Archivio | dicembre, 2019

Adam Mickiewicz

26 Dic

Romanticità

     Questa ballata di Mickiewicz che fa parte della raccolta del suo debutto Ballate e romanze, pubblicata nel 1822, ha carattere programmatico, rappresenta il manifesto della nuova sensibilità romantica, segna la nascita di una nuova epoca letteraria in Polonia. Protagonista è la giovane Karuscia che dice di vedere il suo amato Janek defunto. Si stringe a lui, lo prende per mano, lo accarezza. Questo suo comportamento suscita reazioni contrastanti nella società. La gente semplice crede che lei veda davvero il suo ragazzo morto e prega per la sua anima. Allo stesso modo pensa il poeta, volendo di conseguenza affermare che il vero amore, l’amore romantico dura perfino dopo la morte. A un tratto tra la folla appare il vecchio che nega la possibilità di comunicare coi defunti. Egli afferma che la fanciulla è pazza e dice cose insensate, e a sostegno della sua convizione ricorda i due attributi tipicamente illuministici – “mente e occhio” ed esorta quindi ad avere una visione razionale del mondo.

     Mickiewicz invece separa il mondo della ragione dal mondo della fede, del cuore, del sentimento. Contrappone le “verità vive” alle “verità morte”. Le prime permettono di penetrare nel mondo spirituale, di scoprire in esso la metafisica, i prodigi, mentre le seconde riguardano esclusivamente il mondo tangibile e quindi sono più povere, più limitate. Il poeta afferma che esistono due modi di vedere il mondo: con gli occhi dell’anima e con gli occhi del corpo. Confronta la mente con il cuore e lancia un appello tipicamente romantico: “Abbi cuore e guarda nel cuore!”

Ecco questa ballata nella mia traduzione:

Romanticità

                                 Methinks, I see… Where?

                                     – In my mind’s eyes.

                                      Mi  sembra di vedere… Dove?

                                      Negli occhi della mia mente.

                                      Shakespeare,  Amleto (atto I, scena 2)

Ascolta, fanciulla!

– Ma lei non sente. –

E’ giorno, sei tra la viva gente!

Nessuno spirito è con te,

Chi vuoi chiamare?

Chi vuoi accarezzare?

– Ma lei non sente. –

Come rupe morta

Lei non si volta,

Intorno gli occhi posa,

Di pianto riempiti,

Abbraccia qualcosa,

Tu ora piangi e ora ridi.

– “Tu qui di notte? Tu mio Janek!

La mia anima fedele ti sarà!

Qui, qui, facciamo piano,

O la matrigna ci sentirà!…

Ma che senta pure… che vale?

C’è stato già il tuo funerale!

Sei già morto? Ah, ho paura!…

Di che?… Sei al mio fianco!

Ah, è lui! Gli occhi di sicuro!

Il suo vestito bianco!

E anche tu bianco come un cencio,

Freddo… hai le mani gelate!

Riposa qui, sul mio seno,

Stringimi, bacia le labbra amate!…

Che freddo hai nella tomba!

Da due anni sei morto tu!

Prendimi, io morirò con te,

Il mondo non amo più.

Io soffro tra la gente:

Piango. e loro mi deridono;

Parlo, nessuno mi capisce,

Vedo, loro non vedono!

Vieni di giorno… Forse in sogno?

Con me è la tua dimora.

Perché scompari, mio caro Janek?

E’ presto ancora, è presto ancora!

O Dio! il gallo già canta,

L’aurora già brilla alla finestra.

Dove sei? Fermati, guarda

La mia anima affranta!” –

Così la fanciulla ama l’amante,

Gli corre dietro, grida, cade;

E al suo grido di dolore ,

Accorrono da ogni parte.

“Pregate! – grida qualcuno –

Qui la sua anima si aggira.

Janek è con la sua Karuscia,

Lui l’amava quand’era in vita!”

Anch’io lo sento e lo credo,

Piango e per loro prego.

“Ascolta, fanciulla, e voi persone! –

Grida un vecchio con voce forte:

“Credete al mio occhio e alla mia ragione,

Qui non vedo nessuna morte.

Spiriti dei racconti da osteria,

Creati nella fucina della stoltezza;

La fanciulla chiaramente vaneggia,

E al volgo la ragione è volata via”.

“La fanciulla sente – io rispondo –

E il volgo crede veramente:

Fede e sentimento mi dicono più

Della ragione e dell’occhio del sapiente.

Tu conosci le verità morte,

Vedi il mondo nello stellare bagliore;

Ma non conosci le verità vive, né i prodigi!

Abbi cuore e guarda nel cuore!

