Archivio | agosto, 2020

La folgorazione di Pasternak – La poesia “In ospedale”

22 Ago

     Il 20 ottobre del 1952 Pasternak ha uno svenimento. Sospettano un infarto e con l’ambulanza viene portato in ospedale. E’ messo in un corridoio per mancanza di posti. Egli si guarda intorno e pian piano si abitua al nuovo ambiente, all’infermità, alla corsia, ai camici, al pavimento. L’infermiera inconsciamente tradisce la gravità della situazione, ma il poeta non ha paura, il suo sguardo è pieno di gratitudine. Non si accomiata dalla natura, dalle cose, dalla gente, in quel momento egli loda Dio, non per i successi e gli insuccessi della sua vita, ma per il fatto che Lui esiste. Pasternak avverte un incomprensibile sostegno, la forza e il senso di ciò che è e che avviene. Prova la gioia di dimenticare se stesso e di accogliere la morte come un passaggio. “Le lacrime di commozione mi celano il tuo volto…” Il moribondo si affida interamente a Dio. La percezione della morte lo conduce a una rivelazione. È folgorato come Saulo sulla via di Damasco.

     Il 17 gennaio del 1953 egli scrive a Nina Tabidze: “Quando successe mi portarono all’ospedale e mi misero in un corridoio…Negli intervalli tra gli svenimenti e gli accessi di nausea e di vomito, mi sentivo prendere da una tale pace e beatitudine…Nell’istante che sembrava l’ultimo della mia vita, più che mai prima di allora volevo parlare con Dio, osannare ciò che è visibile, coglierlo e serbarlo”. Nel Dottor Živago troviamo scritto: “La morte non esiste. La morte non riguarda noi…non vi sarà morte, perché questo è già stato visto, è vecchio, ha stancato, è ora di qualcosa di nuovo e il nuovo è la vita eterna”.

     La poesia fu inserita nell’ultima raccolta di Pasternak Quando si rasserena, pubblicata a Parigi nel 1959. Ve la propongo nella mia traduzione.

In ospedale

Come davanti a una vetrina

Affolla la gente il marciapiede.

Nella macchina la barella è messa.

Alla guida l’infermiere si siede.

L’ambulanza, abilmente evitando

Veicoli, bighelloni, fanali,

Il caos notturno delle strade,

S’è tuffata nel buio coi fari.

Polizia, strade, facce dei passanti,

Tutto sotto i lampioni balenava.

Con la boccetta dell’ammoniaca

L’infermiera chinandosi vacillava.

Pioveva e nell’astanteria la gronda

Aveva un suono triste e vario,

Nel frattempo riga su riga

Scarabocchiavano il questionario.

L’hanno sistemato vicino all’entrata.

Non c’era altro posto in quel momento.

C’era puzzo di iodio tutt’intorno

E dalla strada infuriava il vento.

La finestra un po’ di giardino e di cielo

Mostrava in un quadrato.

Alla corsia, ai camici, al pavimento

Si abituava il nuovo arrivato.

Ma dalle domande dell’infermiera

Che scoteva la testa con compassione,

Egli capì subito che difficilmente

Sarebbe scampato alla situazione.

Poi con gratitudine guardò la finestra,

Dietro cui la parete mostrata

Era come una scintilla d’incendio

Dalla città tutta illuminata.

Là la barriera rosseggiava,

E nella luce della città un ontano

Mandava al malato di continuo

L’estremo saluto con un ramo.

“O Signore – pensava l’infermo –

I tuoi atti sono così perfetti,

La notte della morte e la città di notte,

Le pareti, la gente, i letti.

Ho preso una dose di sonnifero

E piango mordendo il fazzoletto.

O Dio, le lacrime di commozione

Mi celano il tuo volto benedetto.

Mi è dolce nella fioca luce

Che cade a stento sul mio cuscino,

Me stesso e la mia sorte riconoscere

Come un tuo dono divino.

Morendo in un letto d’ospedale,

Delle tue mani sento il calore.

Come tua creatura e come un anello

Nell’astuccio mi riponi, o Signore”.

1956

(C) by Paolo Statuti

Boris Pasternak a colloquio con Andrej Sinjavskij

21 Ago

Cosa disse Pasternak sulla poesia e sul romanzo – «Scrivere con i piedi»

     Mettendo un po’ di ordine tra le mie vecchie carte ho ritrovato questo interessante articolo dello scrittore, saggista e storico della letteratura Andrej Sinjavskij, tradotto dal russo da Sergio Rapetti. Esso è stato pubblicato sul “Corriere della sera” del 9 marzo 1980.

     Con Pasternak mi sono incontrato, seriamente e a lungo, una volta sola; trascorsi con lui, ponendogli domande e conversando, alcune ore, che però mi parvero un’intera giornata. Fu quando, verso la fine del 1957, Borìs Leonidovič mi invitò da lui a Peredelkino. L’occasione fu un mio saggio sulla sua poesia, inizialmente destinato alla Storia della letteratura sovietica in tre volumi che era in preparazione presso l’Istituto dove allora lavoravo. Dopo aver scritto il saggio mi erano nati dei dubbi: non sapevo fino a che punto ero riuscito a penetrare il mondo poetico di Pasternak, a coglierne la specificità. Avevo preso le mosse direttamente dai testi poetici e non sapevo in che misura li avevo correttamente intesi in rapporto a quella che era l’idea dell’autore. Studi critici seri non esistevano, mentre gli articoli rari ma incessanti che gli erano stati fin lì dedicati, erano più che analisi critiche, critiche tout court, intemerate o aperte vessazioni.

