuro di sé, apprezzato e conteso tra varie istituzioni. Forse si recava anche lui a…non per una causa di separazione, ma per tenere la sua millesima conferenza. Vedevo gli sbadigli dell’uditorio e sentivo i battimani di circostanza, e il conferenziere sorrideva soddisfatto e con sussiego.

Alla destra del signore importante c’era una giovane donna con una lunga treccia. Poteva avere una trentina d’anni. Il suo profilo mi ricordava vagamente la Madonna di Vladimir e Valeria – la prima fiamma della mia vita, quando io avevo quattordici anni e lei dodici – che mi odiava perché le facevo una corte spietata. Osservava la sequenza delle immagini che scorrevano al di là del finestrino, e che i suoi occhi inquieti sembravano filmare come una cinepresa. Presi a studiare il suo volto, chinando un po’ il capo in avanti per evitare la barriera dello studioso, sprofondato nella lettura di un complesso testo di economia politica. E intanto il treno correva…

Inaspettatamente la giovane donna voltò la testa dalla mia parte e incontrò il mio sguardo. Non so quanto tempo mi osservò, perché sorpreso e imbarazzato chiusi subito gli occhi, fingendo di dormire e di averli aperti soltanto per caso. Ripensavo all’espressione del suo viso e cercavo di decifrarla mentalmente. Vi avevo letto un misto di ostilità, noia e delusione, ma anche un bagliore di curiosità e di speranza. Sembrava attraversare quel momento così particolare, in cui l’incontro di una nuova persona è accolto con un sospiro di sollievo, come una liberazione, e può trasformarsi perfino in amore improvviso e incondizionato.

Quando riaprii gli occhi – guardava di nuovo il paesaggio. In quell’istante il treno imboccò una galleria e restammo al buio. Allora intuii che i nostri sguardi si cercavano liberamente, senza più la remora convenzionale della discrezione, ed erano felici d’incontrarsi senza essere visti. Quando il treno uscì dalla galleria e tornammo alla luce del giorno, provai una strana sensazione: mi sentivo come colto in flagrante, tremendamente “visibile”, come un nido tra i rami di un albero spoglio. E intanto il treno correva…

Il quel piccolo mondo mobile e traballante, in quella minisocietà, apparentemente normale e tranquilla, ciascuno di noi avrebbe potuto raccontare la sua storia “di un uomo e una donna”. Mi venne in mente mia moglie: aveva preso lei l’iniziativa, e in cuor mio la ringraziavo, anche se lo aveva fatto sperando in un tornaconto. Io forse non mi sarei mai deciso: pigrizia mentale? Incertezza? Non so con precisione… Del resto anche la mia prima fidanzata ufficiale era stata lei a lasciarmi, ma in quel caso avevo ricevuto almeno una lezione di saggezza e realismo femminile, e di coraggio, perché sono certo che mi amava ancora. Pensavo ai miei due figli più o meno dell’età di quei giovani che mi sedevano di fronte, due figli abituati ormai alla mia forzata lontananza e alla compagnia della madre, che con il suo vittimismo alimentava in entrambi  il risentimento nei miei confronti.

Improvvisamente la signora di mezza età mi rivolse la parola, destandomi dalle mie riflessioni:

– Qui dentro si soffoca! Può aprire la porta, per favore?

Aveva pronunciato le parole “qui dentro si soffoca” con un tono d’insofferenza e di stizza, ed ebbi la sensazione che, oltre al suo corpo, anche la sua anima avesse bisogno di aria. Mi affrettai ad aprire e mi ringraziò con un sorriso sforzato e incolore.

Dopo un po’ la signora di mezza età ruppe di nuovo il silenzio:

– Potrei dare un’occhiata al giornale?

– Ma certo, prego – le dissi.

Lo sfogliò per una decina di minuti, poi di colpo esclamò:

– Ecco cosa può fare una donna delusa e disperata!

Allungai il collo e lessi il titolo: “Avvelena il marito con un cioccolatino al cianuro”. La signora aggiunse ancora:

– Una donna in balia dell’egoismo e della prepotenza maschile deve pur difendersi in qualche modo, e per colpa dell’uomo diventa venale, ipocrita e…

– Ed è capace di odiare e di vendicarsi come nessun uomo riuscirebbe a fare – terminai io.

– Più che di odio e di vendetta, io parlerei di esasperazione – replicò la signora. – E poi bisogna dire che l’uomo soffoca l’odio con l’indifferenza, mentre la donna non può restare indifferente, il suo istinto e la sua sensibilità la spingono a reagire impulsivamente.

– Ma non si tratta piuttosto di orgoglio ferito e di ipersensibilità? – intervenne a sorpresa lo studioso.

– Niente affatto – saltò su la signora. – E la tragedia di questa donna che ha ucciso è tutta qui: oltre al carcere, ora dovrà subire la sofferenza del rimorso e della solitudine, e tutto per aver amato troppo.

– E poi c’è la questione dell’amore fisico – disse un po’ fuori tema e alquanto imbarazzata la sedicenne. – Una donna normale e che ci tiene alla sua dignità non va a letto con un uomo, se non lo ama, mentre anche il migliore uomo di questo mondo potrebbe tranquillamente farlo.

– Questo vuol dire che sessualmente la donna è inferiore all’uomo – osservò il ragazzo.

– Sarà anche così – replicò indispettita la signora – Ma è di gran lunga superiore all’uomo sentimentalmente.

   Dopo una mezz’ora di vivace discussione, intercalata da frequenti riempitivi, come: “Qui casca l’asino!”, Quel che è giusto è giusto”, “Ma non mi faccia ridere!” e simili, ormai chi più chi meno avevamo tutti espresso la propria opinione, tutti – tranne la giovane donna dalla lunga treccia. Soltanto lei non aveva detto nulla. Ogni tanto ci osservava con l’aria di chi conosce bene l’argomento, ma non interviene per un senso di modestia o di riservatezza, e poi tornava ad immergersi nel suo paesaggio.

Intanto il treno aveva rallentato la corsa e con un lungo stridente cigolio si arrestò sobbalzando. Eravamo arrivati alla stazione intermedia di…Alla finestra di una casa prospiciente la ferrovia vidi affacciarsi una donna. Salutava qualcuno agitando festosamente la mano e sorridendo di cuore. Certamente era qualcuno appena sceso, e che dalla mia posizione non riuscivo a scorgere. – Chiunque sia – mi dissi – è una persona fortunata e sarebbe bello trovarsi al suo posto.

Il treno lasciò la stazione e riprese a correre. La giovane donna si alzò e andò nel corridoio a fumare una sigaretta. Attraverso la porta la vedevo aspirare il fumo profondamente, come se volesse placare il turbamento interiore. Tamburellava nervosa le dita sul vetro del finestrino. All’improvviso mi venne un’idea assurda: forse anche lei ha intenzione di uccidere un uomo, forse nella borsetta nasconde una rivoltella…Immaginai di alzarmi e di andarle vicino, e che mi fissasse con aria interrogativa e lievemente ironica. Pensai di dirle:

– Per l’amor del cielo, non lo faccia, non si vendichi, mi prometta di perdonarlo, la prego, mi dica che lo perdona!