(C) by Paolo Statuti

Taras Shevchenko: Il sogno

22 Dic

    Dopo il 1843 Taras Shevchenko, avvilito dalle recensioni di una parte dei critici e dai problemi con la censura zarista, smise di stampare le sue opere. Decise quindi di raccoglierle in un album non destinato alla pubblicazione, ma ad essere letto solo dagli amici fidati. Denominò questo album Tre anni. In esso inserì componimenti lirici, poesie di contenuto socio-politico e il poema Il sogno, al quale diede il sottotitolo di Commedia, cioè farsa, terminato l’8 agosto 1844.

     Esso è una delle satire politiche più caustiche mai scritte. Nella prima parte il poeta descrive le condizioni in Ucraina. Nella seconda si sposta in Siberia, dove i carcerati lavorano duramente nelle miniere. Tra loro vede i rivoluzionari democratici Decabristi (il “re della libertà”). Poi la scena si svolge a San Pietroburgo. “La seconda al primo” è inciso  nel monumento che l’imperatrice Caterina II eresse accanto al fiume Nevà allo zar Pietro I. Shevchenko rammenta i Cosacchi e i servi della gleba che furono impiegati nella costruzione della città sulle paludi, dove molti perirono. Egli descrive le loro anime come uno stormo di bianchi uccelli che volteggia sullo zar. La voce che il poeta sente è quella dell’etmano Pavlo Polubotok, imprigionato da Pietro il Grande nella fortezza dei santi Pietro e Paolo, dove morì nel 1724.

     La prima volta il poema fu pubblicato a Lwów (Leopoli) nel 1865 e in Russia nel 1907. Non mi risulta che esistano altre traduzioni italiane oltre a questa mia.

Il sogno

             (Commedia)

Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce.

(Giovanni 14:17)

A ciascuno la sua sorte

e il suo cammino:

chi erige, chi demolisce,

chi avidamente

cerca a destra e a sinistra

e s’impadronisce

di terreni per portarli

con sé nella tomba.

Un altro a carte spoglia

di tutto l’amico,

e un altro affila il coltello

per un suo fratello.

Uno silenzioso e sobrio,

timorato di Dio,

furtivo come un gattino,

aspetta un tuo giorno

sfortunato e affonda

le sue grinfie nel fegato –

non s’impietosisce

neanche se piange un bambino!

Uno le chiese erige,

munifico, prodigo,

tanto ama la sua patria

e soffre per essa,

tanto le succhia il sangue,

come fosse acqua!..

E i conoscenti tacciono

come pecorelle,

stralunando le pupille!

«Così sia, – dicono, –

così dev’essere perché

Dio in cielo non c’è!

Sotto il giogo voi cadete

e il Paradiso

qui in terra volete?

Sappiate che non c’è!

Pregate invano, rinsavite.

In questo mondo tutti –

principi e indigenti –

sono figli di Adamo.

Quello e quell’altro… Ed io?

Ebbene è presto detto:

io passeggio e banchetto

tutti i santi giorni.

Voi odiate, vi lagnate!

Ascoltarvi non voglio!

Io il mio sangue bevo,

non quello degli altri!

Una notte tornando brillo

da un convito,

strada facendo

io ciarlavo con me stesso.

Nessun bambino che strilla,

la moglie che non sgrida,

un silenzio perfetto,

ringraziando il Signore –

pace in casa e nel cuore.

Sono andato a letto.

E se un ubriaco dorme,

neanche a cannonate

egli si sveglierà.

E quella notte io feci un sogno

davvero straordinario –

il più astemio si sbronzerebbe

e il più avaro pagherebbe

per vedere quei prodigi.

Ma veniamo al dunque!

Ebbene ho visto una civetta

che volava su rive, cespugli e prati,

sopra una ripida vetta,

su campi sconfinati,

su fitte foreste.

E io volavo dietro a lei,

finché non lasciai il mio paese.

Addio, terra nativa,

paese di pianto,

le pene e la rabbia

celerò nelle nubi.

O mia Ucraina,

vedova infelice,

dalle nuvole volerò

da te per parlare.

Per parlare tristemente,

per farmi consigliare;

verrò da te a mezzanotte

coperto di ruguada.

Converseremo finché

non spunterà l’aurora,

finché i figli, ancora piccoli,

non si opporranno ai nemici.

Addio, amata Ucraina,

povero paese natio,

ripeti ai tuoi figli:

la verità è in Dio!

Volo e ammiro e, in un momento,

il cielo rosseggia,

un usignolo da un boschetto

va incontro al sole.

Silenzioso soffia il vento,

la steppa azzurreggia,

tra le rive, sugli stagni,

il salice verdeggia.

