Archivio | novembre, 2017

Arkadij Kutilov

23 Nov

Arkadij Kutilov

 

Poeta, prosatore e pittore russo. E’ nato il 30 maggio 1940 nel villaggio di Rys’ja (regione di Irkutsk) ed è morto a Omsk nel mese di giugno del 1985. E’ uno dei più luminosi e originali poeti russi del XX secolo. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza nel villaggio di Bražnikovo, nella regione di Omsk. Un ruolo  particolarmente importante nella sua formazione ebbero la sua insegnante di russo e il bibliotecario, che consigliava il giovane nella scelta dei libri. Nella biblioteca del posto Kutilov trovò una piccola raccolta di Marina Cvetaeva e, grazie a ciò, fece per la prima volta conoscenza con la poesia caduta in disgrazia. La forza e la bellezza dei versi della Cvetaeva fecero nascere in lui un irresistibile interesse per la poesia. Le prime sue composizioni poetiche risalgono al 1957 (fino all’età di diciassette anni la sua passione principale era stata la pittura). Iniziò con versi il cui contenuto era genericamente chiamato “lirica della taigà”. All’inizio degli anni ’60 svolse il servizio militare a Smolensk, dove in veste di poeta principiante entrò nell’ambiente letterario, e partecipò a numerosi seminari. I suoi versi apparvero su diverse riviste locali. Un fatale avvenimento lasciò in lui un marchio che influì sul suo futuro destino. Il poeta e un gruppo di commilitoni presero una sbornia bevendo liquido antigelo. Restò vivo soltanto Kutilov. Per questo motivo dopo la cura che ne seguì, fu congedato. Tornò a Bražnikovo. Su questo periodo il poeta scrisse in una nota autobiografica: «Nel mio stato depressivo, avendo perso interesse per ogni cosa, vivevo nel villaggio, contando sullo scorrere della vita. Il fatto più brillante di quel tempo è stato il momento in cui per la prima volta ho apprezzato seriamente la vodca. Lavoravo come corrisponente per una rivista regionale, bevevo smodatamente, conducevo una vita scapestrata e neanche provavo a migliorare la mia condizione.» Dopo qualche mese fu licenziato dalla rivista per ubriachezza. Nel 1965 sue poesie apparvero sul giornale di Omsk “Il giovane siberiano”. Dopo la morte della madre, avvenuta nel 1967, Arkadij Kutilov con la giovane moglie e il figlio tornò nella regione di Irkutsk, sua terra natale, dedicando molto tempo ai viaggi. Discordie famigliari costrinsero poi  il poeta a tornare a Omsk.

Per un certo tempo condusse una vita nomade di giornalista di campagna, lavorando per diversi giornali, senza mai trattenersi a lungo in un luogo. Iniziò il periodo di vagabondaggio che durerà diciassette anni: la sua casa e il suo studio diventarono le soffitte e le cantine, dormiva nelle stazioni e nei cimiteri.

Triste mondo nel balbettio del transistor,

la gente canta canzoni non proprie…

E nel Paese dei minchioni gemono i cigni,

piangono le pietre e gracidano gli usignoli…

 Fu ritenuto incapace di adattarsi socialmente e psicologicamente malato, e quindi costretto a intraprendere una cura psichiatrica e, conformemente alla legislazione sovietica, fu accusato di parassitismo e vagabondaggio. Nel 1971, trovandosi in carcere, scrisse il racconto “Il granello di polvere”. Dalla metà degli anni ’70 Kutilov scriveva ormai senza alcuna speranza di vedere i suoi lavori pubblicati, e perfino il suo nome era interdetto, a causa dei suoi versi ritenuti sovversivi, degli scandali letterari e politici, delle “mostre” provocatorie di quadri e disegni nel centro della città, del disprezzo del passaporto sovietico, le cui pagine aveva riempito di poesie.

Alla fine di giugno del 1985 il poeta fu trovato morto in un giardinetto di Omsk con gli abiti sporchi e stracciati. Le circostanze della morte non furono mai chiarite. Si dice che sia stato ucciso per motivi politici, in quanto dissidente. Il cadavere fu identificato, ma nessuno richiese la salma all’obitorio. A lungo il luogo esatto della sepoltura del poeta, alla periferia di Omsk, restò sconosciuto. Finalmente nel 2011 riuscì a scoprirlo Nelli Arzamasceva, direttrice del museo “Arkadij Kutilov”. Il poeta Evgenij Evtušenko scrisse di lui: «Nella città di Leonid Martynov è vissuto un altro meritevole poeta, non apprezzato da noi quando era in vita. I suoi versi, sono diversamente giudicati, ma in essi ci sono lampi di genialità.»