E immaginai la sua risposta, sofferta e meditata:

– Vorrei…sì, ma non posso…

“Non posso”, “non posso”, “non posso” – mi ripeté singhiozzando.

Rientrò nello scompartimento e si preparò a scendere alla fermata successiva. Prima di uscire ci salutò e passandomi davanti mi sussurrò con un filo di voce e sorridendo:

– Auguri!

– Grazie, anche a lei – risposi, e avrei voluto aggiungere: – Coraggio! – ma pensai che poteva sonare inopportuno o presuntuoso e mi limitai a ricambiare il sorriso. La seguii con lo sguardo e la vidi salire su un autobus, che la portò via assieme al suo segreto non svelato.

Malgrado la battaglia che mi aspettava in tribunale, ero tranquillo. Potevo dire diverse cose a mio favore e non mi sentivo particolarmente in colpa nei riguardi di mia moglie. Inoltre le sue pretese mi sembravano grottesche rispetto alle mie attuali possibilità finanziarie, ed ero certo che anche il giudice lo avrebbe capito.

Nessuno dei miei compagni di viaggio adesso aveva voglia di parlare, e neanche io. Socchiusi gli occhi con l’intenzione di dormire un po’…Pensai che presto avremmo avuto la pioggia, perché il dolore al ginocchio si era rifatto improvvisamente vivo, e avevo visto le cornacchie volteggiare irrequiete sopra gli alberi. Mi assopii. E il treno intanto correva…anche lui indifferente, come i grilli che si nascondevano nell’erba dei campi infocati dal sole, e che cantavano salutando il passaggio del convoglio.

(Paolo Statuti)

Il presentimento

11 Nov

 

 

   Domenica ore 8.00. Giulio P., impiegato statale, allunga la mano e preme il pulsante che azzittisce la sveglia, poi richiude gli occhi, vorrebbe dormire ancora un po’. Il silenzio del giorno di festa invade la stanza assieme al chiarore che filtra attraverso gli sportelli della finestra. Trascorso qualche minuto, Giulio si rende conto che almeno per il momento non riuscirà a riprendere sonno, e allora si mette a pensare, fissando supino il soffitto.

Viveva solo. Era divorziato e i figli erano rimasti con la madre, non dava confidenza ai vicini di casa e di amici ne aveva pochi, e per giunta erano eternamente occupati. La domenica quindi per Giulio era un giorno particolarmente noioso e scialbo. Non sapeva come ammazzare il tempo e desiderava che trascorresse il più presto possibile.

Quella domenica tuttavia era iniziata in modo diverso. Fissando il soffitto si sforzava di ricordare cosa aveva sognato. Pur non riuscendo a ricostruire il sogno, rivedeva abbastanza chiaramente frammenti di immagini, dettagli di scene – sconnessi, accavallati, senza un filo logico: una lampada accesa…una scala…un libro impolverato…, ma dalla nebbia del subconscio emergeva sempre più distinta un’insolita fiducia, un senso di conforto, una vaga promessa di felicità, e tutto ciò si trasformava nella percezione di un presagio, nella sensazione che quel giorno sarebbe successo qualcosa…sì, proprio quella domenica!

«Forse tra un’ora…tra due…questo pomeriggio…questa sera…sento che oggi accadrà qualcosa, qualcosa che porterà finalmente un’aria nuova nella mia vita…»

Lentamente ma risolutamente una dolce speranza stava prendendo il posto della rassegnazione, dell’apatia, una speranza tanto più lusinghiera, quanto più era in grado di colmare il vuoto interiore.

Giulio si alzò…«forse la prima occasione si presenterà quando aprirò la finestra…» La strada era semideserta, qualche rara macchina sfrecciava rombante e frettolosa verso una destinazione prestabilita, uno svago festivo, verso un sollievo dalle fatiche e dagli affanni di tutti i giorni…«ecco, sta arrivando il tram…a quest’ora sarà semivuoto, vediamo chi scende alla fermata…è gente che non conosco…quella donna bruna col soprabito color pesca sembra ancora giovane, nel modo di camminare somiglia molto a Clara, forse anche lei ora è sola, il marito la tradisce…oh, magari fosse Clara, da quanto tempo desidero rivederla, da quando mi lasciò dicendomi: «ho deciso di sposarmi, anch’io voglio crearmi una famiglia, cerca di dimenticare…addio e buona fortuna»…«ora potrebbe tornare da me delusa, amareggiata, in cerca di conforto e di calore…vieni, non essere triste…ci ameremo come un tempo…» La donna attraversa la strada, lui la segue con lo sguardo inquieto e il cuore in tumulto e la vede entrare nel portone dello stabile accanto.

«…Forse però Clara potrebbe rifarsi viva con una telefonata, la giornata è lunga…aspetterò, dovrebbe avere ancora il mio numero di telefono…»

Verso le 9.00, mentre sta bevendo il caffè, suonano alla porta. Giulio è ancora in pigiama. «Chi può essere? Che sia il postino con un telegramma?» Si avvicina alla porta in punta di piedi, guarda attraverso lo spioncino e vede la faccia della vicina, apre.

– Buongiorno, signora.

– Buongiorno, mi scusi, non avrebbe un po’ di sale? Sono rimasta senza e oggi è chiuso.

– Sì, certo, venga, si accomodi.

– No, no, aspetto qui.

– Come vuole, vado a prenderlo…(«il sale…che scocciatrice!»)…ecco, signora.

– Grazie tante, domani glielo renderò, mi ha fatto un grande favore.

– Sciocchezze, non si preoccupi, arrivederla…(«che idee, vuole restituirmi il sale! Al diavolo lei e il sale!»).

Alle 11.00 squilla il telefono. «Forse è…oppure mio figlio, sono due mesi che non mi chiama».

– Pronto, c’è Maria?

– Maria chi? Qui non c’è nessuna Maria.

– Mi scusi, a quanto pare ho sbagliato numero.

«”Sbagliato”… e me lo dice con quella calma, con quella indifferenza, non si rende conto di avermi profondamente deluso!»

Giulio camminava da una stanza all’altra ripetendosi di continuo: «devo avere fiducia, accadrà qualcosa, ma non posso sapere quando, la giornata è lunga, devo aspettare…» Ma intanto le ore passavano inesorabili, indifferenti alle sue attese.

All’improvviso decise di uscire per fare una passeggiata. «Andrò alla villa a respirare un po’ d’aria pulita…» Si fermò all’edicola e acquistò una copia della rivista che aveva promesso di pubblicare un suo racconto. La sfogliò impaziente e con un po’ di batticuore, lesse il sommario, la sfogliò di nuovo – niente, non era uscito neanche quella settimana. Giulio si considerava uno scrittore occasionale, uno che scrive per evadere dalla noia quotidiana, per scavare nelle tenebre della realtà alla ricerca di uno spiraglio di luce da trasmettere a se stesso e agli altri. Le difficoltà di ordine economico, la mancanza di condizioni adatte e di tenacia, gli impedivano tuttavia di uscire dall’anonimato  e di raggiungere risultati concreti e soddisfacenti.

