Karel Havlíček Borovsky, morto nel 1856 a 35 anni, fu esiliato a Bressanone dopo aver subito due processi a causa dei suoi articoli contro la tirannia austriaca che soffocava la sua patria. Le “Elegie tirolesi” – un gioiello della poesia ceca – possono essere considerate assieme a “Le mie prigioni” di Silvio Pellico la più pesante requisitoria contro il dispotismo austriaco davanti al tribunale della storia.
“Nella notte dal 15 al 16 dicembre, alle due, sono stato svegliato. Presso il mio letto c’era il commissario capo di polizia Dedera con il barone Voith e un gendarme armato di fucile. Mia moglie, poveretta, era terrorizzata. Mi intimarono di vestirmi subito e di partire, poiché per ordine del ministero dovevo essere condotto in una località in residenza coatta. Tra le lacrime dei miei familiari, di mia madre, mia sorella, mia moglie (esse non credevano a quell’ordine misterioso e temevano qualcosa di peggio) abbandonai la casa paterna; provavo più dolore che collera!…” – è un brano di una lettera inviata dall’esilio a František Palacky (1) da Karel Havlíček Borovsky (1821-1856), poeta e giornalista, strenuo difensore del popolo ceco in un periodo tormentato della sua storia.
Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari scoppiati nel 1848 nell’impero asburgico, come del resto in gran parte dei paesi europei, si verificò un inasprimento dei rapporti tra governo e sudditi. Così come c’era stato un “Metodo Metternich”, in Austria c’è ora un “Metodo Schwarzenberg”, o meglio un “Metodo Bach”, onnipossente ministro degli Interni, ex-deputato liberale della Costituente austriaca, il quale incarna la politica reazionaria del momento. Si instaura un regime di terrorismo poliziesco: censura severissima, impossibilità di viaggiare fuori e dentro il regno, perquisizioni domiciliari, spionaggio, agenti provocatori.
Anche in Boemia – considerata ora una semplice provincia della monarchia, i patrioti più in vista vengono imprigionati e deportati. Bisognerà attendere la sconfitta subita dall’Austria nel 1859 sui campi di battaglia italiani per vedere la caduta del gabinetto Bach e il ripristino della legalità.
Havlíček consacrò la maggior parte della sua attività all’educazione politica del popolo e alla lotta
contro la debolezza della nazione, contro l’assolutismo e gli alti prelati che se ne facevano complici. Quando pressoché tutto il mondo soggiace alla minaccia, egli tiene alta la testa, combatte apertamente e nel modo più energico. Mai, dopo il 1620 (2), si era udita a Praga una voce tanto virile e sincera.
Entrato a 19 anni in seminario a Praga, ne viene espulso un anno dopo, a causa soprattutto delle sue convinzioni panslaviste. Nel 1843 è a Mosca, ove trascorre un anno e mezzo in qualità di precettore, e da dove rientra in Boemia guarito dalle sue illusioni sull’impero degli zar. Al posto del vago sogno panslavo, riportava in patria l’odio per l’assolutismo zarista, una fierezza nazionale accresciuta, e la ferma decisione di combattere il vecchio patriottismo sdolcinato e idilliaco sia nella vita pubblica che in letteratura.
Oltre che poeta, Havlíček fu maestro incomparabile di giornalismo. A 24 anni gli venne affidata la direzione del giornale politico ufficiale “Pražské Noviny” (Il giornale di Praga) e del suo supplemento letterario “Ceská Včela” (L’ape ceca), e si conquistò così un vasto seguito di lettori.
Nel 1848 fondò un grande quotidiano ceco indipendente – “Národní Noviny” (Il giornale nazionale), e per meglio attaccare la reazione creò un supplemento satirico di questo giornale – “Šotek” (Il folletto). Il suo spirito brillante, il sarcasmo mordace, la lingua chiara, virile, ricca di locuzioni popolari, la logica convincente, portarono una nuova aria salutare, aprendo nuove prospettive e preparando la via a una nuova generazione poetica. Egli era persuaso che la poesia dovesse mettersi al servizio di un’idea: non l’arte per l’arte, non grandi parole vuote, ma la verità.