La sua unica raccolta di poesie pubblicata, uscita a Omsk nel 1990, ha un titolo che si  addice perfettamente al suo tragico destino – Lo scheletro di una stella:

 La mia stella lavora bene,

la mia cara privata stella…

Si è accesa alquanto di recente,

di recente…Pensavo – per sempre…

Ma si raffredda nel gelido buio,

e di colpo si spegnerà quest’anno…

Il deserto – ai leoni, il bosco – agli uccelli,

e a me – accendete una nuova stella!

Si  ritiene che abbia scritto più di 2000 poesie, testi di prosa stupefacente, e abbia creato un’intera galleria di opere figurative. Purtroppo gran parte di questa produzione non ci è pervenuta.

Le sue poesie sono già tradotte in diverse lingue, non so se anche in italiano. In ogni caso ho pensato di rendere un omaggio personale a questo geniale e infelice poeta russo, forse il più dimenticato del XX secolo, la cui breve vita raminga e turbolenta, e la misera fine mi ricordano Chlebnikov e Esenin. Kutilov è un poeta vero. Il poeta della natura, dell’amore, del paradosso. Nelle sue poesie si alternano intenzionalmente sublime e infimo, generale e particolare, grande e minuto. Egli segue le tracce che risalgono a Tjutchev, Zabolockij, Esenin. Nella sua lirica rivivono antichi miti e leggende popolari, gli animali prendono misteriosi contorni. Ogni sua immagine assume un significato profondo che può capire soltanto un uomo con il cuore illuminato. Egli ha la capacità di dipingere con le parole, usando luminosi e densi colori. Tutta la sua vita è poesia, tra questi due elementi la distanza è ridotta ai minimi termini.

Poesie di Arkadij Kutilov tradotte da Paolo Statuti 

 

 

Io vedo il suono e il silenzio

Io vedo il suono e il silenzio,

c’è l’antimondo nel mio quaderno…

Io vedo il paese-Africa,

dalla finestra innevata…

Io sento il buio e la luce lunare,

e dietro la parete del vicino

sento di notte il decrepito nonno

litigare con la moglie nel sonno.

La vecchia, è vero, è morta,

e il nonno mi fa compassione…

Ma così stanno le cose con noi:

noi vediamo ciò che nessuno vede.

Noi dell’ardente sangue di Puškin,

per noi – sette venerdì a settimana,

per noi – un usignolo a gennaio,

e d’estate – musica con bufera.

E a marzo dai tetti lungo i muri

scorre la voce di Nefertiti…

O mio lettore! io mi batto,

perché tu possa scorgere il mondo.

*  *  *

Idee selvatiche ingoio,

leggo Brehm e Diderot…

Tutta la notte siedo, immagino

un piatto, un cucchiaio e un secchio…

James Watt è il mio capo diretto,

tutto il mondo non è che merce…

Ho immaginato una teiera,

una bicicletta e un samovar…

Un raggio di stella ho scisso in anelli,

ho scoperto una nuova specie di pesci.

Ai confini della musica e del canto

ho immaginato il cigolio di un carro.

Io dal cielo le stelle non afferro,

ma scroscia l’estasi creativa…

E io di nuovo immagino

un’ascia, una sega e un water…

Io – esclusione di ogni principio,

con distorta visione del mondo…

Col cervello tragicamente guasto,

e niente può più ripararlo!

*  *  *

E nell’infanzia tutte le inezie

sono piene di significato e ragione:

la luce del giorno, il buio della notte,

un’ala, un remo e l’altalena…

E una scaglia di luccio screziato,

un pulcino ucciso da un nibbio,

e il grido della civetta e un maggiolino,

e un prato dopo averlo rasato.

Come nel sangue – una molecola di vino,

come in un cervello sensibile – un verso,

come in una notte di luglio – la luna, –

nella coscienza entra il punto di vista.

Il figliastro

 

Una buona volta in un’azzurra sera,

senza pensieri, senza amore e sogni,

a un tratto lascerò la Russia,

cominciando a darle del “tu”…

Perché non mi amavi,

mi sopportavi, torcendo la bocca?..

Negli assalti di mite ardore

io con te stringevo un legame.