Sognava qualcuno che gli desse nuovi stimoli, che lo incoraggiasse a scrivere, una sorta di mecenate e quella domenica, iniziata con un promettente presentimento, poteva essere la giornata buona…«Forse quella vecchietta seduta sotto il pino è ricca sfondata e non le resta molto da vivere…potrei risultarle simpatico e poi chissà lei potrebbe ricordarsi di me nel testamento, lasciandomi un bel gruzzolo, “affinché si dedichi serenamente alla creazione letteraria, senza l’assillo dei problemi quotidiani”». Così immaginava che fosse scritto nel testamento. La vecchietta lo fissava probabilmente senza neanche vederlo, poi si alzò e appoggiandosi al bastone si diresse a fatica verso il cancello della villa.

Giulio decise di tornare a casa. Accese il televisore. Negli ultimi tempi guardava la TV sempre più di rado. I programmi non lo soddisfacevano e in generale li considerava una perdita di tempo. Stavano trasmettendo la cerimonia di consegna di un importante premio letterario. Non conosceva lo scrittore premiato. Il romanzo che aveva ottenuto l’ambito riconoscimento aveva uno strano titolo: “Giardino di nuvole”…«chissà dove si trova questo giardino…» – pensò.

Le ore continuavano a trascorrere. L’orologio a pendolo stava sonando. Contò nove rintocchi. Dunque erano già le 9.00 di sera e ancora non era successo niente di particolare che giustificasse il suo presentimento. Voleva leggere, ma non riusciva a concentrarsi, quel pensiero fisso lo ossessionava, si sentiva defraudato di qualcosa a portata di mano che gli stava sfuggendo per sempre. La tranquilla attesa di un evento probabile si stava trasformando in pretesa, in esigenza di certezza assoluta, e al tempo stesso in una sensazione d’impotenza e inutilità.

«Non devo rassegnarmi, c’è ancora tempo, fino a mezzanotte c’è ancora tempo…in tre ore possono succedere tante cose…». In quel momento bussarono alla porta. Aprì come un automa, senza nemmeno chiedere chi fosse, e si trovò davanti il figlio della portiera – un ragazzino di una decina d’anni. Sembrava impacciato e timidamente gli disse:

– Mi scusi, mia madre mi manda a dire che per tutta la giornata di domani mancherà l’acqua, quindi è meglio fare un po’ di provvista.

Era rimasto come paralizzato dallo stupore:

– L’acqua…l’acqua…sì, va bene, grazie…

Richiuse la porta. Sorrise con sarcasmo e andò nel bagno per riempire la vasca. Fissava il getto che scrosciava impetuoso simile a una cascata, una cascata che lo travolgeva, sbattendolo sulle rocce di un torrente immaginario.

Si sedette prendendosi la testa tra le mani. «Che mi sta succedendo? Devo controllarmi, devo restare calmo…». Andò in cucina a prepararsi la cena.

 

Il resto della giornata trascorse veloce verso la sua consueta conclusione, senza ulteriori illusioni. A mezzanotte di quella domenica che avrebbe dovuto portare un’aria nuova nella vita del nostro eroe, egli già dormiva, sognando forse un’altra occasione di felicità. Prima di addormentarsi però aveva pensato: «Fortunatamente domani è lunedì, comincia un’altra settimana di lavoro, il tempo bene o male passerà, del resto non sarò l’uomo più felice della terra, ma non sono neanche il più infelice…solo vorrei poter cancellare dal calendario tutte quelle insopportabili domeniche…».

 

                                                                                          Paolo Statuti

Paolo Statuti: La quercia e il faggio

8 Nov

alberi

 

Oggi vi propongo questo raccontino per giovanissimi (ma non solo), tratto dalla mia raccolta Gocce di fantasia (Editrice Effelle di Marino Fabbri, 1987)

                                                                         La quercia e il faggio

   Quando ero bambino, ricordo che molto spesso, prima di addormentarmi, leggevo o ascoltavo una favola. Ciò grazie soprattutto al fatto che la televisione non c’era ancora, e quindi si dedicava più tempo alla lettura e alla conversazione. Abitavamo al primo piano di un alto edificio situato al centro della città, dove il traffico e i rumori di ogni genere, anche se assai meno assordanti di oggi, accompagnavano le giornate con la loro musica stridula e discordante. All’imbrunire, però, il chiasso calava notevolmente, fin quasi a scomparire del tutto verso le nove di sera, quando cioè di solito andavo a dormire. Allora, nel silenzio che regnava nella mia stanzetta, chiudevo gli occhi e attendevo il sonno, trasalendo al minimo scricchiolio dei mobili, e captando leggeri, misteriosi fruscii che sembravano rincorrersi per la stanza e rimbalzare da una parete all’altra.

Una sera non riuscivo a prendere sonno… pensavo continuamente a ciò che la maestra ci aveva detto degli alberi, della loro forza, bellezza e utilità per l’uomo. In particolare, ripetevo mentalmente un brano della poesia che ci aveva letto in classe:

gli alberi sono felici

                                           senza chiedere niente

                                          gli alberi sono saggi

                                           senza lagnarsi mai

                                           gli alberi muoiono in silenzio

                                           e il loro ultimo desiderio

                                           è leggere ancora una pagina

                                           di cielo.

 

 

L’orologio sul comodino batteva insistente e monotono: tictac…tictac…tictac…Cara, vecchia sveglia, sentivo la sua presenza e sapevo che mi avrebbe fatto compagnia fino alla mattina, fino alle sette in punto – l’ora in cui dovevo alzarmi per andare a scuola. Ma quella sera, come ho detto, non riuscivo a prendere sonno… pensavo agli alberi e a un tratto mi sembrò che il ticchettio si trasformasse in parole, e che le parole si combinassero tra loro per formare un racconto…

Ascolta… tornerò indietro nel tempo, tornerò indietro di tanti, tantissimi anni… Devi sapere che allora l’edificio in cui abiti, la città in cui vivi, non esistevano ancora. Al loro posto c’era un grande folto bosco, popolato da creature buone, semplici e felici, tra le quali naturalmente c’era anche l’uomo. In quel bosco la vita si svolgeva in modo assai diverso da quello che tu conosci. Per darti qualche esempio: l’acqua dei ruscelli aveva alcune proprietà che tenevano lontana qualsiasi malattia. L’occupazione preferita era cantare e sonare: i bambini imparavano la musica direttamente dalla natura, ascoltando con attenzione le voci degli animali, delle piante, della pioggia, del vento… e la scrivevano usando steli d’erba, aghi di pino e bacche di vari colori. Tutti vivevano molto a lungo, perché non c’erano le discordie, i delitti e i vizi che oggi affliggono gli uomini e ne abbreviano l’esistenza. Amarsi era un fatto così naturale e risaputo, che nessuno diceva mai «ti amo», perché era perfettamente inutile, né tanto meno si diceva «ti odio», per il semplice motivo che l’odio era un sentimento sconosciuto.

Tra gli alberi del bosco ce n’erano due singolarmente belli e maestosi: una quercia e un faggio. Non si sapeva con precisione quanti anni avessero, ma di certo dovevano essere vecchissimi. Essi godevano di gran rispetto ed erano stimati da tutti per la loro saggezza. Era una saggezza extraterrestre e nessuno sapeva che essa, tradotta nella lingua delle fronde che chiunque era in grado di comprendere, proveniva alla quercia e al faggio dal saper leggere e interpretare i messaggi-consigli inviati dagli astri, per risolvere nel modo migliore le questioni più importanti e difficili.