     Ma ecco che nella breve stagione di disgelo dopo il XX congresso, era balenata infine la possibilità di metter fuori su Pasternak un qualche lavoro più obiettivo e io mi ci ero buttato a corpo morto, anche se le chances di una pubblicazione restavano in realtà modeste. I miei dubbi ebbero comunque fine quando, senza avere ancora mostrato l’articolo ad alcuno, mi risolsi finalmente a inviarlo per posta allo stesso Pasternak. Con mia meraviglia, e con mia non piccola gioia, presto mi giunse la risposta di Borìs Leonidovič, assai lusinghiera per me, e con la lettera l’invito a essere suo ospite a Peredelkino.

     L’incontro con Pasternak, a parte l’aspetto umano e sentimentale, per cui resta nella mia vita con la forza di un evento, mi consentì di verificare alcuni miei pensieri e considerazioni sui suoi versi e di tentare un ulteriore chiarimento della sua figura poetica. Perciò qui tralascerò di descrivere i dettagli concreti, l’aspetto del poeta, e neanche parteciperò al lettore le mie impressioni, l’emozione legata a quell’incontro. Voglio invece concentrarmi sul contenuto di quelle affermazioni dello stesso Pasternak capaci di restituirci, come lui stesso lo vedeva, il suo cammino poetico.

     Lo interrogai sulla data di composizione della raccolta poetica Mia sorella la vita, come dovesse intendersi quella che si legge sul frontespizio, Estate 1917, se fosse cioè una data reale, di collocazione cronologica, o rivestisse invece un carattere convenzionale, di puro riferimento formale. Non proverò nemmeno a riprodurre, a imitare il discorso diretto di Borìs Leonidovič. Ma quando cominciò a parlare di Mia sorella la vita e di quando fu composta, l’esposizione stessa che ne fece, e che sarebbe più giusto chiamare effusione verbale, assunse a un tratto quella concitazione, quell’entusiasmo di cui è intriso il libro.

     Sembrò all’improvviso urgergli dentro la fretta di trasmettermi l’ineguagliabile stato d’animo e il modo nuovo di sentire le cose che s’era impadronito di lui allora, di trasmettere quell’acquazzone luminoso, per dirla con Marina Cvetaeva, che gli si rovesciò addosso nell’estate del 1917. E proprio per questo anche la datazione del libro era così cara a Pasternak, così significativa, essenziale: rappresentava il tempo e il luogo dell’incontro col prodigio che l’aveva visitato, che non dipendeva da lui, ma che gli era stato donato, versandosi su di lui dall’alto. Questo prodigio, questo fatto capitale della sua vita, forse unico per intensità e per vastità d’ispirazione, Pasternak quel giorno lo espresse, meglio e più intimamente di ogni altro discorso, con un solo verso della sua poesia I rondoni, che ripeté, inebriandosene, alcune volte:

     Non hanno forza i rondoni serali…

     Per cosa non abbiano forza ha già meno importanza. L’importante è che non v’è forza che regga a questo impeto dell’anima e della lingua.

     Evidentemente la poesia I rondoni,con la sua alata ricercatezza e con quanto sentiva vibrare dietro gli aerei versi, lo coinvolgeva. «Le dirò di più» continuava Pasternak, insistendo sulla eccezionalità del momento vissuto nell’estate del 1917. «Molte cose già scritte allora non le volli includere in Mia sorella la vita. Volevo che il libro riuscisse leggero…».

     Quel «leggero» risonò come un prolungamento di quella aerea levità che aveva appena rigoduto con i suoi Rondoni. E poi soggiunse che allora, sommerso com’era da quella abbondanza poetica, aveva fatto di tutto perché non ne risultasse sovraccarico il libro Mia sorella la vita, e molto aveva tolto, messo da parte e raccolto poi nel libro Temi e variazioni. In tal modo questo libro era per l’autore come un insieme di residui, di ritagli di Mia sorella la vita, che non vi avevano trovato posto, che erano stati eliminati per la maggiore levità e compattezza di quell’unico libro.

     Come mi parve allora, l’ardore giovanile con il quale Pasternak parlava di Mia sorella la vita, contraddiceva le sue ripetute affermazioni, rese per iscritto e a voce, secondo le quali egli non amava i propri versi anteriori al 1940 ed era pronto a separarsene. Invece, malgrado tutti i mutamenti e rivalutazioni, il libro Mia sorella la vita e tutto quanto vi era connesso per qualche misterioso motivo interiore continuava a mantenere per lui, come mi convinsi da ciò che mi aveva appena detto, un significato altissimo e cruciale.

     E al tempo stesso era manifesta in lui anche l’esigenza, insopprimibile e organica, di rinnegare il proprio passato. Così, nel corso della conversazione, Pasternak si pronunciò in termini piuttosto scettici sulla propria poesia e in generale sulle possibilità della poesia, nel dato momento e negli anni successivi. Sembrava ritenere ormai non molto importante né necessario, almeno per sé, lo scrivere poesie, ne parlava come di un’occupazione che non poteva veramente influire né sul suo personale sviluppo, né sull’atmosfera dell’epoca. Ammetteva, è vero, qualche eccezione, alcune delle poesie più recenti che io, obiettando su quanto andava dicendo, gli ricordavo. Ad esempio accettò di riconoscere l’eccezionale importanza della poesia In ospedale. Ma in generale si sentiva che la poesia era per lui una tappa ormai superata.