Havlíček è assai noto anche come autore di epigrammi. Ne ha lasciati circa duecento, un buon numero dei quali diretti contro la Chiesa e la sua gerarchia. Era questo un genere che si adattava singolarmente al suo spirito, ed in cui raggiunse una rara maestria. Di essi diceva: “Sono dei piccoli vasi in cui verso la mia collera, perché non laceri il mio cuore”.
Nel gennaio del 1850 il “Giornale Nazionale” fu soppresso dal governo. Fu un duro colpo per Havlíček: non solo perse la possibilità di essere ascoltato dalla nazione, ma venne anche a trovarsi con la sua famiglia senza mezzi di sussistenza. Ma non si dette per vinto. Pochi mesi dopo fondò a Kutná Hora un piccolo foglio che usciva due volte la settimana, intitolato “Slovan” (Lo Slavo). In una serie di articoli reclamava la nazionalizzazione della Chiesa con l’introduzione del ceco nel culto, l’abolizione del celibato dei preti, la separazione della Chiesa dallo Stato, il matrimonio civile, e protestava contro l’unificazione delle funzioni ecclesiastiche e didattiche in una sola persona.
Ma egli doveva fatalmente soccombere in questa lotta troppo impari. Dopo l’ennesimo avvertimento delle autorità, comprese che queste non erano disposte a tollerare ulteriormente il suo giornale, e nell’agosto del 1851 ne cessò egli stesso la pubblicazione. Nello stesso anno subì un secondo processo, ma la giuria dovette nuovamente assolverlo. “Voi avete mancato di rispetto al governo!” – gli gridò il presidente della corte – “Era appunto questa la mia intenzione, perché un governo simile non merita rispetto!” – replicò Havlíček. Uscito dall’aula fu acclamato dalla popolazione di Kutná Hora. Ma ormai la sua sorte era segnata. Il 16 dicembre 1851, come egli stesso descrisse nella lettera a Palacky, venne prelevato di notte dalla polizia e inviato in residenza coatta a Brixen (Bressanone).
Qui, strettamente sorvegliato, lontano dalla moglie Julie e dalla piccola Zdenka, dalla sua nazione, dai rari amici che gli erano rimasti fedeli, minato dagli affanni e dalla tisi, in un clima troppo rigido, egli trascorse quattro anni. Durante questo periodo compose le sue opere più belle, scritte col gusto e con i metri della poesia popolare, ma concepite con spirito realistico e con l’occhio rivolto alla situazione presente: “Křest svatého Vladimira” (Il battesimo di san Vladimiro), “Tyrolské elegie” (Elegie tirolesi) e “Král Lávra” (Il re Lávra).
Quando, finalmente, nel gennaio del 1856 gli permisero di lasciare Brixen, egli era ormai un uomo finito. Nel suo paese trovò la moglie nella tomba, un popolo terrorizzato, avvilito, vecchi amici che lo rinnegarono o finsero di non conoscerlo. La tisi lo sopraffece il 29 luglio 1856, all’età di 35 anni. Morì nello stesso letto in cui era morta sua moglie. Pochi istanti prima di spegnersi chiese della carta, e fino all’ultimo fece dei movimenti con la mano destra, come se volesse scrivere.