I due alberi erano nati uno accanto all’altro e, come tutte le altre creature del bosco, si amavano molto, si consultavano spesso e trovavano sempre un accordo per il bene e la gioia di ognuno… Immagino cosa stai pensando in questo momento: «Due alberi così sarebbero assai utili oggi…». Ma lasciamo da parte le divagazioni. Da tempo immemorabile, dunque, la vita scorreva serena e felice, ma un brutto giorno in quel paradiso in terra avvenne un fatto spaventoso, che sconvolse la natura e la pacifica esistenza di quelli che lo abitavano. Da una località ignota erano giunti uomini completamente diversi, avidi e aggressivi, che cominciarono subito ad abbattere alberi per costruirsi calde e comode dimore, a inquinare l’acqua dei ruscelli, a uccidere gli animali, a maltrattare e cacciare via gli uomini tranquilli e mansueti che avevano trovato sul posto, e che naturalmente – sorpresi e atterriti – non avevano fatto alcuna resistenza. Ben presto, con la venuta di quei selvaggi, erano sorte avversità e sofferenze di ogni tipo. Le forze del male avevano portato inimicizie, sventure, malattie e una delle vittime fu proprio il faggio. Si ammalò gravemente e quando giunse di nuovo la primavera, la quercia vide con terrore che il suo amato compagno tardava a risvegliarsi dal lungo sonno invernale, finché capì che non avrebbe più indossato il suo consueto bel vestito verde. Stranamente, il faggio tirò fuori soltanto una foglia. Era spuntata su uno dei rami più bassi, e c’era scritto un messaggio d’addio per la quercia: «Prima di morire ho letto nel cielo che rinasceremo e ci ritroveremo in un altro punto della Terra, non ancora contaminato dall’uomo».

Perché mai aveva scritto «rinasceremo e ci ritroveremo»? La quercia fremette con tutte le sue fronde e si chiese: «Significa che un giorno anch’io dovrò lasciare questo bosco?» Tuttavia non provò dispiacere, ma soltanto un’infinita nostalgia.

La risposta giunse anni dopo, quando inaspettatamente apparvero in quel luogo: seghe elettriche, scavatrici, gru, camion, che portarono alla definitiva scomparsa dell’ospitale bosco e alla nascita dell’invadente città…

Alle sette in punto la sveglia sonò e mi alzai. Uscito dal portone, mi avviai verso la scuola. Avevo fatto appena pochi passi, allorché mi fermai di colpo… pensavo al racconto dell’orologio e mi sentii improvvisamente triste. Ma durò soltanto un attimo. Mi voltai a guardare la mia casa e sorrisi… avevo l’impressione che si trasformasse lentamente… che assumesse la forma di due alberi grandi e maestosi, e che attraverso le finestre entrassero a frotte: uccelli, scoiattoli, lucertole, calabroni, farfalle…

                                                                                         Paolo Statuti

Link

Adolf Rudnicki (1912-1990), prosatore e saggista polacco

7 Nov

 

Adolf Rudnicki

Adolf Rudnicki

 

Con questo testo di Adolf Rudnicki, tratto anch’esso dalla mia antologia di racconti brevi polacchi Viaggio sulla cima della notte (Editori Riuniti, 1988), termino la serie di 5 racconti scelti per il mio blog.

                                                                      Sui monti

  I

Con l’animo in estasi, in uno stato di profonda beatitudine saltavo sui macigni che giacevano sul letto del torrente estinto. La grandezza e il colore delle pietre parlavano dei secoli, tutto lì parlava dell’eternità. Più avanti, in alto, dietro una cortina di granito e di verde, rombava la cascata. Saltavo fuori dal letto del torrente, mi arrampicavo sulla ripida riva inondata dall’ombra fredda e umida, ma non provavo un senso di fresco. Al contrario: ardevo completamente. Il sole lì sembrava non affacciarsi mai. Qua e là apparivano ancora tracce di neve sporca dell’anno prima. Già aspettavano le nuove nevi, non dovevano attendere molto, era ottobre.

Aggrappandomi agli sterpi robusti e ai cespugli mi portavo sul ciglio della riva e allora avevo davanti a me il letto del torrente, e sopra di me le cime delle rocce, così contrastanti con il cielo immacolato. Le pietre del torrente avevano il colore dello zolfo, il verde là era succulento, umido; in alto invece, sugli alberi, abbagliava con tutti i sontuosi colori dell’autunno, dei faggi in particolare. Ogni loro fogliolina ardeva con tutti i soli dell’estate. L’aria era fresca, rugiadosa, silenziosa di un silenzio inverosimile, senza il minimo respiro umano. L’unico uomo accomunato all’intera natura del luogo ero io. Intorno, nel raggio di molti chilometri non c’era alcun essere umano: ero solo.

Ero solo e come nudo. Nudo come il granito sul letto del torrente prosciugato, come la cima della roccia che ardeva al sole, ero solo, nudo e felice oltre l’umana sopportazione.

La mia felicità iniziò nel momento in cui sentii di aver perso l’occhio, che a noi tutti, come la luce agli oggetti, conferisce un volto, che ci fa indossare i costumi dell’attimo, che ci assegna le parti, benché a noi tutti sembri di recitare le parti scritte da noi stessi.

Il mio stato di beatitudine iniziò nel momento in cui sentii che l’ultimo uomo era rimasto dietro di me, e che ero tornato alle rocce, al cielo, al verde, a tutto ciò che era lì, come qualcuno di lì e appartenente a quel luogo. Da quando mi abbandonò l’occhio umano, smisi di avvertire le differenze tra me stesso e i macigni, mi identificai con un pino di montagna, con un faggio, mentre essi s’identificarono con me stesso. Nella pienezza della coscienza viva, vibrante, sentivo l’assoluta mancanza di differenza tra me e il resto della natura, la totale identità di tutto, la totale identità della roccia, del cielo e dell’uomo. Proprio la sensazione dell’identità di tutto aveva portato con sé la pienezza della felicità. Tramutato in roccia, in albero, nell’erba, nel cielo e nella terra, dopo aver tramutato tutto intorno a me, emanando un grande mistero, e accogliendone uno ancora più grande che fluiva verso di me da dietro le pareti dei monti, dal folto del verde con un bisbiglio di spavento e di dolcezza, correvo centuplicato verso la cascata. In quel turbine di frenetiche percezioni mi sentivo come al centro del grande respiro dell’eternità, in un’accecante fessura del tempo, là dove il tempo non c’era più. Era una meravigliosa giornata di sole, ma a me sembrava che regnasse una penetrante, minacciosa, notte scura.

In quell’improvvisa folgore dell’anima, che rischiarava spazi smisurati, elevato al di sopra del tempo, di colpo vidi anche tutta la mia vita, laggiù, nella piccola città. La vidi come essa appariva, e come sarebbe dovuta apparire, capii e vidi, tutto. Sapevo come bisognava vivere, e sapevo che da quel momento sarei vissuto appunto così. Vidi chiaramente tutto ciò che mi rendeva invisibile il vero uomo che laggiù nella piccola città si moveva tra la gente, l’uomo che era il prodotto di false ambizioni, della sporca bramosia e di sentimenti ingannevoli. Ma tale non dovevo essere mai più. Tutta la mia vita purificata, redenta giaceva davanti a me. «Soltanto – imploravo con l’animo in estasi – soltanto non perdere la verità ora conquistata; essa soltanto è in grado di darmi una dimensione divina; soltanto non perdere di vista il grande cerchio!»