     D’accordo, replicava, potrei scrivere ancora qualche strofa – forse anche di buona poesia: e allora? Da tutto questo si capiva che Pasternak si  trovava in quei giorni, sul crinale tra il 1957 e il 1958, sotto l’incanto e il potere del romanzo da poco ultimato e inviato all’estero, romanzo che lui considerava, oltre che il coronamento dell’intera sua vita, un’opera attuale e proiettata nel futuro. Per il romanzo vedeva le prospettive che non riconosceva più alla poesia. Ma questo passaggio dai versi alla prosa lo reputava conseguente non solo da un punto di vista stilistico e propriamente letterario. In un certo senso per lui significava uscire addirittura dai limiti della letteratura e, soprattutto, superare gli stereotipi mentali fin lì operanti. Come per rigettare nel passato, sia la propria che ogni altra poesia, disse addirittura che era forse ormai venuto il tempo di scrivere «non con la penna ma con i piedi». Cercando di capire meglio, gli chiesi: «Con la vita? Scrivere con la vita?» Acconsentì a malincuore: «Sì, con la vita! Con i piedi!»

     E si capiva benissimo quanto gli andasse più a genio – invece dell’astratto e impersonale «scrivere con la vita» – quell’altra definizione, ben altrimenti concreta e insieme espressiva, caricata, metaforica…

     Dal tempo attuale, proiettato nella seconda metà del secolo dalla morte e  dal postumo crollo di Stalin, Pasternak si aspettava molto e guardava al futuro con ottimismo. E si rallegrava sinceramente d’ogni più esile indizio di nuovi tempi, di un nuovo clima nella vita intellettuale in Russia. Si rallegrò ad esempio del racconto di Jashin Le leve che era stato da poco pubblicato, opera in sé abbastanza mediocre, ma interessante come testimonianza dell’avvento di un nuovo tepore, di un disgelo in cui era già possibile riconsiderare i valori acquisiti. Pasternak riteneva che cambiamenti radicali nelle coscienze e nella società fossero ipotizzabili solo per il futuro, ma era altresì convinto che il processo, irreversibile e globale, capace di produrli fosse già in atto. La primissima cosa, in questo processo, gli sembrava l’affrancamento dalle forme dell’ideologia, cioè, in primo luogo neppure dall’ideologia vera e propria, quanto dalla sua ristrettezza.

     L’ineluttabilità di un mutamento era, per Pasternak, imposta da una semplicissima, ancorché forse infantile logica, che ognuno è in grado di comprendere: «Per quanto tempo si possono continuare a ripetere sempre le stesse cose? Davvero, per quanto? È insopportabile! Non se ne può più!» Secondo questa logica la legge che sussiste solo nella sua (morta) lettera deve cedere il campo già per il semplice fatto che è morta, inconsistente per gli stessi legislatori e governanti, o anche per il fatto solo che l’anima dell’uomo non regge gli infiniti, insensati scongiuri ideologici cui è ridotta. Ma il suo ottimismo storico, per cui faceva assegnamento sui tempi lunghi e un lento ma costante processo, non impediva a Pasternak di valutare con grande lucidità anche l’oggi, a cominciare da quanto poteva riguardare la sua peculiare situazione nella letteratura sovietica. Così, ad esempio, nel corso del nostro incontro si disse assolutamente certo (e i fatti gli dettero ragione) che il mio saggio su di lui , così come l’avevo scritto, non poteva essere pubblicato: non l’avrebbero permesso…

     Si sentiva che Pasternak già viveva in attesa della tempesta, e forse del castigo, per il romanzo Il dottor Živago. Benché a quel tempo fosse già apparso in Occidente, ufficialmente da noi non se ne parlava, si faceva finta di nulla. E già prima del Nobel a Pasternak tutta la stampa sovietica avrebbe fatto finta di nulla, concordemente. Ma dietro le quinte qualcosa già si muoveva. Due dignitari della direzione politico-letteraria (o forse due illustri ospiti di una democrazia popolare, non ricordo) si lagnarono con Pasternak del fatto che il suo romanzo suscitasse un inutile chiasso in Occidente e dissero che l’autore avrebbe dovuto in qualche modo prenderne le distanze, perché il chiasso cessasse o qualcosa del genere. Al che Pasternak aveva risposto: «Voi stessi siete maestri in queste cose! Di che avete paura?» e aveva lasciato alla stampa orientale di fare, senza di lui, tutto il chiasso che volesse per contrastare il chiasso dell’Occidente.

     Ma parlando del romanzo, l’allarme e l’inquietudine erano piuttosto sovrastate in Pasternak dall’interiore entusiasmo che gli dava la consapevolezza d’aver assolto al compito e realizzato il progetto di tutta la sua vita. Mi raccontò ridendo (ma d’un riso venato d’afflizione e, come mi parve, di una certa autoironia) di aver ricevuto qualche giorno prima da una sua conoscente straniera una lettera che gli aveva procurato una grande gioia. Nella lettera si diceva che lui stesso non poteva immaginarsi tutta la grandezza dell’impresa compiuta con il romanzo, impresa che sarebbe stata comunque portata a termine anche senza i suoi sforzi (si alludeva allo straordinario successo del romanzo in Occidente), sì che Pasternak poteva anche riposare e morire contento…

     Indubbiamente Pasternak era consapevole della grande forza morale e di convinzione, della forza trasfigurante che Il dottor Živago aveva potentemente immesso nell’atmosfera stessa dell’epoca. E nel contempo in tutta la sua figura di letterato, nel volto creativo di Pasternak, in ciò che diceva e come lo diceva, non v’era alcunché di moraleggiante. Quando alle sue domande sul Dottor Živago, che avevo appena letto, mi permisi di osservare che oltre che un romanzo, poteva essere considerato, in rapporto ai massimi problemi, come una sorta di trattato filosofico, lui, chiaramente respingendo già il solo accenno al genere del trattato, disse che la forma da lui prescelta del romanzo l’aveva attratto proprio perché gli avrebbe consentito di esprimere le proprie idee senza renderle obbligatorie e fastidiose.