Mi sono arreso alle tue promesse,

aspettavo a lungo una dichiarazione.

Prendi adesso, nell’ora dell’addio,

la mia testa come amuleto!

Addio, e dimentica i falsi giudizi.

La gente per essi è portata!

…Gli otturatori della mia doppietta

scatteranno – e tutti sull’attenti!

Alla fine di una notte lirica,

quando una mucca muggirà,

i miei occhi sbatteranno le ciglia

e rumorosi nell’azzurro voleranno!

Divorzio

 

Se ne va l’amore. Gelo nell’anima.

Sbiadiscono parole e oggetti.

Sul caro volto appare ormai

La maschera postuma di Giulietta.

La ragione frena il bollore del sangue…

Il tuo sguardo è più azzurro d’un pugnale…

E, forse, non il dito, ma la gola dell’amore

L’anello nuziale ha serrato.

E’ invecchiato settembre e la tua figura,

I tuoi contorni si fanno grossolani…

Sembra che mi stiano per fucilare,

E I NOSTRI NON ARRIVERANNO MAI.

*  *  *

Vita mia, poesia, amica…

Io nei versi annegavo, ardevo e gelavo…

Gli occhi la tormenta non mi ha cavato,

benché abbia percorso tante verste.

Diranno: è una posa? Sì è possibile…

La vita è fatta di pose e altre inezie.

Che perisca la rosa schiacciata,

e nel marcio spunti un cardo!

Io l’immortalità non aspetto,

a me è più caro – le dita sulle corde –

sedere con le prostitute che parlano

allegramente di me.

Bosco d’inverno

 

Si gelano i pini e gli abeti,

il bosco non allieta lo sguardo.

Il bosco ha un abito nuovo –

d’un biancore mortale.

Come un vecchio sul letto,

condannato a morire…

Come in una stanza d’ospedale,

solo un medico – l’orso.

Questo sembra da lontano,

questo sembra così…

Ma svolazzano le cince

e i fringuelli sui cespugli…

E, accostando alle tremule

la guancia, come un figlio,

senti battere forte

la loro anima.

Allegato al mio libretto del lavoro

 

Ecco io morirò e subito piangerà

la pazza stirpe di beoni e randagi…

…Io ero un pope, – e ciò è importante.

Io ero un organizzatore, – e non è poco!

Io ho scavato con la draga da ubriaco.

Io con l’ascia penetravo nel bosco azzurro.

Io ero pescatore e nel fiume Vitim

il mio zar-pesce nuota ancora.

Io ero nella compagnia di mia zia.

E a Smolensk le mucche altrui pascolavo.

Io ero corrispondente di un giornale

e alla tomba due redattori ho scortato.

Ho insegnato ai bambini a leggere

e a diventare dittatori della Terra…

E un anno dopo gli allegri marmocchi

mi hanno incendiato la casa!

Ho gestito il club di un villaggio.

Ho diretto il dramma “Carnevale all’inferno”…

E il protagonista, dalla scena, col fucile

ha ucciso un papavero del partito.

Ero un randagio e mi celavo ai cieli.

Ero in bancarotta – non ho potuto uccidermi…

Ero…ero…ero…Chi non sono stato!

Me stesso?.. Ma come si può esserlo?..

*  *  *

Non sono un poeta. La poesia è una cosa sacra.

In essa tutto è lieve, tenero e luminoso…

Dammi un oggetto che toccandolo – canti per me,

o che per lo meno mi bruci le dita.

*  *  *

La poesia non è una posa o un ruolo.

E’ una lotta eterna, come la vita sotto il sole,

la poesia è la mia reazione al dolore,

la mia autodifesa e la mia vendetta!

* * *

Versi miei, miei santi peccati,

Prolifici come microbo letale…

Sentiti della morte i comuni indizi,

Inchioderò per loro una bara speciale.

E questa cassa con garbo e cortesia

Il postero dalla terra riceverà…

E dallo zinco e dal freddo l’esperanto –

Nel cuore del postero la gru canterà!

E balzerà la pace da questo canto,

E balzerò anch’io dal funereo torpore…

Il mio compito è concluso con onore:

Il postero piange.

Forse per me…

Felicità

 

Tutto in ordine! Si sono sciolti i capelli.

L’oscurità ci protegge.

Che la luna giochi a nascondino.

Ha giocato. E’ spuntata e risuona!

Baci, misteri notturni.