Il segreto principale – ardevo completamente – risiede nel fatto che il rapporto dell’uomo verso l’uomo, benché consumi tutte le forze, deve produrre un risultato negativo, perché si basa sul falso. Infatti tutti i nostri legami sono falsi, poiché sono sostitutivi; sostituiscono qualcosa che non possono sostituire. I legami di amicizia devono estinguersi dopo l’esaurimento della durata della loro vita; quando finisce il desiderio, i legami dell’amore devono lasciarsi dietro la cenere, tutto ciò cui mettiamo mano deve finire in cenere, infatti l’invalido si unisce all’invalido per dimenticare la propria invalidità. L’invalido si unisce all’invalido e finché i sensi, le ambizioni, gli interessi agiscono, egli non vede ciò, per cui poi raccoglie una misera messe, per cui poi prende l’avvio un’interminabile catena di drammi. La nostra miseria – mi dicevo – inizia nell’attimo in cui ci stacchiamo dal grande cerchio.

Camminando verso la rombante cascata, mi trovavo nella fessura dell’eternità. Davanti a me non c’erano né tempo, né segreti. Sentivo la paura nell’anima e le lacrime negli occhi.

II

Più tardi mi trovavo in basso, nella piccola città. Ero disteso sul duro letto di ferro nella camera della pensione. Mi ero lasciato dietro le grandi emozioni. Per la verità si erano affievolite molto presto, erano durate in tutto mezz’ora, forse anche meno. Quando cominciavano a spegnersi, interruppi il cammino verso la cascata e tornai indietro. Ai margini del bosco m’imbattei in una fila di turisti, potevano essere una quindicina; lungo gli itinerari battuti si incontravano spesso simili gruppetti. Sempre insieme, neanche un istante qualcuno di loro restava solo. Proprio i loro occhi mi restituirono immediatamente il mio vecchio volto, che non sarebbe dovuto esistere mai più.

Ero disteso sul letto e sentivo che si spegnevano, che pian piano svanivano i resti della recente esaltazione. Sentivo che pian piano rinascevano tutti i sentimenti che non avrei più dovuto provare. Tornava l’antipatia per il vicino alla mia destra, benché sui monti avessi capito che era un piccolo, povero uomo, come tutti del resto. Adesso mi sembrava di nuovo altero, insopportabile, orribile. Riaffiorava l’antipatia per il vicino alla mia sinistra; di nuovo come prima temevo che entrasse e ricominciasse a seccarmi. Comiciavo a detestare anche la pensionante del piano di sotto, era troppo bella. Sul tavolo giaceva una lettera; essa spargeva il veleno della vita, dalla quale ero fuggito.

Già lo sapevo: tra qualche ora avrei ripreso a girare avvelenato tra gli avvelenati, io stesso avvelenato e avvelenante gli altri, non colui che ero, ma proprio colui che non ero: un uomo falso, lontano per sempre mille miglia dall’uomo vero, come tutti coloro, del resto, che anch’essi non erano quelli che erano realmente.

Nascosi la testa nel cuscino.

(Versione di Paolo Statuti)

W górach (Sui monti), tratto dalla raccolta di Adolf Rudnicki 50 opowiadań (50 racconti), Warszawa, PIW, 1966

Bohdan Czeszko (1923-1988), prosatore, pubblicista, sceneggiatore polacco

7 Nov

 

Bohdan Czeszko

Bohdan Czeszko

 

   Il quarto racconto che pubblico oggi, tratto anch’esso dalla mia antologia di racconti brevi polacchi Viaggio sulla cima della notte (Editori Riuniti, 1988) è di Bohdan Czeszko e s’intitola

 

                                                       Il girasole

                                                                                      A Henryk Tomaszewski

 

Ormai non uscivo quasi più di casa per timore di rimanere ucciso. Alloggiavo in via Krzywe Koło in un locale disabitato al primo piano. Il proprietario dell’appartamento aveva lasciato la città con la famiglia, nella primavera del 1944. Era una vecchia casa. Attorno al cortiletto, all’altezza del primo piano, correva un ballatoio di legno ingombro di roba vecchia degli inquilini. C’erano gabbie di uccelli arrugginite, piante secche in vasi con la terra che sembrava cenere, sedie a sdraio senza più la tela, sedie zoppe, una carrozzina. Vi regnava sempre, anche in piena estate, un fresco umido, e il fondo del cortiletto odorava di erba infracidita. L’interno era quello di un appartamento del secolo scorso. Nell’ingresso c’era un portaombrelli di ferro con la vaschetta zincata per l’acqua; le pesanti tende erano allacciate con cordoni di seta. Immaginavo come i penetranti odori invadessero l’interno degli armadi e dei comò. Aveva cura dei mobili la nuova padrona di casa, – la signora Zofia, – una donna alta, dignitosa e ancora bella nell’autunno della vita. Girava in pantofole di peluche e parlava solo se era assolutamente necessario. Non ho mai visto nei suoi smorti occhi azzurri, con cui mi fissava insistentemente, un barlume d’interesse per la mia esistenza. Mi risparmiava di uscire in strada per comprarmi qualcosa da mangiare, e di questo le ero grato.

Il tempo si vagliava attraverso me veloce come attraverso uno staccio. Lavoravo molto, dovevo terminare una serie di xilografie per le illustrazioni delle Memorie di Jan Chryzostom Pasek. Di recente avevo consegnato una cartella di disegni per gli scritti di Rej a un editore che comprava opere grafiche investendo in esse i guadagni del traffico di valuta e di oro. Mi sfruttava, – oggi lo so, – ma non gli servì comunque a niente, perché ogni cosa finì in cenere durante l’insurrezione. Ero sopravvissuto all’inverno e all’inizio della primavera del ’44. Ero stato due volte contro il muro con le mani sulla testa. In qualche modo mi aveva salvato la protesi e la buona conoscenza del tedesco. Da allora evitavo di uscire in strada. Si può forse fuggire, avendo al posto di una gamba sana un rigido troncone, allacciato al corpo con le cinghie?

I miei nervi, malgrado il lavoro regolare, non si calmavano. Mi tormentava la paura durante le incursioni notturne degli aerei sovietici. Scendevo in cantina, perché i vicini non mi prendessero per un ebreo che si nascondeva. Temevo la divisa blu della polizia. Ma scendevo anche perché le massicce volte di pietra delle fondamenta e la compagnia della gente mi ispiravano fiducia. Malgrado questo però, considerando bene le cose, non nutrivo alcuna speranza. Per colmo di sventura, da un certo istante mi accorsi di avere il terrore dello spazio. Quando di sera mi decidevo a uscire, mi accadeva di trattenermi davanti a una vetrina. Osservavo i libri e le vecchie stampe che tanto amavo, e poi non potevo staccare la mano dalla grata che proteggeva il vetro. Il sudore mi inondava il corpo. Superando con un grande sforzo di volontà la paura feroce, mi staccavo dalla grata che mi sembrava come l’ultima ancora di salvezza. Quando, dunque, di notte sommavo tutto questo e consideravo bene le cose, non nutrivo alcuna speranza di poter resistere.