Josef Václav Frič (3) così ricorda i funerali di Havlíček nelle sue “Memorie”: “Il 1 agosto 1856 lo portavamo alla sepoltura sulle nostre spalle. C’era una grande partecipazione di popolo…Il feretro di Havlíček era ornato da una sola corona di lauro e di spine che Božena Němcová (4) aveva fatto preparare da suo figlio giardiniere, e che lei stessa aveva posto sulla bara…Portammo il feretro (ricevetti poi l’ordine di non prendere parte in futuro a nessun funerale senza uno speciale permesso) fino alla ex Porta Nuova…Ma lì fummo circondati da robusti artigiani e operai che, facendosi largo a gomitate, si erano avvicinati alla bara, provocando non poca confusione. “Affidateci il nostro martire” – urlavano – “Vogliamo avere noi il piacere di portarlo fino a Olšany (5). Allora Palacky, che non sopportava il chiasso, cominciò ad esortarli con voce vibrante…La cosa si stava mettendo male; alla fine gridai: “Amici, non vorrete, spero, che il defunto ci cada in terra…indietro!” Le mie parole ebbero effetto – ognuno mise ragionevolmente da parte il proprio ardore eccessivo, e il risultato fu che il carro proseguì al passo verso Olšany, dove attorno alla tomba già preparata erano devotamente raccolte migliaia di persone”.
In quella circostanza anche il giornale tedesco “Bohemia” elogiò la figura del defunto: “Ieri pomeriggio si sono svolti i funerali dell’ex-redattore del Giornale Nazionale, Karel Havlíček…Con Havlíček è calato nella tomba un grande talento, il maggiore e primo pubblicista che abbia avuto la letteratura ceca…”
Nelle “Elegie tirolesi” l’autore racconta, in chiave satirica, la storia del suo prelevamento notturno, il suo addio alla famiglia atterrita, il suo viaggio in carrozza in compagnia dei gendarmi, verso una destinazione ignota. Dietro la maschera sorridente e sorniona, negli accenti melodiosi della poesia popolare ceca, si avverte il ghigno doloroso dell’uomo che ha pagato col suo sangue il diritto all’ironia, la sofferenza crudele di un uomo offeso nei suoi sentimenti più sacri, l’odio di un patriota contro il despota.
Note:
1. František Palacky (1798-1876). Figura politica di primissimo piano. Fu capo del partito conservatore. Legò il suo nome a un’opera monumentale – La “Storia della nazione ceca in Boemia e Moravia”, che abbraccia tutte le vicende del popolo boemo dalle sue origini fino al 1526.
2. Anno in cui avvenne la battaglia della Montagna Bianca che, distruggendo la libertà e l’indipendenza delle terre ceche, dette contemporaneamente avvio alla Guerra dei Trent’anni.
3. Josef Václav Frič (1829-1890). Poeta, giornalista, agitatore politico boemo. Nel 1848 si batté fino all’ultimo sulle barricate, ed affrontò poi coraggiosamente le amare esperienze del carcere e dell’esilio.
4. Božena Němcová (1820-1862). Scrittrice boema. La sua opera più nota è il romanzo “Babička” (La nonna) – uno dei libri più cari al lettore ceco, e che incontrò molta fortuna anche all’estero.
5. Noto cimitero di Praga.
Paolo Statuti
Elegie tirolesi – Colloqui con la luna
Traduzione di Paolo Statuti
I
Luna cara, brilla ancora,
la tua luce dai:
che ne pensi tu di Brixen?
oh, che faccia fai!
Dove corri? è presto, aspetta
non scappare,
solo un attimo vorrei
con te parlare.
Non son nato in questi luoghi –
io parlo, non introno;
qui mi trovo per far pratica,
“treu und bieder” (1) non sono.
II
Là da me siam musicanti,
la tromba io sonavo,
e con quella i signori di Vienna
dal sonno svegliavo.
E allor per ritrovare
la pace perduta,
mi mandaron di notte gli sbirri
a mia insaputa.
Le due eran già sonate,
mi vengono intorno,
e un gendarme molto compito
mi dà il buongiorno.
Col gendarme – l’egregia scorta,
tutti bardati,
l’ombelico fasciato ben stretto,
i galloni – dorati.
“Si alzi, signor redattore,
niente paura,
lo so, è notte, ma non siam ladri –
è la procedura.