     Del resto quando si trattava delle idee e opinioni che più gli stavano a cuore, pur continuando a contare sul loro accoglimento e sulla loro capacità di influire a livello ideale, egli cercava di conservare quella libertà e discrezione che, sia nel lettore che in qualsiasi uomo, sembrano sollecitare in qualche modo una corrispondente libertà, larghezza e tolleranza di idee. In generale Pasternak, se così ci si può esprimere, non teneva esageratamente alla forma. Neanche alla forma delle sue stesse proposizioni. Perciò anche la conversazione con lui non ebbe il carattere di botta e risposta, né fu in nessun momento l’esposizione (e l’ascolto) di un programma ben definito, o d’uno schema rigidamente difeso, ma assunse il tono d’una riflessione,  fluente e viva, a voce alta.

     In Pasternak la libertà della forma diventava particolarmente evidente e cosciente quando affrontava determinati problemi. Così, ad esempio, accennando alle circostanze che avrebbero potuto favorire in un non lontano futuro un risveglio di forze religiose e spirituali in Russia, egli disse che a questo proposito la cosa più importante non era discutere di questioni e connotati formali, ma cercare e trovare una comprensione reciproca più vasta e comune. Rise parecchio quando gli raccontai di un mio conoscente di Mosca, estimatore e grande esperto della poesia di  Pasternak, liberale di stampo occidentale, che vedeva nelle poesie del Dottor Živago solo delle ben riuscite stilizzazioni letterarie, e non poteva assolutamente ammettere che un poeta come Pasternak, un ingegno così sottile e colto, credesse davvero in Dio, come una stupida vecchia. Per lui, per il mio conoscente, che Dio non esistesse era un assioma, pacifico fin dall’infanzia per ogni uomo del nostro tempo. «Ma questo Dio, davvero ha la barba?» chiedeva quel mio conoscente, inorridendo all’idea che Pasternak, proprio Pasternak, potesse davvero pensare e scrivere di Dio, di Cristo.

     «Passerà! Passerà!» mi ripeteva ridendo Pasternak come se si fosse trattato di qualche assurda malattia infantile.

     E cominciò a parlare di Cristo, che viene a noi da laggiù, dal profondo della storia, come se quelle lontananze fossero il giorno che viviamo, e insieme al giorno si facessero trasparenti e declinassero nella sera, congiungendosi a un domani senza fine. Nelle parole di Pasternak, come mi parve, non v’era neppure l’ombra di un’aspettativa apocalittica. Cristo veniva oggi perché la nuova storia tutta iniziava da Cristo e dal Vangelo, compresa la nostra giornata e Cristo era di questa giornata la realtà più naturale e familiare.

     Per Pasternak non esistevano separazioni tra i secoli, i popoli, le chiese. Anche a questo riguardo pensava e vedeva come «oltre le barriere»; la storia con il suo passato, il suo presente e il suo futuro era come un campo, un unico campo, uno spazio che s’apriva ininterrotto allo sguardo. Guardando dalla finestra i campi e i declivi innevati, Pasternak parlava di Cristo che viene a noi da laggiù, e parlava senza affettazione, né enfasi, senza pompa alcuna, ma con semplicità quotidiana, come se «là» e «laggiù» fossero stati orti contigui e la teoria dei campi biancheggianti che s’allargavano attorno.

    Ed era la sua, come mi parve, proprio quella spiritualità – quella libertà – per la quale la morte stessa sembra diventare nient’altro che una forma vuota, una vecchia forma alla quale non vale la pena d’afferrarsi più di tanto.

Hana Hegerova

12 Ago

Ricordo che negli anni ’70 mi deliziavo ad ascoltare i dischi della cantante ceca di origine slovacca Hana Hegerova, nata a Bratislava il 20 ottobre 1931. Ho ritrovato tra le mie carte due suoi successi del 1973 nella mia traduzione. Voglio proporli anzitutto come esempi di vera poesia cantata. Erano gli anni in cui si esibivano tra gli altri Ewa Demarczyk in Polonia e Vladimir Vysotski nell’Unione Sovietica con testi di pura poesia.