All’inizio di giugno andai dal barbiere. Da molti anni mi tagliavo i capelli in quella bottega angusta e piena di fumo di tabacco. Una bomba l’aveva risparmiata, colpendo la casa accanto, e tra le macerie crescevano ora le erbacce e i sottili germogli degli arbusti.

Con sollievo, dopo la strada percorsa, mi accomodai sulla poltrona e sottoposi la testa alle forbici, e le orecchie a un torrente di parole. Il buon signor Józef, com’è antica abitudine dei barbieri, cicalava incessantemente e caoticamente. Tesseva una bizzarra trama di storielle e di notizie radiofoniche gonfiate, e ridacchiando sussurrava: «Buona, eh?» ogni volta che finiva la frase. Ascoltavo, oliava i miei poveri nervi. Pensavo: «Solo una vecchia abitudine m’impone di tagliarmi i capelli e di radermi la gola, benché non nutra – considerando bene le cose – alcuna speranza di poter resistere».

In quel momento nella bottega entrò un ragazzino. Poteva avere forse otto anni e il suo aspetto indicava la miseria più nera. Portava una specie di sandali ricavati da un copertone e allacciati con lo spago. Aveva indosso pantaloni di tela di sacco e un giubbetto militare, probabilmente ungherese, che cadeva a brandelli. Nelle mani tese in avanti stringeva un barattolo vuoto.

– Cosa vuoi? – borbottò il signor Józef. – Il venerdì diamo…

– Volevo un po’ d’acqua – disse il ragazzino tendendo ancora di più il barattolo.

– Prendila, il rubinetto è nell’angolo – disse il signor Józef e seguì il ragazzino con lo sguardo, finché non uscì facendo risonare il campanello alla porta.

– Rubano anche con gli occhi – disse.

Scrollai la testa. In effetti, quel ragazzino ormai doveva infischiarsene di tutto. Un istante dopo entrò di nuovo, annunciato dal tenue, cristallino scampanellio.

– Vorrei ancora un po’ d’acqua.

Riempì il barattolo e reggendolo cautamente, fissando l’ondeggiante superficie del liquido, uscì per tornare di nuovo un minuto dopo. Il leggero suono del campanello non mi innervosiva anzi, al contrario, mi calmava, proprio come la luce dorata del sole al tramonto, che filtrava attraverso la vetrina con la scritta esageratamente tortuosa: «arongis e omou rep ereihccurraP».

– Ancora acqua? Ma che ci fai con tutta quest’acqua? Non che mi dispiaccia, ma a che ti serve? – disse il signor Józef.

– Hanno rubato la chiave dell’idrante – disse il piccolo. – Il portiere dice: «L’hai rubata tu», e non vuole darmi l’acqua. A che mi serve la chiave… Ho piantato tra le macerie cinque girasoli. Sono cresciuti. Bisogna annaffiarli.

Quelle parole portarono d’un tratto calore e allegria all’interno della bottega. Il signor Józef sorridendo allungò una mano per prendere lo spruzzatore con l’acqua di colonia e scotendo la testa si mise ad osservare il piccolo che riempiva il barattolo. Si sorrisero. Uscendo il ragazzino si fermò vicino alla mia poltrona e sporse la faccia guardando negli occhi il signor Józef che mi spruzzava la testa.

– Anche a me, per favore – pregò alzando ancora di più il naso.

Il signor Józef schiacciò più volte la pompetta dello spruzzatore, avvolgendo la testa del ragazzino in una nuvoletta di goccioline profumate.

– Aaah – sospirò beatamente il piccolo aspirando l’aria e pian piano, facendo risonare il campanello, uscì.

Sopravvissi all’occupazione, benché prima – considerando bene le cose – non nutrissi alcuna speranza. Assai spesso penso a quel giardiniere, che – credo – aveva risvegliato in me il semplice e ormai spento amore per la vita.

(Versione di Paolo Statuti)

 

Słonecznik (Il girasole), tratto dalla raccolta di Bohdan Czeszko Wybór opowiadań (Racconti scelti), Warszawa, Czytelnik, 1979.

 

(C) by Paolo Statuti

 

  

Julian Kawalec (1916-2014), prosatore, pubblicista e poeta polacco

6 Nov

 

Julian Kawalec

Julian Kawalec

 

Dopo tanta poesia, apro ora una parentesi di prosa, pubblicando alcuni racconti brevi polacchi inseriti nella mia antologia Viaggio sulla cima della notte, edita nel 1988 da Editori Riuniti. Ho scelto i racconti in base al mio gusto personale e lasciandomi guidare dal sentimento della poesia e dai sentimenti umani. Il terzo racconto, davvero brevissimo, è di Julian Kawalec e s’intitola

 

                                                          Le mele

 

   Si incontrarono sulla piazza, accanto al grande monumento. Si scambiarono con calore qualche parola di saluto, perché non si vedevano dalla fine della guerra. Poi entrarono in un piccolo bar, come ce ne sono molti in quella città. Sono bar che non possono non essere notati, tanto attirano con il loro aspetto misero e l’incessante brusio che arreca sollievo. Nei tavolini rotondi di questi bar c’è come una forza grande e buona, alla quale è difficile resistere.

Ordinarono qualcosa da bere. Il magro-brizzolato studiò attentamente il suo gigantesco amico quasi calvo e disse:

– Lo so, lo so, hai perso i genitori, la moglie…

Calò un lungo silenzio. Il magro parlò di nuovo:

– Cosa fai adesso?

Il gigante distolse lo sguardo dalla grigia parete coperta di scure macchie di umidità, di colpo sorrise e si rianimò.

– Sono un venditore di mele – disse. – Vendo le mele: deliziose, renette, limoncelle… – elencò molte varietà di questo frutto, descrivendone anche i pregi. La sua voce era sonora, solenne e bella. Voci simili si sentono nei teatri, ai concorsi di recitazione, nei luoghi dove si esibiscono gli artisti.

Il magro-brizzolato continuava ad osservare il possente amico che parlava di mele in modo così insolito e solenne. E quando quello tacque, gli disse sottovoce:

– Anche tua sorella, Krystyna, è morta, l’ho saputo…

Il gigante, come se non avesse sentito, si sistemò sulla sedia, sollevò la testa quasi calva e riprese a parlare:

– Ogni giorno alle sette mi metto in cammino col mio carretto stracolmo di mele. Vedessi come sono belle… Mi fermo più volentieri all’angolo di una strada o del mercato. Invito la gente a comprare le mele. Comprano. Verso le mele nelle borse. Lo faccio con delicatezza e velocemente. Ho la mano adatta per le mele, io. Per fare questo bisogna avere la mano e la voce. Non tutti riescono ad essere venditori di mele.

Il gigante tacque per un po’ e restò pensieroso. E di nuovo disse:

– A poco a poco la catasta di mele sul carretto si abbassa, si appiattisce, e il mio portafoglio diventa sempre più gonfio. Sai cosa provo allora? Ti metterai a ridere… allora divento triste, mi dispiace per le mele…

Il magro-brizzolato sorrise stranamente e disse:

– Tuo fratello è stato ucciso, ho sentito.