Lussureggiano i giardini,

i pioppi disinvolti,

dritti come sentinelle,

conversano coi campi.

Tutto nella terra amata

splende di bellezza,

si copre di verde e si bagna

con gocce di rugiada,

si fa bella lavandosi

per incontrare il sole…

Non ha fine né inizio

la sua grandezza!

Nessuno questa terra

distruggere potrà…

Eppure… anima mia,

tu sei così triste!

Perché invano piangi?

Di chi hai pietà? Non vedi,

non senti il lamento della gente?

Allora va’ e guarda, io volerò

in alto, oltre le azzurre nubi,

dove non c’è il potere né il castigo,

dove non senti risa né pianti.

E in questo Eden che io lascio,

tolgono a uno storpio anche uno straccio,

strappano la pelle per fare le scarpe

ai piccoli principi, e tormentano

una vedova che non paga il tributo,

e incatenano il suo unico figlio,

l’unica sua speranza! Guardalo!

A una siepe addossato,

è gonfio e muore di fame! E la madre

ora falcia il grano gratis.

E vedi là? O miei occhi!

Cosa vi tocca vedere!

Oh, meglio sarebbe stato perdere

per sempre le vostre lacrime!

Una giovane incinta si trascina

col bambino in seno,

i suoi l’hanno cacciata

e da tutti è respinta!

Anche un povero la scansa!!

Un signorino non conosce:

il moccioso già con venti

s’è ubriacato!

Vede Dio dalle nuvole

il nostro dolore?

Forse lo vede ma aiuta

come quelle alture

secolari e imbevute

di sangue umano!..

O mia anima martire!

Che tristezza con te.

Meglio un veleno beviamo,

e coperti di neve

la mente a Dio rivolgiamo,

e domandiamogli

per quanto tempo ancora

i boia regneranno??

Vola, anima mia, mio tormento,

porta via con te la miseria e il male,

tuoi compagni – con loro sei cresciuta,

le loro grevi mani ti hanno cullata.

Vola via nel cielo, l’orda disperdi.

Che nereggi o rosseggi pure,

che la fiamma dilaghi,

che il feroce drago la terra

di teschi ricopra.

Io il mio cuore intanto

nasconderò e lontano

cercherò il paradiso.

E sulla terra volerò

e di nuovo la lascerò.

E’ triste dire addio alla madre,

essere senza un tetto,

ma più triste ancora è vedere

rattoppi e pianto.

Volo, volo e soffia il vento,

dalla neve tutto è coperto,

intorno boschi e fango,

nebbia, ancora nebbia e deserto.

Non un’anima viva, nessuna

impronta umana.

Amici e nemici miei,

addio, da voi non tornerò!

Bevete e banchettate –

ormai più non vi sento,

da solo e per sempre

dormirò nella neve.

E finché voi non saprete

che esiste un paese

non coperto di lacrime e sangue,

io dormirò ignaro…

Dormirò… A un tratto sento

un suono di catene

sottoterra… e allora guardo…

O razza disumana!

Da dove vieni? Cosa fai?

Cosa stai cercando

sottoterra? Temo

che con voi non avrò pace

neanche in cielo!.. Che ho fatto mai

per soffrire così?

A chi ho fatto del male?

Quali mani hanno incatenato

l’anima al corpo,

il cuore hanno infiammato

e i pensieri come corvi

hanno disperso??

Non so perché puniscano

così duramente!

E quando questo mio castigo

finalmente finirà,

non vedo e non so!!

A un tratto il deserto vibrò.

Come se le strette tombe

i defunti lasciassero

per l’Ultimo Giudizio.

Ma no, non sono defunti

che aspettano il Giudizio!

No, sono esseri viventi

messi in catene.

Dalle viscere della terra

estraggono l’oro

per le insaziabili gole!..

Ma che hanno fatto?

Chiedilo a Dio, ma forse

neanche Lui lo sa.

Là vedo un ladro marchiato

che trascina i ceppi;

e là un bandito frustato

che digrigna i denti,

un compagno moribondo

vuole soffocare!

E tra loro, infelici,

anche lui in catene –

il re della libertà,

col marchio per corona!

Nel tormento non implora,

non piange e non geme!

Un cuore scaldato dal bene

giammai si fredderà!

Dove sono i tuoi pensieri sbocciati

un tempo? I tuoi nobili ideali

con amore e coraggio coltivati?

A chi la loro sorte hai affidato?

Forse nel cuore li hai sepolti per sempre?

Oh, no, fratello! Diffondili ovunque,

che giungano e fioriscano tra la gente!

Ancora tormento? O già sarà?