E fuma l’acqua, fuma…

Tutto in ordine. In tale ordine

Basta un secondo e verrà la sciagura.

L’uccello

Ecco un uccello. Ed ecco un pallino…

Volare non è più dato.

…E in Grecia una donna chissà dove

versava farina d’avena.

…A Parigi un qualche bagordo

è cessato sia pure un istante.

…Una cinese timorosa

nel sonno ha gridato “no!”

…Un cavaliere di granito ha inciampato,

forando con la lancia l’oscurità…

QUANDO MUORE UN UCCELLO,

LA TERRA SUSSULTERA’.

(C) by Paolo Statuti

Pavlo Tycina

19 Nov

 

 

Pavlo Tycina

 

 

Pavlo Tycina è uno dei più illustri poeti ucraini del XX secolo. Fu anche traduttore, pubblicista, uomo politico, direttore dell’Istituto di Letteratura dell’Accademia delle Scienze dell’URSS (1936-39 e 1941-43), presidente del Consiglio Supremo dell’URSS (due mandati), ministro dell’Istruzione (1943-48).

Nacque nel villaggio di Pisky il 23 gennaio 1891 e morì a Kiev il 16 settembre 1967. Studiò in seminario (1907-1913). Dovette interrompere gli studi superiori a Kiev a causa dei burrascosi eventi degli anni 1917-1920. Nel 1923 si trasferì a Charkov, allora capitale della Repubblica Ucraina, dove partecipò attivamente alla vita letteraria della città. Tra l’altro diresse la sezione letteraria del teatro di Kiev “Taras Szevczenko”. Debuttò con la raccolta di poesie Clarinetti solari (1919), caratterizzata da un personale stile poetico chiamato “clarinettismo” e da una peculiare versione ucraina del simbolismo. Tra le altre sue raccolte giovanili ricordiamo ancora: Anziché sonetti e ottave (1920), L’aratro (1920), Nell’orchestra cosmica (1921), Vento dall’Ucraina (1924). Nei suoi versi ha amalgamato organicamente le due correnti letterarie mondiali del barocco e del simbolismo. Tratti principali: sintassi innovativa, gioco delle antitesi e delle parabole, costruzione asindetica della lingua.

Con l’intensificarsi delle repressioni politiche e poliziesche dello stalinismo, il poeta attraversò una profonda crisi creativa. Le successive raccolte poetiche mostrarono un adeguamento alla dottrina del realismo socialista e una chiara accettazione del regime sovietico e della propaganda del partito comunista.

Florian Nieuważny che ha curato l’edizione polacca delle poesie di Tycina, nella prefazione scrive: «Tycina è dotato di orecchio assoluto, che percepisce ogni vibrazione del ritmo “nell’orchestra cosmica”, e soprattutto nella natura, e cerca l’armonia di quel “ritmoluce” tra musica, bellezza e bontà. Questi tre elementi creano nella sua opera una lega omogenea, formano la sua irripetibile espressione. Principale motivo di questa poesia, soprattutto nel primo periodo creativo, è la musicalità…i valori musicali pervadono il contenuto, il significato e le immagini, le colorano e impregnano musicalmente, tanto che il ritmo dei suoi versi è un ritmo di immagini, un ritmo di cose vedute…»

Sono grato all’amico ucraino Sergej Demin, letterato e grande amante della poesia, per avermi fatto conoscere questa mia “anima gemella”, dotata anch’essa di tre ali: poesia, musica e pittura. Sull’impegno politico di Pavlo Tycina e sul suo “premio Stalin” preferisco sorvolare, considerando questo poeta l’ennesima vittima, consapevole o meno, consenziente o meno, di quel regime disumano che quando non uccideva, constringeva a “profanare” la propria genialità. Del resto sono convinto che se Tycina non si fosse adeguato avrebbe fatto la fine di Gumiljov, Mandel’stam, Kljuev, Esenin e tanti altri. Ecco alcune sue poesie nella mia versione. Le ho tradotte dal russo, ma servendomi anche degli originali ucraini.

 

Poesie del poeta ucraino Pavlo Tycina tradotte da Paolo Statuti

 

Sentivate lo stormire del tiglio…

Sentivate lo stormire del tiglio…

a primavera in una notte di luna?

 

L’amata dorme, l’amata dorme…

Va’, svegliala e bacia i suoi occhi!

L’amata dorme…

 

Sentivate? – così il tiglio stormisce.