Il gigante infilò la bella mano nella tasca e ne trasse una grossa mela rosata. La tenne sul palmo guardandola a lungo e replicò:

– Una del carretto la lascio sempre per me, non la mangio, la porto nella tasca, ogni tanto la prendo in mano, ogni tanto la guardo per un po’. Mi piace guardare le mele belle. Io ho sempre una mela in tasca, che abitudine stupida, vero?

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

Jabłka (Le mele), tratto dalla raccolta Blizny (Le cicatrici), Kraków, WL,1960

 

(C) by Paolo Statuti

Jan Rybowicz (1949-1990), prosatore e poeta polacco

6 Nov

 

Jan Rybowicz

Jan Rybowicz

 

Dopo tanta poesia, apro ora una parentesi di prosa, pubblicando alcuni racconti brevi polacchi inseriti nella mia antologia Viaggio sulla cima della notte, edita nel 1988 da Editori Riuniti. Ho scelto i racconti in base al mio gusto personale e lasciandomi guidare dal sentimento della poesia e dai sentimenti umani. Il secondo racconto è di Jan Rybowicz ed è intitolato

 

                                            A piedi intorno al mondo

 

   L’ottantenne Michał Drozd, che viveva a carico del figlio (un vecchio scapolo di quarantotto anni), una sera, all’inizio della primavera, si alzò dal letto, sul quale stava riposando dopo aver arrancato tutto il giorno per la campagna, s’infilò il cappotto, tagliò una fetta di pane, se la mise in tasca, prese il bastone appoggiato in un angolo della stanza e si avviò verso la porta. Il figlio smise di affilare la sega, guardò attentamente il padre, chiese:

– Dove ve ne andate?

Il padre si fermò con la mano sulla maniglia e senza voltarsi rispose gridando con la voce stridula:

– A piedi intorno al mondo!

Il figlio si limitò a scuotere la testa e tornò alla sua occupazione. Il vecchio restò ancora un attimo immobile, poi risolutamente abbassò la maniglia e in modo goffo varcò la soglia, sbattendo la porta dietro di sé. Uscì dalla casetta. Diede una sbirciata al cielo, aspirando l’aria tiepida e umida. Poi batté il bastone sul tavolato della veranda e a piccoli, rapidi passetti s’incamminò.

Qualche minuto dopo, cantilenando qualcosa, raggiunse l’autostrada E-12 che attraversava il villaggio. Si fermò sul ciglio, per alcune decine di secondi rifletté se andare a sinistra, o a destra. Prendendo a destra, dopo un po’ poteva arrivare alla grande città, dov’era stato qualche anno prima in ospedale. Quel ricordo lo fece decidere. Voltò a sinistra.

Procedeva battendo il bastone sull’asfalto, senza prestare attenzione alle macchine che di tanto in tanto lo superavano. Camminando fantasticava su quei paesi lontani che vedeva alla televisione e che avrebbe visto facendo il giro del mondo.

Dopo un’oretta di marcia gli venne fame. Scese dalla strada nei campi, si sedette sull’erba coperta di rugiada, tirò fuori la fetta di pane. Mangiava lentamente. Più su, lungo la strada, le macchine sfrecciavano facendo sibilare le gomme, spingendo avanti un ventaglio di luce.

Biascicava il pane nella bocca sdentata, con le spalle addossate a un albero e le gambe distese. Guardava l’oscurità davanti a sé, là dove si stendevano i campi coltivati, dove stava per iniziare una nuova vita. Impastava con la mano libera la terra umida, sentiva tra le dita le fibre dell’erba appena nata… Sentì che gli si stava bagnando il sedere. Si mise nella tasca del cappotto il pane sbocconcellato, si sollevò a fatica appoggiandosi al bastone e tornò sulla strada.

Per un certo tempo restò di nuovo immobile, sforzandosi di ricordare da quale parte era arrivato. Una macchina che sopraggiungeva si fermò. Il guidatore, un giovanotto, abbassò il finestrino, sporse la testa.

– Dove ve ne andate, nonno? – chiese sorridente. – Volete un passaggio?

– Dov’è il villaggio di Chodaków? – chiese.

– Là – il giovane indicò con la mano dietro di sé.

Adesso sapeva. Doveva andare dalla parte opposta. Senza parlare si mosse nella stessa direzione dell’auto.

Il giovane lo seguiva lentamente.

– Dove andate, nonno? – chiedeva sporgendo la testa dal finestrino.

Il vecchio, senza rallentare, girando soltanto la testa in direzione dell’auto, rispose:

– A piedi intorno al mondo!

Il giovane scoppiò a ridere.

– Allora volete un passaggio? – ripeté.

Non rispose. Procedeva con caparbietà, battendo il bastone, ansimando leggermente. Il giovanotto continuava a restargli accanto, ma poi senza dire più niente diede gas e scomparve dalla vista del vecchio.

Allora egli si fermò. Si sentiva stanco e per un attimo pensò che fosse meglio tornare. Poi, quando il respiro si normalizzò, si premette ancora più il berretto sulla testa e con decisione riprese il cammino. Se qualcuno in quel momento gli fosse andato dietro (proprio come sto facendo io), avrebbe udito il suo respiro sibilante, l’ostinato stropiccio delle scarpe sull’asfalto e il ritmico battito del bastone: tuc, tuc, tuc, tuc…

 

Una camionetta della polizia che passava per caso lo trovò, due ore dopo, sdraiato sul ciglio della strada, completamente esausto, quasi svenuto, a quindici chilometri dal villaggio.

I poliziotti lo aiutarono ad arrampicarsi sulla vettura, gli versarono un po’ di tè dal thermos. Bevve il tè e prese a guardarsi intorno con gli occhi meravigliati.

– Di dove siete, nonno? – chiese uno dei poliziotti.

– Di Chodaków.

– Dov’è Chodaków? – domandò rivolgendosi al collega.

Quello alzò la testa, con il mento indicò davanti a loro.

– Saranno circa quindici chilometri…

– E voi dove stavate andando, nonno? – chiese il caporale.

– A piedi intorno al mondo – borbottò.

I poliziotti si misero a ridere.

– E perché, i figli vi hanno cacciato via?… Forse vi menano? – domandò il caporale.

– No – scrollò la testa.

L’autista della camionetta mise in moto.

– Vi riportiamo a casa – disse.

Il vecchio non fiatò.

Qualche minuto dopo erano a Chodaków. L’autista fermò la vettura all’incrocio.

– Dove abitate, nonno? – chiese.

– Più avanti… – mugolò.

L’autista proseguì lentamente. Lanciava occhiate furtive al vecchio, che fissava con gli occhi socchiusi la fila di casette illuminata dalla vettura. A un certo punto disse:

– Qui. In questa strada.

L’autista fermò la vettura. Il caporale aiutò il vecchio a scendere. Trattenendolo chiese:

– Vi accompagno a casa?

Il vecchio liberò il gomito con stizza.

– Ci arrivo da solo! – sbuffò.

E si diresse verso casa.