Tanti saluti da Vienna,
da Bach un abbraccio,
vuol sapere se lei sta bene,
ecco un suo dispaccio”.
Io pure a stomaco vuoto
sono distinto:
“Perdoni, imperial commissione,
se sono discinto”.
Invece Džok, il mio mastino,
è assai scortese,
con l’ habeas corpus (2) è abituato –
è un cane inglese.
Per un soffio non offende
l’autorità,
rivolto a loro da sotto il letto:
Grr! Arf, arf! – gli fa.
Gli gettai allora contro
il codice imperiale;
subito fu muto come un pesce,
uff, meno male!
III
Sono un suddito ordinato –
m’ero intirizzito –
anzitutto m’infilai le calze,
sì bene assistito.
Solo allor lessi il messaggio –
ce l’ho qui con me;
se capisci il tedesco ufficiale,
leggilo da te.
Scrive Bach come un dottore
che non è buona
l’aria di casa, e che è bene
ch’io cambi zona;
in Boemia è troppo caldo,
il clima è odioso,
molto puzzo d’imposizioni (3) –
assai dannoso.
E per questo ora fuori
la carrozza aspetta,
perché a spese del regio governo
io parta in fretta.
E ai gendarmi ha comandato
di insistere molto,
se per modestia la sua proposta
non avessi accolto.
IV
Che fare se devo avere
l’usanza grulla
di non potere ai gendarmi armati
negare nulla?
Dedera implorava: “Presto!
prima o poi
qualcuno si sveglia e chiederà
d’unirsi a noi”.
Mi disse che non dovevo
portare armi,
perché loro avevano il compito
di scortarmi.
Per la Boemia incognito
devo viaggiare,
per sottrarci ai noiosi che han sempre
incarichi da dare.
Mi diede ancor Dedera
saggi avvertimenti,
ai quali debbono attenersi
di Bach i pazienti.
M’incantò quella Sirena –
misi le scarpe,
il gilè, la giacca e la pelliccia,
calzoni a parte.
Già da tempo aspettavano
le guardie affrante:
“cari amici! pazientate, ecco –
partiamo all’istante”.
V
O luna, queste donne
tu conosci a fondo,
e sai qual croce con esse abbiamo
in questo mondo.
A quanti tristi commiati
tu fosti presente!
Tu sai meglio d’ogni novellista
come ci si sente.
Madre, moglie, figlioletta –
piccola Zdena –
intorno, nel loro pianto muto,
era una pena!
Anche se ho una pellaccia
e sono gagliardo,
quella volta mi si strinse il cuore,
s’offuscò lo sguardo.
Calcai il berretto con forza
sugli occhi,
prima che una lacrima non sfuggisse
ai poliziotti,
impalati presso l’uscio
fino a quel momento,
perché avesse la triste scena
un regio ornamento.
VI
Nel frastuono delle ruote –
dritti verso Jihlava;
dietro, perché nulla perdessimo
la scorta trottava.
La chiesetta di Borová,
là sul monticello,
dai boschi mi guarda tristemente:
“Sei tu, bricconcello?”
“Sotto di me è la tua culla,
t’ho visto battezzato;
con zelo facevi il chierichetto
al vecchio curato”.
“T’ho visto in giro per il mondo;
poi con la torcia andare
e la strada ai ragazzi del posto
illuminare”.
“Vedi come il tempo è andato:
ben più di un anno!…
ma, figliolo! chi sono quei mostri
che or dietro ti vanno?”
VII
Attraversammo Jihlava;
– allo Špilberk (4) andavo? –
e dopo Linz, – allora è Kufstein? (4) –
così pensavo.
Solo quando ci lasciammo
Kufstein sulla destra,
cominciò a sembrarmi più amena
la flora alpestra.
Brutto viaggio, se non sai
ove sei diretto:
l’allegro strombettìo dei postiglioni
è un inganno abietto.