 

Sapete come dormono gli spiriti del bosco?

Essi tutto vedono attraverso  le nebbie.

 

Ecco la luna, le stelle, gli usignoli…

«Io sono tuo» – sussurrano i cieli

 

E gli usignoli!..

 

Sì, voi già sapete come dormono i boschi!

 

1911

 

*  *  *

Di arpe, di arpe

dorate echeggiano i boschetti

Autosonanti:

Viene la primavera

Profumata,

Di fiori-perle

ornata.

Con canti, con canti –

Come il mare di vascelli pallido-iridati

si è coperto l’azzurro:

Verrà la lotta

Infocata!

Si riderà, si piangerà

Come fonte di perle…

Starò lì, guarderò –

dovunque ruscelli-campanule, l’allodola

dal tono dorato:

Viene la primavera

Profumata,

Di fiori-perle

Ornata.

Mia cara, mia diletta –

cammini colma di tristezza

o di felicità.

Oh, apri

le spighe delle ciglia!

Si riderà, si piangerà

Come fonte di perle…

 

1914

 

Tutto il prato è fiorito…

Dorato di pioggia tutto il prato è fiorito,

E lontano, come tanti acquerelli, –

Le case azzurrine, il bosco assopito…

Ah, cuore, canta!

Canta dall’ultimo calice, –

Dell’autunno ci ha baciati

La stupenda tristezza.

 

Solitario tra campi estranei,

Sto come vittima abbandonata, – so

Che la natura ascolta la mia pena,

Attraverso il riso e il pianto.

Come bellissima principessa –

Essa è piena di antica mestizia,

Che a tutti con cura cela.

 

Qui io prego. Silenzio dopo la tempesta –

Come davanti al quadro di una madonna.

Sui villaggi scorrono, abbracciate, le campane, –

Rabeschi di lacrime.

Da dietro le nubi fluisce nostalgico

Il richiamo delle gru che migrano,

Come petali di rose di broccato…

 

Ecco un salice che guarda lontano,

E coglie le corde della pioggia.

Sembra che sussurrino i giovani rami:

Tristezza, tristezza…

Così per anni, senza sosta, senza confine,

Io pizzico le corde dell’Eternità,

Come il salice, con lo sguardo fisso lontano.

 

1915

 

*  *  *

Ho rivolto al cielo una preghiera:

Dio, Dio, ferma questo sangue!

Ferma la discordia, consiglia,

Guarda i bambini e piangi.

Ma solo gli astri ho visto:

Ariete, Andromeda, Leone.

Solo i mari ondeggiavano,

E Dio pensava e il nettare beveva.

 

Ho rivolto al cielo un lamento:

Dio, Dio, non odo la tua voce!

Rispondi coi tuoni e col fuoco,

Nella bufera mostra che ci sei.

Ma solo l’avido occhio del silenzio

Nella morsa delle nubi ardeva.

Passavano i giorni e le notti cupe,

Ma Dio pensava e il nettare beveva.


Pastelli

I

E’ sfrecciato un leprotto.

Guarda stupito –

Albeggia!

Si siede, giocherella,

Apre gli occhi alle pratoline.

E ad est il cielo profuma.

I galli il nero manto della notte

Di fili di fuoco rivestono.

– Il sole –

E’ sfrecciato un leprotto.

 

II

 

Ha bevuto un buon vino

Il ferreo giorno.

Fiorite, o prati! –

: io vado – è giorno –

Pascolate, greggi! –

: dalla mia amata – è giorno –

Ondeggiate, o spighe!

: di giorno.

Ha bevuto un buon vino

Il ferreo giorno.

 

III

 

Una ninnananna di zufoli

Là dove il sole è tramontato.

In punta di piedi è scesa la sera.

Ha acceso le stelle,

Sull’erba ha steso la nebbia

E, accostato un dito alla bocca, –

Si è coricata.

Una ninnananna di zufoli

Là dove il sole è tramontato.

 

IV

 

Copritemi, copritemi:

Io sono la notte, una vecchia,

Malata.

Da secoli nei sogni

La mia nera strada.

Stendetemi un letto di menta,

E che il pioppo stormisca.

Copritemi, copritemi:

Io sono la notte, una vecchia,

Malata.

1917

 

L’aratro

Il vento.

Non il vento – la tempesta!

Abbatte, sradica, schianta…

Dietro le nere nubi

(con lampi e tuoni)

dietro le nere nubi un milione di milioni

di braccia muscolose.