– E la prossima volta non andatevene intorno al mondo! – gli gridò dietro il caporale. – E’ troppo lontano per le vostre gambe!

– Staremo a vedere! – mugugnò il vecchio senza rallentare il passo e senza voltarsi. – Stronzo! – sputò.

In cucina la luce era accesa. Entrò nella veranda, battendo di proposito con forza il bastone raggiunse zoppicando la porta, la spinse. Come al solito, non era chiusa. Si ritrovò nell’atrio rischiarato dalla luce che filtrava dalla porta a vetri della cucina. Mise il catenaccio, entrò in cucina. La porta che dava nell’altra stanza, dove dormiva il figlio, era aperta. Posò il bastone in un angolo, si tolse il cappotto, si sedette sul letto, si levò le scarpe e i calzini. Poi i pantaloni e per ultimi la giacca e il berretto. Strascicò i piedi nudi per spegnere la luce e s’infilò con tutto il golf sotto la pesante imbottita. Giacendo supino, con gli occhi fissi nell’oscurità, cominciò a bisbigliare le preghiere.

Qualche istante dopo gli giunse dall’altra stanza la voce tranquilla del figlio:

– Siete già tornato da quel…giro del mondo?

– Sì – disse con lo stesso tono. – Ma domani andrò di nuovo!

Poi si addormentò.

Quella notte morì.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

Na piechotę dookoła świata (A piedi intorno al mondo), tratto dalla raccolta di Jan Rybowicz Samokontrola i inne opowiadania (Autocontrollo e altri racconti), Warszawa, PIW, 1980.

 

 

(C) by Paolo Statuti

Kazimierz Orlosh (1935), prosatore, drammaturgo e sceneggiatore polacco

5 Nov

 

Kazimierz Orlosh

Kazimierz Orlosh

 

   Dopo tanta poesia, vorrei aprire ora una parentesi di prosa, pubblicando alcuni racconti brevi polacchi inseriti nella mia antologia Viaggio sulla cima della notte, edita nel 1988 da Editori Riuniti. Ho scelto i racconti in base al mio gusto personale e lasciandomi guidare dal sentimento della poesia e dai sentimenti umani. Il primo racconto è di Kazimierz Orłoś ed è intitolato

                                                 Il maestro di musica

   A quel tempo vivevo in una misera abitazione. Le finestre della mia stanzetta in un palazzo alla periferia davano su un cortile a forma di pozzo. Ogni voce dal basso, dalle finestre socchiuse – un grido o il pianto di un bambino, lo schiamazzo di donne litigiose, una radio accesa, perfino una conversazione a bassa voce – si sentivano chiaramente, come se mi trovassi alle spalle delle persone nei loro appartamenti e ascoltassi senza sosta. Il tintinnio delle bottiglie del latte, trasportate su un carrettino di lamiera da uno sciancato, mi svegliava alle cinque di mattina. Il canto del carbonaio ubriaco, che occupava l’appartamento al pianterreno, mi strappava al sonno a mezzanotte. Le risatine del figlio deficiente del portiere – un ragazzo grasso che se ne stava tutto il giorno in cortile – le sentivo a mezzogiorno e la sera. Ero tormentato da tutti quei rumori. Ero al limite della sopportazione.

Il vecchio abitava accanto. Adesso lo so, ma allora, quando già studente avevo preso in affitto quel buco di stanza con le finestre che davano sul cortile, non gli avevo prestato attenzione. Soltanto quella soffocante mattina, mentre sgobbavo su un grosso manuale di fisica, rompendomi il cervello con la teoria dei quanti, e quello cominciò a sonare dietro la parete (mi sembrava di essere in una sala vuota in cui qualcuno tagliasse un vetro col diamante), pensai che molto probabilmente doveva essere quell’uomo incurvato che a volte incontravo sulle scale, quando, ansimante, si fermava per un attimo al mezzanino.

Da dietro la parete sentivo chiaramente il concerto per violino. Dovevo ascoltare ininterrottamente e fino all’ultima nota tutti i fraseggi della Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria di Ogiński? Sonava motivi sentimentali, noiosi da ascoltare come un lungo discorso o una poesia imparata a memoria. I miei quanti erano già andati a farsi benedire, per giunta dietro la finestra i bambini facevano chiasso, le donne schiamazzavano nelle cucine, il carbonaio ubriaco cantava una canzone da ubriaconi.

Non resistetti e battei più volte il pugno sulla parete. Ma servì a ben poco. Era forse un po’ sordo? Il tenue suono fluiva incessantemente da dietro la parete, come una voce lamentevole, come il canto del muezzin che invita alla preghiera.

Aspettai mezz’ora, poi uscii sul pianerottolo e bussai alla porta del vicino. Ricordo che il pianto dello strumento cessò di colpo, come troncato. Sentii lo strascichio delle pantofole, poi quel vecchio chiese sottovoce: – Chi è?

– Il suo vicino – risposi seccamente.

La porta con la catena si aprì di uno spiraglio. Fiutai un odore di umido, di appartamento non arieggiato, di muffa mista a un odore di naftalina. Il vecchio, la cui faccia pallida e non rasata scorsi nello spiraglio, mi fissava incuriosito con gli occhi piantati a un palmo dal mio naso. Le sue dita sottili stringevano il battente della porta socchiusa. Notai delle macchie brune sulla pelle chiara.

– Signore – dissi bruscamente – la smetta di grattare! Mi scoppia la testa!

Mi guardò per un istante, e poi disse con un filo di voce:

– Sì, certo. Mi scusi. – E chiuse la porta.

E non sonò più, né in quella soffocante domenica, né in nessun’altra. Molto probabilmente mi sarei dimenticato di lui, se un giorno d’autunno non avessi deciso di fare una passeggiata fuori città. Dalla strada asfaltata girai verso i campi e battendo il bastone sulle pietre presi un sentiero che portava a un bosco lontano. Là lo vidi. Dapprima mi sembrò un altro (un’apparizione, un uomo non di questo mondo). Ma era lui di sicuro: la stessa figura incurvata, la faccia pallida e non rasata, gli occhi scuri. Stava seduto su una seggiolina pieghevole di fronte a un improvvisato leggio di rametti, sul quale aveva posato il foglio di musica. Sonava al violino quella stessa Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria? Mi fermai a cento passi da lui, poi gli andai più vicino. Ascoltavo come sonava e come la voce lamentevole del violino si levava sul campo deserto. Guardavo il margine del bosco, l’azzurro del cielo, gli uccelli neri (di sicuro uno stormo di cornacchie) che volteggiavano sulle stoppie. Quell’uomo sonava piegato sul leggio di rametti, con accanimento, assente, come se vedesse il mondo intero nei neri punti delle note. Il violino piangeva sconsolato. Non c’era nessuno.

Restai lì per un po’, quindi lentamente, senza voltarmi, ripresi a camminare in direzione della strada asfaltata e della nostra casa, nella quale lo schiamazzo delle donne, le grida dei bambini e il canto del carbonaio ubriaco era tutto ciò che potevo sempre sentire.

(Versione di Paolo Statuti)

Nauczyciel muzyki (Il maestro di musica), pubblicato nel dicembre 1972 sulla rivista Literatura.

(C) by Paolo Statuti