Sarà, perché fa freddo, il gelo

risveglia la mente.

Di nuovo volo. La terra annerisce.

La mente dorme, il cuore è intorpidito.

Vedo strade e file di case

e città con cento chiese

e nelle città, come gru,

si addestrano i soldati,

ben nutriti, gli scarponi

con i ferri inchiodati,

marciano… Guardo lontano:

in un terreno avvallato

vedo una città nel fango;

una nube di nebbia

nera la sovrasta… Ci arrivo –

la città è immensa.

Forse è una città turca,

o forse è tedesca,

o anche russa pare…

Chiese e palazzi,

signori panciuti,

e neanche un casolare.

Imbruniva… Tutto intorno

i fuochi avvampavano,

ero sbalordito… «Urrà!

Urrà!» – urlavano.

«Ehi, insensati! calmatevi!

Perché così allegri?» –

«Ah, eccolo l’Ucraino!

Non sa che c’è la parata.

La parata! Oggi anche lo zar

ha voluto assistere!»

«E dov’è questo incanto?»

«Là in quel palazzo».

Sono andato. Un compaesano

coi bottoni di ottone

mi è venuto incontro:

«Di dove sei?» – mi ha chiesto –

«Sono Ucraino». – «E perché

non sai parlare

la lingua di qua?» – «No – rispondo –

la so parlare,

ma non voglio». – «Sei un bel tipo!

qui sono di casa,

io lavoro qui, se vuoi,

ti farò entrare

nel palazzo ma, fratello,

siamo gente cortese,

dammi almeno mezzo rublo…»

Calamaio da strapazzo,

vattene… Sono diventato

di nuovo invisibile

e sono entrato nel palazzo.

Dio onnipotente!!

Che meraviglia! Parassiti

ricoperti d’oro, mentre

lui, alto, accigliato,

incede con la zarina

accanto, poveretta,

sembra una prugna secca,

esile, gambe lunghe,

e inoltre senza sosta

la testa tentenna.

E tu saresti la dea!

Fai piuttosto pena.

E io, sciocco, senza vederti

mai, ho creduto

ai tuoi poetastri.

Che sciocco! Come credere

ancora ai loro scritti

e a ciò che elogiano!

Dietro agli dei – gente ammodo,

in argento e oro,

come porci rimpinzati,

pance e facce gonfie!..

Sudano e si accalcano

per stargli più vicino:

forse dà loro un pugno,

forse li prende in giro,

o pizzica qualche naso,

ma non fa niente,

purché sotto il suo grugno.

Ora stanno allineati

e nessuno fiata,

soltanto lo zar borbotta;

la diva-zarina,

come airone tra gli uccelli ,

saltella rianimata.

Hanno camminato a lungo

come tronfi gufi,

parlandosi sottovoce –

non li sento, ma penso:

di patria, di mostrine,

o del nuovo addestramento!..

E poi la zarina

in silenzio si siede.

Lo zar invece si avvicina

al più anziano e gli assesta

un pugno sul muso!..

Si lecca il poveretto

e dà un colpo al vicino –

si è sentito!.. E lui

a quello accanto

morde un orecchio e quello

strapazza i subalterni,

e loro – i restanti,

che splancano le porte

e invadono le strade,

dove prendono a pedate

la gente qualunque,

e quelli a squarciagola

si mettono a gridare:

«Divertiti, nostro zar-padre!

Urrà!.. urrà!.. urrà! a-a-a… »

Ho fatto una bella risata,

ma anche me hanno pestato

ben bene. Prima dell’alba

tutti dormivano…

Solo gli ortodossi qua e là

piagnucolavano

e per la salute dello zar

il Signore pregavano.

Risate e lacrime!

Giro per la città.

La notte è come il giorno.

Palazzi e palazzi

sopra il fiume silenzioso;

e la riva è fusa

tutta con la pietra. Guardo

incantato!

Com’è potuto sorgere

da una palude

un tale prodigio?.. Quanto

sangue umano versato –

e senza una lama affilata.

La fortezza e il campanile

con la guglia aguzza –

una vista impressionante.

E il tic-tac dell’orologio…

Mi guardo intorno –

un cavallo frantuma

con gli zoccoli la roccia!

Il cavaliere, senza sella,

indossa un mantello

e una corona di alloro

cinge la testa nuda.

Il cavallo s’impenna, quasi

volesse saltare il fiume.

Il cavaliere ha il braccio teso,

come se il mondo

volesse conquistare. Chi è?

Mi avvicino e leggo

ciò che sulla pietra è scritto:

«La seconda al primo»

questo monumento ha eretto.