D. Dobiáš – P. Kopta

Così va il mondo

Staseraaccompagnami

Non andare ancora a dormire

Qualcuno può urlare al buio

Mani in alto Fermo là

Se sarò aggredita

Sbiancherò come un cencio

Non sono che una debole donna

E non so lottare

Sì  sì  sì

Sì così va il mondo

Se vado in treno o in nave

Ma soprattutto se vado a piedi

Mi viene in mente

Che l’uomo non deve restare solo

Ho udito cantare da lontano

Un coro funebre

E ho visto bare vuote

Nere come il carbone

Dunque resta un po’ con me

Finché farà di nuovo giorno

Fuori il vento geme

Non c’è orrore più grande

Sì  sì  si

Sì così va il mondo

Che la paura della paura crea il terrore

E per questo quando temo

Mi viene in mente

Che l’uomo non deve restare solo

Se ami le comodità

Va pure a dormire

Io non sono una che prega

Quando comincia a temere

Se comincerò a scoraggiarmi

Forse sbiancherò un poco

Ma poi toglierò l’ancora

E scoppierò a ridere

Sì  sì  sì

Sì così va il mondo

Che l’uomo somiglia a una nave

Ormai so che dopo la bonaccia

Il vento riprende a soffiare

La nave può salpare

Sì così va il mondo

Che la paura è un guinzaglio

Solo per chi teme

Di restare solo anche un istante

Io credetemi me ne intendo

Io credetemi me ne intendo

Io credetemi me ne intendo

P. Hapka – Z. Rytíř

Pensione di  periferia

Là dove il tram non arriva

dietro l’ultimo muro bianco

e più avanti ancora

dove gli amanti non vanno

dove la rosa non sboccia

dove lo smoking non serve

là c’era là c’era

la pensione di periferia

come felicità nell’infelicità

io la conosco

è l’estremo rifugio

per qualche anno o giorno

se sei solo da morire

tante porte tante maniglie

e dietro ciascuna una stanzetta

come palmo come il mio palmo

tante finestre tanti vetri

ognuno pagava senza pensarci

il suo tributo sì il suo tributo

dovunque guardo

tanta gente tanti sogni

oh conoscerli conoscerli

quando la pensione di periferia

casa di cattiva fama

andava a dormire andava a dormire

Chi aveva per dimora un castello

con la vista sui giardini

come un gran signore

non poteva capire

come il destino ti afferra

e ti prende a calci

e la pensione di periferia

ti mette sulla strada

è tutto qui

campi colmi di erbacce

strade che conducono

solo al freddo e alla pioggia

e in mezzo ai campi fino alle nubi

come torre del faro

era proprio là

la pensione di periferia

piena di teneri vizi

da un pezzo il tempo

e il vento l’hanno spazzata via

Pensione oh pensione

solo tu conosci il fuoco dell’amore

con il buio dei cantucci inviti a entrare

il portiere finge di dormire

La mattina con aria di congedo

nulla di nulla è cambiato

solo un paio di parole smarrite

avvampano come alcol che brucia

mi scendono e nascondo

due lacrime…addio

Aggiungo questa tradotta oggi (13 agosto 2020):

P. Žák – Guy Bontempelli

Mio Dio, voglio tornare

Il vecchio autobus si ferma a richiesta,

Io scendo dov’è il primo tetto del villaggio.

Nelle case profumo di bosco, il campanile pende,

Un cavalluccio tira un pesante carro.

Il sole ai margini e dappertutto l’erica,

E adesso l’anima soffre e sul cuore un peso.

Questa è la mia terra e la mia infanzia,

Questa è la mia terra e la mia casa.

Vivevo di sogni e ho conosciuto il mondo,

Sono passati molti giorni, molti anni,

Il vento ha spazzato tutto, resta il desiderio,

Mio Dio, voglio tornare,

Mio Dio voglio tornare.

Da monti, rocce, da mondi pieni di tempeste,

Giungo a un sentiero infestato da erbacce.

Con la piccola anima guardo

Se esce il fumo dalla nostra casa

E non so se posso.

Non so se posso avere questo come un tempo,

Io so, io so che la vita non ha aspettato,

Che la porta a me cara, dopo anni, sarà difficile

Sarà difficile aprire con la vecchia chiave.

Vivevo di sogni e ho conosciuto il mondo,

Dove dieci vuoti giorni sono mille vani anni,

Se il vento ha spazzato tutto, resta il desiderio,

Mio Dio , voglio tornare,

Mio Dio voglio tornare.

(C) by Paolo Statuti

Władysław Sebyła

9 Ago

    

Poeta, critico letterario, patriota, sottotenente di fanteria dell’Esercito Polacco. Nacque il 6 febbraio 1902 a Kłobuck, nei pressi di Częstochowa. A tre anni perse la madre e nel 1910 la famiglia con la matrigna, che egli non amava, si trasferì a Zagłębie Dąbrowskie, dove suo padre era stato assunto come insegnante. Cominciò a scrivere versi all’età di 8 anni e fin dall’infanzia rivelò uno spiccato talento rinascimentale per le arti: sonava il violino e il pianoforte, dipingeva soprattutto paesaggi e ritratti e componeva anche. A volte sorprendeva gli amici appassionati come lui di musica, sonando al violino composizioni per pianoforte, in particolare di Chopin.

     Terminò la scuola elementare a Będzin e in seguito il ginnasio a Sosnowiec nel 1921. Prima ancora della maturità però, prese parte alla terza Insurrezione della Slesia, e per essere arruolato falsificò la data di nascita di due anni. Dal 1927 fece parte del gruppo letterario “Quadriga” e fino al 1931 fu redattore della rivista omonima.

     Debuttò nel 1927 col ciclo Preghiera, inserito nella raccolta Poesie, insieme con Aleksandr Maliszewski. Il critico e storico della letteratura Jan Józef Lipski lo giudicò un “debutto notevole e maturo…saturo di spirito francescano”.

     Nel 1928 si sposò con Sabina Maria Krawczyńska e un anno dopo nacque il suo primo e unico figlio Maciej. All’inizio degli anni ’30 ottenne una borsa di studio del Fondo di Cultura Nazionale, grazie alla quale visitò una parte dell’Italia e Parigi. Nel 1935 iniziò a lavorare alla Radio Polacca, come responsabile di un programma letterario. L’anno dopo di trasferì a Magdalenka, dove iniziò per il poeta un periodo tranquillo e felice, che tuttavia doveva durare soltanto 3 anni. Nel 1930 uscì la seconda sconvolgente raccolta Canti di un acchiapparatti, saturo di pietà per la sofferenza umana e d’impotente rivolta. Nella terza raccolta Concerto egotico (1934) appare il suo interesse per la poesia metafisica. Essa e la successiva Immagini del pensiero (1938) proseguono l’indirizzo iniziato da Sebyła nel suo primo libro. Ognuna di queste opere rappresentò un evento letterario. Nello stesso 1938 il poeta fu insignito del Lauro d’oro dell’Accademia Polacca delle Lettere. Fu il più serio rivale di Gałczyński e Czechowicz al tempo dello Skamander, ed esercitò una indubbia influenza sui poeti delle generazioni successive: Miłosz, Baczyński, Borowski. Gaicy e altri.