 

Gira. E nella terra affonda

(sia città, strada o prato),

nella terra l’aratro…

E sulla terra persone, animali, giardini,

e sulla terra gli dei e le loro dimore:

oh passa, passa su di noi,

giudica!

 

E c’era chi fuggiva.

Nelle caverne, nei boschi, nei laghi.

– Quale forza sei tu? –

chiedevano.

 

E nessuno di loro gioiva, né cantava

(il vento spronava un focoso cavallo –

un focoso cavallo –

di notte).

E soltanto i loro occhi sbarrati e morti

rispecchiavano la bellezza del nuovo giorno.

Gli occhi.

 

1919

 

La bella Fornarina

Passeggia lungo il Tevere Raffaello

nel mese di luglio o di agosto.

– o azzurro, o sogno del cuore,

il mio amore è corrisposto? –

 

In lui il cuore martella. Ascolta:

in quel canto che tristezza!

– sì o no, tra gli scogli sola,

l’onda culla la barchetta –

 

Nel suo candido splendore

lei è sempre più vicina.

O fanciulla dimmi il tuo nome! –

(e lei timida): Fornarina.

 

Poi tace. Raffaello allora

le tocca le mani con bramosia.

Lei piange e lui nel suo abbraccio:

Madonna mia!

 

1921

 

Gira Faust…

 

Gira Faust per l’Europa

Col suo libro di orazioni,

Seminando le sue menzogne,

Prende in giro i semplicioni,

E chi incontra? : Prometeo.

 

– Salve, salve, portafuoco!

Sei ribelle come una volta?

Io lodarti non posso:

Si può mai con la rivolta

Allietare la povera gente?

 

I misteri del cielo io studio,

La filosofia è il mio pane,

Io soltanto con le cifre frugo

Nei fatti della morte e della fame.

Ma tu, tu, che fai?

 

Io ho nell’anima il cilicio,

La religione non schivo,

Non mi ribello, solo libri

E sempre scrivo, scrivo, scrivo,

Ma tu, dimmi, che fai?

 

Vuoi il mondo riformare?

Perché quel volto avvilito?

– Allora tu non sei Faust,

Ma un signore ben nutrito!

Oh se avessi qui un martello!

 

– Ah, ti ribelli? E sia pure,

Non sono Faust? – Lo sapevo già,

Bene, perdona, abbi pietà!

Gira Faust per l’Europa

Col suo libro di preghiere.

 

1923

La bella Fornarina

11 Nov

 

La Fornarina di Raffaello

 

   Oggi torno alla pittura, trascurata ma sempre cara e mai dimenticata, con questo celebre quadro di Raffaello che l’anno prossimo compirà esattamente 500 anni. Fu infatti dipinto dal divino pittore nel 1518, due anni prima della sua morte, avvenuta come noto nel 1520. Identificata come Margherita Luti, la bella giovane romana, figlia di un fornaio, fu amata da Raffaello, che la immortalò in questo ritratto. L’opera è conservata nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. Il poeta ucraino Pavel Tycina (1891-1967) le ha dedicato questa sua poesia dal tono romantico, dove descrive l’incontro della fanciulla con il grande Urbinate. Eccola nella mia versione.

 

La bella Fornarina

Passeggia lungo il Tevere Raffaello

nel mese di luglio o di agosto.

– o azzurro, o sogno del cuore,

il mio amore è corrisposto? –

 

In lui il cuore martella. Ascolta:

in quel canto che tristezza!

– sì o no, tra gli scogli sola,

l’onda culla la barchetta –

 

Nel suo candido splendore

lei è sempre più vicina.

O fanciulla dimmi il tuo nome! –

(e lei timida): Fornarina.

 

Poi tace. Raffaello allora

le tocca le mani con bramosia.

Lei piange e lui nel suo abbraccio:

Madonna mia!