Adesso io lo so –

è il primo che ha oppresso

la nostra Ucraina,

e la seconda l’ha resa

vedova-orfana.

Boia! boia! cannibali!

Avete divorato,

rubato, e che avete preso

con voi nell’oltretomba?

Ho provato una stretta al cuore,

come se leggessi

la storia dell’Ucraina.

Resto lì affranto…

E in quel momento sottovoce

qualcuno invisibile

intona per me un canto:

«Dalla città di Glukhov

i reggimenti avanzavano

verso la linea del fronte,

e a me, ataman prescelto,

mandarono coi Cosacchi

nella capitale.

O Dio misericordioso!

O zar pagano!

Zar maledetto e infame,

aspide ingorda!

Che ne hai fatto dei Cosacchi?

Hai riempito i pantani

con le loro nobili ossa;

hai eretto la città

sui cadaveri martoriati!

E in una buia cella

io, libero ataman,

sono morto di fame

in catene. O zar! o zar!

Non ci  separerà

neanche Dio. Incatenati

insieme saremo

nei secoli ogni istante.

Lasciare la Nevà non posso.

l’Ucraina è distante,

forse ora non c’è più.

Come vorrei rivederla,

ma Dio non lo consente.

Forse Mosca l’ha bruciata

e il Dnepr è scomparso

nel mare, ha oltraggiato

le nobili tombe –

nostra  gloria. O Dio pietà,

abbi pietà di noi».

E tacque; allora vedo

una bianca nube

che copre il cielo grigio, e in essa

ulula una bestia.

Non una bianca nube ma un nugolo

di bianchi uccelli si levò

sul gigante di bronzo

con un canto dolente:

«Anche noi siamo incatenati a te,

cannibale e serpente!

Quando verrà il Giudizio

impediremo di vedere Dio

ai tuoi occhi rapaci.

Tu dall’Ucraina

ci hai condotti nudi e affamati

in terra straniera.

Ti sei fatto la porpora

con la nostra pelle,

cucita con le nostre vene,

e alla tua città

hai messo un nuovo manto.

Ammira i tuoi palazzi!

Rallegrati, boia nefando,

che tu sia maledetto!»

Tutto era svanito.

Il sole sorgeva.

Ero talmente stupito

e spaventato insieme.

Già i poveri al lavoro

si affrettavano,

già i soldati si schieravano

per l’addestramento.

Sui marciapiedi vedevo

fanciulle assonnate,

non da casa, ma verso casa! –

Dalle madri mandate

per un po’ di pane,

a lavorare di notte.

E io col cuore straziato

pensavo e immaginavo

com’era duro procurarsi

il pane quotidiano.

Vedo i funzionari statali

ai loro tavoli

per scribacchiare e spellare

il padre e il fratello.

Tra loro qua e là anche

i miei compaesani.

Voi ciarlate in russo, ma

rimproverate ai genitori

di non avervi fatto

studiare il tedesco – e ora

avete solo l’inchiostro!

Sanguisughe! Vostro padre

forse l’ultima mucca

ha venduto per farvi

imparare il russo.

Ucraina! Ucraina!

Ecco i tuoi figli,

i tuoi diletti germogli

macchiati d’inchiostro.

Dal belato moscovita

nei saloni tedeschi

assordati!.. Piangi, Ucraina!

Vedova infelice!

E ancora volevo vedere

che cosa avviene

nei palazzi imperiali. Entro,

gli anziani con la pancia,

ansimanti e allineati,

sbuffano tronfi

come tacchini e guardano

di traverso la soglia.

Ed ecco la porta si apre.

Come un orso sbucato

dalla sua tana, a stento

le gambe trascina.

Tutto gonfio e livido,

come dopo una sbornia.


Grida ai più panciuti

che di colpo sprofondano!

Poi sbarra gli occhi –

i restanti cominciano

a tremare; come un ossesso

ruggisce ai meno altolocati –

sprofondano anche loro!

Urla alla servitù – anch’essa

scompare nel nulla;

ai soldati e ai soldatini

che gemevano –

anche loro – come dissolti;

ecco il prodigio che ho visto.

Mi chiedo che altro succederà,

che altro farà mai? Sta in piedi,

a testa china, mesto,

poveretto!.. Dove hai perso

la natura di orso?

Sei come un buffo gattino;

e scoppiai a ridere,

lui mi sentì e mi sbirciò –

io mi spaventai

e mi svegliai… Ecco quale

strano sogno ho fatto.

Così bizzarro!.. un sogno così

lo fa solo un ubriaco.

Non vi meravigliate,

amati fratelli –

non vi ho detto ciò che ho visto,

ma ciò che ho sognato.

8 agosto 1844