     Oltre alla sua religiosità, i critici richiamano l’attenzione sul suo amore per Norwid, nonché  sulla sua tendenza alla semplicità formale e alla sua comunicativa. Inoltre non sono estranei alla lirica di Sebyła stati d’animo pacifisti, simbolisti e catastrofici.

     Nell’estate del 1939 il sottotenente Sebyła fu chiamato alle armi. Dopo l’invasione della Polonia da parte dell’URSS il 17 settembre di quell’anno, fu fatto prigioniero dai sovietici e trattenuto nel campo di Starobielsk. Gli ultimi giorni di vita del poeta sono rimasti a lungo segreti. Si diceva però che fosse morto a Katyń. Questa versione fu avvalorata da Miłosz nel suo Trattato poetico (1957):

L’ultima poesia (1) dell’epoca era in stampa.

E il suo autore, Władysław Sebyła,

Amava di sera prendere dall’armadio il violino,

Mettendo la custodia vicino ai libri di Norwid.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

In questa poesia, come testamento,

A Światowit (2) paragonava la patria.

Si avvicina l’alba e il rullo dei tamburi

Dalle pianure dell’est e dell’ovest,

Ed essa sogna il ronzio delle sue api,

I pomeriggi nei giardini delle Esperidi.

Per questo, Sebyła, ti sparano alla nuca

E ti seppelliscono nel bosco di Smoleńsk?

(1) Vedi l’ultima poesia da me tradotta datata 1939.

(2) Divinità degli Slavi polabiani.

     Soltanto nel 1990 il governo sovietico ammise che la responsabilità del massacro di Katyń spettava alla polizia politica sovietica (NKVD) – uno dei maggiori crimini dello stalinismo, in cui furono uccisi migliaia di ufficiali polacchi, tra i quali il sottotenente Władysław Sebyła nel maggio del 1940.

Poesie di Władysław Sebyła tradotte da Paolo Statuti

I poeti

Le sere nei dorati caffè, nel fumo azzurro del tabacco,

Chiacchierano sonnolenti i poeti ingannati, inutili a tutti.

Ingannati dalle quattro stagioni e dalle giovani foglie,

Ingannati dalle aurore, dall’oro delle livide onde al tramonto.

Ingannati dalle bufere di neve e dal fragore dei venti,

Dalla sofferenza, dalla pietà, dalla morte, dall’amore e da Dio!

Hanno ingannato: il ferro e il cemento e il rombo degli aerei,

I bulloni delle navi che fendono l’acqua e le rotazioni stellari.

Hanno ingannato: i loro cuori, la tristezza fugace e la gioia,

La rabbia come fiume in piena e il sangue che sgorga dalla gola.

Li hanno ingannati gli assalti e l’acqua putrida delle trincee,

Il ghigno dei proiettili, i cadaveri di uomini giovani e sani,

I preti e i capi, gli operai, i mendicanti e gli scienziati,

Le ali delle rondini e i raduni dei passeri in autunno.

Gli erranti impietriti dal gelo hanno imbiancato a loro gli occhi,

Il sole dei tropici ha forato gli occhi vuoti con chiodi dorati.

Adesso vanno di giorno come spie sulle strade asfaltate

E leggono subdoli pensieri negli occhi dei fratelli incontrati.

Leggono la falsa tristezza, la felicità inutile, irragionevole.

La sorda pietà piega loro i colli, la rabbia repressa stringe i pugni.

Come antenne solitarie sentono frusciare il cielo e piangere le nubi,

Sentono l’urlo delle sirene, il getto della calce sul fresco muro rosso.

Ascoltano milioni di formiche che frugano nell’erba bassa del bosco,

Il sole mai stanco che lancia come granate i suoi raggi sul selciato.

Il verde Atlantico che si agita, il bosco che ulula piegato dal vento,

Il gas invisibile che fugge nelle gallerie della miniera “Kleofas”.

Sussurrano orribili bestemmie e preghiere quiete come uno stagno,

Ardenti come fuoco che si propaga, frementi come mare di erba.

Sussurrano il canto dell’ovest e il canto della segala matura,

Il canto dei ghiacci infranti nella Vistola e del melo che sfiorisce.

Sanno che non giungeranno in cielo le parole intrecciate di canapa,

Che scorre senza sosta il fiume che in silenzio tutto sommergerà.

Che l’eternità inghiottirà le loro parole e le loro dolci preghiere,

E bestemmie e maledizioni grideranno le stelle con la loro luce viola.

Le sere nei dorati caffè, ridendo con il riso solare dei bambini,

Siedono nei densi fumi del tabacco – i poeti ingannati.

Solo una volta i cespugli…

Solo una volta i cespugli stanno nella bianca neve dei fiori.

Gli occhi sono viole,

E il vento accarezza e profuma di capelli,

Soffia con tepore primaverile da mondi lontani.

Allora le tempeste sono la felicità e le parole la musica,

E il sorriso è il cielo azzurro.

E le stelle verdi sono gli occhi,

Le partenze le più grandi tristezze,

E il dolore dei sogni irrealizzati – il pane quotidiano.

E allora non hai la forza che resista

Alla notte,

Ai trilli che escono dalla gola dell’usignolo

E al silenzio delle labbra profumate.

Perché gli occhi sono viole – e cielo,

E il vento odora di capelli asciutti.

E al soffio di lontani mondi brillanti

I verdi cespugli stanno nella bianca neve dei fiori.

La morte del flauto

Ormai è l’ultimo ronzio, il flauto agonizza.

È mancato il sangue e lo stimolo del cuore.

In silenzio gocciola il sangue dalla ferita aperta

E ronza il ronzio più lieve nei toni più acuti.

Il vento dall’ovest culla il vuoto salice.

Ruota il cielo schiacciato da una mola di mulino.

Non hanno più da bere le verdi bocche.

Ormai è l’ultimo ronzio, il flauto agonizza.

Confessione di un acchiapparatti

O prete! Smettila di spaventarmi col tuo tremendo dio,

Che siede su un trono di stelle e damasco.

Smettila di sibilare come una serpe. Smettila di parlarmi.

Non sento. – Sono assordito nel silenzio.

Non vedo. Mi hanno accecato le fiammelle dei ceri.

E non credere ai miei peccati. Io mento così dolcemente.

So inventare peccati che odorano di fiori,

Peccati che odorano di vento e bagnati di pioggia,

Peccati fruscianti come foglie.

Non spaventarmi col dio che siede a un tavolo verde

E perfora il mondo con cattivo sguardo di giudice.

Io ho il mio dio, che è una nuvola,

Un albero con robuste radici, primaverile, alto,

Una goccia di olio dorato che brucia nel motore,

È la burrasca che ulula sul mare agitato,

È la ronzante mosca al sole, l’umido burrone,

È la nuova parola da me coniata.

Non voglio il tuo cielo che deve sfogliarsi

Come pagina di un libro, stampata dalle stelle,

Per scoprirci ai deserti e agli abissi.

E affinché nell’ultimo giorno il tuo dio possa pendere su di noi.

Il mio cielo è un altro. Celeste e blu.

Di giorno col sole, di notte mi avvolge la testa.

È misterioso e tremendo.

In esso le comete immergono le criniere ramate,

Quando per abbeverarsi al sole vengono

Ogni tanto dal lontano bosco mugghiante.

Il mio cielo è profondo…pro-fon-do…

Prova, o prete, a penetrarlo col tuo occhio grigio

Fino in fondo… fino in fondo…

Non voglio il tuo cielo, dove risuonano i sacri canti.

Il mio cielo è gelido come vetro,

Freddo come il ghiaccio d’inverno.

Ma in esso sognano le chiocciole delle contorte nebulose,

Guizzano le stelle dorate come pesci nello stagno,

Si gonfia in esso il tempo perenne come cosmica alluvione,

Scorrono mondi sull’acqua, come agili barche.

Il mio cielo è profondo, profondo…

Prova, o prete, a penetrarlo col tuo occhio grigio

Fino in fondo… fino in fondo…

Cosa vale il tuo cielo? In esso non ci saranno

Le oche selvatiche e i cigni che volano in formazione.

Agli alberi pelosi in esso non è permesso crescere,

Arrossarsi in autunno, rinverdire a primavera.

Non vi cresce il pino, l’abete, il ginepro.

Non entra la luna nei branchi di nubi come tra le pecore.

Non ci sono in cielo cani che abbaiano allegramente,

Né cavalli, né buoi, né mucche…

O prete, il tuo non è un cielo. Perché io ci entri,

Dovresti prima moltiplicare in esso l’arca di Noè.

Io sono un acchiapparatti, suono dolcemente il flauto,

Cammino, sonnambulo del cielo, nell’immenso mondo.

Non spaventarmi, o prete, col cielo, col giudizio, con la tempesta!

Perché ti sonerò al flauto la ninnananna del ratto.

E mi verrai dietro, e andrai sempre dritto…

E io ti avvolgerò, immergerò, annegherò…

Nel mio cielo dorato.

Gli scienziati

La materia non ha pietà e noi non conosciamo la pietà,

Siamo indifferenti, retti come una linea retta.

Penetriamo nel mistero, fissi nelle illusioni come talpe,

Domani raggiungeremo le stelle e la meta più distante.

Con vitreo freddo valutiamo le forze che ci afferrano:

La spaventosa eternità e l’impassibile nulla.

Conosciamo le correnti cosmiche e metteremo il collare

Alla terra tremolante, alla bufera e al mare.

Incateniamo la terra col ferro e col cemento ad essa presi,

Misuriamo l’invisibile, il visibile e lo sconfinato.

Conosciamo l’energia di un tendine teso dal tormento,

Non sappiamo solo chi con la mano bianca toccherà il cuore.

Non sappiamo solo se la verità, come bufera distruttrice,

Non ci spazzerà con l’improvviso moto delle onde gonfie.

E se a quelli piegati sulla fonte, di cui è avida la ragione,

Davanti alla chiarezza non mancherà l’umano piccolo cuore.

Da: I notturni

8

Si abbatte la notte come livida pietra

Sui logori tetti dei casolari.

Attraverso gli spazi di acque oscurate

Ha sibilato una sferza di luce.

Gremire di che? di quali sogni

La costrizione del vuoto insonne?

Dietro le fumanti strisce di terra

Gli spettri di betulle solitarie.

Il vento stellare del nord culla,

I nastri di false strade

Scorrono nel buio – e ruggisce col silenzio

Un qualche enorme dio.

Intorno l’insaziabile nerezza

Delle acque notturne gonfiate.

Riparati! scappa! io ti riparerò

Col timore delle cosce onnipotenti.

O cuore del mio cuore!

O cuore del mio cuore! O sorgiva pulsante di sangue!

S’è disperso sugli abissi il tuo riso spensierato.

Come stelle smeraldo di notte i tuoi occhi brillano.

Sulla fonte prosciugata io verso ogni notte lacrime infantili.

Ogni sera il cuore mi canta l’eterna canzone del sangue,

Ogni sera il sonno posa sul folle cuore la pesante mano.

Pazzi sogni! perché ogni notte apparite, per rammentare?

Perché ogni notte sulla testa smarrita l’arco dell’iride si tende?

Perché ogni notte mi irrita le narici l’umido odore dei fiori?