 

1921

 

(C) by Paolo Statuti

L’Album di Madame Ol’ga Kozlova

7 Nov

Madame Ol’ga Kozlova

 

 

Kosta Chetagurov

 

E’ un manoscritto elegantemente stampato con triplice raffilatura in oro, compilato negli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento e pubblicato nel 1883 in soli 40 esemplari e ripubblicato nel 1889 in 10 copie. Tra gli altri vi lasciarono un proprio ricordo con autografo: A.A. Fet, A.N. Apuchtin, A.N. Pleščeev, A.N. Majkov, N.A. Nekrasov, F.M. Dostojevskij, I.A. Gončarov, A.N. Ostrovskij, M.E. Saltykov-Ščedrin, I.S. Turgenev. La letteratura europea vi è rappresentata dai nomi di V. Hugo, P. Mérimée, Dumas padre e figlio, A. de Lamartine, due diverse traduzioni di A.N. Apuchtin e A.D. Baratynskaja della poesia di S. Prudhomme Il vaso rotto. I testi di prosa e di poesia si alternano con gli acquerelli di I.K. Ajvazovskij, A.P. Boroljudov, P.F. Sokolov e altri noti pittori. Per la musica ci sono annotazioni di P. I. Čajkovskij, G. Verdi, A.G. e N.G. Rubinštejn.

Ol’ga Andreevna Kozlova era la moglie del poeta, traduttore e compositore Pavel Alekseevič Kozlov, nato nel 1841, lo stesso anno della morte di Lermontov. I principali temi della sua poesia sono l’amore, la morte e la bellezza. Divenne famoso soprattutto per le sue esemplari traduzioni di Byron: Manfredi, Don Giovanni, Child Arold, Beppo e per le sue celebri romanze Se avessi saputo…(parole e musica) e Guardando un raggio del rosso tramonto e altre ancora. Viaggiò molto anche come diplomatico: Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, mai perdendo l’occasione di conoscere noti scrittori, pittori e musicisti.

Dalla metà del 1870 i Kozlov vivevano a Pietroburgo, organizzando in casa pranzi letterari. Lasciare una nota nell’Album della padrona di casa rientrava nel programma degli incontri mondani. Inoltre Ol’ga Andreevna prendeva sempre con sé il suo Album nei viaggi, e gli autografi furono presi ad esempio a Parigi, Bruxelles, Karlsbad, Sorrento. La costanza e l’amore per le arti permisero ad Ol’ga di creare una collezione unica di annotazioni, trasformando l’Album di famiglia in un documento unico, fedele specchio della vita culturale del suo tempo.

Nella vita di Pavel Kozlov ci fu una drammatica storia sentimentale. Per sua sfortuna si innamorò perdutamente della bellissima pianista e mecenate polacca Maria Kalergis. Tra i suoi ammiratori c’erano Liszt, Chopin, Goethe, Norwid… Kozlov era assai più giovane della sua “fiamma”, ma senza esitare la seguì in Europa, bruciando di gelosia. La donna lo eccitava e lo derideva. Questo suo amore fatale fu descritto dal poeta nella romanza Se avessi saputo…(1880). Per Maria, Kozlov si batté in duello con un “odiato rivale”, e restò ferito al petto. Non si riuscì a estrarre la pallottola e ciò costituì la causa indiretta della sua morte prematura nel 1891, all’età di 50 anni.

 

Se avessi saputo…

(parole e musica di Pavel Alekseevič Kozlov)

 

Se avessi saputo, invano la mia forza vitale,

Invano io la giovinezza non avrei perduto…

Il tuo amore è la mia pietra tombale

E ora io perisco…Se avessi saputo!..

 

Tu giuravi, ed io ho smesso di sognare,

Tu piangevi e al pianto non ho più creduto,

Tu pregavi e io ho smesso di pregare;

Se avessi saputo!.. Se avessi saputo!..

 

Buio nella mente; nel petto una pena muta,

Io l’oblio per sempre ho perduto,

L’oblio non c’è! La mia strada è compiuta,

E solo sussurrerò: “Se avessi saputo…”.

 

1880

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

Guardando un raggio del rosso tramonto

(musica: Andrej Oppel’, testo: Pavel Kozlov)

 

Guardando un raggio del rosso tramonto,

Noi stavamo sulla riva della Nevà.

Mi stringevate la mano; è fuggito senza ritorno

Quel dolce istante, voi lo avete scordato già.

 

Fino alla tomba giuraste di amare il poeta;

Temendo la gente e chi mormorava,

Voi avete tradito la promessa data,

E il vostro amore per sempre si allontanava.

 

Ma la morte è vicina, vicina è la mia fine;

Quando morirò, nel quieto fruscio del prato

La mia voce risonerà e vi dirà infelice:

Egli di voi viveva e lo avete dimenticato.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

3 poesie inserite nell’album di Ol’ga Kozlova tradotte da Paolo Statuti

 

Sully Prudhomme

 

Il vaso rotto

Il vaso dov’è morta questa verbena

Per un colpo di ventaglio s’è incrinato;

Il colpo l’ha scalfito appena,

E nessun suono lo ha rivelato.