Sugna e cambio di cavalli
in ogni posto:
ungessero e cambiassero di più
a Vienna, piuttosto! –
Il telegrafo è senz’altro
una bella invenzione –
esso annunciava il nostro arrivo
in ogni regione,
affinché la polizia –
madre premurosa –
potesse accenderci la stufa
prima d’ogni cosa.
Budějovice non posso
dimenticare,
colà Dedera quattro bottiglie
volle comprare.
Forse perché patriota
si sentiva?
Forse perchè così scordassi
la terra nativa?
Ma quel vino finì presto;
bevo al momento
quello italiano: hanno lo stesso
inquieto fermento.
VIII
O luna, or lasciamo l’elegia
e prendiam l’eroico accento,
perché quello che sto per narrarti
fu un caos tremendo.
La strada da Reichenhall a Weidring
tu la conosci abbastanza –
non può cambiarla nessuna imperial
ordinanza.
Montagne, rocce più enormi ancora
della stoltezza tra le nazioni,
e come le fauci dell’armata –
cupi burroni.
Notte scura come Madre Chiesa,
veniam giù con dannata fretta;
grida Dedera: “Tira!” il cocchiere
non sta più a cassetta.
I cavalli al vento, la carrozza
sobbalza e a rompicollo scende,
il postiglione chissà dove
la pipa si accende.
La strada vien giù a serpentina,
la vettura come un dardo vola,
forse intende gettarci per sempre
in fondo alla gola.
Ah, che gusto provai quell’istante!
oh, gioia di tutte le gioie,
vedere i gloriosi gendarmi
tremar come foglie.
Mi ricordai – io leggo la bibbia –
di Giona la triste novella,
quando lo gettarono in acqua
per calmar la procella.
“Facciamo la conta”, dico, “tra noi
dev’esserci un gran peccatore,
costui si getti giù per far pace
col Signore”.
Detto fatto! Alle guardie mancò il tempo
di far l’esame di coscienza,
ma contrite si gettarono
dalla diligenza.
Ah, tu mondo, mondo sottosopra!
il seguito nel fosso è finito;
e tutto solo nella carrozza –
il signor bandito.
Ah, governo, governo alla rovescia!
i popoli al guinzaglio vuoi portare,
e quattro cavalli senza briglie
non sai governare!
Senza redini, senza cocchiere,
nel buio, l’abisso sfiorando:
solo come il vento con le Alpi
andai galoppando.
Di affidar la mia vita ai cavalli
impazziti, perché temere?
son suddito di Vienna: di peggio
che può accadere?
Così, un caldo sigaro in bocca
e un freddo coraggio nel cuore,
più fresco dello zar giunsi alla posta
di buon’umore.
Là – campione di delinquenti –
senza custodi cenai come un re,
finché zoppi e coi nasi sbucciati
essi giunsero da me.
Io dormii bene, ma per le guardie
quella notte a Weidring fu assai dura:
frizioni di spirito alla schiena,
sui nasi – tintura.
Qui finisce questa epopea,
tutto è sacrosanta verità,
fino ad oggi a Weidring Dahlrupp (5)
ve lo dirà.
IX
Da Weidring fino a Brixen –
pace assoluta;
le autorità dettero a Dedera
di me la ricevuta.
In Boemia poi quel foglio
è ritornato,
ed io qui dall’aquila a due teste
restai attanagliato.
Prefetto, Sottoprefetto
e Gendarmeria
hanno messo in questa Siberia
a difesa mia.
Brixen, 20. 6. 1852
1. “Fedele e probo”: sono parole dell’inno nazionale austriaco di allora.
2. Legge del 1679 che garantisce la libertà personale in Inghilterra e in Nordamerica.
3. Allusione alla “Costituzione imposta”, proclamata il 4 marzo 1849, che annullava le conquiste del 1848.
4. Note prigioni per detenuti politici.
5. Dahlrupp era il mastro di posta a Weidring.
(C) by Paolo Statuti