E nei castagni la pioggia fruscia sui diti delle foglie?

Nel silenzio, nel buio stellare, la maestà delle acque si riversa…

Nel giardino di rose scroscia l’acquazzone primaverile…

Perché ogni notte ti risvegli giovane, o irripetibile primavera?

Eppure i boccioli non si aprono più e gli alberi non crescono più.

So soltanto che ci sono i tuoi sorrisi e gli occhi di fanciulla.

O cuore del mio cuore! Di nuovo una primavera persa! O sorgiva

Pulsante di sangue!

Quattro poeti

Una notte quietata dalle stelle e dall’oscurità

I poeti parlavano della loro alta vocazione.

– Io cerco la fama, voglio essere capito dalla folla –

Diceva uno – che mi risponda mormorando come il mare,

Che rida e pianga con me, sussurrava: “Oh che maestro!

Le parole estrae dal buio come uccelli!”

Del resto la poesia non è una cosa così elevata:

Abilità, scelta delle parole e gusto! L’arte è un mestiere.

Esecuzione eccellente… – e il prezzo alto.

L’arte è valore. Non si può vivere nelle nuvole. –

Il secondo dice: – Per me il mondo intero è poesia.

Dire che manca un tema? – È un’eresia!

Sono sensibile a tutto e piango su tutto, mi commuovo.

La mancanza di contenuto affligge gli imbrattacarte.

Posso scrivere di tutto in modo bello, elevato, adeguato:

Fiore o non fiore, tavolo o sedia, spilla, bottone, pantaloni.

Sono sensibile ad ogni onda come antenna;

Da qui scorre la mia vena poetica.

E mi sento come un angelo che cammina sulla terra.

Per la verità sono poco letto: i posteri mi premieranno.

– Per me invece l’ispirazione, la tenerezza è terreno paludoso.

Io voglio cambiare tutto, perciò studio i nessi delle parole.

Come nascono, quali leggi li governano.

Quelli che scrivono in modo semplice si smarriscono.

Il linguaggio del poeta è una questione complessa.

Si deve parlare come non si è parlato mai in nessun luogo.

Cerco le forme del linguaggio, i suoni, i colori e i sapori.

Se la forma è pronta, il contenuto non può avere lacune.

Contenuto e forma sono un tutt’uno – così dice il terzo.

E il quarto a un tratto grida: – Oh, oh, cade una stella!

Comunicato

Cittadini!

Troppi ratti ci sono al mondo.

In pieno giorno escono dai letamai

E osano elevare il loro squittire

Alla dignità del grido umano.

Chiudere loro la bocca!

Ieri in piazza del Teatro hanno sgozzato un gallo.

(Tale è la loro insolenza)

Dappertutto ratti.

Hanno indossato le divise,

Le tonache e i frac,

E anche nella porpora qualcuno cammina.

Rosicchiano e distruggono tutto ciò che trovano.

Non servono le trappole, i trabocchetti.

Divorano l’erba nei prati come i buoi,

Lasciano mucchi di segatura dei boschi:

Presto il globo terrestre resterà nudo,

Come i sederini dei bimbi di due anni,

Le montagne più alte, che toccano il cielo,

Rosicchiano come filoni di pane.

I musi coperti di polvere di ferro

Immergono nei getti di nafta.

E se presi dalla sete,

Addio sorgenti, torrenti, ruscelli!

Tutto asciugheranno pian piano:

Berranno l’oceano amaro

E i mari verdi di tempesta,

Poi anche il fango delle pozzanghere.

E quando saranno asciutti mari, fiumi e torrenti,

Conficcheranno i piccoli incisivi nelle nuvole,

Immergeranno i denti nelle aurore

E dai musi baffuti

Nell’oceano e nel mare prosciugati,

Imbratteranno i fiori purpurei di sangue solare!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Io sono un acchiapparatti, suono dolcemente il flauto,

Cammino, sonnambulo del cielo, nell’immenso mondo,

Do la caccia ai ratti

E li annego.

Suono argentee ninnananne in sette toni di luce,

E i ratti ballano assonnati sulle lunghe code squamate,

Ascoltando incantati gli scrosci del flauto,

Chiacchierano squittendo,

Mi seguono – dondolandosi pian piano –

E uno alla volta affogano lentamente

Nel nero fertile terreno.

Nel mio cielo dorato.

*  *  *

Di nuovo il calpestio della soldatesca

e il fischio delle tonanti centurie cosacche,

lo stivale stellato sull’Europa

e brulica di turbe l’oriente.

E all’ovest il rombo dei tamburi,

il chiasso dei motori dal cielo

e il passo cadenzato – invoca le grazie

del dio di più forti battaglioni.

O patria mia, tu perduri

immersa nel ferreo frastuono,

lo sguardo cupo di Światowit

volgendo ai quattro lati ostili.

E tu sogni il pane e il miele

e case di vetro in fertili frutteti,

e il lavoro pieno di felicità,

un banchetto sotto i rami dei tigli.

E il cielo intorno si arrossa,

si è destata la spoglia col kontusz (1),

si fermano i saggi spaventati,

vedendo la tomba vuota.

E di nuovo? Di nuovo? L’argano della storia

ci prende in un cerchio di fuoco,

sono finiti i sogni dei carrai,

fruscia micaccioso il bosco di acciaio.

Le querce di ferro rimbombano sorde,

rotola il muro, la selva di ferro.

Sui rami con la bufera

di nuovo soffia il vento, di nuovo canta un coro.

O mio rosmarino…(2)

1939

(1) Sopravveste maschile dell’antica nobiltà polacca.

(2) Uno dei più noti canti patriottici della I guerra mondiale e della guerra polacco-bolscevica.

(C) by Paolo Statuti