 

Ma il taglio pur se poco inciso,

Mordendo il cristallo ogni giorno,

Con moto invisibile e deciso

L’ha percorso tutto intorno.

 

La sua fresca acqua è colata via,

Il succhio dei fiori è interrotto;

Nessun dubbio ha più chicchessia,

Non toccarlo, perché è rotto.

 

Spesso anche la mano amata

Sfiorando il cuore lo ferisce;

Poi dal cuore la ferita è ampliata,

Il fiore del suo amore perisce;

 

Sempre intatto agli occhi del mondo,

Sente crescere e piangere a dirotto

La sua ferita sottile e profonda:

Non toccarlo, perché è rotto.

 

Nikolaj Alekseevič Nekrasov

 

Ieri alle sei…

 

Ieri alle sei

Mi trovavo in piazza Sennaja; (1)

Là frustavano una donna con lo knut, (2)

Una giovane contadina sulla schiena.

 

Nessun suono dal suo petto usciva, (3)

Soltanto la frusta sibilava, letale…

E alla Musa io dissi: “Guarda!

La tua sorella carnale!”

 

1848 (?)

 

(1) Piazza del Mercato (del fieno) a Pietroburgo. Nekrasov scrisse questa poesia cercando tra i suoi ricordi, perché le esecuzioni pubbliche non erano mai eseguite in piazza Sennaja, ma in luoghi meno frequentati.

(2) Lo knut fu abolito dallo zar Nicola I nel 1845 e sostituito con il pleite, una frusta più piccola, con tre strisce che terminavano con palle di filo intrecciato. Lo knut era la frusta utilizzata nell’impero russo per flagellare i criminali e gli oppositori politici. Si componeva di un certo numero di corregge di cuoio intrecciate, all’estremità delle quali erano attaccati dei fili di ferro ritorto.

(3) Queste parole non sono un segno di sopportazione e di eroismo, ma di martirio.

 

Aleksej Nikolaevič Apuchtin

 

Al futuro lettore

 

Anche se il nostro verso è invecchiato, ascolta lo stesso

E sappi che dei cantori d’un tempo invano

Cercheresti il canto, il loro sguardo è spento,

La penna è caduta loro di mano!

Ma la morte qualcosa ha lasciato, tra i monumenti

La traccia perenne del passato si cela:

Le corde sono troncate, ma il suono ancora senti,

L’altare è già freddo, ma il fumo ancora si leva.

 

(Fine anni ’60 del secolo XIX)

 

Annotato nell’Album di Madame Ol’ga Kozlova con la data 25 gennaio 1875.

E’ interessante notare che in questa sua quartina del 1886 il poeta Semjon Jakovlevič Nadson si ispirò alla poesia di Apuchtin Al futuro lettore:

 

Semjon J. Nadson

 

*  *  *

Non ditemi «egli è morto». Egli non perisce!

Se l’altare è distrutto – il fuoco ancora arde,

Se la rosa è recisa – essa ancora fiorisce,

Se l’arpa è spezzata – l’accordo ancora piange!..

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

A sua volta Kosta Chetagurov (1859-1906), il più grande poeta dell’Ossezia in lingua osseta, nella sua lirica In memoria di P. I. Čajkovskij, che ho tradotto dal russo, ricordò la suddetta poesia di S.J. Nadson:

 

In memoria di P. I. Čajkovskij

Si è spezzata l’armoniosa incantevole lira,

Distrutto è l’altare e il fastoso santuario, –

Per sempre è volato via «l’usignolo» dal mondo

Verso cieli remoti, in un lido lontano…

 

E nel cuore un greve cordoglio s’è insinuato,

E nell’anima un freddo buio perfino, –

Un colpo prematuro, e così spietato,

Ricevuto improvviso e inatteso dal destino!

 

Capiremo ora di aver perso tanto,

Qualcuno verserà una lacrima ardente?

Nel futuro di un popolo io crederò soltanto

Quando un suo genio rimpiangerà amaramente.

 

Quando la sua profonda tristezza confesserà

E le parole del poeta gli torneranno:

«Se l’arpa è spezzata, – l’accordo ancora piangerà…

Non ditemi: egli è morto, – la sua morte è un inganno!»

 

1893

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti