Archivio | dicembre, 2016

Thomas Stearns Eliot: Gente vuota

20 Dic

 

T.S. Eliot (1888-1965)

T.S. Eliot (1888-1965)

 

 

Gente vuota

da: Wikipedia, l’enciclopedia libera

 

«We are the hollow men                          «Noi gente vuota

We are the stuffed men                            Noi gente impagliata

Leaning together                                       Ci sosteniamo a vicenda

Headpiece filled with straw… »               La testa imbottita di paglia… »

 

   Thomas Stearns Eliot scrisse questa poesia nel 1925 durante un periodo di assenza dal lavoro a causa di un esaurimento nervoso.

Gli uomini vuoti si presentano direttamente attraverso un monologo drammatico: essi non hanno identità, personalità, non riescono a stare in piedi da soli e sussurrano parole vuote As wind in dry grass Or rats’ feet over broken glass (“Come il vento sull’arida erba O i piedi di topo sul vetro in frantumi”). Questi sono il correlativo oggettivo dell’uomo moderno, quegli stessi viventi moribondi che affollavano la “Terra desolata”, “forma senza foggia, ombra incolore, forza paralizzata, gesto immobile”. E’ gente vuota e di paglia. Essa non riesce a sostenere lo sguardo degli occhi degli uomini virtuosi, poiché questi per loro sono come Sunlight on a broken column (“La luce del sole su una colonna spezzata”), sottolineando una morte prematura.

La gente vuota vive in un deserto, in una terra morta, arida come loro sia psicologicamente che religiosamente a causa della mancanza di acqua. In questa terra crescono solo cactus, che danno frutti spinosi, le spine del mondo moderno. Qui hanno costruito immagini di pietra che in realtà sono solo falsi idoli che ricevono The supplication of a dead man’s hand Under the twinkle of a fading star (“La supplica della mano di un morto Nel luccichio di una stella che si spegne”). Poi gli uomini si svegliano soli e innalzano preghiere a quella pietra infranta, sottolineando la mancanza di comunicazione, empatia e condivisione dei sentimenti.

 

Nella vuota valle di stelle morenti, una mascella spezzata di regni perduti (declino del mondo moderno), non ci sono anime, né occhi, la gente brancola insieme senza parlare, riunita sulla spiaggia del fiume ingrossato. Non torneranno ad essere anime a meno di una speranza miracolosa come la Rosa di molte foglie del Paradiso che appare vana. La gente vuota si trova bloccata in questa situazione di inerzia e paralisi, di debolezza della volontà, incapace di affrontare il salto esistenziale di Kierkegaard.

 

«Between the idea                                       «Tra l’idea

And the reality                                              E la realtà

Between the motion                                    Tra il movimento

And the act                                                    E l’azione

Falls the Shadow… »                                    Si posa l’Ombra… »

 

L’ombra rappresenta una life-in-death (vita nella morte) che ha avuto la possibilità di riconoscere  la differenza tra salvezza e dannazione, ma ha rigettato questa possibilità e ha scelto di non scegliere tra le due, e vivrà per sempre in un Limbo. Irrompe così una voce esterna che dice Perché Tuo è il Regno Perché Tuo è La vita è Perché Tuo è il…, ma “il mondo finisce non con un boato ma con un guaito”.

 

Presento qui la mia versione di questa celebre poesia.

 

Gente vuota

 

Mistah Kurtz – he dead.

A penny for the Old Guy

 

I

 

Noi gente vuota

Noi gente impagliata

Ci sosteniamo a vicenda

Le teste imbottite di paglia. Ahimé!

Le nostre aride voci

Quando sussurrano

Sono sommesse e insignificanti

Come il vento sull’arida erba

O i piedi di topo sul vetro in frantumi

Nella nostra arida cantina

 

Forma senza foggia, ombra incolore,

Forza paralizzata, gesto immobile;

 

Quelli che sono entrati guardando dritto

Nell’altro Regno della morte

Ci ricordano – se lo fanno – non come anime

Perse e violente, ma soltanto

Come gente vuota

Gente impagliata.

 

II

 

Non oso incontrare gli occhi nei sogni

Nel regno sognato della morte

Essi non appaiono:

Là, gli occhi sono

La luce del sole su una colonna spezzata

Là, è un albero che ondeggia

E le voci

Quando il vento canta

Sono più distanti e solenni

Di una stella che si spegne.

 

Che io non sia più vicino

Nel regno sognato della morte

Che indossi anch’io

Tali ricercati travestimenti

Pelo di topo, piume di corvo, bastoni incrociati

In un campo

Facendo come fa il vento

Non più vicino –

 

Non l’incontro finale

Nel cupo regno

 

 

III

 

Ecco la terra morta

Ecco la terra dei cactus

Qui le statue di pietra

Sono sorte, qui esse ricevono

La supplica della mano di un morto

Nel luccichio di una stella che si spegne.

 

Ed è così anche

Nell’altro regno della morte?

Ci svegliamo soli

Nell’ora in cui

Tremiamo di tenerezza

Le labbra che vorrebbero baci

Pregano a una pietra spezzata.

 

IV

 

Gli occhi non sono qui

Non ci sono occhi qui

In questa valle di stelle morenti

In questa valle vuota –

Spezzata mascella dei nostri regni perduti

 

In questo ultimo luogo d’incontro

Brancoliamo insieme

Evitiamo di parlare

Riuniti sulla spiaggia del fiume ingrossato

 

Ciechi, se

Gli occhi non riappaiono

Come perenne stella

Rosa di molte foglie

Del cupo regno della morte

La speranza soltanto

Di gente vuota.

 

 

 

V

 

Giriamo intorno al frutto spinoso

Frutto spinoso frutto spinoso

Giriamo intorno al frutto spinoso

Alle cinque del mattino.

 

Tra l’idea

E la realtà

Tra il movimento

E l’azione

Si posa l’Ombra

                                Perché Tuo è il Regno

 

Tra la concezione

E la creazione

Tra l’emozione

E la reazione

Si posa l’Ombra

                                La vita è assai lunga

 

Tra il desiderio

E lo spasimo

Tra la potenzialità

E l’esistenza

Tra l’essenza

E il suo frutto

Si posa l’Ombra

                                   Perché Tuo è il Regno

 

Perché Tuo è

La vita è

Perché Tuo è il

 

In questo modo il mondo finisce

In questo modo il mondo finisce

In questo modo il mondo finisce

Non con un boato ma con un guaito.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Madre Teresa di Calcutta: Anche allora è Natale

10 Dic

 

 natale

 

Anche allora è Natale

 

Ogni volta che sorridi

a un tuo fratello

e gli tendi le mani,

anche allora

è Natale.

 

Ogni volta che taci

per ascoltare chi ha bisogno,

anche allora

è Natale.

 

Ogni volta che rinunci

a regole che come una morsa

schiacciano gli uomini

nella loro solitudine,

anche allora

è Natale.

 

Ogni volta che dai

un po’ di speranza ai “carcerati”,

a quelli che sono oppressi

dal peso fisico, morale

e spirituale della povertà,

anche allora

è Natale.

 

Ogni volta che riconosci

umilmente quanto esigue sono

le tue possibilità e quanto grande

è la tua debolezza,

anche allora

è Natale.

 

Ogni volta che permetti a Dio

di amare gli altri tramite te,

 

Anche allora è Natale.

 

 

(Versione di Paolo Statuti dal polacco)

Paolo Statuti: Giovanni il fornaio

5 Dic

 fornaio

 

Giovanni il fornaio

 

     Giovanni era un fornaio molto in gamba. Nessuno sapeva fare il pane e i dolci come lui, e quindi tutto il paese era suo cliente fisso. Era solo, perché i parenti vivevano lontano e perché, nonostante le numerose buone occasioni di sposarsi, aveva preferito restare scapolo. Forse proprio a causa della sua solitudine, e di qualche altro motivo a noi sconosciuto, col trascorrere degli anni, benché fosse ancora forte e giovane, Giovanni si era fatto triste e taciturno. Gli abitanti del paese dicevano di lui:

– Giovanni è cambiato, non è più quello di una volta.

E così il tempo passava, il suo pane era sempre eccellente, ma quel lavoro ormai non lo attirava più. Spesso la sera si sedeva sotto un albero e guardava la luna. La guardava e a un tratto cominciava a sembrargli un cornetto. Osservava i ciottoli sul sentiero che conduceva a casa sua, e all’improvviso cominciava a vedere dei panini. Guardava le ruote dei carri che passavano sulla strada e immaginava che fossero dei ciambelloni. Insomma, dopo un periodo di semplice noia, ora era addirittura ossessionato dal suo lavoro, non riusciva più a vivere sereno. I soldi non lo interessavano, perché a quanto pareva non lo rendevano felice. Cosa poteva fare dunque?

Una mattina gli abitanti del luogo andarono alla bottega di Giovanni per comprare come al solito pane e ciambelle, ma con loro grande sorpresa trovarono chiuso e un biglietto sulla porta. Con una calligrafia incerta e traballante il biglietto diceva:

«Amici, non prendetevela a male, non potevo restare, il mio lavoro non mi piaceva più. Troverete di certo un altro fornaio altrettanto bravo. Sono partito senza salutarvi, ma lo faccio ora.

Perdonatemi. Addio

Vostro Giovanni»

Nessuno voleva credere ai propri occhi. Pensarono che fosse una decisione avventata e passeggera, e che Giovanni sarebbe tornato presto. Ma dopo qualche giorno di vana attesa, si misero l’anima in pace e cominciarono a cercare un nuovo fornaio. Venne messo un avviso sulla piazzetta del paese. Si presentarono in molti, giovani e meno giovani, esperti e meno esperti, e furono messi alla prova. Facevano del loro meglio, ma nessuno riusciva a fare il pane come Giovanni. A qualcuno veniva duro, a qualcun altro – colloso, a qualcun altro ancora – troppo asciutto. Erano già trascorse due settimane dalla partenza di Giovanni e nessuno aveva mangiato più un pezzo di pane. Erano tristi e sfiduciati. Sembrava un problema senza soluzione.

La mattina del quindicesimo giorno arrivò in paese un vecchio con una lunga barba bianca e una grossa cesta sulle spalle. Gridava con voce sorda e profonda:

Venite, venite, gustate

I miei panini prelibati!

Venite, venite, assaggiate!

E resterete incantati!

Tutti gli si avvicinarono incuriositi, speranzosi e, naturalmente, molto affamati. Il pane aveva un aspetto meraviglioso, e che profumo! In un attimo la cesta si svuotò e il vecchio allora sogghignando si accomiatò dai paesani, che non smettevano di  ringraziarlo e gli chiesero di portarne di più e di tornare tutti i giorni. Il vecchio disse soltanto:

– Verrò, non temete, ma domani anziché in soldi, mi pagherete in oro.

Tornati alle loro case, assaggiarono il pane e restarono davvero incantati, come prometteva la strofetta del vecchio. Oh, com’era buono, soffice e fragrante! «Neanche Giovanni – pensavano – sarebbe capace di farne uno migliore». La sera andarono a dormire non vedendo l’ora di mangiare di nuovo quel pane prodigioso.

All’alba corsero tutti sulla strada ad aspettare il vecchio. Egli non si fece attendere a lungo. Arrivò con la cesta ricolma e in un baleno vendette tutto il pane che aveva portato. Gli abitanti del paese erano inebetiti e affascinati e, come d’accordo, pagarono con anelli e monete d’oro. Il vecchio li ringraziò e sogghignando aggiunse:

– Tornerò domani, ma in cambio del pane dovrete darmi i vostri attrezzi da lavoro: aratri, zappe, rastrelli, ecc, ecc.

E così avvenne. Ma dopo un po’ di quell’andare e venire, il vecchio disse che si era stancato, e che quindi si sarebbe sistemato nella bottega di Giovanni.

Col passare dei giorni il vecchio diventava sempre più esigente, e il popolo, ormai completamente stregato, viveva solo per mangiare il suo pane e si era ridotto in miseria. Tutto gli aveva portato via quello stregone: soldi, oro, attrezzi, cavalli, buoi, pecore…Ancora qualche giorno e avrebbero dormito sull’erba, perché certamente il vecchio avrebbe preteso da loro anche le case. Ormai solo un miracolo poteva salvarli dalla completa rovina.

Giovanni, dopo aver abbandonato il paese, era andato al porto e si era imbarcato come marinaio. Per un po’ si era divertito, ma poi si era stancato anche di quel lavoro, e al primo scalo della nave era rimasto a terra. Allora si era messo a fare il muratore, ma dopo una settimana era stufo anche di quel lavoro. Provò altri due o tre mestieri, ma sembrava che nulla riuscisse a soddisfarlo. Finché un bel giorno, stanco di provare, ripensò alla sua bottega, al suo buon pane, alla farina bianca come la neve, alla brava gente del paese e cominciò a sentire nostalgia della sua terra.

Decise quindi di tornare. Si mise in cammino e finalmente una sera vide da lontano il suo paese. Continuò a camminare e, quando giunse in prossimità delle prime case, restò sorpreso e turbato dal silenzio che regnava e alla vista di tutte le finestre buie. «Possibile – si chiese – che non sia accesa neanche una lampada? Eppure non è tanto tardi!» Fatto ancora qualche passo, si guardò intorno e restò allibito: le strade e i prati erano pieni di gente addormentata, e com’erano magri! «Ma che diavolo sta succedendo qui?!» – si chiese Giovanni. Ma non svegliò nessuno e decise di lasciar passare la notte. La mattina dopo alla luce del sole avrebbe cercato di svelare il mistero. Si sdraiò sotto un albero e si addormentò.

All’alba si svegliò e non udì cantare neanche un gallo, non vide nessuno che andava a lavorare nei campi, non sentì i soliti colpi di martello del fabbro, tutto sembrava morto. Oh, com’era cambiato il suo paese! All’improvviso udì il cigolio di una porta che si apriva, e a quel rumore tutta la gente si svegliò, si alzò e si mise a correre come impazzita verso quella porta. Giovanni si voltò per vedere dove corressero in quel modo, e pieno di rabbia si accorse che si trattava della porta del suo forno.

– Chi è quel farabutto che se n’è impadronito?! Ah, ma ora ci penso io! – esclamò Giovanni e si lanciò dietro alla folla che si andava ammassando davanti alla sua bottega.

Tutti urlavano e imploravano, ma il vecchio dava il pane solo a quelli che possedevano ancora qualcosa, ed essi ormai erano pochi… Giovanni stette per un po’ a guardare la scena, poi digrignando i denti si fece largo tra la folla, e come una furia e con gli occhi di fuori piombò davanti al vecchio, il quale non si turbò minimamente. Guardò Giovanni dall’alto in basso e sorrise beffardo. In quel preciso istante la folla, come riacquistando improvvisamente la ragione, lo riconobbe e cominciò a gridare:

– Giovanni! Giovanni! Finalmente sei tornato! Salvaci tu da questa diavoleria e da questo stregone! Ci ha preso tutto quello che avevamo e ci ha ridotti in miseria!

Giovanni li ascoltò e si girò di nuovo verso il vecchio. Quello però non gli diede il tempo  di aprir bocca e gli chiese:

– Chi sei, giovanotto? Perché mi disturbi? Non vedi che sto lavorando per dar da mangiare a questa povera gente?

– Chi sono?!… Povera gente?! – urlò Giovanni. – Sono il proprietario di questa bottega e sei tu che li hai ridotti in questo stato! Ma ora ti faccio vedere io… – e stava per avventarsi sul vecchio, quando udì una voce cavernosa che proveniva dal fondo della bottega. Era la voce di un rospo, diventato da non molto l’aiutante del cattivo fornaio:

– Giovanni, non è bello battersi con una persona anziana, perché tu sei giovane e forte. Fate una gara per vedere chi di voi due fa il pane migliore. La sfida può aver luogo questa sera. Chi vincerà resterà nel paese e in questa bottega, e chi perderà morirà soffocato dallo stesso pane che avrà preparato.

– Va bene – esclamò Giovanni – io sono pronto. A stasera!

Giovanni però era preoccupato. Sarebbe riuscito a fare un pane migliore di quello del vecchio? Quando giunse la sera, si sistemarono a breve distanza l’uno dall’altro, e circondati dal popolo emozionato e affamato si misero al lavoro. Il rivale di Giovanni era tranquillo, sicuro di sé e ridacchiava, aiutato dal rospo che saltellava di qua e di là, portandogli farina, acqua, lievito, sale e alcune sostanze misteriose.

Giovanni invece era solo. Cominciò ad avere paura. Come poteva competere con quel vecchiaccio? A un tratto alzò gli occhi al cielo e vide la luna. Sembrava che gli sorridesse e lo incoraggiasse, dicendogli:

– Non temere, ti aiuterò io!

Giovanni guardava sempre la luna e, senza rendersene conto, versò la farina.

«Come la luna – si ripeteva – come la luna deve essere: una pagnotta bella come la luna… Cosa ci vuole ancora? Ah, sì! Ci vogliono alcune gocce di acqua di stelle» – pensò Giovanni, e subito una pioggerellina di limpida e lucente acqua stellare cadde sulla farina. «Ed ora cosa manca? Ah, già, il sale!» – Giovanni piangeva e le sue lacrime salate finirono nella farina. «E adesso? Cosa ci vuole adesso? Ma certo! Ci vuole il profumo del bosco!» – e Giovanni scorse vicino ai suoi piedi un’erba mai vista prima e assai profumata. La raccolse e la mise nella farina. «E adesso, cosa manca ancora? Ah, sì! Manca un vento caldo e leggero che faccia lievitare la pasta!» – e in quel preciso istante si levò un vento come lui lo desiderava.

Il suo pane era pronto. Anche il vecchio aveva terminato. Ora bisognava soltanto cuocerlo, dopo di che avrebbero saputo chi era il vincitore. Ormai tutti gli abitanti si erano  allontanati dal vecchio e si erano fatti intorno a Giovanni. Lo guardavano commossi e pieni di speranza. I loro cuori battevano forte, lo incoraggiavano:

– Forza, Giovanni, dai! Forza, Giovanni!

I due contendenti improvvisarono dei rudimentali forni di mattoni, quindi accesero il fuoco e misero a cuocere il pane. Mezz’ora dopo il pane del vecchio era già cotto: che incanto! Così dorato, e che profumo emanava! Ma anche il pane di Giovanni era cotto, e quando il vecchio lo vide, impallidì e cominciò a tremare di paura, imitato subito dal rospo.

Il pane di Giovanni era simile alla luna, con riflessi scintillanti che abbagliavano la vista. Il profumo che si diffondeva da esso avrebbe fatto risuscitare anche un morto. Il vecchio temé di aver perso, ma non voleva ancora crederci. Infuriato, prese il suo pane, ne staccò un grosso pezzo per assaggiarlo e, dimenticando la profezia del rospo, se lo mise in bocca e si soffocò. Il rospo, invece, scoppiò letteralmente dalla rabbia. Tutti, Giovanni compreso, erano raggianti di gioia, la luna sorrideva felice e dalla folla si levò un coro di voci:

– Viva Giovanni! Viva il nostro salvatore!

Da quel giorno Giovanni riprese ad amare il suo lavoro e non smise più di fare il fornaio. Aveva capito che era quello il suo mestiere – un mestiere tanto bello e così utile alla gente.

E infatti, cosa c’è di più bello e utile del pane?

                                   Il  cavallo  bianco

 

     In un paesino viveva tanti anni fa una famiglia di contadini: padre, madre e tre bambini. Abitavano in una casetta piccola ma assai graziosa, vicina al bosco. Il papà e la mamma, aiutati dal figlio più grande Geremia, che aveva 15 anni, lavoravano la terra. Gli altri due figli, Giuseppino di 11 e Clotilde di 8 anni, andavano ancora a scuola. Erano entrambi molto bravi e le maestre dicevano sempre ai genitori che due bambini così diligenti era difficile trovarli. Anche Geremia faceva molto bene il suo lavoro ed era felice di poter aiutare i genitori. Il tempo per loro trascorreva sereno e vivevano abbastanza bene con quello che producevano i campi. D’accordo, direte voi, ma il cavallo bianco quando arriva? Arriva subito, vi rispondo, e ascoltate come…

Una mattina Clotilde, appena svegliatasi, sentì un lamento venire dalla stalla dei cavalli, e poi dei nitriti frequenti e insoliti. Si meravigliò un poco, ma poi si ricordò che la cavalla Gelsomina doveva mettere al mondo un puledrino, e quindi pensò subito che forse il piccolo era nato durante la notte. Si alzò in fretta tutta emozionata, si vestì alla meglio e corse fuori a vedere. Incontrò il papà che veniva proprio dalla stalla e che le disse:

– Bambina mia, è nato un bel cavallino tutto bianco, va’ a vedere com’è carino.

Clotilde si precipitò nella stalla e vide un puledrino sdraiato vicino alla cavalla Gelsomina. La mamma gli leccava la testa e lui apriva e chiudeva gli occhi, come per dirle:  «Grazie, mammina, ti voglio tanto bene». Da quel giorno Clotilde non mancava mai di far visita al suo cavallino bianco, e ogni volta gli portava uno zuccherino. Gli aveva messo nome Turbine, perché voleva che diventasse il cavallo più veloce e forte del paese. E infatti, Turbine cresceva proprio come desiderava la sua padroncina, e tutti le invidiavano il suo bel cavallino.

Quando Turbine compì un anno, la famiglia di Clotilde e i loro amici fecero una grande festa. Gli prepararono un sacco pieno di gustosa biada, un secchio di acqua di fonte e, naturalmente, tante carote e zuccherini. Poi Clotilde era corsa a prendere una candelina, l’aveva accesa e aveva cantato con gli altri:

– Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri a Turbine, tanti auguri a te.

Quindi, mentre tutti battevano le mani, aveva accostato la candelina al muso del cavallo, il quale un po’ sorpreso cominciò a nitrire e con una sbuffata la spense. Quando Turbine fu sicuro che stavano festeggiando proprio lui, prese ad agitare la testa e la coda, a saltare di gioia e a leccare il viso e la mano della bambina con tale entusiasmo, che per poco non ingoiava la candelina. La festa durò fino alla sera, ma prima che facesse completamente buio, tutti tornarono alle loro case. Anche Clotilde, dopo aver dato la buona notte a Turbine, e averlo baciato sulla fronte, andò a dormire.

Quella notte, però, non riposò tranquilla come al solito. Fece un brutto sogno. Rivide la scena della festa: lei è lì, vicino al cavallo, tutti sono contenti e ridono, ma mentre lei lo accarezza e gli dice in un orecchio: «Tanti auguri, Turbine!» – sente un fischio venire dal bosco. Si volta e vede tre omacci con le barbe lunghe e gli occhi arrossati che fissano lei e il cavallo. Turbine s’innervosisce, s’impenna e comincia a nitrire. Lei cerca di calmarlo, poi guarda di nuovo verso il bosco, ma i tre uomini sono spariti. Questo era stato il sogno di Clotilde. La mattina si alzò tutta agitata; aveva come un brutto presentimento, temeva che fosse successo qualcosa a Turbine, si vestì in fretta e corse alla stalla… restò come inchiodata e impallidì, quindi si precipitò verso casa gridando:

– Papà, mamma, hanno rubato Turbine! Correte!

Subito tutti accorsero. Purtroppo era vero: Turbine non c’era più. In quel momento Clotilde si ricordò del brutto sogno, e pensò che i ladri dovevano essere stati quei brutti omacci che aveva sognato. Il papà andò alla polizia a denunciare il furto, e il commissario ordinò subito a una squadra di poliziotti di prendere due cani lupo e di iniziare le ricerche dei ladri. Cercarono per tre giorni, ma non riuscirono a trovare né i ladri né il cavallo. Clotilde era molto triste, mangiava poco, non sorrideva più, e a scuola era distratta e cominciava anche a prendere qualche brutto voto. Pensava sempre al suo cavallo bianco e sapeva che non sarebbe più stata felice, se non lo avesse ritrovato. L’unica cosa che consolava Clotilde era il pensiero che, se avevano rubato Turbine, era per utilizzarlo in qualche modo, e quindi non per ucciderlo o fargli del male: «Perciò – si diceva la bambina – egli sicuramente vive ed io un giorno lo ritroverò».

Era passata una settimana dalla scomparsa di Turbine, quando arrivò da loro lo zio Nicola, fratello della mamma. Aveva saputo ciò che era successo, ed era venuto per portare Clotilde a casa sua per qualche giorno. Pensava così di distrarre la nipotina dal triste ricordo di Turbine. I genitori acconsentirono e anche Clotilde, che voleva molto bene allo zio e alla cuginetta, accettò con piacere la decisione dei grandi, soprattutto perché sperava dentro di sé di ritrovare il cavallo durante il percorso fino alla casa dello zio. Andò quindi a prepararsi e ad un tratto si ricordò che Turbine nitriva molto e saltava più del solito, quando lei si metteva il vestitino rosso, e così indossò quel vestito e si riempì le tasche di zuccherini. Baciò la mamma, il papà e i fratelli, riuscì anche a sorridere e partì. Era tranquilla e qualcosa le diceva che avrebbe ritrovato il suo cavallo.

Lo zio aveva un bel calesse, trainato da un robusto sauro. La sua casa era abbastanza lontana e ci volevano tre ore per raggiungerla. Clotilde parlava con lo zio, rispondeva alle sue domande, ma allo stesso tempo si guardava continuamente intorno, sperando di vedere Turbine. Arrivarono a casa dello zio che era già buio. Stanchi dal viaggio, mangiarono qualcosa e andarono subito a letto. Clotilde dormiva con la cuginetta Paolina, che aveva due anni più di lei. Parlarono e scherzarono per un po’, quindi spensero la luce. La cuginetta si addormentò immediatamente, ma Clotilde non riusciva a prendere sonno. Guardava la finestra e le stelle che brillavano nel cielo nero come l’inchiostro. Pensava a Turbine: «Dove sarà ora il mio adorato cavallo – si chiedeva – forse è qui vicino e io non lo so». Si alzò pian piano, cercando di non svegliare Paolina, aprì la finestra che dava sul giardino e mise qualche zolletta di zucchero sul davanzale. Poi richiuse e tornò a letto, addormentandosi poco dopo.

La mattina seguente lo zio entrò nella stanza delle bambine, le svegliò e disse loro:

– Su, su, pigrone, è ora di alzarsi, vestitevi in fretta, andiamo a fare una bella gita. Ci aspetta un mio amico che vive a trenta chilometri da qui, perciò non abbiamo tempo da perdere.

Le due bambine fecero a gara a chi si lavava e vestiva prima. In dieci minuti erano già pronte: Clotilde col suo vestitino rosso, e Paolina con un bel vestitino giallo a fiorellini blu. Fecero colazione, salirono sul calesse e

via! attraverso i campi indorati dal sole.

Avevano già percorso una ventina di chilometri, quando Clotilde, che non aveva mai smesso di guardare a destra e a sinistra, improvvisamente cacciò un urlo. Teneva gli occhi fissi verso un punto che indicava col ditino. Cominciò a gridare:

– Là, là, quella macchia bianca… è Turbine, è lui!…

Anche lo zio e Paolina guardarono: a circa duecento metri da loro, tra gli alberi, videro una sagoma bianca, e sembrava proprio un cavallo. Clotilde voleva scendere, correre da lui, ma lo zio la fermò:

– Aspetta, se quello è Turbine, ci saranno anche i ladri qua vicino, meglio essere prudenti, andiamo ad avvertire la polizia, non è molto lontano da qui.

Clotilde si calmò e pensò che lo zio aveva ragione:

– Va bene, zio, ma facciamo presto! – e così dicendo, si sporse dal calesse, agitò la manina in direzione del cavallo e gli sussurrò:

– Abbi pazienza, Turbine, tornerò subito da te e nessuno ci separerà più.

In quello stesso momento il cavallo girò la testa dalla loro parte e vide la macchia rossa del vestito di Clotilde. Riconobbe la padroncina e cominciò a nitrire e a impennarsi. Sbuffava, scuoteva violentemente la testa – si vedeva che era legato a un albero, altrimenti si sarebbe precipitato verso il calesse. Ormai non c’era più alcun dubbio: quel cavallo era proprio Turbine, e bisognava far presto a chiamare la polizia, prima che i ladri si fossero accorti di tutto. Il calesse volava come il vento. Clotilde non smetteva un attimo di gridare:

– Dai, dai, più veloce!

Mezz’ora dopo, assieme ai poliziotti, raggiunsero il punto dove si trovava Turbine. Era legato a un albero, cercava di strappare la corda e nitriva con tutto il fiato che aveva. Si avvicinarono cautamente a lui. Clotilde invece corse come un fulmine ad abbracciarlo. Era magro e si vedeva che aveva sofferto. Sembravano entrambi impazziti dalla gioia. Clotilde non finiva più di baciarlo e di accarezzarlo. I poliziotti lo slegarono e quindi si misero in cerca dei ladri. Fu proprio Turbine a portarli da loro. Li trovarono in una vecchia capanna poco distante, buttati sul fieno e ubriachi. Quando Clotilde li vide, per poco non svenne dallo spavento: erano proprio i tre omacci che aveva visto nel sogno! I poliziotti li presero e li portarono in prigione. Essi dissero di aver rubato il cavallo per farlo partecipare alle corse e guadagnare così un bel mucchio di soldi, ma erano rimasti delusi, perché Turbine era diventato sempre più triste, mangiava poco a aveva smesso non solo di galoppare, ma perfino di andare al passo. Per questo lo avevano legato all’albero, in attesa che gli passasse la malinconia.

Ora Clotilde non desiderava altro che di tornare il più presto possibile a casa sua, riabbracciare i genitori e i fratelli e fare loro la bellissima sorpresa. Lo zio e la cuginetta l’accompagnarono fino a un chilometro dai suoi campi. Poi la bambina li ringraziò, li salutò e a cavallo si diresse verso casa. Vedendola arrivare in groppa a Turbine, tutti credettero di sognare e corsero ad abbracciarli. Dettero subito una grande festa e ognuno faceva a gara nel far mangiare e bere Turbine, e soprattutto Clotilde lo riempiva di carote e zuccherini.

La bambina non fece più brutti sogni e visse tanti lunghi felici anni col suo bel cavallo bianco.

                                                 Il bacio

                                                                                                          A mia figlia

     Il primo bacio era ancora lì, sospeso sopra le loro teste, nel limpido silenzio del tramonto, tra i riflessi ramati dell’acqua e il dolce tepore dei pensieri. Fra un attimo si sarebbe dileguato, raggiungendo l’immenso Mare dei Baci più belli e più desiderati: i primi. Ma il loro bacio…

Tacevano, temendo di rompere l’incanto di quella sensazione così unica. Si guardavano, chiedendosi tacitamente conferma di quella loro felicità, poi impugnarono i remi e si accinsero a tornare a riva. Remavano già da qualche minuto, quando la barca ebbe uno scossone e si bloccò. I due giovani si interrogarono con gli occhi e impallidirono. «Forse abbiamo urtato contro qualcosa» – pensarono. Prima che riuscissero a capire cosa fosse successo, videro alla loro destra una mano verdognola con le dita palmate affiorare dall’acqua, seguita da un braccio esile e lungo tutto coperto di alghe. Un istante dopo uscì la testa, simile a una matassa arruffata di fili diversi, i cui colori dominanti erano il verde e il marrone. Sotto lo strato di fili s’intravedevano gli occhi sporgenti e rossi come il fuoco, le labbra sottili e slavate. Sul petto scintillavano le squame. Era un abitatore del fondo lacustre. Sul palmo di una mano era posata una scatolina di metallo.

– Ho udito la musica del vostro bacio – disse ai due giovani stupefatti, che per la prima volta vedevano e sentivano una cosa del genere. – Mi è sembrata così soave e lieta, che ho deciso di rinchiudere il vostro bacio in questa scatolina d’argento, e di custodirlo assieme agli altri che ho scelto prima del vostro. Con me sarà al sicuro e se un giorno il vostro amore si troverà in pericolo, per un istante mettete da parte i rancori, tornate qui, forse il vostro primo bacio potrà aiutarvi.

Finiti gli studi, entrambi cominciarono a lavorare e si sposarono. Si volevano un bene matto e quindi non facevano molta fatica ad andare d’accordo. Avevano cominciato bene, con una buona ricetta: tolleranza, comprensione, gentilezza, altruismo – pochi ingredienti, ma assai preziosi ed efficaci. Certo, come accade a tutte le coppie di questo mondo, anche nel loro cielo ogni tanto si affacciava una nuvola a turbare la serenità coniugale, ma era sempre una nuvola passeggera e dopo uno scroscione breve, e a volte anche salutare, essa lasciava nuovamente il posto al sole.

Questo durò qualche anno, ma i casi della vita sono tanti e quasi mai prevedibili. A poco a poco le nuvole diventarono sempre più frequenti e minacciose e alla fine, purtroppo, anche per loro arrivò il momento della resa dei conti. Un giorno tra i due si svolse questo colloquio:

Lei: – Non hai dimenticato qualcosa?

Lui: – Mhm… vediamo un po’… oggi non è il tuo compleanno e nemmeno l’onomastico… non è neanche l’anniversario del matrimonio. A tua madre ho telefonato per farle gli auguri… Ho parlato con la maestra di Enrico… a proposito, sai cosa mi ha detto? Che secondo lei trascuriamo nostro figlio…

– Su che si basa per dire una cosa simile?

– Mah, non so, forse perché Enrico vede troppa televisione e perché alla sua età non sa ancora chi era Cenerentola… allora, vediamo, cosa posso aver dimenticato…

– Hai dimenticato di darmi una risposta. Due ore fa ti ha fatto una domanda, ma tu hai abilmente cambiato discorso.

– Ah, sì, hai ragione, beh, ci ho pensato e la risposta l’avrei, ma non mi sembra opportuna, lasciamo perdere.

– Neanche per sogno! Su, coraggio: «mi hai mai tradito o desiderato tradirmi?».

– Sei troppo intelligente per fare una domanda così banale che prima o poi tutte le donne fanno.

– E invece non sono intelligente, sono una stupida e voglio una risposta!

– Va bene, come vuoi, non ti ho tradito ma ho desiderato farlo.

– Quante volte è successo?

– Beh, adesso non essere pignola, non le ho mica segnate…

– Più o meno…

– Mah, diciamo abbastanza spesso in questi ultimi mesi.

– Me lo sentivo, ne ero certa.

– E tu?

– Beh, se la cosa può farti sentire meno in colpa…

Il bambino: – Mamma, chi era Cenerentola?

– Lei: – Sono io!… Sì, insomma, era una ragazza buona e bella ma molto infelice… Guarda la televisione invece di ascoltare i nostri discorsi… No, aspetta, hai finito i compiti?

– Sì, mamma.

– Allora va’ a giocare con gli altri bambini.

Il figlio corse via  e lei restò per un attimo a pensare. Cos’altro poteva voler sapere? Nella testa i pensieri turbinavano come foglie in balia del vento. Il vento del burrascoso presente o del sereno passato? Forse entrambi… Avvertiva una vaga sensazione di pericolo, come la presenza di una belva in agguato, pronta a ghermirla. E lui era lì, seduto in poltrona, fumando una sigaretta, sforzandosi di immaginare le prossime parole della moglie e preparandosi a rispondere, come un giocatore di scacchi. Ma lei ormai aveva esaurito la voglia d’indagare e di proseguire quella schermaglia penosa e, tutto sommato, inutile. Provò un desiderio improvviso di uscire di casa, di fuggire a quel senso di oppressione. Aprì la porta, corse giù per le scale e poco dopo era in strada. Si diresse a passo spedito verso la macchina.

Dopo un attimo di esitazione lui aprì la finestra e chiamò la moglie, ma quasi controvoglia, meccanicamente. Lei guardò su e di colpo si augurò con tutte le forze che lui la seguisse, che corresse da lei e abbracciandola le sussurrasse come un tempo: «Tu sei la mia vita!».

Prima di accendere il motore volse di nuovo lo sguardo alla finestra. Attese ancora a mettere in moto, guardò di nuovo, poi scese dalla macchina e si mosse verso la cabina telefonica. Il marito pensò: «Ecco, ora telefona a sua madre», ma sentì squillare il telefono:

– E’ un momento difficile, lo so, ma cerchiamo di essere ragionevoli… esaminiamo la situazione con calma. Scendi giù… lasceremo Enrico da mia madre. Dobbiamo parlare e decidere una volta per sempre… – s’interruppe e poi concluse: – Ti va?

  • Va bene, adesso scendiamo.

Percorsero un buon tratto di strada in silenzio. Erano ammutoliti dal turbamento o dall’orgoglio? Oppure ciascuno dei due cercava le parole più idonee a iniziare il colloquio, per non provocare subito una reazione negativa nell’altro? Continuavano a fissare muti l’asfalto che scivolava via monotono e indifferente sulla scia dei loro pensieri.

Guidava già da un’ora e finalmente fermò la vettura in un viottolo sulla riva del lago. Fu lei a parlare per prima:

– Ricordi quando venivamo qui prima di sposarci? Questo lago mi è sempre piaciuto… nelle sue acque c’è come una forza sana e buona… sento che dobbiamo ricominciare da qui, da questo luogo dove ci siamo scambiati il nostro primo bacio… vieni, noleggiamo una barca.

Appena staccatisi dalla riva provarono un senso di sollievo, una liberazione improvvisa e un bisogno di remare sempre più in fretta, come per scaricare nello sforzo fisico tutta la loro inquietudine, tutto il loro rammarico. Tacevano e l’amaro silenzio era rotto soltanto dal respiro affannoso che si confondeva col tonfo cadenzato dei remi. Trascorso circa un quarto d’ora smisero di remare. Ansimando posarono i remi sul bordo della barca e si concessero un po’ di riposo. Si guardarono intorno. In un raggio di almeno cinquecento metri non c’era nessuno.

– Che pace! – esclamò lei – e com’è bello ricordare… Sai, non te l’ho mai detto… quando eravamo ancora fidanzati ho fatto uno strano sogno. Ascolta… Eravamo in barca, proprio come adesso e forse proprio su questo stesso lago…

E gli raccontò ciò che aveva sognato.

– E’ una bella favola e a te le favole piacciono molto, vero? – commentò lui.

– E’ vero e sono convinta che esse aiutino a vivere.

– Hai ragione, evviva la poesia, evviva la fantasia!… Ho caldo e farei volentieri una nuotata… e tu, non hai voglia di tuffarti?

– Ma non abbiamo i costumi e poi siamo venuti qui per parlare…

– A me il costume non serve, per parlare c’è sempre tempo e adesso ho voglia di nuotare.

– D’accordo… se proprio non resisti spogliati e tuffati, io ti aspetterò qui.

In pochi istanti l’uomo era già pronto e con una esclamazione di gioia si gettò e scomparve sott’acqua.

Era piuttosto irritata. Il comportamento del marito le sembrava superficiale e irresponsabile. Non era così che aveva immaginato quella gita in barca, no, si aspettava da lui un contegno più serio e più adeguato alle circostanze.

Trascorso qualche istante l’uomo riemerse a pochi metri di distanza. Rideva di cuore e gridò:

– Guarda cosa ho trovato sul fondo… sembra proprio la scatolina del tuo sogno! E’ un po’ arrugginita… Chissà se contiene ancora il nostro primo bacio… Vediamo un po’… ha il coperchio incastrato… non riesco ad aprirla…

– Fermo, non farlo! – gridò la donna. – Vieni qui, fammela vedere.

Con quattro bracciate l’uomo raggiunse la barca e sempre ridendo porse la scatolina alla moglie. Lei l’osservò a lungo, rigirandola sul palmo della mano, poi prese a fissare intensamente lo specchio del lago. Il suo sguardo si posava ora sull’acqua, ora sul piccolo oggetto ripescato dal marito. Non sembrava affatto turbata, anzi col trascorrere dei secondi il suo volto s’illuminava, si rasserenava e il sorriso le brillava negli occhi.

– Lasciamola chiusa – sussurrò. – Immaginiamo che contenga veramente il nostro primo bacio… se l’aprissimo esso svanirebbe per sempre, teniamola con noi così, come un portafortuna.

Lui aveva smesso di ridere. Ora guardava la moglie e la vedeva diversa, cambiata come per incanto. La vedeva esattamente come anni prima e per un attimo pensò che quella scatolina avesse davvero un potere magico. Sentì una forza irresistibile che lo attirava verso la donna e la baciò con tutta la tenerezza che poteva.

Da quel giorno il loro amore non corse più alcun serio pericolo, e a poco a poco la scatolina finì nel dimenticatoio, come del resto succede con tutte le cose delle quali alla fine non si ha più bisogno.

Il fungo presuntuoso e il fiore modesto

In un bosco c’era una volta un fungo. Era il più bello e il più grande di tutti, ma sfortunatamente era anche molto presuntuoso, e avrebbe fatto pure tanti dispetti ai suoi compagni, se avesse avuto le gambe e le mani…Insomma era bello, ma nessuno gli voleva bene a causa del suo brutto carattere.

Un giorno il proprietario del bosco, che era un ricco signore, dette una magnifica festa per il matrimonio di sua figlia, e ordinò ai servitori di cogliere i funghi più belli e di arrostirli. Essi andarono nel bosco e, naturalmente, colsero anche il fungo presuntuoso che sembrava loro il più saporito. Povero fungo! Lungo tutta la strada ripeteva ai servi:

– Riportatemi sotto l’albero dove sono nato, io sono duro, non sono gustoso, anzi sono decisamente indigesto!

E tanto disse e tanto fece, che alla fine i servi, stanchi dei suoi lamenti, lo gettarono nell’erba. Il fungo presuntuoso tirò un sospiro di sollievo, ma la sua gioia durò poco, perché ormai era tagliato e così morì. Prima di spirare però, alzò gli occhi al cielo, quindi si guardò intorno per dire addio al suo mondo e sospirò:

– Ah, chissà, forse se fossi nato meno bello e più modesto…

Qualche giorno dopo passò di lì una pastorella. Si chiamava Alisa. Pascolando le pecore e cercando al tempo stesso le fragoline di bosco, capitò proprio nel punto dov’era morto il fungo e…cosa vide? Un fiore d’un bel celeste acceso, piccolino ma assai grazioso, che agitando i suoi capolini le faceva cenno di avvicinarsi. Alisa si chinò su di lui e gli chiese:

– Cosa vuoi, bel fiorellino?

E lui le rispose:

– Sono nato dove è morto un fungo. Era bello, ma nessuno gli voleva bene, perché era presuntuoso e superbo, mentre io sono nato per essere semplice e per andare d’accordo con tutti. Come ti chiami?

– Alisa – rispose la pastorella. – E tu?

– Io ancora non ho un nome – disse il fiore – però il tuo è molto bello e mi piacerebbe chiamarmi come te.

– Oh, ne sono molto felice! – esclamò la bambina.

E fu così che da quel giorno Alisa e Fiordaliso diventarono grandi amici.

La  pioggia  della  concordia

 

In un grande paese lacerato dalle discordie e dall’odio, viveva una famiglia di contadini: il padre, la madre e il figlio Geremia di undici anni – bello come un angioletto, ma gracile e di salute cagionevole. Era sensibile e taciturno, mangiava poco e sembrava sempre con la testa fra le nuvole. I suoi genitori non erano molto soddisfatti di lui, perché avrebbero preferito un figlio sano e robusto, e senza tante fantasie, da impiegare con profitto nel duro lavoro dei campi.

Geremia si rammaricava che il padre e la madre non lo capissero, e col passar del tempo diventava sempre più malinconico. Ma il bambino aveva un animo poetico e spesso trovava conforto e interesse proprio nelle cose e nei fatti più semplici della vita di ogni giorno. Quando pioveva restava incantato a seguire le gocce che scivolavano sui vetri della finestra, e si sforzava di trovare un senso in quel loro lungo rincorrersi; a volte invece osservava con trepidazione due galli che si beccavano furiosamente, e paragonava i loro cruenti scontri agli eterni litigi degli uomini; altre volte era affascinato dal tenue tremulo posarsi della luce del sole sulla rugiada, come una carezza materna. Ogni tanto passeggiava nel bosco e scriveva dei versi usando fuscelli d’erba o sassolini, e le sue poesie erano conosciute da tutti gli animali e da tutte le piante dei dintorni, che le leggevano e se le trasmettevano dall’una all’altra.

Ma la cosa che affliggeva di più Geremia era l’inimicizia che regnava ovunque, e il più bel sogno della sua vita era che fossero andati tutti d’accordo, a cominciare dai suoi genitori che, purtroppo, litigavano assai spesso.

Un giorno Geremia fu costretto a mettersi a letto a causa di una brutta influenza. Aveva anche la febbre e il medico gli aveva prescritto delle medicine che lo facevano sudare e sentire ancora più debole. Quella sera stessa, aspettando il sonno, il bambino fissava intensamente la tenda a fiori che copriva la finestra della sua stanzetta. Fuori era già buio, ma la luce della lanterna nel cortiletto rischiarava la tenda, e i fiori risaltavano come su un prato al sorgere dell’aurora. Inconsciamente concentrò lo sguardo su una campanella gialla, circondata da uno stuolo di margheritine. La guardava e sentiva che le palpebre gli diventavano sempre più pesanti, finché senza rendersene conto si addormentò e cominciò a sognare…

La campanella improvvisamente si mosse e tintinnò. Poi si staccò dalla tenda e gli si posò sul cuscino. Ora la sentiva chiaramente e capiva anche cosa volesse dirgli con quel suo leggero insistente tintinnio:

– Geremia, devi prepararti per un’azione molto importante e pericolosa. Io ti farò compagnia, indicandoti la strada da seguire. Come sai, in questo nostro paese i rapporti tra la gente sono molto tesi e, se non interveniamo subito, scoppierà presto una guerra civile. Dovremo fare un lungo viaggio per mari e per monti, e arrivare in una regione dove nessuno sa cosa sia la discordia e tutti vivono in pace. Il segreto risiede nel particolare tipo di nuvole, che rovesciano una pioggia in cui è contenuta una misteriosa sostanza che distrugge i microbi dell’inimicizia. Raggiungeremo quel posto e porteremo qui un po’ di quelle nuvole prodigiose. Ma dobbiamo essere pronti a sostenere una dura battaglia, perché sicuramente le tre peggiori personificazioni del Male, e cioè: l’Invidia, l’Intolleranza e l’Odio, cercheranno d’impedirci l’accesso a quella regione fortunata e felice.

Geremia si alzò, si vestì, si mise in tasca un po’ di pane e formaggio e, preceduto dalla campanella, prese la strada dei campi. Tutti dormivano e i grillini avevano già iniziato le loro serenate alla luna, che risplendeva con il suo faccione infarinato. Quando entrarono nel bosco, la campanella cominciò a tintinnare, suggerendo a Geremia i sentieri da prendere. Fatti appena pochi passi, il bambino udì un leggero sbattere di ali e fece cenno al fiore di tacere. Si guardò a lungo intorno, finché scorse appollaiato su un ramo un grosso gufo che lo fissava coi suoi occhi simili a due lampadine verdi. A un tratto l’animale aprì il becco e disse con la sua voce rauca:

– Geremia, sei un bambino buono e coraggioso e so che vuoi fare una grande opera di bene. Quindi ti aiuterò volentieri. Strappami una piuma, se ci soffierai sopra ti spunteranno le ali e potrai volare fino alle nuvole della Concordia, dopo aver sconfitto le forze del Male… E un’altra cosa… quando sarai arrivato alle soglie di quel paese pacifico, incontrerai una vecchietta con un fuso magico, pregala di darti un po’ di filo che ti servirà per trascinare le nuvole fin qui.

Camminarono diversi giorni, riposandosi nelle grotte o sotto gli alberi, finché una mattina la campanella cominciò a sonare con tutte le forze, avvertendolo:

– Attento, Geremia, tra poco ti apparirà la prima personificazione del male, cioè l’Invidia, trasformata in una donna falsamente bella e gentile. Ella cercherà d’incantarti, ma tu non darle ascolto.

Il bambino fece cenno di aver capito, e dopo aver camminato ancora un po’, scorse l’Invidia e udì la sua voce soave e subdola:

– Avvicinati, Geremia, non temere, voglio farti un bel regalo, guarda… è un berretto magico che apparteneva all’uomo più ricco della terra. Ogni volta che lo metterai in testa potrai avere anche tu ciò che gli altri hanno o, se preferisci, potrai togliere agli altri ciò che possiedono, per averlo soltanto tu.

– Ma io non voglio niente e non ho intenzione di togliere nulla a nessuno, sono contento di quello che ho e di ciò che gli altri hanno – rispose Geremia.

Appena udite quelle parole, la donna cacciò un urlo tremendo, si lacerò le vesti e si strappò i capelli, trasformandosi in un’orribile megera con gli artigli di un’aquila e i denti di un lupo, e urlò:

– Sei un piccolo insolente e mi fai patire le pene dell’inferno… non hai cuore, aiutami, per alleviare questa mia tortura devi soltanto accettare questo berretto…

– Tienitelo pure – replicò Geremia – e lasciami andare per la mia strada, ti ho già detto come la penso!

Allora l’Invidia si sentì avvampare e bruciare dall’ira, e per trovare sollievo si gettò nel torrente che scorreva lì vicino, sfrigolando come l’olio sul fuoco, e Geremia ne approfittò subito per darsela a gambe.

– Il primo ostacolo è superato – sospirò tintinnando la campanella – ma ora ti aspetta la seconda prova. Incontreremo l’Intolleranza, una terribile gigantessa che semina il terrore e non tollera che qualcuno la pensi diversamente da lei.

Camminarono ancora tre giorni e arrivarono in una radura, dove sotto un’enorme tenda dormiva il mostruoso essere. Era alto almeno dieci metri, aveva due manone da far paura, e i capelli lunghi fino ai piedi. Solo la testa, e quindi anche il cervello, erano stranamente piccoli rispetto al corpo. Geremia si avvicinò a passi felpati, cercando di non svegliare la gigantessa e di passare inosservato, ma evidentemente quella fingeva di dormire, perché si alzò di scatto, facendo tremare la terra, e scoppiò in una diabolica risata che gelò il sangue a Geremia.

– Ha, ha, ha, cercavi di sfuggirmi, eh? Dimmi subito chi sei e cosa ci fai da queste parti!…

– Mi chiamo Geremia – rispose il bambino – e devo compiere un’azione segreta e molto importante. Lasciami passare, perché non ho tempo da perdere…

– Senti, senti – replicò l’Intolleranza – questo moccioso osa darmi degli ordini! Rispondi prima a questa domanda, e poi vedremo… Dimmi un po’, se trovi qualcuno che non la pensa come te, tu cosa fai?

– Niente, perché io rispetto le idee degli altri! – rispose senza indugio Geremia.

– Bene, bene, come vedo sei un tipo molto scomodo e quindi non mi resta che eliminarti… – e così dicendo la gigantessa si avventò sul bambino e lo afferrò tra le possenti mani. Geremia si sentì perso, ma per fortuna in quel momento così critico escogitò una frottola:

– Non mi uccidere, devo svelarti una cosa molto interessante… Laggiù, oltre questa pianura, c’è una grande roccia dove cresce un albero solitario. Sulla cima dell’albero c’è un corvo che gracchia in continuazione: «Io sono più intollerante dell’Intolleranza, e uno di questi giorni le caverò gli occhi e la renderò impotente con le mie arti magiche, e allora prenderò il suo posto».

– Cosa stai farneticando, di quale corvo parli…

– Guarda, guarda tu stessa, da questa altezza riuscirai a scorgerlo, è nero come l’inchiostro… Guarda, guarda bene, lo vedi? Se vuoi vedere meglio devi portare le mani agli occhi come un cannocchiale…

La gigantessa, che era forte e prepotente ma assai stupida, seguì il consiglio di Geremia, ma così facendo lasciò la presa e il bambino si ritrovò improvvisamente libero. Scese a terra aggrappandosi ai capelli del mostro e fuggì via. Quando l’Intolleranza capì di essere stata presa in giro, cacciò un urlo terribile e si gettò all’inseguimento di Geremia. Ma ormai il bambino e la campanella erano entrati in un fitto bosco e correvano a gambe levate, protetti dalla folta vegetazione, dove la gigantessa non poteva scorgerli. Messisi definitivamente in salvo, la campanella tintinnò di sollievo e disse:

– Anche il secondo ostacolo è superato. Ora resta l’ultimo. Dovrai sconfiggere l’Odio e poi arriveremo al paese della Concordia.

Camminarono ancora un giorno e una notte e finalmente giunsero sulla riva di un grande lago. Sembrava un posto tranquillo e sicuro, ma all’improvviso udirono un forte scroscio e dalle onde uscì strisciando un essere metà uomo e metà drago, con una coda enorme che agitava violentemente, provocando un vento impetuoso.

– Chi sei e cosa vuoi?! – urlò al bambino.

– Mi chiamo Geremia e non voglio fare del male a nessuno, lasciami andare, perché devo compiere una grande opera di bene.

A quelle parole, l’Odio prese a tremare di rabbia e a vomitare fuoco dalla bocca:

– Tu vuoi fare del bene, e vieni a dirlo proprio a me che sono l’Odio in persona, il nemico mortale di ogni atto di amicizia e di solidarietà! Sei uno stupido sfrontato e ti farò scomparire dalla faccia della terra. Tuttavia mi fai pena e voglio darti una possibilità di salvezza. Ripeti soltanto: «Giuro odio eterno a tutti i miei simili».

– Non posso – rispose Geremia – non mi trovo qui perché odio, ma perché amo i miei simili e tu non potrai farmi cambiare idea… Sì, amo i miei simili e non solo essi, amo anche le piante e gli animali, e l’intera natura…

In quel preciso istante, un albero che cresceva sulla riva del lago restò commosso dalle parole di Geremia e agitò con violenza un grosso ramo, colpendo il mostro sulla testa e facendolo stramazzare a terra privo di sensi. E così, anche quella volta, Geremia e la campanella riuscirono a fuggire.

– Finalmente abbiamo sconfitto le tre peggiori personificazioni del Male – disse il fiore – e presto arriveremo al paese della Concordia.

Infatti, dopo una mezz’ora di cammino, incontrarono la vecchietta di cui aveva parlato il gufo. Filava un filo d’argento.

– Mi chiamo Geremia… – le si rivolse il bambino.

– Lo so – lo interruppe la vecchietta – gli uccelli amici del gufo ti hanno preceduto e mi hanno raccontato tutto. Ecco, prendi questa matassa di filo d’argento e congratulazioni per essere riuscito a vincere le forze del Male e per la pace che riporterai nel tuo paese. Hai compiuto un’impresa davvero straordinaria!

Geremia ringraziò la vecchietta, poi tirò fuori di tasca la piuma regalatagli dal gufo, ci soffiò sopra e subito gli spuntarono due grandi ali, e insieme alla campanella volò fino alle nuvole. Ne scelsero alcune tra le più grosse e cariche di pioggia, le legarono al filo d’argento e iniziarono il viaggio di ritorno…

Il sole era appena spuntato e attraverso la tenda socchiusa illuminava il viso di Geremia. Il bambino si svegliò, ancora sotto l’impressione del sogno, e guardò la tenda: la campanella era lì, silenziosa, e sembrava non essersi mai mossa dal suo posto. «Che bel sogno ho fatto!» – pensò Geremia.

In quel momento la mamma e il papà entrarono nella stanza e si avvicinarono al letto. Sorridevano e si tenevano abbracciati. Poi si chinarono sul bambino, lo accarezzarono e lo baciarono.

– Come ti senti, mio caro? – gli chiese la mamma. – Questa notte non hai avuto paura? Non ti sei svegliato? E’ venuto giù un violento acquazzone, con tuoni e fulmini…

Geremia sorrise e rispose soltanto:

– No, mamma, non ho sentito niente, si vede che ero troppo occupato a sognare.

Da quel giorno nel paese si cominciò a respirare un’aria nuova. La pioggia aveva spazzato via i microbi dell’odio e della discordia. Tutti si chiedevano scusa per i torti fattisi a vicenda e si auguravano fortuna e felicità e, all’occorrenza, erano pronti anche a darsi volentieri una mano.

Solo Geremia conosceva il segreto di quel miracolo. Sapeva anche che, purtroppo, quell’incanto prima o poi sarebbe svanito, ma pregava il Cielo che ciò avvenisse il più tardi possibile, e intanto nel suo animo si preparava ad un’altra nobile e meravigliosa avventura.

La quercia e il faggio

 

     Quando ero bambino, ricordo che molto spesso, prima di addormentarmi, leggevo o ascoltavo una favola. Ciò grazie soprattutto al fatto che la televisione non c’era ancora, e quindi si dedicava più tempo alla lettura e alla conversazione. Abitavamo al primo piano di un alto edificio situato al centro della città, dove il traffico e i rumori di ogni genere, anche se assai meno assordanti di oggi, accompagnavano le giornate con la loro musica stridula e discordante. All’imbrunire, però, il chiasso calava notevolmente, fin quasi a scomparire del tutto verso le nove di sera, quando cioè di solito andavo a dormire. Allora, nel silenzio che regnava nella mia stanzetta, chiudevo gli occhi e attendevo il sonno, trasalendo al minimo scricchiolio dei mobili, e captando leggeri, misteriosi fruscii che sembravano rincorrersi per la stanza e rimbalzare da una parete all’altra.

Una sera non riuscivo a prendere sonno… pensavo continuamente a ciò che la maestra ci aveva detto degli alberi, della loro forza, bellezza e utilità per l’uomo. In particolare, ripetevo mentalmente un brano della poesia che ci aveva letto in classe:

… gli alberi sono felici

senza chiedere

gli alberi sono saggi

senza lagnarsi

gli alberi muoiono in silenzio

e il loro ultimo desiderio

è leggere ancora una pagina

di cielo.

 

L’orologio sul comodino batteva insistente e monotono: tic… tac… tic… tac… tic… tac… Cara, vecchia sveglia, sentivo la sua presenza e sapevo che mi avrebbe fatto compagnia fino alla mattina, fino alle sette in punto – l’ora in cui dovevo alzarmi per andare a scuola. Ma quella sera, come ho detto, non riuscivo a prendere sonno… pensavo agli alberi e a un tratto mi sembrò che il ticchettio si trasformasse in parole, e che le parole si combinassero tra loro per formare un racconto…

Ascolta… tornerò indietro nel tempo, tornerò indietro di tanti anni, tantissimi anni… Devi sapere che allora l’edificio in cui abiti, la città in cui vivi, non esistevano ancora. Al loro posto c’era un grande folto bosco, popolato di creature buone, semplici e felici, tra le quali naturalmente c’era anche l’uomo. In quel bosco la vita si svolgeva in modo assai diverso da quello che tu conosci. Per darti qualche esempio: l’acqua dei ruscelli aveva alcune proprietà che tenevano lontana qualsiasi malattia. L’occupazione preferita era cantare e sonare: i bambini imparavano la musica direttamente dalla natura, ascoltando con attenzione le voci degli animali, delle piante, della pioggia, del vento… e la scrivevano usando steli d’erba, aghi di pino e bacche di vari colori. Tutti vivevano molto a lungo, perché non c’erano le discordie, i delitti e i vizi che oggi affliggono gli uomini e ne abbreviano l’esistenza. Amarsi era un fatto così naturale e risaputo, che nessuno diceva mai «ti amo», perché era perfettamente inutile, né tanto meno si diceva «ti odio», per il semplice motivo che l’odio era un sentimento sconosciuto.

Tra gli alberi del bosco ce n’erano due singolarmente belli e maestosi: una quercia e un faggio. Non si sapeva con precisione quanti anni avessero, ma di certo dovevano essere vecchissimi. Essi godevano di grande rispetto ed erano stimati da tutti per la loro saggezza. Era una saggezza extraterrestre e nessuno sapeva che essa, tradotta nella lingua delle fronde che chiunque era in grado di comprendere, proveniva alla quercia e al faggio dal saper leggere e interpretare i messaggi-consigli inviati dagli astri, per risolvere nel modo migliore le questioni più importanti e difficili.

I due alberi erano nati uno accanto all’altro e, come tutte le altre creature del bosco, si amavano molto, si consultavano spesso e trovavano sempre un accordo per il bene e la gioia di ognuno… Immagino cosa stai pensando in questo momento: «Due alberi così sarebbero assai utili oggi…». Ma lasciamo da parte le divagazioni. Da tempo immemorabile, dunque, la vita scorreva serena e felice, ma un brutto giorno in quel paradiso in terra avvenne un fatto spaventoso, che sconvolse la natura e la pacifica esistenza di quelli che lo abitavano. Da una località ignota erano giunti uomini completamente diversi, avidi e aggressivi, che cominciarono subito ad abbattere alberi per costruirsi calde e comode dimore, a inquinare l’acqua dei ruscelli, a uccidere gli animali, a maltrattare e cacciare via gli uomini tranquilli e mansueti che avevano trovato sul posto, e che naturalmente – sorpresi e atterriti – non avevano fatto alcuna resistenza. Ben presto, con la venuta di quei selvaggi, erano sorte avversità e sofferenze di ogni tipo. Le forze del male avevano portato inimicizie, sventure, malattie e una delle vittime fu proprio il faggio. Si ammalò gravemente e quando giunse di nuovo la primavera, la quercia vide con terrore che il suo amato compagno tardava a risvegliarsi dal lungo sonno invernale, finché capì che non avrebbe più indossato il suo consueto bel vestito verde. Stranamente, il faggio tirò fuori soltanto una foglia. Era spuntata su uno dei rami più bassi, e c’era scritto un messaggio d’addio per la quercia: «Prima di morire ho letto nel cielo che rinasceremo e ci ritroveremo in un altro punto della Terra, non ancora contaminato dall’uomo».

Perché mai aveva scritto «rinasceremo e ci ritroveremo»? La quercia fremette con tutte le sue fronde e si chiese: «Significa che un giorno anch’io dovrò lasciare questo bosco?». Tuttavia non provò dispiacere, ma soltanto un’infinita nostalgia.

La risposta giunse anni dopo, quando inaspettatamente apparvero in quel luogo: seghe elettriche, scavatrici, gru, camion, che portarono alla definitiva scomparsa dell’ospitale bosco e alla nascita dell’invadente città.

Alle sette in punto la sveglia suonò e mi alzai. Uscito dal portone, mi avviai verso la scuola. Avevo fatto appena pochi passi, allorché mi fermai di colpo… pensavo al racconto dell’orologio e mi sentii improvvisamente triste. Ma durò soltanto un attimo. Mi voltai a guardare la mia casa e sorrisi… avevo l’impressione che si trasformasse lentamente… che assumesse la forma di due alberi grandi e maestosi, e che attraverso le finestre entrassero a frotte: uccelli, scoiattoli, lucertole, calabroni, farfalle…

Una notte nel castello

 

Leandro era un giovane studente che aveva due hobby: le bellezze naturali e gli scacchi. Non aveva ancora incontrato l’amore, ma era uno di quei ragazzi che hanno fiducia nella vita e che sanno pazientemente aspettare.

Una domenica di agosto si era alzato presto, con l’intenzione di fare una gita in una località abbastanza lontana, dove c’erano delle grotte molto interessanti che voleva esplorare. Per arrivarci bisognava prendere il treno, un autobus, e poi fare quasi cinque chilometri a piedi tra i colli. Prese con sé da mangiare e da bere, mise nello zaino anche la lampadina tascabile e si avviò verso la stazione.

Circa quattro ore dopo entrava nella grotta principale e iniziava l’esplorazione. Era affascinato da ciò che vedeva, ogni tanto si fermava per osservare meglio un particolare e ammirare la strana inesauribile fantasia della Natura. S’inoltrava sempre più, senza fretta, senza guardare l’orologio… e non si accorgeva che le ore passavano. Quando alla fine si sentì stanco e decise di tornare, notò con sorpresa che erano già le sei e si ricordò che l’ultimo treno partiva alle otto. Doveva dunque affrettarsi. Pensava che al massimo entro mezz’ora sarebbe uscito dalla grotta. Ma non si rendeva conto di aver camminato molto e di aver perso completamente l’orientamento. Tentava da una parte, tornava indietro, provava una diversa direzione… e così facendo, ripetendosi di continuo: «ecco, ora ci sono, dev’essere lì…», trascorsero altre lunghe ore. Finalmente, quando cominciava già a temere il peggio, vide un chiarore argenteo a una cinquantina di metri sulla sinistra, e con un sospiro di sollievo pensò: «quella luce… dev’essere la luna». Questa volta non si sbagliava – era proprio la luna e Leandro uscì dalla grotta, accolto da una meravigliosa notte stellata.

Guardò l’orologio: erano le dieci. Ormai non era più possibile tornare a casa, doveva cercarsi un riparo per dormire. Nella grotta non era consigliabile, perché troppo umida, e poi era meglio guadagnare tempo e strada per ripartire con i primi mezzi della mattina. Mentre pensava a dove poter trascorrere la notte, si ricordò che a poca distanza dalla fermata dell’autobus c’erano i ruderi di un antico castello e decise di recarsi proprio lì.

Da ciò che restava ancora in piedi si capiva che era stata una costruzione molto solida e ben fortificata, certamente la residenza di un casato illustre e potente. Si trovava sulla cima di una collina, e tutto intorno s’intravedeva ancora l’anello dell’antico fossato, ora colmo di terra e di erbacce. Erano rimasti alcuni tratti delle spesse mura di cinta con le punte dei merli e i buchi delle feritoie, e una delle torri. Il resto era andato distrutto e sostituito dal cielo, dai massi e dall’erba. La luna giocava tra i ruderi armata di calce e pennello. Nel silenzio della notte si udiva ogni tanto la voce metallica e intermittente degli insetti.

Leandro entrò nella torre, si sdraiò sul soffice manto erboso e chiuse gli occhi. Si addormentò subito e dopo un po’ cominciò a sognare.

Gli parve di svegliarsi in un’ampia stanza rivestita di legno scuro. Anziché sull’erba, era sdraiato su un morbido tappeto orientale. Appese alle pareti ardevano due lampade a olio che illuminavano ritratti di dame e di gentiluomini, spadoni, balestre e alabarde. In un angolo c’era un’enorme stufa ricoperta di lucenti maioliche colorate. Leandro si tirò su, e non credendo ai propri occhi fece il giro della stanza e si fermò davanti a un grande specchio che copriva metà di una parete. Notò con sorpresa di essere vestito come uno di quegli antichi cavalieri visti tante volte al cinema e nei libri di storia che aveva letto.

Mentre era lì a lambiccarsi il cervello per cercare di capirci qualcosa, sentì un lieve fruscio di passi al di là di una delle due porte della stanza, e fece appena in tempo a nascondersi dietro una pesante tenda damascata. Attraverso uno spiraglio vide una cosa che lo lasciò senza fiato: la porta si aprì lentamente con un lieve cigolio e a Leandro apparve una ragazza d’una bellezza mai vista. Camminava a piedi nudi, scivolando leggera come sul ghiaccio. Indossava una lunga veste rosa e i capelli sparsi sulle spalle luccicavano come pagliuzze d’oro. Sembrava turbata e canticchiava sottovoce un motivo melodioso e malinconico. Passò davanti alla tenda e scomparve dietro la seconda porta, spargendo intorno un tenue profumo di gelsomino.

– Chi sarà? – si chiese Leandro, uscendo da dietro la tenda e stropicciandosi gli occhi, come per accertarsi di essere sveglio.

Mentre cercava una risposta a quell’incantevole enigma, la sua attenzione fu attirata da uno dei ritratti. Raffigurava un vecchio dall’espressione solenne e bonaria al tempo stesso. La folta barba risaltava sul ricco abito di velluto scuro, come un ventaglio di madreperla. Lo sguardo caldo e lievemente preoccupato era fisso davanti a sé… Leandro istintivamente si voltò e si accorse che il vecchio guardava un altro quadro…

– Ma è il ritratto della ragazza che ho visto un minuto fa! – si meravigliò il giovane, osservandolo incantato.

Restò così a lungo, senza poter distogliere gli occhi da quel viso angelico, delicato come un petalo di magnolia. Leandro si sentiva come in cielo, ma a un tratto udì dietro di sé una voce sommessa e profonda che lo riportò bruscamente sulla terra. Si girò… la voce veniva dal ritratto del vecchio gentiluomo:

– Leandro, ti trovi nel castello dei duchi di Lorendorf e la ragazza che hai visto, cioè il suo spirito, è Laura – la figlia del duca. Io sono suo nonno. Quello che vedi adesso è il castello com’era fino al 10 agosto del… non ricordo più di quale anno, prima che venisse distrutto. Ma proseguiamo per ordine… Devi sapere che quando Laura compì diciotto anni, il crudele principe Uberto, assai più vecchio di lei, chiese al duca la mano della figlia, minacciandolo di morte se non avesse acconsentito. Ma Laura si rifiutò di sposarlo, perché era perfido e brutto come il demonio. Del resto, i suoi genitori e naturalmente anch’io, non potevamo non essere d’accordo con lei. Temevamo però la vendetta di Uberto, e per questo fu raddoppiata la sorveglianza all’interno e sulle mura del castello. Uberto aveva concesso al duca mio figlio solo tre giorni di tempo per decidere, e quando il termine stava per scadere, io consigliai Laura di chiedere aiuto a una famosa maga che viveva nel nostro ducato. Laura dunque andò a trovarla e la maga, dopo aver pensato a lungo, le disse:

– So che tuo padre è un bravo giocatore di scacchi, e anche il principe Uberto si considera un campione, proponetegli dunque una partita, dicendogli che se vincerà avrà la tua mano, mentre se perderà dovrà rassegnarsi al destino e cercarsi un’altra moglie. Purtroppo non ho il potere di far vincere tuo padre, ma con le mie arti magiche stregherò gli scacchi per far sì che le partite finiscano sempre patte. Possiamo solo sperare che, col passar del tempo, Uberto si stancherà di giocare e rinuncerà a sposarti.

Laura ringraziò la fattucchiera e il giorno dopo, fortunatamente, al principe l’idea piacque e accettò la sfida. Come aveva promesso la maga però, le partite – con grande rabbia di Uberto – finivano sempre in parità, e la cosa andò avanti per alcuni mesi. Alla fine il principe perse la pazienza e, quando vide che neanche nell’ultima partita era riuscito a dare scacco matto all’avversario, si alzò come una furia, prese la scacchiera e la scaraventò in terra, sibilando tra i denti:

– Ora basta! Questa è una diavoleria e mi avete ingannato, ma me la pagherete cara!

Lasciò il castello ripetendo «me la pagherete, me la pagherete» e lanciando insulti.

Era la notte del 10 agosto. Nel pomeriggio dello stesso giorno, la vedetta sulla torre scorse in lontananza una nuvola di polvere che s’ingrandiva sempre più, avanzando in direzione del castello, e diede l’allarme. Era Uberto con la sua soldataglia che si apprestava ad attaccarci.

I combattimenti durarono alcune ore, le nostre guardie si difendevano bene e Uberto aveva già riportato notevoli perdite. Quando già pensavamo che si sarebbe ritirato, qualcuno all’interno del castello tradì e abbassò il ponte levatoio. Poco dopo successe il finimondo: spari, urla, gemiti e fuoco… tanto fuoco come un bosco in fiamme. Prima di morire soffocato dal fumo, feci ancora in tempo a scorgere mio figlio che si batteva contro Uberto, poi lo vidi vacillare ferito e quando il principe stava per finirlo con la sua spada, Laura si gettò improvvisamente davanti al padre per coprirlo e l’arma di Uberto le trafisse il cuore. Egli allora come inebetito si chinò sul corpo inanimato della mia adorata nipotina, e proprio in quel momento una freccia tirata da uno dei nostri gli si conficcò nel collo. Morì sul colpo, tornandosene all’inferno, dov’era certamente prima di venire al mondo. Malgrado il gesto eroico di Laura, purtroppo anche mio figlio perse la vita. Della nostra famiglia si salvò soltanto mia nuora, che impazzì dal dolore e finì i suoi giorni in un convento.

Questa è la storia di ciò che successe il 10 agosto di quell’anno. Sappi però che le forze del Male, probabilmente istigate da Uberto per vendicarsi dell’inganno subìto, hanno condannato le anime del duca e di Laura a non avere pace e a tornare ogni anno, in questo giorno, cioè oggi, nel castello ricostruito per incanto, per un’altra partita col principe, e ciò si ripeterà all’infinito. Soltanto una vittoria del duca potrebbe porre fine a questa maledizione.

Ora si trovano nel salottino blu. So che anche tu sei un bravo giocatore di scacchi, e ciò che più conta – sei estraneo a questa vicenda e la magia su di te non può avere effetto, quindi forse potrai aiutare mio figlio a vincere, liberando così sia lui che Laura dalla forza diabolica che incatena ancora le loro anime al castello. Esci dalla porta vicino alla stufa, percorri il lungo corridoio ed entra nell’ultima stanza sulla destra. Cerca di non fare rumore e non temere, essi non ti noteranno, perché sono troppo concentrati nel gioco. Va’ dunque e che Dio t’assista.

Leandro aveva ascoltato quel lungo racconto col fiato sospeso e non credendo alle proprie orecchie, ma si riprese presto dallo stupore, pensando che doveva agire in fretta. Guardò ancora il ritratto del vecchio e scorse sul suo volto un sorriso d’incoraggiamento, poi si voltò e posò lo sguardo sul ritratto di Laura. Notò che il viso della ragazza splendeva tranquillo e limpido come acqua di fonte. Anche lei sembrava infondergli fiducia, sembrava riporre in lui tutte le sue speranze. Leandro la guardò a lungo e sentì che, se necessario, per aiutarla avrebbe lottato come un leone, si sarebbe gettato anche nel fuoco.

Seguì le indicazioni del nonno della ragazza e arrivò in fondo al corridoio, davanti all’ultima porta sulla destra. Il cuore gli batteva forte dall’emozione, ma ricordò le parole del vecchio, pensò a Laura, e si fece coraggio. Abbassò lentamente la maniglia, ancor più lentamente aprì la porta, che per fortuna non cigolò, e s’introdusse in punta di piedi nella stanza. Era immersa nella penombra.

In un angolo rischiarato a stento dalla fioca luce di una lampada a olio, intravide due figure sedute, col capo chino sulla scacchiera. Scivolò come un’ombra lungo la parete e si nascose dietro una grossa poltrona, dalla quale sporgendo la testa poteva seguire, senza essere visto, il gioco dei due rivali.

Contemporaneamente al guizzare della fiammella del lume, le facce dei due giocatori emergevano a tratti dalla semioscurità. Quella di Uberto appariva torva e maligna, quella del padre di Laura – crucciata e avvilita. Leandro notò che il principe aveva davvero più l’aspetto di un demonio, che di un essere umano, e sentì un brivido di orrore.

Per un po’ osservò la scacchiera… la partita era già nella fase finale. Leandro studiò attentamente la posizione dei pezzi e notò che il Cavallo assicurava una superiorità sufficiente a vincere la partita. Naturalmente però tutto dipendeva dalle mosse del giocatore.

Lasciò quatto quatto il suo nascondiglio, si mise alle spalle del duca  e gli bisbigliò in un orecchio, facendolo sussultare leggermente:

– Zitto, duca, non muoverti, sono qui per aiutarti a vincere… Lascia però che sia io a suggerirti le mosse. Ora va’ col Cavallo in e6.

Il principe rispose con la Torre in b8.

– Adesso facciamogli fare una mossa sbagliata: metti la Torre in d4 – sussurrò Leandro.

Uberto infatti spostò la sua Torre in c8.

– Bene, ora diamo scacco matto al Re col Cavallo in g7 – suggerì il giovane.

Uberto storcendo gli occhi e fremendo di rabbia riparò il Re in f8.

– Di bene in meglio: Torre in g4 – proseguì Leandro.

Il principe rispose con la Torre in c6, dando scacco al Re, e sottolineando la mossa con un ghigno beffardo.

– Proteggi il tuo Re e allo stesso tempo diamo scacco al Re nero col Cavallo in e6 – sussurrò il giovane, raggiante di gioia, perché vedeva avvicinarsi la vittoria.

Uberto con un gesto di stizza portò allora il suo Re in e8.

– Magnifico! Ora scacco al Re con la torre in g8! – suggerì Leandro.

Il principe con un grugnito spostò il Re in d7, ma ormai la trappola era scattata:

– Torre in d8 e scacco matto! Duca, hai vinto! – esclamò Leandro.

In quel preciso istante la terra tremò e un lampo illuminò la stanza d’una luce accecante, seguito da un tuono fragoroso. Uberto si alzò barcollando, aveva la faccia verde e sprizzava veleno dagli occhi. All’improvviso cominciò a roteare su se stesso, sempre più veloce, sempre meno visibile, finché con un grido soffocato e spaventoso sprofondò per sempre nelle viscere della Terra. Allora nel castello tornò il silenzio. Il duca piangeva e rideva sommessamente. Leandro era felice e orgoglioso di aver aiutato padre e figlia, di averli liberati da quella schiavitù. Appena il duca poté vederlo finalmente in faccia, con la voce rotta dall’emozione esclamò:

– Non so chi sei e non voglio saperlo, ma lascia che ti abbracci e ti ringrazi per quello che hai fatto… Vieni, andiamo a cercare mia figlia per comunicarle la meravigliosa notizia.

Ma non dovettero neanche uscire dalla stanza, perché Laura apparve sbucando fuori da un angolo buio e rivolgendosi a Leandro con voce dolce e velata:

– Anch’io ti ringrazio, giovane e nobile cavaliere, ho visto come si è svolta la partita che ci ha dato la libertà e la pace dell’anima. Ti sono grata inoltre, perché grazie a te credo di sapere finalmente cosa significa la parola amore… purtroppo sono uno spirito, e devo tornare assieme a mio padre nella nostra eterna e sconfinata dimora. Ma non ti dimenticherò e cercherò di aiutarti a…

Ma non finì la frase, si avvicinò alla scacchiera, prese la Regina bianca e la porse a Leandro aggiungendo:

– Accetta questo pezzo in ricordo del nostro incontro, e che esso ti aiuti a trovare la regina del tuo cuore… ora devo andare… addio…

Così dicendo, Laura scomparve insieme con il padre dalla vista del giovane, che invocava invano il nome della ragazza.

Al sorgere del sole Leandro si svegliò. Era ancora sotto l’impressione dell’avventura appena vissuta, e restò deluso e afflitto nel constatare che era stato soltanto un sogno. Si alzò lentamente e uscì dalla torre. Il sole tingeva di rosa le rovine del castello, gli uccelli schiamazzavano rincorrendosi tra i resti delle antiche mura, e un fresco venticello agitava gli steli d’erba e i capelli del giovane.

Leandro si chinò per cogliere un fiore, e così facendo scorse tra i sassi uno strano pezzetto di legno. Lo prese e lo guardò attentamente. Era molto consumato dal tempo, ma… aveva una certa forma… ricordava una figura… e di colpo il ragazzo restò stupito e impallidì.

– La Regina – mormorò – è la Regina che mi ha dato Laura, ma perché è così consumata? Come se tutto fosse accaduto tanto tempo fa, e non questa notte… che strano… non capisco…

Confesso che anche per me la cosa è incomprensibile. Ho pensato e ripensato, ma non sono riuscito a chiarire il mistero. Posso fare solo delle supposizioni. Forse la Regina passando dal sogno alla realtà mostrava, come spesso avviene, il suo vero aspetto reso tale dal tempo, oppure Leandro aveva vissuto in sogno una storia di tanti anni prima, e della quale l’unica traccia rimasta era proprio quel pezzo degli scacchi, o magari – più semplicemente: due persone avevano fatto una gita da quelle parti, portandosi gli scacchi per giocare una partita e avevano perso la Regina…

Leandro comunque conservò quel pezzo come un tesoro e credo che gli abbia portato fortuna, perché un giorno trovò davvero la regina del suo cuore: non si chiamava Laura, eppure… lo crediate o no – le somigliava moltissimo.

L’ancora  dell’amore

In un piccolo villaggio in riva al mare viveva da un po’ di tempo un vecchio marinaio. Vi si era trasferito quando aveva compiuto settanta anni, e coi risparmi messi da parte si era costruito una graziosa casetta. Aveva navigato tutta la vita e da ogni paese visitato aveva preso con sé un oggetto ricordo. Ce n’erano tanti nella sua nuova dimora: mascheroni, lance, conchiglie rare, lampade, bussole, statuine, orologi, quadri, ecc. ecc., e ogni giorno egli dedicava loro qualche istante, tornando con la memoria ai bei tempi andati e alle avventure vissute.

In quella variopinta eterogenea collezione c’era un oggetto cui il marinaio si sentiva particolarmente legato: era un’ancora a tre bracci, che qualche anno prima di mettersi a riposo, aveva trovato arrugginita e abbandonata sulla spiaggia di un’isola sconosciuta, dove assieme all’equipaggio della nave era sceso per rifornirsi di acqua e di frutta. Non ricordava più dove fosse quell’isola, ma gli era rimasta nella mente la strana sensazione provata alla vista di quell’oggetto, malgrado per lui esso fosse così consueto. Gli sembrò vagamente di aver già visto l’ancora in qualche luogo, come avviene con una faccia dimenticata che riappare dopo tanto tempo, o una circostanza che non si sa bene se collocare nella realtà vissuta o in un sogno. L’aveva presa e da quel momento se l’era portata sempre dietro, come un portafortuna.

Adesso la teneva appesa a una parete della stanza da letto e tutte le sere, prima di addormentarsi, la guardava a lungo, quasi volesse accarezzarla con gli occhi e augurarle la buona notte.

Un giorno il vecchio, stanco e annoiato di non fare niente, decise di comprarsi una barca e di dedicarsi alla pesca. Ci mise dentro l’ancora che teneva in casa, e cominciò la sua nuova attività. Tutte le mattine all’alba saliva sulla barca, impugnava i remi e si portava fino a tre-quattrocento metri dalla riva, gettava l’ancora e le reti e aspettava… e non era un’attesa vana, perché il pesce non si faceva pregare e un’ora dopo le reti erano stracolme.

Il vecchio marinaio se la passava bene con il ricavato della pesca e avrebbe quindi potuto sentirsi contento di ciò che gli offriva la vita… ma purtroppo non era così. Col passare del tempo era diventato taciturno e triste, e la vista del mare acuiva la sua nostalgia. Egli si rendeva conto che la pesca non poteva sostituire le meravigliose lunghe traversate, i viaggi avventurosi sui mari di tutto il mondo. Molto probabilmente doveva sentirsi come uno squalo rinchiuso in un acquario, dopo aver provato l’ebbrezza degli sconfinati spazi marini. Guardava la grande distesa d’acqua, ora indorata dal sole, ora inargentata dalla luna, ora resa plumbea da una pesante coltre di nubi, e sempre più spesso sognava di riprendere la via del mare.

Una sera, sentendosi stanco e depresso si coricò prima del solito e spense la luce, pensando di addormentarsi subito. Ma il sonno, che normalmente lo coglieva dopo qualche minuto, quella volta doveva trovarsi molto lontano e tardava ad arrivare. Allora riaccese la lampada e si alzò e, dopo aver pensato come ammazzare il tempo, prese un logoro librone rilegato in pelle e si sedette per leggere qualche pagina. Era una raccolta di storie marine e, sfogliandola pigramente, l’occhio gli si posò su questo titolo: «Il pescatore e l’ondina». Cominciò a leggere…

In un villaggio di pescatori viveva un giovane ventenne, ingenuo ma onesto, brutto ma buono. Insomma era un semplicione che veniva spesso ingannato e preso in giro dai furbi del posto. Lo chiamavano «Ghiozzo» che, come sapete, oltre ad essere il nome di un pesce, significa anche sciocco, e lui si era così abituato a quel nomignolo, che ormai quando gli chiedevano: come ti chiami? rispondeva senza esitare: Ghiozzo, anziché Severino, che era il suo vero nome. Ogni tanto s’innamorava segretamente di una delle ragazze del paese, ma subito si metteva l’anima in pace, perché nessuna di esse gli mostrava simpatia.

Una mattina era andato come al solito a pescare. Era di buon umore e allontanandosi dalla riva fischiettava un allegro motivetto; sperava in una giornata favorevole… Il cielo era sereno, il mare calmo e uno stormo di gabbiani faceva la corte alla sua barca gridando festosamente. Ma di colpo lo scenario e l’umore del giovane erano mutati. Si era levato un forte vento e il battello cominciava a beccheggiare in modo preoccupante… Una grossa nuvola carica di pioggia si avvicinava minacciosa all’imbarcazione… Ghiozzo fu preso dallo sconforto: non aveva pescato nulla, si sentiva tremendamente solo e ora si preannunciava anche una bella burrasca… Decise di tornare subito a riva, ma mentre si apprestava a manovrare il battello in direzione della costa, udì come un fruscio che veniva dal fondo del mare, poi il fruscio si era trasformato in un canto, e il canto… in una dolce voce femminile. Ghiozzo ascoltava sbigottito e affascinato e si sforzava di capire di chi fosse quella voce, e cosa volesse dirgli. A un tratto sentì un forte scroscio e gli apparve una stupenda ragazza seduta sulla sponda della barca. Era di una bellezza mai vista sulla terra e dai suoi capelli, lunghi fino ai piedi, balenavano riflessi ramati. Gli sorrise dolcemente e gli disse:

– Non temere, Ghiozzo, mi chiamo Ersilia e sono un’ondina che vive in queste acque. Ti ho visto tante volte e ormai ti conosco bene. Lo so, sei nato brutto e sfortunato, ma io ti prometto di volerti sempre bene e di renderti felice. Prendi quest’ancora, essa ti aiuterà e ti proteggerà dai pericoli del tuo mestiere.

Ghiozzo non credeva ai propri occhi, né tanto meno alle proprie orecchie, ringraziò commosso l’ondina e le giurò eterno amore.

L’ancora era dotata di poteri magici: costringeva la barca a restare ormeggiata, quando era in arrivo una burrasca particolarmente violenta, mentre si sganciava da sola e calava in acqua nei punti dove il mare era più pescoso. Fin dal giorno del suo primo incontro con l’ondina, Ghiozzo si era convinto che la fortuna esiste anche per gl’infelici e i disprezzati. Aveva cambiato il nome del suo battello «Speranza» in quello dell’ondina, e ben presto l’«Ersilia» e il suo proprietario cominciarono ad essere conosciuti e rispettati in tutta la zona. Ghiozzo pescava meglio e più di ogni altro pescatore, ed era proprio il caso di dire che i suoi affari… andavano a gonfie vele!

Un anno dopo, grazie ad Ersilia, il giovane aveva notevolmente migliorato le sue condizioni di vita ma, ahimé, con gran rammarico dell’ondina, anche il suo carattere era cambiato: Ghiozzo si era fatto arrogante e prepotente, e adesso nessuno osava più chiamarlo così, perché il giovane andava su tutte le furie ed esigeva che usassero il suo nome di battesimo, cioé – Severino.

Una mattina, benché l’ancora fosse come inchiodata al fondo, Severino, volendo a tutti i costi pescare, in un impeto di rabbia tagliò la gomena e si mosse, deciso e sicuro del fatto suo. Ma fu l’ultima volta che lo videro. Il battello si allontanava sempre di più, finché diventò un piccolo puntino scuro. Disgraziatamente per lui, quel giorno il mare aveva deciso di scatenare tutta la sua forza e tutte le sue astuzie, tanto da rendere impotente anche l’ondina. Il battello da pesca fu travolto dai marosi infuriati e ruggenti e sia di esso che di Severino si perse ogni traccia.

Si dice che Ersilia, con il cuore spezzato dal dolore, attenda ancora il ritorno del naufrago, e intanto l’ancora vaga per mari e per spiagge alla ricerca del perduto amore.

Il vecchio marinaio richiuse il libro e restò pensieroso. Cercò di ricordare la sua giovinezza, quando più o meno poteva avere l’età di Severino, ma anche quella sera non trovò nessuna risposta ai suoi interrogativi: aveva nella mente come un vuoto profondo e incolmabile, della sua giovinezza non ricordava nulla. Si alzò in piedi e cominciò a passeggiare per la stanza, ripetendosi continuamente: «L’ancora… Ersilia… Ghiozzo». Ad un tratto vide il suo volto riflesso nello specchio… era pallido e scavato, pieno di rughe, col naso spugnoso e il mento sporgente. «No – pensò – non dovevo essere bello neanche da giovane…». Il vecchio era sempre più turbato e ogni tanto un brivido gli percorreva la schiena. Uscì per prendere un po’ d’aria e s’incamminò verso la barca.

Illuminata dalla luna, l’ancora mandava strani bagliori, come un segnale luminoso incessantemente ripetuto, come un misterioso messaggio in codice. Si avvicinò e la sfiorò con le dita, poi si mise ad osservarla attentamente, come non aveva mai fatto prima di allora. Gli sembrò che sotto la ruggine trapelasse qualcosa… forse un numero… forse una lettera… Raccolse una pietra e cominciò a raschiare in quel punto, con gli occhi sbarrati, freneticamente… finché apparve chiara e inequivocabile una «E».

– Ersilia! – sussurrò il vecchio.

Come paralizzato guardò il mare, il suo fedele amico, il compagno di tutta la sua vita, e sentì un irresistibile richiamo, un bisogno imperioso di partire. Salì sulla barca e cominciò a remare con tutte le forze. Remò a lungo, finché stremato e vinto dal sonno si addormentò, mentre la corrente spingeva l’imbarcazione sempre più lontano. Sognò di trovarsi in fondo al mare, di nuovo giovane, circondato da alghe fruscianti e da pesci di mille colori, e in mezzo ad essi nuotava una meravigliosa fanciulla. Gli sorrideva felice e gli sussurrava:

– Sono Ersilia, non ti ricordi di me? Sapevo che un giorno l’ancora ci avrebbe fatto rincontrare. Ora essa ci terrà uniti per sempre, terrà ancorati l’uno all’altro i nostri cuori.

Il marinaio continuava a sognare… ma era davvero un sogno?

Ancora oggi, quando le navi passano in quella zona di mare, un animo sensibile che crede a queste storie, può udire attraverso il mugghiare delle onde le voci del marinaio e dell’ondina che cantano la loro gioia e il loro grande amore.

L’angelo  e  la  diavola

 

     Tanti, tanti anni fa, che a contarli tutti ci vorrebbe più di un calcolatore elettronico, sulla Terra vivevano solo angeli e diavoli, che naturalmente si odiavano a morte e si combattevano senza sosta. I diavoli – armati di forche e gli angeli – di spade, facevano di tutto per scacciarsi a vicenda dal pianeta terrestre, ma né gli uni né gli altri riuscivano a riportare una vittoria decisiva.

Questa situazione durava da molto tempo, finché il buon Dio, stanco di quel sanguinoso interminabile putiferio, un bel giorno scese sulla Terra a bordo del suo carro tempestato di stelle e tirato da dieci aquile celesti, salì sulla montagna più alta del pianeta e lanciando fulmini e saette, con un urlo spaventoso cacciò via tutti i contendenti: gli angeli in cielo e i diavoli all’inferno. Ma una diavola e un angelo che in quel momento stavano lottando in una profonda caverna, dove erano finiti inseguendosi a vicenda, non avevano sentito nulla e quindi erano rimasti sulla Terra.

Verso sera, quando stava per iniziare la tregua notturna, uscirono dalla caverna per far ritorno ai rispettivi accampamenti, e restarono di stucco: anziché il consueto baccano e il solito pandemonio, si trovarono davanti un paesaggio spopolato e immerso in un silenzio di tomba. Erano stupiti e spaventati. Lo spettro della solitudine, che ancora non conoscevano, apparve loro con la sua faccia triste e tenebrosa.

Cominciarono a vagabondare in cerca di qualche superstite, e camminarono a lungo, di giorno e di notte, impauriti dalle loro stesse voci che in quel silenzio rintronavano come tamburi, trasalendo al minimo stormire dei rami, al richiamo di un uccello, al ronzio di un’ape… Qualche giorno dopo, quando furono certi di essere rimasti completamente soli, si sedettero stanchi e rassegnati sulla riva di un lago e si guardarono negli occhi. Per la prima volta nei loro sguardi balenò un sentimento nuovo, ben diverso dall’odio. Improvvisamente capirono che non aveva più alcun senso continuare a lottare, perché ognuno dei due aveva bisogno dell’altro, e in quelle condizioni solo le armi dell’amicizia e della solidarietà potevano aiutarli a sopravvivere.

Era ormai calata la notte e si sdraiarono sul soffice muschio per dormire. Passarono dieci minuti, venti, passò un’ora, ma non riuscivano ancora a prendere sonno. Pensavano… guardando la luna, ascoltando il fruscio delle onde che s’infrangevano sulla riva pietrosa, e il verso improvviso di qualche animale che rientrava in fretta nella sua tana. Alla luce della luna ogni tanto si osservavano a vicenda. Erano entrambi molto belli. La diavola aveva i capelli neri come l’ebano e gli occhi come due zaffiri. Lui era biondo come il grano maturo e il colore dei suoi occhi ricordava quello delle foglie in autunno. Si guardavano, dapprima con interesse… poi con sempre maggior simpatia, finché si sorrisero. E con quel sorriso sulle labbra si addormentarono. Sognarono la medesima cosa e la mattina dopo, svegliandosi, i due sapevano già di amarsi, e decisero di non lasciarsi mai più.

Quello stesso giorno in riva al lago, si staccarono un capello ciascuno, li legarono insieme e li affidarono al vento con queste parole:

– Portali al nostro Dio e digli che vogliamo sposarci e restare uniti per sempre.

Quando si vide arrivare quell’insolito messaggio amoroso e dopo aver udito le parole del vento, il buon Dio aggrottò le nere folte sopracciglia e disse soltanto:

– Va bene, che si sposino pure e diano inizio al genere umano, sono proprio curioso di vedere come sarà.

Passò il tempo e finalmente una notte nacque loro un bambino, il primo uomo della Terra, e a quello seguirono degli altri – maschi e femmine – finché la famiglia contò dodici persone. I figli crescevano forti e sani, nutrendosi di pesci e selvaggina, di funghi e frutta, molto diversi di carattere, a seconda se avevano preso più dal padre o più dalla madre. Col trascorrere degli anni, però, i due genitori, che non avevano dimenticato la propria origine e natura, ripresero a litigare e a combattere, e la cosa si ripeteva sempre più spesso. La diavola puntava la forca, l’angelo brandiva la spada e l’eterno duello ricominciava. Alla fine, dopo aver sopportato a lungo quelle rinnovate discordie, Dio perse la pazienza, scese sulla Terra a bordo del suo carro divino, li chiamò e così parlò loro:

– Speravo che sareste vissuti per sempre d’amore e d’accordo, ma come vedo, dopo tanto tempo trascorso insieme siete tornati nemici. Ora sulla Terra i vostri figli devono sforzarsi di vivere in pace, e il vostro cattivo esempio non li aiuterebbe di certo. Farò venire qui altre coppie di angeli e di diavoli, affinché l’umanità si moltiplichi e si diffonda su tutto il pianeta, ma se non andranno d’accordo caccerò via anche loro. Tornate dunque tra i vostri simili, cioè tu, diavola – all’inferno e tu, angelo – in cielo, dove resterete per l’eternità, ma prima di lasciare la Terra, salutatevi ed esprimete un ultimo desiderio.

I due si guardarono in cagnesco, poi volsero lo sguardo ai figli ormai grandi che lavoravano nei campi, temprati e invigoriti dal sole e dalle intemperie, e dissero:

– Io, come diavola, voglio lasciare loro la cattiveria.

– Ed io, come angelo, lascio loro la bontà.

Allora Dio aggiunse:

– Io, invece, lascio loro la saggezza.

Ciò detto, ognuno se ne andò per la sua strada.

E fu così che questi doni restarono per sempre sulla Terra. Anche oggi la cattiveria e la bontà si combattono per avere il sopravvento, ma nessuna delle due riesce a vincere del tutto l’altra, anche perché la saggezza trova spesso il modo d’interrompere temporaneamente le ostilità.

Ogni tanto la diavola, eludendo il controllo divino, si affaccia alla superficie della Terra dal cavo di un albero, da un fumaiolo, dalla siepe di un giardino… dà un’occhiata in giro, sghignazza soddisfatta e sparge un po’ di zizzania. Ma l’angelo dall’alto del cielo la vede e subito, per compensare la cattiveria, getta sulla Terra una manciata di bontà che si unisce alla zizzania, attenuandone gli effetti dannosi.

Questi due ingredienti dell’anima umana si trovano mescolati in misura assai diversa e complicata, e sei tu che devi distinguere e scegliere in modo giusto. Dal canto mio, posso solo augurarti di non sbagliare.

La moglie – angelo

e il marito – diavolo

 

     Cari amici, quando ho letto a mia figlia Silvia la favola «L’angelo e la diavola» si è risentita, perché ho dato la parte della cattiveria a una persona di sesso femminile. Devo dirvi francamente che non mi aspettavo questa sua reazione, anche perché era ben lungi da me l’idea di offendere le donne. Ma è andata così e perciò, per accontentarla e farle tornare il sorriso sulle labbra, ho dovuto prometterle che avrei scritto subito un’altra favola con i ruoli invertiti e intitolata come sopra. Eccovi dunque questa favola.

Una volta un giovane diavolo, amante del rischio e dell’avventura, decise di sposarsi con una straniera, e poiché per i diavoli le straniere possono essere solo gli angeli-femmine, un bel giorno travestitosi da principe azzurro, cioè da cavaliere bello, buono e senza paura, partì per il cielo in cerca di una moglie. Già altri diavoli, prima di lui, avevano fatto la stessa cosa, ma dopo un periodo più o meno lungo, e molto spesso subito dopo la luna di miele, le mogli-angeli avevano piantato in asso i rispettivi mariti-diavoli, tornando di corsa alle loro dimore celesti. Ciò tuttavia non aveva affatto scoraggiato il giovane cittadino dell’inferno, ma – al contrario – lo aveva invogliato ancora di più a tentare e riuscire là dove altri suoi consanguinei avevano fallito. Cercava una mogliettina graziosa, mansueta, premurosa e comprensiva, che gli permettesse di conservare intatte le sue prerogative diavolesche: la libertà, l’egoismo, la prepotenza, la furberia, ecc. ecc.

Dopo aver attraversato mari di cielo e montagne di nuvole sul suo cavallo nero come il carbone e veloce come un razzo, arrivò nella città di Cherùbia, dove si diceva vivessero le migliori candidate al matrimonio. Gli angeli di guardia sulle torri lo avevano già avvistato da un pezzo e quindi era atteso. Bussò al grande portone di argento e cristallo, e gli aprì un arcangelo che stringeva in mano una spada fiammeggiante.

– Chi sei? Cosa cerchi qui, straniero? – gli chiese in tono grave.

– Mi chiamo Malacoda – rispose il diavolo – sono uno scavezzacollo che ha deciso di ravvedersi e di metter su famiglia. Cerco moglie, ma deve essere così… così e così… – ed elencò tutte le virtù dell’angelo che aveva in mente come consorte.

Allora l’arcangelo lo fece entrare e gli rispose:

– Qui gli angeli-donne sono tutti virtuosi, ma ne conosco uno che corrisponde esattamente al tuo ideale di moglie. Va’ sempre dritto, poi prendi il settimo sentiero di luce a destra, e dopo averlo percorso fino in fondo grida tre volte: Modesta… Modesta… Modesta! Colei che accorrerà al tuo richiamo è l’angelo che stai cercando.

Malacoda ringraziò l’arcangelo con un sorriso volpino e si avviò, seguendo le indicazioni ricevute. Tutto andò come previsto e, appena scorse il bel cavaliere, Modesta ebbe un tuffo al cuore e credette veramente che fosse giunto il principe azzurro dei suoi sogni. Acconsentì subito alle nozze, ma prima di pronunciare il fatidico sì andò a chiedere consiglio al buon Dio:

– Signore dell’Universo, dimmi, faccio bene a sposare questo giovane?

– Non te lo consiglio, cara Modesta, perché è un diavolo – rispose Dio – ma sei libera di fare come credi. Se proprio hai deciso di prenderlo per marito, io cercherò di darti una mano… Chissà, forse riuscirai a trasformarlo in una persona ammodo. Ovviamente non potrete vivere né qui né all’inferno e perciò, come le altre coppie che vi hanno preceduti, vi trasferirete sulla Terra. Come regalo di nozze ti dono la pazienza… Vedrai, essa ti sarà molto utile. Addio o arrivederci – dipenderà da te.

La giovane coppia giunse sul pianeta terrestre e prese alloggio in un piccolo appartamento alla periferia di una grande città. I primi giorni furono tutti zucchero e miele. Modesta non aveva alcun bisogno di essere paziente, perché il marito si comportava in modo esemplare.

Volendo avere una vita interessante e una professione indipendente, e possedendo un grande talento artistico, cosa del resto non insolita nei diavoli, Malacoda scelse il mestiere di pittore, e meglio non poteva scegliere. I suoi quadri incantavano per la perfezione del disegno, per il tocco magistrale e la bellezza dei colori, e in breve tempo tutte le gallerie presero a contendersi le sue tele. Le loro quotazioni erano molto alte, e gli bastava dipingere un quadro al mese per vivere da pascià. Andarono ad abitare in una grande bella casa. Modesta era felice e orgogliosa del suo marito-artista, e sembrava essersi completamente dimenticata  che – in fondo era pur sempre un diavolo.

Ma una brutta sera, purtroppo, Malacoda le rinfrescò la memoria. Era tornato a casa ubriaco e urlava come un ossesso. Afferrò una sedia e cominciò a spaccare lampade, specchi e porcellane. Poi con gli occhi spiritati prese ad insultare la moglie, pallida e tremante come una foglia. Era la prima volta che lo vedeva così, nelle sue vesti sataniche. Ma Modesta era indulgente e attese che la furia del marito si placasse. Dopo una mezz’ora di quell’inferno, Malacoda, vinto dal sonno e dalla stanchezza, si gettò sul divano e si addormentò.

Da quel giorno però, Modesta dovette dar prova di tutto il suo coraggio e di tutta la sua pazienza, perché sempre più spesso il marito rivelava la sua vera natura, e le riempiva il cuore di amarezza e di sconforto. Malacoda era insopportabile e perfidamente cattivo, eppure, nonostante questo, la moglie continuava ad essere affettuosa e comprensiva, e conservava la speranza di accendere in lui la fiamma dell’amore e della bontà. «Devo riuscire – si ripeteva – devo resistere e riuscirò a cambiarlo». Ma si rendeva conto che non era affatto una cosa semplice, e non sapeva esattamente come fare, quale strada seguire per raggiungere l’intento. Pensa e ripensa, un giorno Modesta ebbe un’ispirazione dall’alto ed esclamò:

– Lo cambierò con la pittura!

Naturalmente il marito dipingeva sempre e ormai era celebre in tutto il mondo. In modo particolare erano apprezzati e richiesti i suoi ritratti. Emanava da essi un fluido misterioso e inquietante. Riusciva a mettere in evidenza i lati più riposti dell’animo umano, i sentimenti più insidiosi e nocivi, che in minore o maggiore misura tutti gli uomini hanno: paura, avidità, gelosia, egoismo, e via dicendo.

Una volta, approfittando di uno dei rari momenti in cui Malacoda sembrava tranquillo e compiacente, Modesta gli chiese di punto in bianco:

– Perché non fai un ritratto anche a me?

Egli la guardò sorpreso: non si attendeva quella richiesta della moglie. Restò un attimo immobile, fissandola intensamente negli occhi, come se volesse carpirle un segreto… forse il segreto di quella sua incrollabile fiducia e infinita pazienza… Le sorrise in modo strano e ambiguo e rispose:

– D’accordo, siediti su questa poltrona, qui vicino al cavalletto e non muoverti, guarda sempre in direzione della tela.

Malacoda si concentrò e con tratti rapidi e decisi fece uno schizzo del volto della moglie. Poi prese i pennelli, scelse accuratamente i colori e cominciò a stenderli sulla tela. I suoi occhi accesi e torvi guizzavano febbrili e penetranti dalla moglie alla tela, dalla tela alla moglie, mandando sinistri bagliori. Come contrastavano con quelli miti, limpidi e amorosi di Modesta! Malacoda continuava a dipingere, instancabile e frenetico, facendo appello a tutto il suo talento, a tutte le sue arti diaboliche, e scrutava il volto di Modesta, scrutava e cercava… L’innocenza e la dolcezza di quel viso lo turbavano, lo disarmavano e impaurivano. Cercava a tutti i costi un segno d’imperfezione spirituale da mettere in risalto, un neo nell’anima della moglie, da evidenziare nel ritratto… ma niente di tutto questo… cercava e dipingeva, e il ritratto era sempre più vivo, sempre più luminoso e parlante. Modesta vi appariva come trasfigurata, avvolta in un alone di purezza celestiale… i suoi occhi limpidi e profondi guardavano tristi il pittore, ed egli si sentiva come incatenato da una forza irresistibile e sconosciuta. Voleva liberarsene, staccare lo sguardo da quella immagine di perfezione e bontà che lui stesso aveva creato, ma la sua resistenza, il suo potere di opporsi al bene erano sempre più deboli. Alla fine, quando il quadro era ormai terminato, in un estremo impeto di rabbia gridò con voce sorda e soffocata:

– Maledetto ritratto, ora ti distruggerò!

Accecato dall’ira prese un coltello e stava già per avventarsi sulla tela, quando avvenne una cosa che lo lasciò di sasso: il coltello si era trasformato in un morbido sottile pennello. Evidentemente in quella circostanza il buon Dio aveva ritenuto opportuno intervenire personalmente con un miracolo.

Malacoda osservò la moglie che, sempre seduta sulla poltrona, adesso lo guardava felice e sorridente. Modesta gli disse:

– Ora puoi anche dare l’ultimo tocco!

Il pittore allora ritoccò leggermente gli occhi del ritratto, e in quel preciso momento sentì che da essi si sprigionava un calore mai provato prima, ma molto simile al calore del sole che a primavera scioglie la neve e il ghiaccio. Fu il colpo di grazia alla sua natura di diavolo. Capì che era stato sconfitto dal suo stesso genio artistico, dall’Arte – scintilla della mente divina e sollievo degli uomini. Commosso dalla cima dei capelli alla punta dei piedi, Malacoda posò la tavolozza e il pennello e guardò la moglie in silenzio – un silenzio che diceva più di mille parole.

Da quel giorno il pittore restò diavolo solo di nome, perché di fatto diventò un marito modello, e quando nacquero loro dei figli, fu anche un padre pieno di affetto e di premure. Da ciò si deduce che una moglie-angelo può riuscire a cambiare perfino un marito-diavolo!

Il ragazzo – uccello

 

     Da molto tempo si recava in quel parco, da quando cioè aveva scoperto che era il più ricco di colori e di suoni, fra tutti quelli che abbellivano la città. Era come un grande, stupendo quadro, che non ci si stanca mai di ammirare e dove si scopre sempre qualcosa di nuovo. Era come un accogliente rifugio, dove poteva sempre trovare un angolino tranquillo per pensare e sognare. Ci andava spesso e, seduto su una panchina immersa nel verde, ascoltava il coro degli alberi mossi dal vento e la squillante sinfonia degli uccelli, e in quei momenti dimenticava di essere timido come un cerbiatto e di non avere neanche un amico.

Anche quel giorno di buon’ora si era seduto su una panchina, aveva aperto un libro e si era subito immerso nella lettura. Dopo aver letto qualche pagina però, distolse gli occhi dal libro e si guardò intorno. Si sentiva stranamente agitato e non riusciva a concentrarsi. Cominciò ad osservare la forma degli alberi e le varie sfumature del verde, a elencare mentalmente i colori dei fiori e ad ascoltare le voci degli uccelli, che risonavano come un’intera orchestra… Riconosceva i vari strumenti musicali: campanelli, flauti, violini, nacchere, clarini… Un’invisibile bacchetta ora smorzava, ora accentuava il fischio dei merli, lo zirlo dei tordi, poi di colpo faceva emergere il trillo degli usignoli, il placido tubare delle tortore, l’allegro cinguettio dei passeri e il garrito delle rondini…

Il ragazzo ascoltava affascinato. Gli sembrava che in quella musica proveniente dall’alto, gli uccelli esprimessero il loro modo di ridere e di piangere, di chiamarsi e di litigare, di domandare e di rispondere e… la loro gioia di sentirsi liberi.

– Vorrei essere un uccello! – sospirò.

In quello stesso istante vide avvicinarsi uno scoiattolo. Lo guardò con tenerezza e simpatia e lo salutò:

– Ciao amico! Mi dispiace, non ho neanche una noce con me, ma ti prometto di portartene qualcuna la prossima volta.

– Ti ringrazio – rispose lo scoiattolo, lasciandolo a bocca aperta, perché non si trova tutti i giorni uno scoiattolo che parla come gli uomini – sono qui non per ricevere le noci, ma per esaudire il tuo desiderio per conto del mio sovrano Codafolta. Se vuoi, posso farti diventare un uccello. Ti avverto però, prima del tramonto del sole dovrai tornare qui per riprendere il tuo aspetto umano, altrimenti rimarrai per sempre un pennuto. Sii dunque un passero, vola quanto e dove vuoi, divertiti, ma ricordati di tener d’occhio il sole.

Il ragazzo non ebbe nemmeno il tempo di replicare, e di colpo si sentì piccolo piccolo e soffice soffice. Era emozionato e impaurito e indugiava a spiccare il volo, non riusciva ancora a credere di poter volare. Dapprima quindi si limitò a saltellare, poi pian piano si fece coraggio, si convinse di essere un uccello e volò fino all’albero più vicino, distante un paio di metri. Funzionava! Era proprio un passero!

Aveva tutta la giornata davanti a sé. Le prime due ore le passò a prendere confidenza con la sua nuova natura e ad osservare il comportamento e le abitudini dei suoi nuovi simili. Quante cose interessanti e divertenti imparò! Si rincorrevano, si baciavano, si azzuffavano, si chiamavano a vicenda, sfidandosi in una gara di canto o di velocità tra gli alberi. Il passero volava sempre più sicuro di sé e si divertiva un mondo. Pensava: «ora arrivo su quel platano… e ora su quel faggio, ma no – forse è meglio la quercia… ora su quel grosso ramo sporgente… e adesso vediamo se quel rametto regge il mio peso… ».

Dopo un po’ di quel frenetico frullare. Si posò su un pioppo per riprendere fiato. Forse aveva voluto strafare e il suo piccolo cuore batteva come un martelletto. Dall’alto, adesso, vedeva il mondo in modo completamente diverso: la gente che passava, i bambini che giocavano, le coppie di fidanzati che si tenevano per mano – tutti gli sembravano così pesanti e come impotenti, così inchiodati alla terra. Poi riprese a volare, felice e spensierato, finché non scorse qualcosa che lo incuriosì: su un ramo dell’albero accanto al suo c’era una passerottina tutta sola che cantava con voce malinconica e annoiata. Lo guardava con due occhietti dolci e tristi, e il passero si fermò ad ascoltarla incantato. A un tratto la passerotta, come indovinando la timidezza del maschio, gli volò vicino e gli disse:

– Fammi compagnia, voliamo un po’ insieme, vuoi?

Il passero era ammutolito dalla sorpresa, ma ritrovò presto la voce:

– Io sono… – cominciò a dirle, ma la passerotta lo interruppe:

– Non importa chi sei e da dove vieni, mi basta vedere che anche tu sei solo e che hai uno sguardo buono.Vieni, voliamo fino a quel pino, vedi com’è alto? Vedrai che spettacolo da lassù!

Fecero subito amicizia, risero, scherzarono, andarono in cerca di cibo insieme, trascorsero tutta la giornata gustando la gioia di essersi incontrati, e quando furono stanchi di svolazzare, si posarono su un ramo, si guardarono negli occhi e capirono di essersi innamorati a vicenda. Ma sul più bello, mentre il passero stava per dichiarare il suo amore alla compagna, si accorse che intorno cominciava ad imbrunire, allora di colpo ricordò le parole dello scoiattolo e si sentì gelare il sangue. Volò sulla cima dell’albero e vide che era rimasto soltanto un esile spicchio di sole. La passerotta gli era volata dietro e lo fissava sorpresa e trepidante. Il passero allora le pigolò:

– Purtroppo devo lasciarti, non chiedermi nulla, tornerò, non temere, aspettami, intanto come pegno d’amore scambiamoci una piuma.

Ciò fatto la baciò e volò via. Sulla panchina, dove preoccupato lo attendeva lo scoiattolo, riprese il suo aspetto umano.

– Appena in tempo! – esclamò l’animaletto – se tardavi ancora un minuto… So che ti sei divertito e che hai trovato anche il tempo d’innamorarti. Da oggi in poi, se vorrai, potrò trasformarti in albero, in fiore, in quello che desideri, ma non chiedermi più di tramutarti in uccello, perché purtroppo non posso.

Rimasto di nuovo solo, il ragazzo guardava sconsolato la piccola piuma posata sul palmo della mano – l’unica prova che non si era trattato d’un sogno.

Da quel giorno non riusciva più a immaginarsi la sua vita umana, a dimenticare di essere stato tanto felice assieme alla passerotta. Sempre più spesso si sedeva su quella stessa panchina. Guardava in alto e la vedeva volare debolmente e malvolentieri, la sentiva chiamare sconsolatamente il compagno scomparso. Qualche volta gli veniva vicino per beccare le briciole di pane, allora lui cercava di parlarle, di prenderla tra le mani, ma lei fuggiva via spaventata… Come poteva sapere!

Finalmente un giorno lo scoiattolo apparve di nuovo al ragazzo. Vedendolo così avvilito, cercò di consolarlo:

– So che sei molto triste e anche la tua passerotta lo è. Mi dispiace che soffriate tanto, sono stato io a causare tutto questo. Ma cercherò di aiutarti. Ti ho detto che non potevo più trasformarti in uccello, ma il mio sovrano Codafolta mi ha permesso di fare un’eccezione. Siete ancora così legati l’uno all’altra a causa delle piume che vi siete scambiati. Sono esse che vi ricordano continuamente il vostro amore e tengono uniti i vostri cuori come una catena. Non puoi continuare così, devi dimenticare quell’uccello, perché tu sei un ragazzo. Ti do un’ora di tempo per cercare la tua passerotta, restituirle la piuma e riprenderti la tua. Sii di nuovo un passero, ma fa presto e ricordati: se non tornerai qui entro un’ora, resterai per sempre un uccello.

– Grazie, amico mio, non dimenticherò mai quello che hai fatto per me – cinguettò il passero, mettendosi subito alla ricerca della passerotta.

La cercò freneticamente, la chiamò, volò di qua e di là, di sopra e di sotto, e finalmente la trovò. I due piccoli cuori sobbalzarono dall’emozione e dalla gioia. Si fissarono incantati e capirono di non potersi più lasciare.

Restarono insieme… un’ora… un giorno… un anno… tutta la vita. Ogni tanto, guardando il mondo sottostante, il mondo umano, una lieve ombra di nostalgia velava lo sguardo del passero, ma allora la sua compagna gli copriva gli occhi con un’ala e lo baciava teneramente.

Io un giorno li ho visti insieme. Saltellavano intorno alla panchina dove ero seduto e beccavano le briciole di pane che avevo portato da casa. Erano senz’altro loro, perché ad entrambi mancava una piuma… Si vedeva che erano davvero felici e che niente e nessuno li avrebbe più separati.

  1. Qualcuno dice che la storia sia finita diversamente: un giorno i due passeri cessarono di essere tali e si trasformarono in due giovani innamorati. Si sposarono, vissero insieme ma, come accade spesso tra gli uomini, dopo un certo tempo cominciarono a litigare e si lasciarono. Personalmente, quindi, io preferisco pensare che tutto sia rimasto così come ho raccontato.

Il labirinto

 

     In una parte di questo mondo viveva un bambino di nome Rinaldo, che frequentava la quinta elementare. Anche lui, al pari di ogni essere umano, aveva il suo lato cattivo e il suo lato buono: un po’ presuntuoso, testardello, irrequieto – difetti questi che non lo aiutavano certo nel difficile mestiere della vita , ma in compenso era intelligente, sincero e a volte anche altruista. Non era comunque uno di quelli che si ammazzano sui libri, anzi a dire il vero la sua maestra – la giovane, brava e saggia signora Teresa – non era molto soddisfatta del suo rendimento e gli ripeteva spesso:

– Tu e la scuola siete come il diavolo e la croce ed è un vero peccato, perché potresti fare assai di più.

Una mattina Rinaldo si era alzato di cattivo umore e, tanto per cominciare bene la giornata, aveva fatto involontariamente cadere un prezioso vaso di cristallo, mandandolo in frantumi e causando un grosso dispiacere ai genitori. Dopo essersi preso una bella sgridata, era corso in camera sua e si era avvicinato alla finestra… guardava accigliato e scontento il paesaggio e pensava… erano pensieri un po’ arruffati, ma più o meno si trattava di questo: secondo il calendario è già primavera, ma gli alberi non si sono ancora vestiti di foglie… inoltre fa freddo e il sole non ha la forza di bucare le nuvole… la primavera ha un sorriso triste, di sicuro si è avvicinata all’inverno sussurrandogli come sempre sorridente e gentile: «Ora fatti da parte, perché è arrivato il mio turno», ma il vecchio inverno a quanto pare non ha alcuna voglia di cedere il passo alla bella e delicata primavera e – come dice sempre papà – «mena il can per l’aia»… comunque molti uccelli sono già tornati…

Mentre Rinaldo era immerso in questi pensieri, un tordo – che doveva essere un po’ scapestrato – si posò sul davanzale della finestra, cinguettando allegramente e a squarciagola, e Rinaldo capì subito ciò che il tordo voleva dirgli:

– Sono felice perché sono libero mentre tu hai quella faccia da funerale perché devi sottostare a tanti obblighi… ubbidire studiare fare i compiti… per un giorno pensa a divertirti non andare a scuola oggi… – e con un sonoro zirlo volò via.

Rinaldo lo seguì con lo sguardo e vide che si posava su un ramo, dove lo attendeva impaziente la compagna, e senza un attimo d’indugio i due cominciarono a sbaciucchiarsi coi becchi. Il suo posto sul davanzale fu preso da una cornacchia:

– Cra cra cra… buongiorno Rinaldo cra cra cra ha ragione il tordo non andare a scuola oggi… sai… cra cra cra a Collestorto è arrivato il lunapark ci sono tanti giochi divertenti va’ a dare un’occhiata su con la vita cra cra cra muoviti ci vediamo là io ti precedo perché ho un appuntamento con un’amica cra cra cra – e così gracchiando spiccò il volo in direzione di Collestorto.

Rinaldo restò un attimo a meditare, valutò la situazione e decise di marinare la scuola. Finì di vestirsi, fece colazione, prese la cartella, chiese alla madre i soldi per comprarsi la merenda e uscì. Giunto alla piazza del paese, anziché andare a destra verso la scuola, voltò a sinistra prendendo la strada per Collestorto, che distava quasi cinque chilometri.

Quando arrivò nei pressi del villaggio, la cornacchia lo vide e gli andò incontro, poi gli si mise al fianco, un po’ volando e un po’ saltellando, per indicargli dove si trovava il lunapark. Tra l’ultima fila di case e il bosco c’era un vasto terreno pianeggiante e proprio lì avevano sistemato le giostre. A quell’ora del mattino però, era pressoché deserto e molti giochi erano chiusi. Rinaldo girò per qualche minuto, sempre accompagnato dalla cornacchia, finché giunse davanti a un grande tendone, sul quale faceva spicco una vistosa scritta: LABIRINTO. Sembrava non ci fosse nessuno. Rinaldo stava per andarsene, quando chissà da dove spuntò fuori un uomo basso e tarchiato. La sua voce risonava come da una caverna senza fondo e parlando faceva lampeggiare ora il bianco, ora il nero dei suoi occhi grifagni:

– Veramente sarebbe chiuso, ma se vuoi fare un giretto accomodati pure, in via del tutto eccezionale ti faccio entrare gratis, prego, il labirinto è a tua disposizione, vediamo se sei capace di uscirne…

A quelle parole una strana inquietudine e una vaga sensazione di pericolo s’impadronì di Rinaldo, ma in quell’attimo d’indecisione la cornacchia gli si posò accanto e lo incoraggiò:

– Cra cra cra entra non aver paura non ti succederà niente di male cra cra cra vediamo se sei così bravo…

Punto sul vivo e convinto anche dalla pioggia che cominciò a scrosciare improvvisa, Rinaldo si diresse verso l’entrata del tendone. Era piuttosto innervosito dalle parole dell’uomo e della cornacchia, che sembravano non credere molto nelle sue capacità, e stringendo i pugni dalla rabbia entrò nel labirinto. In quel preciso istante sentì cigolare la porta alle sue spalle, si voltò e fece appena in tempo a intravedere il ghigno dell’uomo dietro la porta, che si chiuse con un secco scatto. Era turbato e incuriosito al tempo stesso. Lì dentro era buio pesto, fece due o tre passi a tastoni e si fermò di colpo, inchiodato da una voce aspra e cupa proveniente da un altoparlante – riconobbe la voce dell’uomo:

– Attento Rinaldo, voglio dirti la verità, questo non è un labirinto qualsiasi. Esso è come una miniatura del mondo, con i suoi sentieri facili e difficili, con le sue persone amiche e nemiche. E’ una prova di tenacia e di pazienza. Riuscire o fallire dipende solo da te e, naturalmente, anche dalla fortuna. Bada però, se non ce la farai, resterai per sempre con me, ho appunto bisogno di un aiutante…

– Va’ al diavolo e fammi uscire subito di qui! – gridò Rinaldo.

Ma l’uomo per tutta risposta si fece una grassa risata  e aggiunse:

– Ormai è troppo tardi, nessuno, neanche io, potrà farti uscire da dove sei entrato, puoi solo andare avanti, camminare, cambiare direzione, eventualmente tornare indietro, provare di nuovo, senza avere mai la certezza di riuscire a farcela. Ci rivedremo solo se fallirai, perciò, nel caso in cui tu riuscissi a venirne fuori, ti dico addio fin da ora – e con quel saluto accompagnato da un’agghiacciante risata la voce tacque e Rinaldo si sentì accapponare la pelle.

Davanti a Rinaldo, come se si fosse alzato un sipario, apparve una scena inattesa e incredibile: lunghe file di persone di tutte le età andavano e venivano percorrendo vicoli stretti simili a budelli, camminavano a testa bassa, urtandosi a vicenda come colonne di formiche che vanno in direzioni opposte. Ogni tanto qualcuno si staccava dalla fila e proseguiva per conto suo, ma sbatteva contro un ostacolo invisibile – probabilmente una parete di vetro – come fanno le mosche imprigionate in una stanza con la finestra chiusa. Rinaldo fermò un ragazzo a caso e gli disse:

– A quanto pare, state cercando tutti di uscire da questo labirinto, è dunque così difficile?

– Ogni tanto qualcuno riesce perché ha fortuna o perché riceve un aiuto insperato. Il guaio è che la maggior parte di noi, anziché aiutarsi l’un l’altro e unire le forze, pensa solo a se stesso… purtroppo siamo diventati tutti egoisti  – rispose il giovane con un profondo sospiro.

– Grazie e buona fortuna, cercherò di cavarmela da solo – disse Rinaldo, e si diresse lentamente verso uno dei vicoli meno affollati.

Per non urtare la testa camminava con le braccia tese in avanti. Sbatté contro una parete di vetro, tornò indietro, riprovò in un altro punto, di nuovo un ostacolo… Come abbiamo detto, Rinaldo era ostinato e non si dava facilmente per vinto, ma dopo un’ora di vani tentativi anche la sua testardaggine si era affievolita, lasciando il posto allo sconforto e alla paura. Si sedette su uno scalino e si prese la testa tra le mani, non sapendo più che pesci prendere. A un tratto gli vennero in mente la sua casa e i suoi genitori. Come un film gli scorrevano davanti agli occhi immagini consuete e familiari, ma la sua attenzione si concentrò sulla figura della mamma… ora la vedeva chiaramente, seduta lì accanto a lui, era triste e preoccupata e lo fissava con aria di rimprovero. Rinaldo le prese la mano e le sussurrò:

– Mamma, di te posso fidarmi, aiutami tu…

La mamma allora lo invitò ad alzarsi e a seguirla, Rinaldo le andò dietro, fino a una stretta apertura in un muro, seminascosta da un pergolato.

– Ecco, puoi passare di qui – disse la mamma indicandogli il varco – fa’ attenzione, figlio mio, purtroppo io non potrò starti sempre vicino, le leggi della vita non me lo permettono, devi imparare ad andare avanti con le tue forze e, quando ti sentirai in pericolo, ascolta la voce del cuore – essa t’indicherà le persone che ti vogliono veramente bene, pensa intensamente a loro ed esse accorreranno in tuo aiuto, devi avere coraggio, pazienza e fiducia.

– Sì, mamma, grazie – sussurrò Rinaldo e proseguì oltre.

Ora la scena era cambiata. Si trovava in una piccola radura circondata da alti alberi e grossi cespugli. Il disco del sole stava pian piano scomparendo sotto l’orizzonte, l’aria si era fatta umida e fresca, tutto intorno era sonno e silenzio, si udiva solo il ticchettio della fitta pioggerella che cadeva insistente sulle foglie da una nuvola passeggera: cap cap tuc tuc… cap cap tuc tuc… Rinaldo si mosse con l’intenzione di attraversare la radura, ma all’improvviso sentì il vuoto sotto i suoi piedi e si ritrovò in una fossa. Era caduto in una trappola profonda quasi tre metri  e con le pareti lisce come il marmo. Non c’era alcuna possibilità di uscirne fuori. Pensa e ripensa, Rinaldo si ricordò delle parole della mamma e la prima persona che gli venne in mente fu il suo compagno di classe Luigi, al quale era particolarmente attaccato e che ammirava molto per la sua spavalderia. Sentì un fruscio provenire dalla bocca della fossa e scorse una testa bionda e ricciuta – era proprio Luigi!

– Luigi, amico mio! Aiutami ad uscire di qui, buttami uno di quei grossi rami che giacciono lì intorno! – gridò Rinaldo.

Ma il compagno lo guardò maliziosamente e gli rispose soltanto:

– Prova a farcela da solo, in fin dei conti, come dici sempre tu: «E’ facile come bere un bicchier d’acqua» – e scomparve.

Rinaldo restò di nuovo solo e capì di essersi sbagliato sul conto di Luigi. Gli vennero in mente le parole della maestra: «Guardatevi dalle persone finte e dagli amici interessati». La seconda persona alla quale pensò, chissà come e chissà perché, fu la sua compagna di classe Luisa, che egli si divertiva spesso ad offendere e a maltrattare, perché era convinto che «un maschio vale più di dieci femmine». Di nuovo sentì un fruscio e questa volta vide affacciarsi una testolina con due lunghe trecce nere. Era proprio lei! Rinaldo provò un senso di vergogna e non ebbe il coraggio di chiederle aiuto. Ma la bambina non aveva bisogno di essere pregata e gli disse:

– Veramente non te lo meriti, ma io non sono capace di negare aiuto a chi ne ha bisogno – e così dicendo gettò nella buca un grosso ramo.

Rinaldo si arrampicò lesto come un gatto, raggiungendo in un batter d’occhio il ciglio della fossa. Si guardò intorno, Luisa era scomparsa e ne provò dispiacere. Riprese a camminare con cautela, facendo attenzione a dove metteva i piedi, e tutto a un tratto udì un ruggito, si voltò e a qualche metro di distanza vide un leone con una testa spaventosa. Rinaldo si sentì gelare il sangue e scappò a gambe levate. Correva correva e dietro di sé sentiva sempre più vicino il respiro focoso e famelico della belva. Quando ormai era allo stremo delle forze, inaspettatamente si trovò davanti un alto muro e si sentì perso, ma con un ultimo sforzo disperato accelerò la corsa e, un attimo prima di urtare contro l’ostacolo, si gettò a terra da un lato. Il leone non fece in tempo a frenare il suo slancio e batté violentemente la testa contro il muro, finendo al suolo tramortito. «Questa volta – pensò Rinaldo – mi ha aiutato la fortuna» e la ringraziò con tutto il cuore.

Da un pezzo era già scesa la notte ma la luna, che sembrava una grossa frittata, spargeva generosamente la sua luce argentea. Cammina e cammina arrivò a un bivio. Non sapendo da che parte andare si disse: «Lascerò fare di nuovo alla fortuna» – quindi prese una moneta e la lanciò in aria: uscì il sentiero di destra. Proseguì per una ventina di metri, tutto sembrava filare liscio come l’olio, nessun ostacolo, e Rinaldo già si rallegrava di aver avuto quella bella idea; ma la sua soddisfazione durò poco, perché di punto in bianco si ritrovò in una fitta inestricabile boscaglia, si voltò per tornare indietro, ma la strada era misteriosamente sparita. In quello stesso momento finì impigliato in grandi ragnatele che lo immobilizzavano e stavano per soffocarlo… allora pensò al padre, ed egli gli apparve con un grosso paio di forbici in mano e cominciò a tagliare furiosamente i fili che avvolgevano il figlio, finché Rinaldo fu di nuovo libero. Stava per ringraziare il padre, che però lo precedette dicendogli in tono severo:

– Hai sbagliato ad affidarti alla fortuna, perché essa è capricciosa, avresti fatto meglio a pensarmi subito. Cerca di non ripetere l’errore, non serve a niente invocare la fortuna, perché essa è sorda e arriva quando le fa comodo e quando meno te l’aspetti, come è successo con il leone. Adesso seguimi.

Rinaldo gli andò dietro per qualche metro, poi il padre aggiunse:

– Va’ sempre dritto. Arrivato alla sorgente volta a sinistra e prosegui per circa cinquanta metri, di più non posso dirti. Arrivederci, figlio mio, e sii prudente!

Rinaldo seguì le indicazioni del padre e giunse sulla riva di un torrente. Stava già pensando di attraversarlo, allorché da dietro un albero sbucò un giovane che lo fissava con lo sguardo allucinato. Fece cenno a Rinaldo di avvicinarsi e gli sibilò in un orecchio:

– Se non vuoi restare per sempre in questo labirinto, mangia un po’ di quest’erba. E’ buonissima e ti farà sentire forte e sicuro di te.

Rinaldo la guardava come ipnotizzato e gli sembrava che bisbigliasse: «Mangiami, mangiami». Si sentiva sempre più attratto da quell’erba misteriosa e stava quasi per cedere alla tentazione… proprio in quel momento però gli venne in mente ciò che tante volte aveva sentito ripetere dai genitori, dalla maestra e alla televisione: «… è una sostanza che rende schiavi e inganna chi la prova, promette una grande felicità ma si rivela una trappola mortale. Se l’assaggi non puoi più farne a meno, la vita diventa un inferno e vivi solo per mangiarne ancora, sempre di più, finché maledici il momento che sei nato, fino al giorno in cui il cuore si ferma…» Sì, ricordava bene queste parole ed anche il nome di quell’erba: droga.

Rinaldo trovò la forza di fuggire via. Correva come se avesse le ali ai piedi. Le gambe gli tremavano e aveva il cuore in gola, e alla fine fu costretto a fermarsi: non ce la faceva più! Si sdraiò sul prato per riposare un po’ e nel silenzio della notte, rotto solo dal suo respiro affannoso, udì un sommesso e confuso coro di lamenti provenire dalla sua sinistra. Rinaldo aguzzò gli occhi e tese le orecchie. Doveva scoprire di chi erano quelle voci soffocate… si alzò a fatica e cominciò ad avanzare in direzione di quel brusio… Si trascinava in avanti e alla fine si rese conto e si sentì rabbrividire: era tornato al punto di partenza! Allora Rinaldo fu preso dallo spavento e dalla disperazione e cadde al suolo privo di sensi. Prima di svenire però, aveva fatto in tempo a rivolgere il suo pensiero alla maestra.

Quando rinvenne, ancora stordito, tremante di paura e bianco come un cencio lavato, si guardò intorno e restò stupefatto, non credeva ai suoi occhi: i raggi del sole rimbalzavano sullo specchio di uno stagno e il vento cantava tra le fronde. Sulla riva era seduta una giovane donna coi capelli che sembravano oro filato. La giovane era immersa in una nuvola di fiori e il sole le baciava il viso. Guardava Rinaldo con due occhi ridenti e luminosi – somigliava tanto alla sua maestra… Si alzò, si avvicinò a Rinaldo leggera come una piuma, lo prese per mano e lo condusse dritto all’uscita del labirinto. Quando furono all’aperto disse al bambino:

– Sono molto contenta di averti aiutato… non ti dico addio, perché ci rivedremo presto… – e dopo averlo accarezzato sulla testa, scomparve come per incanto.

Prima di tornarsene al suo paese, Rinaldo notò che al posto dell’uomo che l’aveva fatto entrare nel labirinto c’era adesso una persona completamente diversa, con una faccia allegra e gioviale.

Il giorno dopo Rinaldo andò a scuola come al solito, entrò nell’aula e salutò i compagni, poi si avvicinò a Luisa e le diede un bacio. Lei gli sorrise e non sembrò affatto sorpresa da quel gesto così inconsueto per Rinaldo. I compagni invece, e soprattutto Luigi, restarono di stucco e la loro meraviglia aumentò col passare del tempo, perché Rinaldo era molto cambiato – naturalmente in meglio.

Le lettere di Teodoro

 

     Ogni mattina, alle nove in punto, in un grazioso paesino circondato dai monti, immerso nel verde e attraversato da un piccolo e chiassoso fiumicello, il postino iniziava il suo lavoro sonando di porta in porta. Era un uomo gentile, coscienzioso e diligente, apprezzato da tutti, pronto a congratularsi se i compaesani ricevevano notizie liete, o a spendere una parola di conforto, se il contenuto delle lettere si rivelava spiacevole o triste. Soprattutto i bambini avevano un debole per lui, perché egli pescando nelle tasche della divisa trovava sempre una caramella o un cioccolatino che porgeva ai piccoli ghiottoni, dopo aver chiesto loro con voce profonda e fintamente severa:

– Te lo meriti davvero?

E’ chiaro che i bambini ogni volta rispondevano di sì, e quindi egli non poteva far altro che sorridere, pensando al tempo stesso: «Bisogna essere proprio ingenui per fare simili domande». Si chiamava Franco, ma data la sua professione e la familiarità con cui lo trattavano, i bambini lo avevano ribattezzato Francobollo, soprannome che egli aveva accettato senza protestare e senza offendersi, considerandolo anzi un segno di amicizia e di affetto.

Aveva un carattere tranquillo e bonario, e solo una volta gli era capitato di arrabbiarsi e di alzare la voce. Fu quando alcuni ragazzacci venuti dalla città, approfittando di un suo momento di disattenzione, gli avevano sottratto la borsa piena di corrispondenza, e soltanto verso sera lo avevano informato che essa si trovava sull’albero che cresceva accanto a una casetta abbandonata, in un vicolo del paese. Sì, quella volta si era veramente infuriato – e ne aveva tutte le ragioni, ma la cosa non s’era più ripetuta, perché i monellacci erano stati scoperti e severamente puniti e avevano capito la lezione.

Durante le ore di servizio Francobollo aveva dunque l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere e di scherzare un po’ con la gente. Ma quando finiva il lavoro e tornava a casa, o nei giorni di festa, diventava di colpo malinconico e pensieroso, perché viveva solo. Infatti non si era sposato, e spiegava la cosa dicendo:

– Purtroppo ho perso l’occasione buona al momento giusto.

Inoltre in quel paese non aveva neanche un parente o un amico che gli dedicasse un po’ di tempo. Anche i parenti che vivevano lontano lo avevano dimenticato, e così non riceveva mai né una lettera, né una cartolina. A poco a poco questa privazione era diventata un’idea fissa, e più ci pensava, più si rammaricava che il destino gli negasse quel gran piacere della vita che è appunto la corrispondenza. Si sentiva come defraudato di un sacrosanto diritto, e si paragonava ora a un orologiaio che non possieda nemmeno un orologio, ora a un calzolaio senza scarpe, o a un cuoco costretto a mangiare soltanto pane e patate…

Una sera il postino era particolarmente giù di corda. Anche quel giorno aveva consegnato numerose lettere, rendendo felici tante persone, e come al solito non aveva trovato nulla per sé, neanche una cartolina con i soli saluti. All’improvviso ebbe come un lampo di genio e si disse: «Da domani comincerò a scrivermi da solo». Si ricordò che da piccolo era molto affezionato a un cugino che si chiamava Teodoro, e perciò decise che sarebbe stato proprio lui il mittente delle lettere e cartoline che avrebbe ricevuto. Si sentì di colpo leggero e sereno, come se si fosse tolto una grossa pietra dal cuore e se ne andò a dormire, pensando al contenuto della prima lettera da imbucare il giorno dopo.

E così cominciò quella strana, immaginaria corrispondenza, con cui Francobollo cacciava via la solitudine, riempiendo il vuoto che sentiva nell’animo. Erano lettere dal contenuto più svariato, nelle quali il postino esprimeva i suoi desideri, le sue gioie e contrarietà, ma soprattutto il bisogno di compagnia che provava quando era libero dal lavoro. Erano lettere brevi e semplici, ma piene di calore umano, di quel calore che in fondo ogni uomo, anche il più indurito e insensibile, segretamente desidera. Ecco alcuni esempi presi a caso:

Caro Franco,

mi congratulo molto per l’aumento di stipendio che hai avuto. Finalmente potrai comprarti quel vestito che sognavi. Cosa fai domenica? Con questo bel tempo è un delitto restarsene in casa. Perché non vieni a trovarmi? Faremo una bella gita insieme e festeggeremo l’aumento ricevuto con un goccetto di quel vino rosso di cui vai matto…

Allora ti aspetto. A presto, ti abbraccio,

Tuo Teodoro

Carissimo Teodoro,

oggi ho avuto una giornata piena di piacevoli sorprese, ma la più bella è stata naturalmente la tua lettera. Sei sempre molto gentile e le tue parole non solo mi fanno tanta compagnia, ma sono anche un grande conforto. Sei riuscito poi a trovarmi quel cuccioletto che ti avevo chiesto?…

Dammi presto tue notizie, ti abbraccio,

Tuo Franco

Mio caro cugino,

ho saputo con grande dispiacere che sei stato molto male, ma sono contento che tu ti sia ristabilito. Purtroppo non ho potuto farti visita, perché ho dovuto terminare un lavoro assai importante e urgente. Ti occorre qualcosa? Posso esserti utile in qualche modo?…

Ti penso spesso,

Tuo Teodoro

Gli anni passavano e Francobollo aveva già riempito cinque cassetti, un armadio e una cassapanca di lettere e cartoline. Da molto tempo non sapeva più cosa fossero malinconia e solitudine, e viveva contento e soddisfatto. Inaspettatamente però, qualcosa venne a turbare quel suo mondo placido, stravagante e fantastico. Fu nel giorno del suo sessantesimo compleanno, che coincideva con l’inizio della pensione. Francobollo ormai era libero dagli obblighi professionali e avrebbe avuto tutte le giornate a disposizione per riposarsi, leggere, fare lunghe passeggiate e, naturalmente, continuare ad occuparsi della sua corrispondenza. Ma stranamente, anziché rallegrarsene, si sentì di colpo smarrito e abbattuto, scontento e deluso. «Perché?» – si chiese. E cercò di rispondersi facendo un bilancio della sua vita. «Cosa ho fatto in fondo? – si disse – ho percorso a piedi centinaia e centinaia di chilometri, consumando tante paia di scarpe. Sempre e soltanto le stesse cose, consegnando migliaia e migliaia di lettere e cartoline, come una macchina a gettoni… Quante vere gioie ho avuto? Ben poche. Se non avessi escogitato questa stupida…» – voleva aggiungere: «corrispondenza con Teodoro», ma si morse le labbra e scoppiò a piangere.

Quella sera andò a dormire con la bocca amara e col profondo rammarico di non aver fatto nella vita qualcosa di diverso, di più importante, qualcosa d’infinitamente più grande. E con questi pensieri si addormentò e fece un sogno.

Sarebbe troppo lungo raccontarvelo tutto, ma posso assicurarvi che fu esattamente ciò che quella notte Francobollo sognava di vivere – un’avventura meravigliosa, piena d’imprevisti, di pericoli e di atti di coraggio da lui compiuti per recapitare una lettera a un famoso alchimista, che viveva in un castello lontano e inaccessibile, e che era l’unico al mondo a conoscere la formula della medicina che avrebbe salvato l’intero paese da una terribile epidemia. Francobollo era tornato sano e salvo con la ricetta dell’alchimista, e per questa sua eccezionale impresa era stato sommerso di medaglie e diplomi e proclamato eroe nazionale. In suo onore avevano sparato anche una salva di ventun colpi di cannone, ma tutto quel frastuono improvviso finì con lo svegliare l’eroe. Aprì gli occhi, ancora sotto l’impressione del trionfo, e capì subito che purtroppo si era trattato solo di un sogno. Si alzò di malavoglia, s’infilò le pantofole e si accinse a prepararsi il tè. Per recarsi in cucina doveva passare per il soggiorno, e così facendo notò sul tavolo al centro della stanza un vaso con un gran mazzo di fiori. Si avvicinò e allora vide che accanto al vaso c’era una lettera. «Che strano – pensò – non ricordo di averla scritta…» L’aprì e cominciò a leggere, sgranando gli occhi e impallidendo:

Caro Franco,

tanti sinceri auguri per il tuo compleanno e complimenti per il tuo eroismo! Hai fatto davvero un bel sogno di gloria, ma a cosa ti è servito? Cosa ne hai ricavato? Niente! – sei ancora più avvilito di prima. E senza alcun motivo. Non ti basta la riconoscenza e la stima che ti sei guadagnato con la tua vita semplice, ma onesta e utile a tutti i tuoi compaesani? Credimi, non hai nulla da invidiare al valoroso protagonista del sogno, perché ciò di cui oggi tu puoi vantarti è la cosa più difficile e preziosa che un uomo possa desiderare: la coscienza di aver fatto sempre il proprio dovere. Continuerò a scriverti, per tenerti compagnia e per toglierti dalla testa pensieri strani, inutili e nocivi.

Ti stimo e ti abbraccio,

Tuo Teodoro

Francobollo si sedette sentendosi tremare le gambe, prese un foglio di carta e scrisse a caratteri traballanti:

Caro Teodoro,

grazie… hai ragione tu… verrò presto a trovarti e parleremo di questa e di altre cose… a proposito, hai ancora un goccio di quel rosso che tu sai? Ne ho proprio bisogno…

A presto,

Tuo affezionatissimo cugino

Poi Francobollo mise la lettera in una busta, la chiuse e scrisse l’indirizzo:

Al carissimo cugino Teodoro

e sorridendo la infilò in un cassetto assieme alle altre.

Il giardino del nonno

 

In un piccolo borgo viveva un vecchio che aveva due sole gioie nella vita: la sua nipotina Briseide e il suo giardino. E’ difficile dire a chi volesse più bene, e allora tireremo a indovinare. D’inverno, quando il giardino si vestiva di bianco, e gli alberi si stagliavano contro il cielo come scheletri, mentre la bambina era piena di vita, con due pomelli rossi e gli occhi più azzurri del mare – forse il nonno voleva più bene alla nipotina, ma a primavera, quando il giardino si risvegliava dal lungo sonno invernale e si rivestiva di mille colori – allora il vecchio si sentiva più attratto dalle meraviglie di questo, che non dalle grazie di Briseide. Ma questa è solo una congettura, e sarebbe più giusto pensare che egli amasse molto entrambi, e ciascuno a modo suo.

In tutta la sua vita il nonno aveva rispettato gli uomini e la natura, aveva lavorato molto ed ora la pensione, anche se modesta, gli permetteva di far fronte alle sue necessità e a quelle della nipotina, ma non agli imprevisti, e purtroppo talvolta bisogna fare i conti anche con quelli.

Ogni sera, prima di andare a letto, il vecchio augurava la buona notte a Briseide e la baciava, dicendole:

– Piccola mia, al mondo siamo rimasti soli, ma tu sei sana e bella, cos’altro potrei desiderare?

Ma un giorno, un brutto giorno, la bambina si ammalò gravemente e il nonno credette d’impazzire. Chiamò i migliori medici, spese fino all’ultimo risparmio, trascurò completamente il suo amato giardino e passò lunghe notti a vegliare la nipotina, ma senza alcun risultato: Briseide era sempre più magra e pallida, e il giardino – sempre più negletto e pieno di erbacce. Il nonno ormai non aveva più soldi e per poter ancora curare la nipotina decise di venderlo al suo vicino, che gli aveva sempre offerto una buona somma, ma che, vedendolo ora con l’acqua alla gola, approfittò della situazione e concluse l’affare, come lui lo definiva, per una manciata di soldi. Ma non c’era altra scelta, il nonno doveva rassegnarsi a perdere metà del suo cuore per poter conservare l’altra metà. La sera prima della vendita, egli camminò a lungo tra le aiole e gli alberi, accarezzò le foglie, annaffiò i fiori e si sedette sull’erba.

– O terra mia – sospirò – tu sai quanto ti amo, ti prego, perdonami se mi separo da te. Sappi tuttavia che io ti sarò sempre vicino e continuerò a coltivarti nel mio cuore.

Detto questo si alzò e si avviò verso casa dalla povera Briseide, ma udì uno strano bisbiglio, come un coro di voci meste che provenivano da ogni angolo del giardino. Si fermò e prestò ascolto: non fu facile neanche per un esperto giardiniere come lui, abituato alle voci delle amiche piante, afferrare il senso di quel lamento, finché gli parve di capire, quelle voci dicevano:

– Se tu ci lascerai, noi moriremo.

No, non era una minaccia, ma una promessa, una solenne promessa. Ma ormai egli, suo malgrado, aveva deciso, e con il cuore spezzato si accomiatò ancora una volta dal suo giardino.

Il vicino entrò in possesso della terra e si propose di festeggiare l’acquisto invitando i suoi amici e dando un ricevimento all’aperto, ma prima il giardino doveva essere rimesso in ordine e modificato secondo il suo gusto, e perciò si mise subito in cerca di un giardiniere. Ne conosceva diversi nel paese, ma allorché provò a rintracciarli, si sentì dare la stessa risposta:

– E’ partito e non si sa quando torna.

Ogni suo tentativo risultò vano, sembrava che tutti i giardinieri fossero scomparsi di comune accordo. Decise quindi di aspettare e di rimandare la festa. «Prima o poi qualcuno tornerà – pensava – del resto che fretta c’è?».

La sera stessa, prima di coricarsi, fece un giro nel giardino. Si sentiva felice e soddisfatto e lanciava alle piante occhiate languide e sornione, cercando di accattivarsene la simpatia. Improvvisamente udì un tuono e qualche goccia d’acqua gli bagnò il viso. Doveva far presto a rientrare, prima di prendersi un malanno. Si diresse verso casa ma, fatti pochi passi, provò una strana sensazione. Gli sembrò che mille occhi lo guardassero ostilmente, che la terra gli tremasse sotto i piedi e che innumerevoli voci intonassero un fievole e triste canto. Ma dopo un primo attimo di esitazione e di stupore, attribuì la cosa alla stanchezza e pensò bene di andarsene a letto.

Quella notte egli dormì, ma nel giardino nessuno chiuse occhio. Tutte le piante interruppero i loro lamenti e decisero di tenere consiglio. Discussero a lungo sul da farsi, avanzarono diverse proposte e alla fine raggiunsero un accordo all’unanimità: morire per autodistruzione. Avrebbero pregato un fulmine di abbattersi sull’albero più grande e frondoso, che avrebbe preso fuoco, e le fiamme si sarebbero estese a tutto il giardino. Il nuovo padrone non avrebbe goduto delle loro bellezze. E accadde proprio così.

La mattina dopo il vicino del nonno si svegliò con un forte mal di testa e aprì la finestra per prendere una boccata d’aria. Un brivido gli attraversò la schiena e un sudore freddo gli bagnò la fronte. Credette di dormire ancora e che fose solo un incubo: davanti ai suoi occhi c’era una terra bruciata, costellata di punti neri ancora fumanti. Il giardino non esisteva più. L’uomo maledì il giorno che aveva deciso di comprarlo e a un tratto un pensiero maligno gli balenò sul volto: forse era il nonno l’autore del fattaccio. Doveva subito chiarire la questione. Si vestì in fretta e andò a bussare alla porta del vecchio. Bussò e ribussò, ma nessuno rispondeva. La casa sembrava deserta, ma poiché ciò era improbabile, essendo Briseide ancora malata, il vicino chiamò le guardie e fu abbattuta la porta. Tutti rimasero stupefatti: il vecchio e la nipotina giacevano vicini in mezzo a una montagna di fiori, il pavimento era coperto di uno spesso strato d’erba, e un forte profumo aleggiava nella stanza. Si avvicinarono al letto e presero a scuotere il nonno per svegliarlo, e dopo vari tentativi ci riuscirono. La prima cosa che il vicino urlò fu:

– Vecchio maledetto, sei stato tu a dar fuoco al giardino! E’ bruciato fino all’ultimo fuscello, ma prima hai colto tutti i fiori e l’erba e li hai portati qui, non è vero?

Il vecchio sgranava gli occhi, le guardie assistevano in silenzio, grattandosi la testa. Il nonno si guardò intorno, riconobbe i suoi amati fiori, sorrise e li ringraziò in cuor suo, poi lentamente si alzò e si avvicinò alla finestra: era proprio vero, il giardino non esisteva più! Ma egli capì subito cos’era successo e disse che, a parer suo, un fulmine si era abbattuto sul giardino, causandone la completa distruzione. Del resto era la spiegazione più logica, e alla fine anche le guardie accettarono con sollievo questa versione dei fatti. Ma il vicino, visto che non avrebbe ottenuto nulla continuando ad accusare il vecchio, gli si rivolse minaccioso, gridandogli:

– Va bene, io non voglio più il tuo giardino, te lo puoi riprendere e ridammi i soldi che ti ho dato!

Il vecchio, che non si aspettava quella richiesta, volse lo sguardo triste a Briseide che nel frattempo si era svegliata, senza capire cosa stesse succedendo, quindi rassegnato restituì il denaro e salutò tutti.

Quando restò solo egli se ne andò a passeggiare in quello che era stato il suo giardino. Ad ogni suo passo, ad ogni suo sospiro nasceva un fiore… finché, arrivato al recinto si fermò sentendosi mancare, si sedette in terra e svenne.

Quanto tempo giacque riverso non lo seppe mai, ma ricordava che a svegliarlo fu la voce di Briseide:

– Nonno, nonno, vieni, oggi mi sento assai meglio, forse sto guarendo e non dovrai più spendere i soldi per i dottori e per le medicine!

Il vecchio allora sorrise, si alzò da terra e tornò in casa con la nipotina.

Nella stanza erano scomparsi sia i fiori che l’erba, e Briseide tendeva le braccia al nonno chiedendogli un bacio. Tutto sembrava consueto, nessun segno di quanto era accaduto… solo alcuni petali e qualche filo d’erba sui capelli della bambina, lasciavano pensare che quanto abbiamo narrato fosse successo realmente. Ma è solo una congettura…

La gru

In una grande città, all’ultimo piano di un palazzone, viveva un uomo con un cane, un gatto e un pappagallo. Si tenevano compagnia e si cacciavano il malumore a vicenda. Nel quartiere l’uomo era considerato un saggio e dava consigli gratis a tutti. Quando il consiglio si rivelava particolarmente prezioso e portava dei vantaggi, ciò che accadeva piuttosto spesso, il beneficiato riconoscente si sentiva in dovere di dare una buona mancia all’uomo del palazzone. Nessuno conosceva il suo nome. Qualcuno affermava di aver sentito una volta il pappagallo gracchiare: “Benedetto!”, “Benedetto!”, ma chissà se l’animale si rivolgeva proprio a lui? Perciò lasciamolo senza nome, del resto la cosa non è poi così importante.

L’uomo però era conosciuto anche perché agli occhi della gente era un tipo alquanto originale. Ad esempio di sera girava con una torcia elettrica in mano come un moderno Diogene, solo che andava in cerca di sorprese, e per lui una sorpresa poteva essere qualunque cosa che per noi invece è assolutamente usuale. Ma l’uomo era fatto così, ad esempio se vedeva un bambino piangere, gli guardava attentamente le lacrime poi lo accarezzava sulla testa e sorridendo mormorava: “Sembra una pioggia di perle!” Un’altra volta vedeva una coppia che si baciava, e in quei baci vedeva il più bello dei suoi amori, cioè quello che ancora aspettava. A volte invece incontrava uno che gli chiedeva semplicemente la strada, e allora vedeva in quella persona l’uomo che cerca di continuo qualcosa e che ha bisogno di aiuto. Insomma era fatto così. Spesso negli ultimi tempi la sera spegneva tutte le luci e si sedeva vicino alla finestra. Accarezzava gli animali, parlava col pappagallo che di tanto in tanto gli rispondeva, sgranocchiava noccioline e cominciava a conversare con la gru che si ergeva proprio davanti alle sue finestre. Era lì da un mese, da quando cioè avevano iniziato la costruzione di un centro commerciale. La gru ormai lo conosceva bene. Si può dire che erano diventati amici e ogni sera si raccontavano ciò che avevano osservato durante la giornata. La gru era la prima volta che parlava con qualcuno. Tutti i manovratori che aveva avuto erano tipi silenziosi e non le rivolgevano mai la parola, tutt’al più dalle loro bocche aveva sentito solo delle imprecazioni. Invece la gru aveva visto tante cose nei vari quartieri della città e aveva tanto da raccontare. Era altissima e con un braccio lunghissimo che sembrava proteso verso l’infinito, inoltre non era più tanto giovane e, pensate un po’, sapeva anche sorridere. Si capiva che stava sorridendo quando si vedeva un leggero tremolio della luce riflessa sui vetri della cabina di comando.

Una sera, dopo un violento acquazzone, il cielo era diventato improvvisamente sereno. La luna gettava macchie d’argento sulla gru bagnata. le macchie si muovevano e la gru sembrava come se respirasse. L’uomo la guardò a lungo con ammirazione, poi alzò una mano verso di essa in segno di saluto e disse:

– Oggi sono un po’ giù di corda. E’ venuta da me una donna, madre di tre bambini. E’ rimasta sola. Il marito l’ha lasciata per un’altra. Mi ha fatto molta pena. Pensa, malgrado tutto non serba rancore al marito, non una parola di condanna, probabilmente lo ama ancora. Mi ha detto perfino che forse anche lei ha un po’ di colpa, se non è riuscita a tenerlo con sé…

– Ma come! – ha esclamato la gru: – Com’è possibile, con tutti i problemi che danno tre figli, riuscire a soddisfare il marito come il primo giorno di matrimonio?! Voi uomini siete semplicemente egoisti e crudeli, e tu che consiglio le hai dato?

– Le ho detto di non disperarsi, di farsi coraggio per amore dei figli, perché essi valgono assai più di un marito infedele. Oh, guarda! un uccello ti si è seduto sulla testa, non distinguo che uccello è, sei troppo lontana, avvicinati un po’…sì, ecco…così…mi sembra una cornacchia.

– Sì, è una cornacchia e mi sta raccontando che in una strada qui vicino c’è stata una sparatoria, un bandito è morto e un poliziotto è finito all’ospedale…

– Sai una cosa? – ha replicato l’uomo – Cambiamo discorso. Dimmi, sei contenta di essere una gru? O vorresti essere qualcos’altro?

– Sì, sono contenta di essere nata gru, ma mi piacerebbe tanto poter volare; a volte anche così mi sembra di essere un elicottero, ma vorrei volare là dove potrei essere utile a milioni di persone, vorrei vedere i loro occhi alzati su di me, raggianti di gioia e pieni di gratitudine. E tu?

– Cara mia, io…dipende…ad esempio in questo momento vorrei essere il tuo manovratore, mi piacerebbe azionare le leve che ti fanno muovere, sentirti docile e ubbidiente ai miei comandi.

– Ecco che salta fuori la tua, cioè la vostra mania del comando e dell’ubbidienza…Sai? ricordo che una volta ero impegnata nella costruzione di una grande chiesa, e a volte nel silenzio della notte sentivo Cristo che parlava, era una voce triste, mi faceva vibrare tutta. Ciò che lo rattristava di più era la mancanza di vera fede e di sincero amore. Una volta ha detto: “Che me ne faccio di una chiesa piena di gente che non mi segue fino in fondo, che non mi ama veramente per quello che io ho fatto per loro?

– Sì, ma questo che c’entra con l’obbedienza?

– C’entra, perché nessuno dovrebbe comandare. Il comando è già dentro di noi, basta ascoltare bene…

– Parli come un filosofo, ma come fai a sapere queste cose?

– Le so, perché essendo così alta mi arrivano alle orecchie migliaia di informazioni. I venti ad esempio mi sfiorano e mi sussurrano tante cose; gli uccelli si posano su di me e organizzano vere e proprie conferenze, in questo non sono meno noiosi di voi uomini, ma a volte sanno anche essere allegri e mi divertono con le loro facezie.

– Guarda, il mio cane ti sta fissando e muove la coda, gli sei simpatica.

– Sì?! E allora perché ieri mi ha fatto la pipì addosso?

– Questo è un segno di grande simpatia, non lo sapevi? Anche il gatto ti guarda avidamente. Di sicuro sta pensando di arrampicarsi su di te fino in cima…

– E il pappagallo che fa?

– Il pappagallo è il più saggio di tutti. Parla pochissimo e ascolta molto. Vorrebbe svolazzarti un po’ intorno. Può?

– Ma certo! mandamelo uno di questi giorni. Voglio rivelargli dove ho visto una bella pappagallina qui vicino.

– Ha arruffato tutte le piume, come se ti avesse sentito…

– Così l’uomo del palazzone e la gru davanti alle sue finestre trascorrevano le serate, discorrendo del più e del meno. E il tempo passava…Il centro commerciale era già ultimato. Cominciavano ad aprirsi i primi uffici. Un giorno decisero di smontare la gru. La sera prima, sapendo che sarebbe stata l’ultima, l’uomo del palazzone girava con la sua torcia elettrica attorno alla gru. La guardava attentamente e scopriva nuove sorprese. Qualcuno aveva scritto sulla base una data, erano semplici numeri, eppure all’improvviso essi gli sembrarono estremamente importanti, come solo può esserlo una data, un giorno che passa è importante perché non torna più, un giorno…sembrano solo poche ore e può decidere tutta la vita…ogni giorno che viene…quanti ancora? Così pensava l’uomo con la torcia in mano. Mentre girava intorno alla gru sentì una voce:

– Amico mio, permettimi di salutarti, voglio dirti arrivederci, non addio. Non vuoi salire un momento? L’hai tanto desiderato ed è l’ultima occasione che hai. Vieni, non è poi così difficile. Lascia la torcia ai miei piedi e arrampicati, su coraggio.

L’uomo fissava la gru come ipnotizzato. Era vero, lo desiderava tanto. Indugiò un attimo, poi si decise, posò la torcia e cominciò la salita. Saliva sempre più in alto, incoraggiato dalla voce della gru, la sentiva sempre più vicina al suo cuore…finalmente entrò nella cabina e si sedette al posto di comando. Si sentiva come nella cabina di un aereo, la città ai suoi piedi pullulava di luci e pulsava di sussurri. Il vento faceva oscillare leggermente la gru. Aveva l’impressione di essere cullato. Si sentiva felice, accarezzò le pareti della cabina e mormorò:

– Grazie, non lo dimenticherò mai…

Davanti a lui le sue finestre erano come macchie nere. A una di esse due piccole lampadine verdi lo fissavano piene di bramosia e d’invidia.

                                                                 

                                                Le due sorelle

 

     In una bella città, famosa per i suoi giardini e le sue fontane, viveva un’anziana nobildonna benestante cui non mancava nulla, pur non essendo ricca. Era vedova e aveva due figlie diverse come il giorno e la notte. Si chiamavano Marta e Martina ed erano entrambe belle e ancora giovani. Marta era allegra, leale e generosa, mentre Martina, più vecchia di tre anni, era cupa, avida e vanitosa. E’ chiaro quindi che andavano d’accordo come il diavolo e l’acqua santa.

Una sera la madre, che da un po’ di tempo era molto malata, sentendo che era arrivata la sua ora, chiamò le figlie al suo capezzale e con un filo di voce sussurrò loro:

– Figlie mie, sento che presto dovrò lasciarvi, ma prima voglio confidarvi un segreto. Tanti anni fa, quando ero giovane, salvai la vita a una vecchia contessa che stava annegando nel fiume, dove era finita con tutta la carrozza. Era ricca sfondata e per ricompensa mi regalò un anellino d’oro che si trova nel mio scrigno. Apparentemente non sembra avere un gran valore, sottile com’è e con un minuscolo smeraldino incastonato. Ma in realtà è immensamente prezioso e ha un potere straordinario. La contessa donandomelo mi disse: «Sono vecchia e così ricca che non ho più bisogno di questo anello. Te lo regalo volentieri, affinché anche tu sappia cosa significa essere ricchi. Infilando l’anello al dito medio della mano destra, se lo vorrai, tutto quello che toccherai con esso si trasformerà in purissimo oro. Attenta però a non sbagliarti, perché se per errore lo infilerai in un altro dito, di colpo ti tramuterai in una statua di pietra e l’anello perderà per sempre il suo magico potere».

Ciò detto, la madre pregò Marta di portarle lo scrigno, lo aprì, cercò tra gli altri gioielli e finalmente tirò fuori l’anellino di cui aveva parlato. Tenendolo tra due dita aggiunse:

– Dovete sapere che io non l’ho mai usato, perché non credo che la ricchezza porti la felicità, anzi sono convinta che essa spesso genera soltanto dispiaceri e grattacapi. Ma ora che sto per lasciare questo mondo voglio darlo a una di voi due, perché desidero che colei alla quale esso toccherà scelga liberamente come ho fatto io. Per essere imparziale, qualche tempo fa ho pregato il giardiniere di piantare nell’aiola più piccola del giardino due semi di peonia di diverso colore: una bianca e una rossa. Lui non sa perché, ma ha l’incarico di prendersi cura delle due piantine, finché non sboccerà uno dei due fiori. Se fiorirà prima la peonia bianca, l’anello andrà a Marta, se invece fiorirà prima la rossa, l’anello sarà di Martina. So bene che non andate d’accordo, e che questa storia non potrà certo migliorare i vostri rapporti, ma avete entrambe una coscienza e siete libere di usarla come meglio credete… Nei limiti delle mie possibilità, dal luogo dove andrò a finire cercherò di aiutarvi… Ora datemi un bacio e spegnete la lampada… Sono molto stanca e voglio dormire…

Pochi giorni dopo la madre se ne andò per sempre, preoccupata e forse pentendosi all’ultimo momento di aver lasciato quell’anello. I giorni passarono veloci e quando si avvicinò il periodo della fioritura, Marta e Martina si fermavano sempre più spesso davanti all’aiola, dove le piantine erano già alte e da un giorno all’altro i boccioli si sarebbero aperti. Le fissavano chiedendosi: «Sarà bianca o sarà rossa?»…

Una notte Martina, pensando all’anello e al fiore non riusciva a prendere sonno. Allora si alzò e silenziosa come un’ombra si recò in giardino, e con la lampada illuminò l’aiola. Guardò e provò un tuffo al cuore, diventò bianca come un cencio lavato, bianca… come la peonia che aveva appena iniziato a sbocciare. Non poteva rassegnarsi! Doveva subito escogitare qualcosa, prima che Marta vedesse il fiore, ed ebbe un’idea diabolica: si punse un dito con una spina di rosa e con le gocce di sangue colorò il fiore di rosso. Poi corse a svegliare la sorella e le gridò tutta raggiante:

– Marta, vieni a vedere! E’ sbocciata prima la mia peonia! Si vede che nostra madre dal cielo ha voluto così…

Marta si alzò e corse in giardino. Purtroppo per lei – era vero. La peonia era proprio rossa.

– Va bene – si rivolse alla sorella – l’anello è tuo. Cosa farai adesso?

– Voglio partire subito – rispose Martina – andarmene da questa casa che non ho mai amato. Partirò all’alba.

– Allora – replicò Marta – non mi resta che augurarti buona fortuna. Noi due non ci siamo mai volute bene, ma adesso mettiamo da parte i rancori e salutiamoci come due vere sorelle.

Si abbracciarono e si baciarono, poi Marta tornò a letto, mentre Martina andò a prepararsi. In fretta e furia fece fagotto e scappò ancor prima del sorgere del sole, per paura che la sorella scoprisse l’inganno.

Il giorno dopo Marta di recò in giardino, si avvicinò all’aiola e restò sbigottita: era sbocciata anche l’altra peonia ed erano entrambe rosse! Chiamò il giardiniere e la verità venne subito a galla.

– Dunque Martina mi ha ingannata e l’anello spettava a me – sussurrò Marta delusa e amareggiata.

Si mise in cerca della sorella. Doveva trovarla a tutti i costi, non poteva accettare l’idea di essere stata presa in giro in quel modo. Ma ogni suo tentativo risultò vano: Martina sembrava come svanita nel nulla e nessuno sapeva dove fosse andata. Passò qualche mese e alla fine Marta cessò le ricerche, si mise l’anima in pace e non pensò più all’anello.

Il tempo trascorse veloce. Marta si era sposata, aveva un marito che l’amava e un figlio ventenne che studiava ancora e si faceva onore. Erano molto uniti e felici. Marta lavorava in una biblioteca, dove arrivavano molti giornali e riviste straniere. Un giorno sfogliando appunto una di queste riviste, vide un titolo che attirò la sua attenzione: «Plurimiliardaria fonda il Carro della Solidarietà». Incuriosita lesse l’articolo. C’era scritto che una donna straricca di nome Martina aveva deciso improssivamente di rinunciare a tutte le sue ricchezze per dedicarsi ad opere di bene. Negli ultimi anni aveva avuto delle esperienze molto tristi e dolorose. Il marito era morto d’infarto per la vita dissoluta che faceva, e dei due figli – il maschio era finito in prigione e la femmina era scappata di casa portandole via tutti i gioielli… Martina aveva concluso che con tutta la sua ricchezza non poteva comprare la felicità, perché essa non è in vendita ma si può trovarla solo nel fondo della propria coscienza. Per un certo tempo si era ritirata in un monastero  a meditare e a pregare, e il risultato di quel periodo finalmente sereno della sua vita fu la decisione di fondare un ente di beneficenza, che aveva chiamato «Carro della Solidarietà». In molti paesi poveri del mondo c’era uno di questi carri trainato da due cavalli, che girava portando aiuto alle persone più bisognose. Nell’articolo era indicato anche l’indirizzo della benefattrice…

Marta restò turbata e perplessa. Quella notizia aveva riaperto di colpo un’antica ferita, aveva rispolverato una brutta e dimenticata pagina della sua esistenza. Cominciò a riflettere sul da farsi, a rimuginare cento propositi e infine decise di affrontare il lungo viaggio per recarsi da Martina e riprendersi il suo anello. Ma la sorella la precedette. Un pomeriggio Marta sentì suonare il campanello e andò ad aprire. Sulla soglia le apparve Martina. Si fissarono per un attimo, mute ed esitanti, paralizzate dall’emozione dell’incontro. Ma durò giusto un attimo. Martina abbracciò la sorella e tra le lacrime le disse:

– Marta, perdonami, sono venuta per restituirti l’anello. Sappi però che esso per me non è stato un portafortuna. L’unica vera fortuna che ho avuto è stata quella di aver capito che nostra madre aveva ragione, ed è per questo che ho rinunciato a tutto per avere la pace dell’anima. Ecco il tuo anello, fanne buon uso e ricordati d’infilarlo al dito medio della mano destra.

– Ti ringrazio – rispose Marta – vedo con piacere che non sei più la Martina d’una volta, e sento di volerti bene. Forse la cosa migliore è quella di non usare mai l’anello… Vieni, ho un’idea, sotterriamolo nell’aiola dove il giardiniere piantò le peonie, e lasciamolo lì per sempre.

Così fecero. Martina si fermò un paio di giorni dalla sorella. Parlarono a lungo, si confidarono tante cose e si lasciarono con il proposito di rivedersi ancora.

Fin dal giorno della visita di Martina però, qualcosa era cambiato nella mente di Marta, e col passare del tempo ciò diventava sempre più evidente. Era nervosa e scontenta, non aveva più pace né giorno né notte: pensava continuamente all’anello. Sapeva che, volendo, avrebbe potuto avere tutto ci desiderava, una vita stracolma di piaceri e di comodità per sé e per la sua famiglia. Alla fine non ebbe più la forza di resistere alla tentazione e disse tra sé: «Lo terrò un giorno soltanto e lo sotterrerò di nuovo». Tirò fuori l’anello, se l’infilò al dito medio della mano destra e da quel momento… cominciarono i guai. Aveva pensato: un giorno soltanto, ma quel giorno era durato anni, tanti anni di vita amara, proprio a causa del lusso e degli stravizi che ne erano derivati. La famiglia non esisteva più. Il marito era diventato un ubriacone che offriva da bere a tanti altri sfaccendati come lui, il figlio invece giocava forti somme e viaggiava senza sosta, facendo parlare di sé in modo assai poco lusinghiero. E Marta continuava a servirsi dell’anello per rimpiazzare le ricchezze sperperate.

Una notte inaspettatamente le apparve in sogno la madre, che la supplicò con voce accorata:

– Marta, un giorno tua sorella ha capito da sola che si stava dannando l’anima, e ha deciso di cambiare vita. Ora è felice e a nessun costo vorrebbe tornare schiava di quel funesto anello. Voglio aiutarti… Ascolta la voce del cuore e ricordati di come eri serena tanti anni fa.

Il giorno dopo Marta incontrò una vecchia mendicante che le chiese l’elemosina. Camminava a fatica appoggiandosi al bastone e aveva il viso rigato di rughe e di lacrime. Ma da un pezzo ormai Marta era sorda alla compassione e alla generosità, e così passò vicino alla vecchia senza degnarla nemmeno d’uno sguardo. In quel momento scoppiò un violento temporale. Marta cominciò a correre verso un portone per ripararvisi, ma inciampò in una radice sporgente dal terreno e cadde urtando l’anello contro il selciato. Lo smeraldino si spezzò e il cerchietto d’oro restò deformato. Marta si rialzò imprecando e riprese a correre. Lo scroscio della pioggia copriva la debole voce della vecchia che le gridava dietro:

– Figlia mia, aspetta, fermati, ascoltami, dammi l’anello, dammi l’anello!

Marta arrivò alla sua lussuosa villa tutta zuppa dalla testa ai piedi, si cambiò e si tolse l’anello. Quel giorno stesso lo portò da un gioielliere per farlo riparare, e una settimana dopo andò a ritirarlo – l’artigiano aveva fatto un lavoro perfetto, era tornato esattamente come prima.

Giunta a casa, Marta fece per infilarsi l’anello, ma improvvisamente si accorse con terrore di avere un’amnesia:

– Sono diventata una vecchia sclerotica – borbottò tra i denti – come posso aver dimenticato qual è il dito! Va bene, me lo metterò domani, di sicuro mi verrà in mente qual è il dito giusto.

Il giorno dopo si verificò la stessa cosa, ma d’un tratto sentì dentro di sé una voce vellutata che ripeteva con insistenza:

– L’anulare, l’anulare, l’anulare…

Marta era indecisa, sentiva vagamente che il dito poteva essere un altro, ma non ne era sicura, inoltre era già stanca di aspettare che le tornasse la memoria, e allora con stizza infilò l’anello all’anulare della mano destra. Di colpo la profezia si avverò, sentiva che stava irrigidendosi, che diventava una statua, e con le ultime forze che le restavano riuscì ancora a varcare la porta di casa e… si fermò in giardino, dove rimase impietrita con le braccia distese, come ad invocare aiuto.

Qualche tempo dopo Martina passava da quelle parti e pensò di fare una visita alla sorella che non vedeva da tanto tempo. Arrivò alla villa, bussò, ma non c’era nessuno. «Pazienza – sussurrò – ci tenevo a rivedere la mia cara Marta, sarà per un’altra volta». Così dicendo si girò e soltanto allora vide la statua e si sentì accapponare la pelle. Era decapitata e le mancava l’anulare della mano destra. Martina la fissò con indulgenza e affetto, e con profondo dolore sospirò:

– Povera sorella mia, sei finita schiava e vittima di quel maledetto anello. A quanto pare un ladruncolo ti ha staccato il dito per impadronirsi del gioiello, e hai perso anche la testa, come l’avevi persa quand’eri viva. Che il Signore abbia misericordia di te e dia pace alla tua anima.

Incuriosito da questa storia, una volta mi sono recato nella villa di Marta, ma con mia grande sorpresa la statua non c’era più. Allora ho chiesto in giro. Sì, alcuni degli abitanti più anziani ricordavano ancora, ma sentii tre diverse versioni dei fatti. Una vecchietta mi disse che la statua era stata completamente distrutta dalle intemperie, un vecchietto mi assicurò che era stata presa da qualcuno per utilizzare la pietra, e infine un’altra vecchietta mi confidò in un orecchio la terza versione:

– Grazie alle preghiere della madre e della sorella, il buon Dio mandò un fulmine che spaccò il cuore di pietra della statua, rompendo così l’incantesimo. Io stessa ho conosciuto un’anziana signora che dall’aspetto ricordava tanto Marta. Andava in giro aiutando i poveri e portava da mangiare ai cani e ai gatti randagi, e anche ai colombi…

Mi disse esattamente questo. Io purtroppo non posso verificare che sia questa la giusta versione dei fatti, ma vi confesso che vorrei concludere la storia proprio così.

Saba

 

     Questa è una storia reale, nel senso che potrebbe essere realmente accaduta a chiunque di voi. Riguarda una certa cagnetta…

     Nessuno l’aveva vista prima di allora. Era apparsa all’improvviso nelle strade del paese, sporca e affamata. Aveva il pelo marrone chiaro con qualche chiazza più scura, un orecchio su e uno giù, alta circa mezzo metro, con due occhietti neri neri e un’aria sbarazzina. A quelli che la guardavano diffidenti  e incuriositi avrebbe voluto dire: «Ho fatto molta strada, sono stanca, desidero solo mangiare e riposarmi un po’. Spero che non mi negherete una scodella di zuppa. Domani, se non mi vorrete qui, me ne andrò via…».

Correva e scodinzolava, si fermava davanti alle pizzicherie, ammirava con l’acquolina in bocca i prosciutti e i salamini appesi nelle vetrine, e sospirando riprendeva a trotterellare. Di tanto in tanto studiava le facce dei passanti… Conosceva bene gli uomini e istintivamente sentiva di chi poteva fidarsi e da chi, invece, era meglio stare alla larga. Doveva averne presi di calci, poveretta! Ma se girava ancora tra le persone e sperava nel loro aiuto, significava che aveva ricevuto anche qualche manifestazione di affetto. Voleva molto bene ai bambini e sopportava pazientemente la loro esuberanza e voglia di scherzare (tiratine di coda, pacche sui fianchi e via dicendo).

Gironzolando senza meta, si ritrovò per caso nei pressi della scuola elementare. Era l’una e proprio in quel momento, uno sciame chiassoso e variopinto di alunni sbucò dal portone e invase la piazzetta. Colta di sorpresa, e non sentendosi abbastanza in forma per affrontare tutti quei diavoletti scatenati, la cagnetta si nascose dietro un bidone dei rifiuti, con l’intenzione di osservarli senza essere vista. Si rincorrevano ridendo, chiamandosi e spingendosi a vicenda. La cagnetta li guardava movendo la testolina e con gli occhietti spalancati, come se tra loro volesse scegliersi un amico. Qualche istante dopo, il suo sguardo fu attratto da un bambino modestamente vestito, alquanto curvo sotto il peso della cartella, con le scarpe di almeno due numeri più grandi del necessario, e con un ciuffo nero sulla fronte. Camminava adagio, un po’ appartato dagli altri e sorridendo vagamente agli scherzi dei compagni. Si dirigeva proprio verso il punto in cui si trovava la cagnetta, e quando le passò vicino la scorse. Si fermò, la guardò per un attimo e poi le chiese in tono amichevole:

– E tu da dove sbuchi?! Non ti ho mai vista qui, hai fame, vero? Come ti chiami? Sei sola?

La cagnetta, che non si aspettava di certo quella sfilza di domande, lo fissava con aria interrogativa, scotendo violentemente la coda.

– Vieni, ti farò vedere dove abito – proseguì il bambino – così potrai venire a trovarmi quando vorrai. Adesso accompagnami a casa, ti comprerò un bel regalino – e così dicendo si chinò, prese il musetto della cagnetta tra le mani e l’accarezzò più volte.

– Il mio nome è Enrico, ma tutti mi chiamano Rico. E tu, come ti chiami? Devo trovarti un nome, vediamo… beh, oggi è sabato, quindi ti chiamerò Saba, ti piace?

La cagnetta, che forse già si chiamava Polly, o Marty, oppure… provate un po’ a scoprirlo voi, mostrò di gradire quel nome e perciò da qual giorno si chiamò Saba.

– Facciamo una corsa? – propose Rico. – Vediamo chi arriva prima dal macellaio! – e cominciò a correre, voltandosi continuamente, per vedere se Saba lo seguiva.

La cagnetta non sapeva ancora dove fosse la macelleria, e perciò si limitava a restare dietro a Rico. Finalmente, trafelati e stanchi, si fermarono davanti al negozio. Rico pescò nella tasca dei pantaloncini, tirò fuori l’unico soldino che aveva, entrò e riuscì subito con un bell’osso in mano. Prima di addentare il magnifico, inatteso regalo, Saba leccò a lungo la mano di Rico: era il suo primo grazie manifestato al nuovo compagno.

Intanto, nel breve tratto di strada che restava ancora da percorrere, prima di arrivare a casa – una modesta villetta con un piccolo giardino – Rico cominciò a pensare che sarebbe stato meglio prendere Saba con sé, per non rischiare di perderla  e per starle sempre vicino. Sapeva già che i genitori non amavano i cani randagi, ma voleva tentare lo stesso. Quando giunsero a destinazione, sussurrò a Saba:

– Aspettami qui, vado a parlare con i miei genitori.

La discussione durò poco, ma bastò a Rico per convincere il padre e la madre a lasciare Saba nel giardino. Non era la soluzione ideale, ma Rico la ritenne ugualmente un successo, aprì il cancelletto e fece entrare la cagnetta.

Già qualche giorno dopo l’arrivo di Saba, tutti in paese si erano abituati a vederli insieme, e i genitori di Rico, malgrado continuassero a proibirgli di portare Saba in casa, ogni tanto gli chiedevano: «Ha mangiato?» – segno evidente che anche loro provavano già una certa simpatia per la cagnetta.

Ogni giorno Saba accompagnava Rico a scuola  e andava a riprenderlo. Ogni volta che il maestro prolungava di qualche minuto la lezione, la cagnetta cominciava ad abbaiare in segno di protesta, e per farla smettere Rico doveva affacciarsi, salutarla e farle cenno di tacere.

Nella classe di Rico c’era una bambina di nome Floriana. Era molto carina, ma saputella e dispettosa e per giunta, adesso, era anche invidiosa di quella grande amicizia tra Rico e Saba. Per quel suo brutto carattere non le voleva bene nessuno, né tanto meno gli animali, che meglio degli uomini sanno fiutare la cattiveria. Un giorno aveva incontrato un cane randagio piuttosto selvatico e insofferente, e aveva preso a stuzzicarlo. Per un po’ il cane aveva pazientato, ma poi doveva essersi detto: «Questa stupidella merita una bella lezioncina» – perché le era saltato addosso, senza morderla, dato che anche lui capiva e amava i bambini, ma limitandosi a tirarle forte una treccia e a procurarle qualche piccolo livido. Dopo di che, seccato e forse temendo anche la reazione della gente, il cane era scomparso in cerca di luoghi più tranquilli e accoglienti.

Floriana dal canto suo, anziché imparare la lezione, pensò malignamente di sfruttare quanto le era accaduto, per far del male a Rico e a Saba. Tornata a casa piangendo e dolorante, disse alla madre che Saba l’aveva assalita, senza che lei le avesse fatto niente. I genitori della bambina si recarono allora a casa di Rico assieme a un vigile e, nonostante le proteste del bambino, il risultato di quella visita fu l’obbligo di mettere al cane la museruola, e di tenerlo sempre al guinzaglio quando girava per il paese. E inoltre dissero che, se la cosa si fosse ripetuta, lo avrebbero cacciato via a pedate. Dissero proprio così – a pedate!

Povera Saba! Lei così dolce e inoffensiva, costretta a indossare le vesti del cane pericoloso! E’ chiaro che, stando così le cose, non poteva più accompagnare il suo amico a scuola. Floriana si sentiva soddisfatta,  mentre Saba diventava sempre più triste. La cosa peggiore era che non capiva cosa avesse commesso di tanto grave, per meritare una simile punizione. Restava chiusa nel giardino, accucciata ai piedi di un albero, col musetto posato su una zampa. Guardava e invidiava le formiche, che potevano andarsene dove volevano con quelle loro pesanti provviste.

Alcuni testimoni avevano affermato che, non potevano giurarci, ma il cane che era saltato addosso a Floriana, somigliava molto a Saba, e quindi poteva essere proprio lei. Rico, però, era assolutamente certo che in tutta quella storia il suo cane non c’entrasse per niente, e così aveva cominciato a odiare Floriana.

Intanto era arrivato l’inverno. Un’improvvisa e violenta bufera di neve, quale non si ricordava da anni, colse tutti impreparati. Dopo tre giorni di nevicate le comunicazioni erano interrotte, e ben presto cominciarono a scarseggiare anche i viveri e la legna. In quella situazione (gli elicotteri non esistevano ancora), agli abitanti non restava che unire le forze e aiutarsi a vicenda, come? – è semplice – come dovrebbe succedere sempre in casi del genere: chi aveva di più dava a chi aveva di meno.

La famiglia di Floriana era più povera di quella di Rico, e quindi i genitori del bambino diedero un sacchetto di farina al figlio, pregandolo di portarlo a casa di Floriana. Rico storse la bocca e stava lì lì per rifiutarsi, ma poi pensò che fosse una buona occasione per chiarire una volta per tutte quella storia del cane. «Porterò la farina – si disse – ma prima di consegnarla, quella stupida odiosa dovrà sputare la verità».

Giunto a casa di Floriana assieme a Saba, tenuta naturalmente al guinzaglio, suonò e gli venne ad aprire la mamma della bambina.

– Questa ve la mandano i miei genitori – borbottò Rico.

– Oh, come siete cari, ringraziali tanto, ne avevamo così bisogno! – esclamò la donna e poi aggiunse: – Vieni, entra, però lascia fuori il cane… legalo da qualche parte.

A quelle parole Rico si sentì ribollire il sangue e provò l’impulso di sbattere il sacchetto in terra e di scappare via, ma strinse i denti, legò il cane e varcò la soglia di casa, pensando a come affrontare lo spiacevole argomento.

Da dietro una porta, però, Floriana aveva udito tutto e di fronte a quell’atto di generosità, provò una stretta al cuore. Improvvisamente capì il male che aveva fatto e scoprì che l’invidia e i dispetti rendono infelici, e per di più – sono fonte di rancore. Uscì fuori a testa bassa e andò incontro a Rico:

– Ciao Rico, voglio dirti la verità, non è stata Saba a saltarmi addosso e a tirarmi la treccia quel giorno, ma un cane randagio che non ho più visto da queste parti. Ti prego, perdonami… – ciò detto, corse in cucina e tornò subito con un osso.

– Ti prego, da’ questo a Saba…

Rico allungò la mano per prendere l’osso, ma si trattenne e disse sorridendo:

– Dallo tu a Saba… è lei che anzitutto deve perdonarti di averla fatta soffrire… è qui fuori, va’, sono certo che sarà molto contenta di avere una nuova amica.

Ma la mamma di Floriana non diede tempo alla figlia di uscire. Aprì la porta, slegò Saba e la fece entrare, poi accarezzò la cagnetta, subito imitata dalla bambina.

Da allora gli abitanti del paese li vedevano sempre insieme. Correvano nei campi e ridevano felici, ma più di tutti correva Saba, e lo faceva di proposito: voleva che Floriana e Rico restassero ogni tanto soli, liberi di confidarsi i propri segreti e di ascoltare il battito accelerato dei loro piccoli cuori.

 

Cento monete d’oro

 

     C’erano una volta un re e una regina che non avevano figli, e avrebbero fatto chissà cosa per averne almeno uno.

– Ah! – si lamentava il re – chi prenderà il mio posto quando sarò morto?

– Oh! – sospirava la regina – come sarebbe bello avere un bel principino! Questo palazzo è così vuoto senza un bambino!

Ma il tempo passava, e il re e la regina diventavano sempre più vecchi, tristi e cattivi soprattutto con quelli che avevano tanti figli. Per invidia avevano deciso che, chi avesse avuto un bambino, avrebbe dovuto pagare una tassa pari alla somma degli anni del padre e della madre del neonato. Nel regno erano quasi tutti assai poveri e perciò stavano molto attenti a mettere al mondo nuovi figli, perché non avrebbero saputo come pagare la tassa, e chi non pagava veniva cacciato dal regno e perdeva anche quel poco che aveva.

Un giorno giunse nella capitale del regno un vecchio mago. Veniva da molto lontano ed era di passaggio. Si fermò nella locanda più frequentata dai forestieri, e ascoltò dal locandiere la triste storia del re e della regina che non potevano avere figli, ed erano quindi invidiosi di quelli che li avevano. Il mago restò un momento pensieroso, poi disse al locandiere:

– Domattina, prima di riprendere il mio viaggio, farò una visita ai sovrani. Forse potrò aiutarli e vi libererò così da questa croce.

Il locandiere. la cui moglie aspettava un bambino e non voleva pagare la famosa tassa, si gettò in ginocchio davanti al mago, gli baciò le mani e lo supplicò:

– Oh, ti prego, aiutaci! Fa’ qualcosa per renderli felici e per rallegrarci di avere un figlio o una figlia!

Quindi accompagnò il mago nella stanza più bella della locanda e gli augurò la buona notte.

Poco dopo tutto il regno sapeva che il mago avrebbe operato un prodigio per far nascere un principino, dando così un erede al trono. E naturalmente la notizia arrivò anche alle orecchie dei sovrani.

La mattina dopo, quando il mago si svegliò, trovò ad attenderlo la carrozza reale. «Bene – pensò – a quanto pare il re e la regina mi aspettano». Si vestì, fece un’abbondante colazione, quindi salì in carrozza e partì alla volta della reggia. Appena giunto, il cancello si aprì e dieci squilli di tromba gli dettero il benvenuto. Un maggiordomo lo condusse subito dai sovrani che aspettavano impazienti. Quando il mago si trovò al loro cospetto, fece un profondo inchino e disse:

– O sovrani, conosco la vostra sofferenza e forse posso aiutarvi. Vediamo cosa predice la mia sfera…

Ciò detto, il mago cominciò a pescare nella sua grande bisaccia. Pesca e ripesca, finalmente tirò fuori una palla di vetro bianco latte con riflessi verdi e azzurri. Si sedette e prese a fissarla, pronunciando parole magiche e incomprensibili. Dopo qualche minuto, che al re e alla regina parvero un’eternità, disse loro:

– O sovrani, nella mia sfera di vetro vedo tanti bambini, sono troppi per riuscire a contarli tutti, sono scalzi e malvestiti, chiaramente sono figli di contadini, di povera gente… e in fondo alla lunga fila di bambini ne vedo uno che cammina tutto solo, splendente come un piccolo sole. È vestito come un principino e ha in testa una corona. Sembra proprio un figlio di re!

– Cosa significa? – chiesero insieme il re e la regina. – Sarebbe forse nostro figlio? Significa che avremo un bambino anche noi?

– Sì – rispose il mago – ma prima dovranno nascere mille bambini. Soltanto allora voi avrete un figlio.

E così dicendo, fece un inchino, prese la bisaccia, vi ripose la palla di vetro e uscì. Il re e la regina rimasero a lungo a bocca aperta, ma poi, riavutisi dalla sorpresa, scrissero un solenne proclama che diceva così:

«A tutti i cittadini del regno:

Carissimi! Noi, vostri sovrani, da oggi desideriamo che voi abbiate molti figli e daremo un premio di cento monete d’oro a chi entro un anno avrà avuto un figlio – maschio o femmina che sia.

Firmato: il re e la regina».

Il giorno dopo, preceduti da uno squillo di tromba, i banditori annunziarono la volontà dei sovrani nelle piazze del regno. Tutti rimasero sbalorditi e non potevano credere che fosse vero, dopo aver penato tanto proprio a causa delle nascite. Ma alla fine si convinsero che era esattamente così, e non ebbero più alcun timore di aspettare dei figli.

Il tempo passava ed erano già nati cinquecento bambini, ma i sovrani non avevano ancora pagato nessuno. Si scusavano dicendo che al momento non avevano la possibilità, e assicuravano che quanto prima avrebbero rispettato il loro impegno. E il tempo passava, i bambini continuavano a nascere, ma delle monete promesse – neanche l’ombra! In realtà il re e la regina avevano deciso di aspettare che nascessero mille bambini, per vedere se quello che aveva predetto il mago si sarebbe avverato lo stesso, perché in tal caso avrebbero risparmiato una montagna di monete d’oro.

Quando venne al mondo il millesino bambino, si riunirono tutti per festeggiare l’avvenimento. Sotto un enorme albero mangiavano, bevevano, ballavano e si divertivano un mondo. Erano presenti anche il re e la regina, ma a differenza di tutti gli altri che ridevano e scherzavano, loro due erano seri e preoccupati, perché avevano la coscienza sporca.

La campana della torre sonò la mezzanotte e improvvisamente si udì un forte boato. La terra tremò, e in mezzo a una nuvola di fumo apparve il vecchio mago. Tutti cominciarono a fuggire impauriti, ma la voce vibrante e profonda del vecchio li richiamò indietro:

– Un momento, ascoltate, non abbiate paura! Io sono il mago che ha voluto aiutare i vostri sovrani e voi, ma il re e la regina non hanno fatto ciò che avevano promesso e quindi saranno puniti. Ora tornate pure alle vostre case, la festa è finita.

Tutti si allontanarono turbati e silenziosi. Vicino al grande albero era rimasto solo il mago assieme al re e alla regina, spaventati e pallidi come cadaveri. Il vecchio staccò un rametto dell’albero, ci soffiò sopra e, borbottando parole misteriose, lo trasformò in un bel bambino, o almeno così sembrava a prima vista. Ma a guardarlo meglio: mio Dio! – al posto degli occhi aveva due monete d’oro!

– Ecco il bambino che vi avevo predetto! – esclamò rivolto ai sovrani. – Purtroppo la vostra avarizia lo ha fatto nascere così.

Dette queste parole si udì un altro forte boato e il mago scomparve. Il re e la regina scoppiarono a piangere. La regina prese in braccio il bambino e si avviò lentamente verso il palazzo, seguita dal re. Le loro lacrime bagnavano la terra. Si vedeva che soffrivano molto e che erano pentiti. Oh! adesso avrebbero dato tutto quello che possedevano, pur di avere un figlio sano e normale come gli altri mille che erano nati nel regno! Sì, sarebbero stati sempre onesti e giusti con tutti. Le loro lacrime cadevano e bagnavano la terra. A un tratto si gettarono in ginocchio e cominciarono a pregare:

– Mio Dio, perdonaci, aiutaci tu, pagheremo le cento monete d’oro ai nostri sudditi che ne hanno diritto, anche se per farlo dovessimo esaurire tutti i nostri tesori!

Poi si alzarono e ripresero faticosamente la strada verso il palazzo. Essi non si voltavano indietro, e non vedevano quindi cosa stava accadendo. Il buon Dio aveva ascoltato la loro supplica, li aveva perdonati e li stava aiutando. Come? Le lacrime, cadendo, si trasformavano in monete di oro purissimo. Ma loro non lo sapevano e non lo seppero mai.

Durante la notte un forte vento raccolse tutte le monete e le disseminò nelle strade del regno.

Il giorno dopo, quando i sovrani si svegliarono da un sonno agitato e pieno di incubi, udirono un gran frastuono. Corsero alla finestra della loro camera e videro una folla enorme che affluiva da ogni lato. «Cosa vogliono?» – si chiesero spaventati, pensando che il popolo volesse dare l’assalto al palazzo. Ma non era come essi temevano, perché sui volti di tutti brillava la gioia e la soddisfazione. Ognuno aveva le mani piene di monete d’oro e gridava:

– Grazie, grazie, amati sovrani, lo sapevamo che avreste mantenuto la promessa!

Il re e la regina non sapevano più cosa pensare, ma poi si ricordarono della preghiera fatta e capirono che il buon Dio li aveva ascoltati. Come due fulmini si precipitarono alla culla del loro bambino. Che meraviglia! – Al posto delle monete ora aveva due occhioni azzurri come il mare.

– Nostro figlio è bello come un bocciolo di rosa! – esclamarono entrambi.

Da quel giorno i due sovrani furono davvero onesti e giusti con tutti, e ogni volta che nel regno nasceva un nuovo bambino, organizzavano una grande festa e lo riempivano di doni, ricordando così il tesoro più bello che anche loro avevano avuto dalla vita.

 

Il cagnolino, la farfalla e l’ape

 

Un giorno tutti gli animali del bosco si riunirono per stabilire, una volta per sempre, chi di loro dovesse essere considerato il più bravo. L’uccello più anziano cinguettò solennemente l’inizio delle gare di bravura, e gli animali cominciarono ad esibirsi. Fin dai primi giorni però, apparve subito chiaro che non sarebbe stato facile trovare un vincitore. Ognuno di loro, infatti, sapeva fare qualcosa che gli altri non riuscivano a fare. Il ragno disse che poteva tessere un filo fino alla luna, e così fece davanti a tutti. La talpa, invece, dichiarò che poteva scavare una galleria lunga cento chilometri, e invitò tutti a seguirla. Aveva ragione. Contarono i chilometri percorsi e constatarono che erano proprio cento, e forse anche qualcosina in più. La tortora dal canto suo, affermò che poteva volare intorno alla terra senza mai fermarsi e partì. Dopo una settimana tornò, portando un oggettino da ogni paese sorvolato, dimostrando così di aver detto la verità. Insomma, tutti gli animali erano bravissimi e quindi sembrava impossibile decidere chi fosse il più bravo.

Era già trascorso un mese dall’inizio delle gare, e non si poteva prevedere quando sarebbero finite. Una notte il grillo cantò una canzone molto triste. La canzone diceva che nel bosco viveva una bambina assieme alla mamma e al papà taglialegna, che la bambina era malata e che i dottori non riuscivano a scoprire cosa avesse. Subito tutti, di comune accordo, sospesero la competizione e cominciarono a pensare come portare aiuto alla bambina. Il grillo disse che sarebbe andato sotto la finestra della piccola, a sonarle una dolcissima serenata che l’avrebbe certamente guarita. La pecorella, invece, avrebbe preparato un formaggio da far risuscitare anche i morti. La formichina le avrebbe portato delle briciole toccasana, che aveva trovato nella cucina di una famosa maga. Lo scoiattolo le avrebbe dato delle noci miracolose, avute un giorno da un mercante arabo. La rondine sarebbe andata lontano lontano, fino in Africa, e avrebbe riportato indietro un’erba prodigiosa, che era usata con successo anche dal noto stregone Tum-Tum. Ognuno offriva qualcosa ed era certo di poter sanare la bambina malata. Tra gli animali del bosco c’era naturalmente anche un cagnolino. Era tutto nero con una stellina bianca sulla testa. Era assai grazioso e molto amato dai bambini del paese vicino. Ma gli altri animali lo consideravano un monellaccio che pensava solo a giocare.

Frifrì – così si chiamava il cagnolino – aveva udito i suoi compagni e le prodezze che volevano compiere per guarire la bambina, e cominciò a pensare che forse sarebbe riuscito a fare qualcosa anche lui. E così, tra una capriola e l’altra, ascoltava, rifletteva e soprattutto taceva, perché qualunque cosa avesse detto, essi non lo avrebbero preso sul serio. Ma lui non era come pensavano gli altri. Gli piaceva giocare, questo è vero, ma all’occorrenza sapeva essere anche coraggioso e saggio. Una volta, ad esempio, aveva salvato un bambino che stava annegando nel fiume. Un’altra volta, invece, aveva tratto in salvo una vecchietta che stava finendo sotto le ruote d’un carro, tirandola per il vestito. Ma nessuno lo sapeva, perché lui non se n’era vantato, ma se l’era tenuto per sé.

La sua migliore amica era una farfalla allegrona che svolazzava tutto il giorno  da un fiore all’altro. Questa farfalla, a sua volta, era molto amica di un’ape infaticabile che non smetteva un istante di raccogliere il miele. Un giorno Frifrì andò a trovare la sua amica farfalla, la farfalla chiamò l’amica ape, e insieme fecero una società allo scopo di guarire la bambina. e cominciarono a discutere sul da farsi, incoraggiati anche dal fatto che, tutti i tentativi dei colleghi e delle colleghe del bosco erano falliti.

Decisero anzitutto di andare a trovare la bambina, di vederla, di parlare con lei e nel frattempo, chissà, forse avrebbero scoperto la medicina adatta. E così fecero. La farfalla avanti, l’ape dietro e il cagnolino che chiudeva la fila. Arrivarono alla casetta e bussarono alla porta. Venne ad aprire la mamma, tutta triste, e chiese loro cosa volessero. Il cagnolino rispose che volevano visitare la bambina. La mamma li fece entrare volentieri. La bambina era molto pallida. Giaceva sul lettino ed ebbe a stento la forza di sorridere agli ospiti appena arrivati. Frifrì le leccò la manina, la farfalla si posò sui suoi capelli e l’ape cominciò a volarle intorno dicendo:

– Bzz… bzz… bambina bella, coraggio, noi ti guariremo. Tu hai gli occhi del colore del fiordaliso, la bocca pallida come una rosa al chiaro di luna e i capelli color miele. Ora sappiamo cosa prepararti. Quindi la salutarono, promettendole che sarebbero tornati il giorno dopo con una medicina miracolosa.  Prima di andarsene a dormire stabilirono d’incontrarsi la mattina seguente sotto l’albero più grande del bosco.

Erano le sei, il sole era appena spuntato e faceva alquanto freddo. Sarebbero rimasti volentieri ancora un po’ nei loro caldi lettucci, ma pensando alla bambina malata che aspettava il loro aiuto, si alzarono e si diressero tutti e tre verso il luogo dell’appuntamento. Quando furono riuniti, l’ape confermò subito la sua terapia e disse:

– Caro Frifrì e cara farfalla, dobbiamo preparare una tisana con petali di fiordaliso, celesti come gli occhi della bambina, poi occorrono dei petali di rosa al chiaro di luna, pallidi come la bocca della piccola, e infine una tazzina di miele, dorato come i suoi capelli.

E così fecero. La farfalla trovò il fiordaliso e le chiese due petali. Il fiore fu molto contento di poterli aiutare. Quindi l’ape portò una tazzina di miele purissimo, dopo di che aspettarono la sera per prendere due petali di rosa al chiaro di luna. Quando ebbero raccolto tutti gli ingredienti, accesero un focherello, presero un barattolo vuoto e prepararono il decotto. Erano le nove di sera.

Giunsero trafelati dalla bambina e le fecero bere subito la tisana. Era davvero miacolosa! Dopo qualche istante, infatti, la piccola cominciò a sentirsi meglio, e mezz’ora dopo si alzò dal letto e chiamò la mamma e il papà. I genitori piansero di gioia al vedere la figlioletta completamente guarita. Da quel giorno il cagnolino, la farfalla e l’ape diventarono grandi amici della bambina e molto spesso giocavano insieme.

Una cicala che viveva nel giardino intorno alla casetta, e che aveva visto e sentito tutto , e sapeva quindi come la piccola fosse guarita, si mise a girare per il bosco, raccontando a tutti la storia che noi conosciamo. E così ogni animale venne a sapere cha la bambina era stata guarita dal cagnolino, dalla farfalla e dall’ape.

Si misero d’accordo e pepararono una bellissima torta. Poi con il pretesto di una riunione importante, invitarono i tre a prendervi parte. Era una scusa, perché volevano far loro un’improvvisata. I tre andarono alla riunione e, a un tratto, alla presenza di tutti l’uccello più anziano scoprì la grande torta. Sopra c’era scritto:

«Agli animali più bravi: il cagnolino, la farfalla e l’ape. Firmato: gli altri animali del bosco».

Il principe che era un albero

In una certa parte di mondo viveva un re buono e saggio, che era molto amato dal popolo. La moglie gli era morta e così era rimasto solo con il figlio di sette anni. Il re era ancora giovane e quindi si risposò. Per sua sfortuna però, la seconda moglie, che all’inizio sembrava mansueta come una pecorella e dolce come una caramella, ben presto si dimostrò prepotente come uno sbirro e aspra come il limone, insomma – una donna pestifera. Il re si era pentito amaramente di averla sposata e sempre più spesso rimpiangeva la prima moglie, bella come l’aurora e buona come un angelo. Il bambino somigliava alla mamma, e ogni volta che il re lo guardava, ricordava gli occhi e la bocca dell’amata consorte e diventava molto triste. Anche per questo la matrigna odiava il principino, e alla fine pensò di liberarsi di lui.

Andò da una strega amica sua, e le chiese di aiutarla. La vecchia megera non si fece pregare, e le consegnò un forte sonnifero, dicendole:

– Prima che il bambino si addormenti dagli questa polverina e lascia aperta la finestra della sua stanza.

La regina ringraziò l’amica e tornò al palazzo reale. La sera fece esattamente come la strega le aveva suggerito. e se andò a dormire.

Durante la notte un enorme uccellaccio nero entrò nella stanza del bambino attraverso la finestra, lo prese tra le zampe e volò via, verso la casetta della strega. La vecchia aspettava impaziente, e appena vide arrivare l’uccello col principino, sogghignò e si stropicciò la mani tutta contenta. Quindi ordinò all’uccello di posare il piccolo sull’erba e di andarsene. Il bambino dormiva come un sasso. La strega lo portò dentro la casetta e lo adagiò sul letto. Poi si avvicinò al suo tavolo da lavoro pieno di provette, ampolline e alambicchi fumanti, e cominciò a preparare un intruglio d’ingredienti disgustosi, ma ricchi di potere magico: acqua del pozzo del diavolo, dente di vipera, unghia di corvo, pelle di rospo e altre cose ancora. Quando il beveraggio fu pronto, lo sollevò in alto stringendolo tra le mani e gridando:

Parabenda, caramai,

Carabinda, paracai,

Un bell’albero sarai!

Dopo di che lo fece bere al bambino nel sonno e se ne andò a letto soddisfatta.

Da quella notte il suo giardino ospitò un nuovo alberello. Era giovane e sano, quindi cresceva bene e diventava sempre più robusto e frondoso. Ma era anche molto triste. Gli uccelli lo sapevano e facevano a gara a chi gli teneva più compagnia, per tirargli su il morale. Una volta organizzarono perfino un «Festival della canzone allegra», e riuscirono a farlo sorridere. Ma fu un successo di breve durata. Essi sentivano che l’albero non stormiva come tutti gli altri suoi simili. Il suo era come un mormorio più simile alla voce umana, che a quella delle piante. Era come un canto sommesso, una preghiera affidata al vento:

– Vooolaaa fino al palaaazzooo di mio padreee… digliii di venireee a liberaaarmiii da queeesto… incanteeesimooo… – ripeteva continuamente.

E il vento faceva volentieri quello che l’albero gli chiedeva. Spesso, infatti, mentre passeggiava pensieroso e sconsolato nel suo grande giardino, il re sentiva una voce oscura e misteriosa, ma non riusciva a capire cosa volesse dire, né da che parte arrivasse.

Erano trascorsi molti anni. La matrigna nel frattempo era morta colpita da un fulmine, mentre tornava alla reggia durante un violento temporale.

Il re dal canto suo era invecchiato e pensava sempre con nostalgia alla prima moglie e al figlio che aveva perso. Chi avrebbe preso il suo posto alla sua morte?

Una notte si svegliò tutto agitato e udì una voce che gli diceva:

– Va’, prosegui sempre in direzione della stella più luminosa. Ti dirò io quando dovrai fermarti.

Restò sconvolto e perplesso… gli sembrava di aver riconosciuto la voce della prima moglie. Ma non perse tempo a pensare. Si alzò subito, si vestì, si allacciò la fedele spada e montò a cavallo. Trotta e galoppa, erano già trascorse cinque ore da quando aveva lasciato il palazzo. Era stanco, la testa gli girava, ma andava sempre avanti senza fermarsi mai. Aveva già percorso molti chilometri, ma ancora non sentiva la voce che doveva invitarlo a riposare.

A un tratto vide davanti a sé un albero alto, robusto e frondoso e lì vicino una casetta distrutta dalle piogge e dai fulmini. Naturalmente era la casetta della strega – morta qualche anno prima. E l’albero era suo figlio, ma il re non poteva saperlo. Improvvisamente udì le parole che aspettava:

– Ora riposati all’ombra di questo albero!

Il re, stanco morto, ringraziò il cielo, si sdraiò sul soffice muschio e si addormentò in un batter d’occhio. Ma quale sogno egli fece! Gli sembrava che i rami dell’albero si agitassero freneticamente, e che qualcuno gli sussurrasse di continuo:

– Padre mio, finalmente mi hai trovato! Sono io, tuo figlio!

Il re non riuscì a dormire a lungo. Svegliatosi di soprassalto, si guardò intorno sorpreso e spaventato, e posò lo sguardo sull’albero. I rami smaniavano e lo sfioravano come per volerlo accarezzare, e per la prima volta il re sentì in modo chiaro quella voce che arrivava fino al suo palazzo, sulle ali del vento:

– Padre mio aiutami, padre mio liberami, sono tuo figlio!

Il re allora abbracciò l’albero, felice e disperato al tempo stesso e gemette:

– Oh, figlio mio adorato, come posso liberarti, come vincere questa magia!

E piansero a lungo, stretti l’uno all’altro. Ma all’improvviso il re si ricordò della prima moglie, la buona e bella regina, e con voce tremante mormorò al figlio:

– Coraggio, figliolo, la tua mamma ci aiuterà, andrò a pregare sulla sua tomba.

Poi abbracciò di nuovo l’albero e si allontanò, portando con sé una foglia staccata da uno dei suoi rami. Arrivò sfinito al cimitero dove era sepolta la buona regina e si gettò in ginocchio sulla sua tomba, implorando:

– O mia dolce sposa, libera tuo figlio, fallo ridiventare un essere umano. Ormai sono vecchio, chi prenderà il mio posto quando sarò morto? Oh, ti supplico, aiutaci tu…

Il re avrebbe ancora implorato e sospirato, ma il suo cuore ormai troppo debole non resse al dolore e si fermò. La luna, commossa, illuminava il volto sereno del re e la mano che stringeva la foglia. Oh, se egli avesse potuto vedere quello che stava succedendo! La foglia cresceva sempre più, la sua mano si apriva e la foglia continuava a crescere, si trasformava, prendeva pian piano l’aspetto di una persona. Prima i piedi, poi le gambe, le braccia e così via, fino alla testa, finché apparve un bellissimo giovane. Il vecchio re, morendo, aveva ridato a suo figlio la vita umana. Il principe s’inginocchiò davanti ai suoi genitori, baciò il padre sulla fronte e lo seppellì accanto alla mamma.

Al palazzo reale tutti aspettavano il ritorno del re. Erano trascorsi tre giorni da quando era partito, e cominciavano a essere preoccupati. Stavano già pensando di andarlo a cercare, quando udirono un lungo, sonoro squillo di tromba e subito dopo, la voce forte e profonda del vecchio re, risonante dal mondo di là.

– Aprite le porte a mio figlio. Amatelo come avete amato me. Egli sarà per voi un sovrano giusto e saggio.

Le guardie si affrettarono ad aprire e il giovane re entrò nel palazzo, accolto da un coro di evviva, evviva!

Visse a lungo, nessuno si lamentò mai di lui, e fu sempre amato e rispettato da tutto il popolo. E sapete quale fu il più grande amore di quel re? Fu un magnifico albero che cresceva nel parco del palazzo, e sotto il quale egli, quando era particolarmente stanco o rattristato, si riposava. Ricordava e meditava, e qualche volta per un po’ di tempo avrebbe volentieri preso il posto di quell’albero, per riascoltare i buffi pettegolezzi e le allegre risate degli uccelli, per giocare coi rami e con le foglie assieme al sole e per conversare di notte con la luna. Ma egli sapeva anche che nel mondo ognuno ha il suo posto e la sua missione da svolgere, e che il suo dovere di re era proprio quello di essere un buon re, anche se spesso doveva sudare quattro camicie e ingoiare tanti amari bocconi.

 Il re Polentone e il cagnolino Frisco

 

Ai tempi di una volta regnava un re molto pigro. Il suo vero nome era Carlone ma, a causa della sua pigrizia, i sudditi lo avevano sopprannominato Polentone. Girava tutto il santo giorno per le stanze del suo meraviglioso castello o per i viali del grande parco, annoiato e senza combinare niente. L’unico che riusciva a divertirlo era il suo cane Frisco – un vero simpaticone con un’aria sbarazzina e due occhietti vispi, che correva dietro agli uccelli e alle farfalle, si ruzzolava in terra e riprendeva a correre, quindi si fermava di colpo e cominciava a scavare delle piccole buche, pensando di trovare chissà quali tesori. Il re si divertiva molto a guardare tutte quelle manovre di Frisco e ogni tanto gli buttava un cioccolatino. Il cane lo prendeva al volo e ringraziava il suo padrone scotendo la testa e agitando la coda.

Un brutto giorno un esercito nemico invase il regno del re Polentone e, dato che neanche i suoi soldati brillavano per alacrità e zelo, ben presto l’esercito di Polentone fu sopraffatto e il re venne catturato, portato lontano dal

suo castello e gettato in prigione. Povero re Polentone! Abituato a camminare tutto il giorno nel suo grande parco, ora faceva solo tre passi e arrivava all’altra parete della cella, si sedeva sul duro e stretto tavolaccio, si alzava, andava alla finestrella protetta da grosse sbarre di ferro e pensava con rammarico al tempo in cui viveva spensierato e libero.

Era già trascorso un mese da quando era entrato in quella prigione, allorché una mattina sentì abbaiare… gli sembrava una voce conosciuta. All’improvviso una testolina bianca e arruffata fece capolino attraverso le sbarre della finestrella. Era proprio lui! Il cagnolino Frisco era riuscito a scovare il suo padrone. Quanti chilometri aveva percorso per ritrovarlo! Appena lo vide, il re cominciò a saltare dalla gioia e Frisco fece altrettanto. Polentone porse la sua scodella di zuppa al cane, che la divorò in un baleno. Poveretto! Chissà da quanto tempo non aveva toccato cibo! Il re era tornato allegro come quando giocava con Frisco nella sua reggia. Accarezzò più volte la testolina ricciuta del suo fedele compagno, e cominciò a pensare come farsi aiutare da lui per scappare dalla prigione. Si ricordò che nel sorrerraneo del suo castello c’era una stanza segreta, in cui si poteva entrare attraverso un buco nel muro che dava sul parco. Nella stanza c’erano diversi arnesi, armi e polvere da sparo. chissà quante volte Frisco vi si era introdotto durante le sue passeggiate diurne e notturne! Allora il re prese un bastoncino e tracciò in terra la piantina del castello, poi fece una croce nel punto dove si trovava il buco nel muro e chiese a Frisco:

– Frisco, ricordi questo posto, guarda bene, te lo ricordi?

Il cagnolino annuiva con la testa e il re continuò:

– Allora va’, corri, entra in quella stanza e portami una lima, sai – quella che serve a segare il ferro…

Frisco fece di nuovo segno di aver capito e rispondendo «bau! bau!» corse via per eseguire la missione che il re gli aveva affidato. Passò un altro mese, ma il cane non tornava. Polentone era preoccupato. Forse Frisco aveva perso la strada, forse si era ferito correndo tra le rocce, forse non aveva capito bene quello che lui gli aveva chiesto di fare. Ma il re non dovette preoccuparsi a lungo, perché finalmente, trascorso ancora qualche giorno, sentì abbaiare alla finestrella e vide il suo fedele Frisco, tutto sudato e sporco, con una lima tra i denti.

– Ce l’hai fatta! Bravo! Tieni, mangia! – esclamò il re, e gli porse la scodella piena di zuppa di cipolle. Frisco mangiò tutto come un fulmine, poi si sdraiò in terra vicino alla finestrella e si addormentò.

Venne la notte. C’era un silenzio assoluto, e il re cominciò a segare le sbarre che lo separavano dalla libertà. Ma smise subito, perché faceva troppo rumore – le guardie lo avrebbero certamente sentito. Per sua fortuna proprio in quel momento scoppiò un nubifragio e così, coperto dal rombo dei tuoni e dallo scroscio dell’acqua, il re riprese a segare. Segò tutta la notte e finalmente un’ora prima dell’alba riuscì a togliere tutte le sbarre. Salì in piedi sul tavolaccio e con molta fatica, perché era grasso e la pancia sembrava aver deciso di voler restare a tutti i costi in cella, alla fine ansimante e sudato riuscì a passare attraverso l’apertura.

Frisco nonostante i tuoni ancora dormiva. Il re lo svegliò e fuggirono via.

Quanto tempo corsero nessuno lo sa, ma quando proprio non ce la facevano più e stavano per crollare a terra, scorsero una luce davanti a loro, che trapelava attraverso gli alberi. Si avvicinarino e videro che si trattava di una casetta. Guardarono attraverso i vetri della finestra – un vecchietto e una vecchietta si scaldavano vicino al camino. Allora bussarono. Il vecchietto si alzò e aprì la porta, e vedendoli così sporchi e stanchi li fece subito entrare, diede loro da mangiare e da bere e li invitò a fermarsi per la notte. Frisco era particolarmente contento, perché fu sistemato su un morbido tappetino vicino al fuoco.

La mattina dopo i due ospiti si svegliarono tranquilli e riposati. I padroni di casa non c’erano. Forse si erano alzati molto presto ed erano andati raccogliere un po’ di legna. Però avevano preparato sul tavolo una buona e abbondante colazione. Il re e il cagnolino mangiarono con appetito e quindi cominciarono a pensare, ognuno a modo suo e come poteva, a come tornare nel proprio castello. Lì ora comandava il re nemico e tutte le prigioni erano pieni di soldati del re Polentone.

Pensarono a lungo. Frisco qualche idea ce l’aveva, ma non potendo esprimersi a parole, ogni tanto abbaiava cercando di farsi capire. Il padrone lo guardava sorridendo e gli diceva:

– Sì, sì, lo so che vorresti dirmi qualcosa, ma che ci vuoi fare, non ho mai studiato la tua lingua.

Pensa e ripensa, a un tratto il re si disse: «Io devo rimanere nascosto in questa casetta, altrimenti mi riconoscerebbero, ma Frisco può andarsene tranquillamente in giro senza timore di essere preso». Fatta questa considerazione, il re prese una matita e cominciò a tracciare su un foglio di carta la pianta del suo castello. Fece di nuovo vedere al cagnolino il punto dove si trovava la stanza con le armi, poi gli indicò le prigioni e gli disse:

– Devi entrare nella stessa stanza dell’altra volta, prendere i fucili e i sacchetti con la polvere da sparo, e portarli un pezzo alla volta a tutti i miei soldati prigionieri. Hai capito?

Frisco annuì con la testolina e si avviò verso il castello, che ormai non era più tanto lontano. E così – un fucile e un sacchetto alla volta, quindici giorni dopo era riuscito ad armare tutti i soldati. Quando ebbe finito il lavoro, anziché lasciare alla solita ora la casetta e il re, si accoccolò ai suoi piedi senza muoversi, e in tal modo il re capì che tutti i fucili e i sacchetti erano stati distribuiti ai suoi soldati. Allora Polentone scrisse un biglietto e pregò Frisco di portarlo al capo del suo esercito, che era stato messo nella cella più stretta e più buia. Il cagnolino corse subito col biglietto tra i denti e il capo ricevette il messaggio. C’era scritto: «Questa notte, quando udrete abbaiare, fate saltare i cancelli delle prigioni, uscite e impadronitevi del castello. Poi aprite il portone per far entrare me e il mio fedele cagnolino. Firmato: Re Carlone».

A mezzanotte il re e Frisco lasciarono la casetta, era buio pesto e faceva freddo ma non lo sentivano, pensando a ciò che li aspettava. Appena giunti nei pressi del castello il re sussurrò a Frisco:

–  Abbaia più forte che puoi!

Frisco cominciò ad abbaiare furiosamente e in quel preciso istante si udì un pandemonio, un fracasso indescrivibile, scoppi a non finire, urla. Ben presto i soldati di Polentone riuscirono ad avere la meglio su quelli del re nemico e aprirono il portone. Il re entrò, seguito dal cagnolino e salutato festosamente da tutti. Polentone sorrideva felice. Al contrario, Frisco non sembrava molto soddisfatto. Andava dietro al suo padrone scodinzolando controvoglia e piuttosto preoccupato. Pensava: «E adesso – fine dei nostri giochi nel parco…».

Il giorno dopo Polentone si ricordò dei due vecchietti che lo avevano ospitato e si recò da loro con Frisco, senza cambiarsi d’abito. Appena i due lo videro arrivare gli corsero incontro e lo rimproverarono di essere andato via senza nemmeno salutarli. Ma il re disse loro:

–  Io sono il vostro sovrano Carlone e questa borsa piena d’oro è per voi, per l’aiuto che mi avete dato.

I due rimasero a bocca aperta, caddero in ginocchio e non la finivano più di ringraziarlo, tanto che Frisco cominciò ad abbaiare per farli smettere.

Ben presto i timori del cagnolino risultarono giustificati, anche se bisogna dire che erano alquanto esagerati, perché di suoi simili disposti a giocare ce n’erano a bizzeffe anche ai quei tempi. Comunque sia, da quel giorno il re fu chiamato di nuovo Carlone, perché dopo tutto ciò che gli era successo, aveva cominciato a lavorare più e meglio degli altri, ed era così occupato, che ogni volta che incontrava il suo cagnolino nelle sale del castello, perché nel parco ci capitava di rado, lo accarezzava dicendogli:

– Scusami Frisco, ma ho tanto da fare! – e correva via.

Frisco però non se la prendeva a male, perché sapeva che il suo re gli voleva sempre bene, e in un certo senso era felice che il suo padrone fosse diventato così attivo e utile a tutti. Pensava soltanto che se avessero voluto dargli un soprannome, asesso avrebbero dovuto chiamarlo Faticone.

 

Le spille della bellezza e della giovinezza

 

     In un grande castello vivevano i principi Florindo e Cuordoro. Il castello era situato su una collina e lo cingeva un profondo fossato pieno d’acqua. Mille soldati lo difendevano dagli assalti dei nemici e mai nessuno era riuscito a impadronirsene. All’interno del castello c’era un meraviglioso giardino con degli alberi altissimi. Bastava arrampicarsi su uno di essi, per vedere i confini del regno. A destra c’era il castello del re Spaccamontagne e a sinistra quello del re Filidoro, che era famoso per avere due figlie gemelle bellissime: Arina e Ludmilla. Tutti i principi avrebbero voluto sposarle, ma il re non ne aveva ancora trovati due degni di diventare suoi generi.

Florindo aveva vent’anni e amava molto andare a caccia assieme a suo fratello Cuordoro, che ne aveva diciotto. Un giorno, partiti come al solito a cavallo con gli archi e le frecce, si avvicinarono senza volerlo al castello del re Filidoro. Arina e Ludmilla erano in giardino, coglievano i fiori e cantavano. Le voci delle due fanciulle giunsero fino a giovani, che decisero di andarle a vedere da vicino. Smontarono da cavallo e si avviarono a piedi verso il giardino. Giunti presso il recinto, restarono incantati. Le due principessine erano assai più belle di quanto avessero immaginato. In quel momento stavano giocando a rincorrersi, ridevano ed erano felici e serene…

All’improvviso il cielo si oscurò e si udì com il sibilo di un fortissimo vento. I due giovani e le principesse alzarono gli occhi al cielo e scorsero due enormi uccellacci neri che volteggiavano minacciosi, emettendo un suono che faceva accapponare la pelle:

– Cra… cra… cra…

A un tratto fissarono i loro sguardi di fuoco sulle due fanciulle e si avventarono su di loro. Le principesse svennero dallo spavento. I due principi impugnarono prontamente l’arco e scoccarono diverse frecce contro i due uccellacci, ma non riuscirono a colpirli, perché saltellavano continuamente attorno ai corpi distesi di Arina e Ludmilla. Durò tutto pochi secondi e, proprio  quando gli uccelli stavano volando via, Florindo riuscì a colpire l’ala di uno dei due e una piuma nera cadde ai piedi delle fanciulle. Cuordoro aveva fatto in tempo a notare che tra le zampe degli uccelli brillava qualcosa. Cosa mai poteva essere?! I due principi scavalcarono il recinto e accorsero presso Arina e Ludmilla ancora svenute. Ma restarono inorriditi: al posto di quelle due incantevoli giovani, giacevano in terra due vecchiacce quasi pelate, sdentate e avvizzite come prugne secche.

– Che diavoleria è questa?! – esclamò Cuordoro.

Florindo, vincendo la paura, le scosse per svegliarle. Le due vecchie aprirono gli occhi e si toccarono la testa. Ah! Gli uccelli avevano rubato loro le spille magiche della giovinezza e della bellezza! Le principesse scoppiarono in lacrime. I due giovani cercarono di consolarle, ma poi pensarono che fosse meglio raccontare tutto al re Filidoro, padre delle due sventurate.

Appena il re le vide ridotte in quel modo, provò una stretta al cuore, ma si fece coraggio, sospirò e con un fil di voce disse ai principi:

– Lontano da qui vive una strega molto cattiva. Quando nacquero le mie figliole, essa venne a trovarci e chiese di vedere le bambine. Sembrava buona e gentile e noi la facemmo entrare, anche perché portava due stupendi regali: una spilla di rubini per Ludmilla e una di smeraldi per Arina. Si avvicinò alla culla, posò le spille vicino alle loro testoline e borbottò alcune parole oscure, quindi si allontanò ridacchiando. Quando era già fuori del castello gridò con voce stridula: «Se le due bambine non si separeranno mai, saranno sempre giovani e belle… ma allorché saranno grandi… eh! eh! eh!» – non aggiunse altro e scomparve come d’incanto.  Ora lei ha mandato i suoi uccellacci per riprendersi le spille magiche. Le mie adorate figlie sono diventate brutte e vecchie come lei, mentre lei diventerà bella e giovane come Arina e Ludmilla. Ma io vi prometto che, se riuscirete a rompere questo incantesimo, le mie figliole diverranno vostre spose.

I due giovani, ascoltate le parole del re, promisero che avrebbero tentato. La mattina dopo montarono a cavallo e con le provviste per alcuni giorni si misero in viaggio. Florindo, prima di partire, si era messa in tasca la piuma nera che aveva raccolto nel giardino del re Filidoro. «Chissà – pensava – forse servirà per trovare la strada giusta».

Galoppa e galoppa, avevano già attraversato montagne, laghi e fiumi. A ogni persona che incontravano chiedevano:

– Avete visto degli uccellacci neri? Sapete dove abita una vecchia strega che si è trasformata in una meravigliosa fanciulla?

Ma nessuno sapeva niente e non aveva mai visto uccelli come quelli descritti dai due giovani. Dopo giorni di vane ricerche, essi cominciaroro a temere che non avrebbero mai trovato ciò che cercavano. Una sera erano particolarmente stanchi, e così si sedettero su una grossa pietra per riposarsi un po’. Florindo tirò fuori dalla tasca la piuma nera e si mise ad osservarla girandosela tra le dita. I due erano tristi e avviliti, e stavano già pensando di tornarsene a casa, quando di punto in bianco risonò un grido e lo stesso sibilo di vento che i giovani avevano sentito nel giardino di Arina e Ludmilla. Un uccello nero, più grande di quelli che avevano visto allora, volava basso sulle loro teste, gracchiando:

– Cra… cra… cra…

Immediatamente Florindo aveva impugnato l’arco e stava per scoccare una freccia, che forse avrebbe ucciso l’animale, quando quello riprese a gracchiare:

– Cra… cra… cra… non mi uccidere, se mi ridarete la piuma vi condurrò dalla strega. La piuma apparteneva a mio figlio, che per averla persa è stato condannato dalla nostra strega-regina a non volare più.

– Va bene – dissero i giovani, che non si fidavano dell’uccello – prima però dovrai portarci dalla strega e aiutarci a riprenderle le spille della bellezza e della giovinezza.

– D’accordo – gracchiò l’uccello – seguitemi, in mezz’ora arriveremo alla dimora della mia regina – e così dicendo volò via. Florindo e Cuordoro gli andarono dietro e infatti, dopo una mezz’ora di strada, scorsero una casa di legno tra gli alberi.

– Ssst… – sussurrò l’uccello – la strega non deve sentirci. Nascondiamoci tra i cespugli e aspettiamo che se ne vada a letto.

Quando mancavano ormai pochi minuti alla mezzanotte, l’uccello si rivolse ai giovani:

– Ora vedrete la strega. Tutte le sere si affaccia alla finestra per augurarci la buona notte.

Aveva ragione. Poco dopo apparve una fanciulla bellissima con lunghi capelli biondi come un ruscello dorato, gli occhi azzurri come zaffiri, la bocca rossa come il sole al tramonto e in testa – le spille della giovinezza e della bellezza. E risonò la sua voce dolce e vellutata:

Miei amati uccellini!

Ci vediamo domattina.

Buona notte e sogni d’oro

dalla vostra regina.

Dette queste parole, richiuse la finestra, tirò le tendine e se ne andò a letto. Bisognava escogitare qualcosa per impadronirsi delle due spille. L’uccello sapeva che la strega se le toglieva solo quando doveva lavarsi i capelli, e gli venne un’idea. Suggerì di aspettare che la strega si addormantasse. Attesero ancora quindici minuti, poi la sentirono russare. Allora l’uccello prese una manciata di terra e, attraverso il camino, volò nella stanza della sua regina e pian piano le si avvicinò. Quindi le cosparse la terra sui capelli e sulla faccia e si nascose sotto il letto. Poco dopo un forte prurito al naso fece starnutire la strega, che si  svegliò di soprassalto. Si grattò la testa, e così facendo si accorse che era piena di terra. Non capiva come fosse successo. Si alzò, si avvicinò al lavandino, si tolse le spille e cominciò a lavarsi. Proprio in quel momento, mentre teneva gli occhi chiusi per non farci entrare la schiuma del sapone, l’uccello scivolò fuori, afferrò le spille senza far rumore e volò via attraverso il camino. Raggiunse Florindo e Cuordoro e consegnò loro le spille. I due principi allora gli diedero la piuma nera e fuggirono via sui loro veloci cavalli.

Quando la strega si accorse che le spille non c’erano più, ormai era troppo tardi. I due principi erano già molto lontani e lei, ridiventata una vecchia decrepita, non avrebbe mai avuto la forza di inseguirli…

Ben presto i due giovani giunsero al castello del re Filidoro e restituirono le spille ad Arina e Ludmilla, che riacquistarono immediatamente la          giovinezza e la bellezza.

Naturalmente i due principi sposarono le due principesse, e tutti e quattro vissero per sempre uniti e contenti.

(C) by Paolo Statuti

Paolo Statuti: L’ombrello

1 Dic

lombrello

     L’ombrello

                                                                                “Gli ombrelli sono come gli esseri

                                                                             umani, non vivono sempre giovani,

                                                                                                e così anche per lui arrivò

                                                                                        il momento della vecchiaia…”

                                                                                                                                                                                                                        

Era trascorso soltanto qualche giorno da quando era nato nella piccola fabbrica di un bravo artigiano, e già si trovava nel negozio di un onesto, anziano commerciante, assieme a tanti altri compagni in attesa  di un acquirente. Era, come tutti, giovane, forte e pieno di belle speranze, come uno studente che ha appena terminato gli studi, e si accinge ad affrontare la vita. Leggendo la grande insegna  «OMBRELLI» fuori del negozio, si era detto: «Mi sembra proprio un buon trampolino di lancio!»  Infatti non si sbagliava, perché quel commerciante aveva molti clienti e nessun ombrello restava a lungo nel suo negozio.

Il nostro amico era ansioso di vivere, di mostrare tutto il suo coraggio e la sua resistenza contro l’eterna «nemica» degli ombrelli: la pioggia. Aveva voglia di battersi, di lottare con essa, e le occasioni in quel paese non mancavano di certo, perché pioveva molto spesso e come! E quindi un ombrello era indispensabile, come un paio di scarpe o il cappotto.

Era nato  «maschio», di nylon nero, con un bel manico di mogano e la punta di acciaio cromato. Insomma, oltre ad essere giovane e forte, era anche bello, e perciò non dovette attendere a lungo…

Un giorno entrò nel negozio un distinto signore con la barba e gli occhiali, che lo notò subito e lo acquistò.

– Sembra una persona seria e tranquilla… forse è un professore e ho l’impressione che sarò trattato con tutti i riguardi… auguro anche a voi una fortuna simile. Arrivederci, dunque, in una di queste strade! – disse l’ombrello ai compagni, varcando la soglia del negozio, al braccio del suo nuovo padrone.

Fatto appena qualche passo ebbe subito la prima grande soddisfazione della sua vita, perché scoppiò un violento temporale e l’uomo si affrettò ad aprire l’ombrello. Che emozione! Che gioia! I goccioloni cozzavano contro la stoffa tesa e resistente, trasformandosi in leggeri spruzzi di minuscole goccioline. Ma sotto la cupoletta nera non filtrava nulla. Se non fosse stato per il suono martellante e continuo, e per la strada bagnata che si riempiva via via di pozzanghere e rigagnoli, l’uomo avrebbe potuto pensare che piovesse solo nella sua fantasia. Egli apprezzò molto la qualità dell’ombrello e si rallegrò di averlo acquistato.

Passarono alcuni giorni. L’uomo con la barba e gli occhiali – che era proprio un professore – si era già affezionato al suo nuovo compagno e lo trattava assai bene. Dopo averlo usato, lo scoteva, lo lasciava aperto per farlo asciugare, poi lo riponeva nel fodero e lo metteva delicatamente nel portaombrelli. Il nostro amico era contento e fiero del suo lavoro ed era anche soddisfatto dell’ambiente in cui viveva. Era un appartamento spazioso e pieno di luce. La moglie del professore e le loro due figlie, ormai in età da marito, erano persone ammodo e andavano abbastanza d’accordo. Abbastanza – perché, come succede anche nelle migliori famiglie, ogni tanto tra loro volava qualche parolina poco simpatica. Molte cose in proposito, che non staremo a ripetere per discrezione, erano state riferite al nostro ombrello da quei tre pettegoli di ombrellini «femmine», con cui doveva convivere nel portaombrelli. Cicalavano in continuazione ed erano sempre pronti a malignare. Qualche volta lo stuzzicavano anche, ma lui aveva deciso di prenderla con filosofia. Faceva finta di niente e cercava di essere tollerante e comprensivo, come in genere  bisogna fare con le donne, anche con quelle migliori.

Il professore era una persona meticolosa e precisa, ma purtroppo era anche un tipo distratto, e così un giorno dimenticò l’ombrello sul tram e, quando se ne accorse, era troppo tardi. Riuscì a rintracciare la vettura, ma ormai l’ombrello non c’era più. Infatti, lo aveva trovato un ragazzo che, invece di consegnarlo al conducente com’era suo dovere, se l’era portato a casa. Rientrando con il suo immeritato trofeo, aveva esclamato:

– Mamma, sono fortunato, guarda che bell’ombrello ho trovato!

– Con te non durerà molto! – gli aveva risposto la donna.

A quelle parole il nostro amico provò un brivido dal manico alla punta e pensò: «Povero me, in che mani sono capitato!»  Il ragazzo lo portò in camera sua e lo gettò in un angolo, dove giaceva un altro ombrello col manico spezzato, le stecche penzolanti e la stoffa strappata. Appena vide il nuovo arrivato, gli mormorò con un fil di voce:

– Povero te! Guarda come mi ha ridotto quel terremoto!… – e così dicendo era spirato.

Ben presto il nostro ombrello che, come sappiamo, fino a quel momento era vissuto senza eccessivi problemi, dovette sperimentare di persona che nella vita ci sono anche periodi difficili e tristi, e che occorrono coraggio e pazienza per superarli.

Il giovane gliene faceva di tutti i colori. Ad esempio, camminando o correndo lo sbatacchiava sulle panchine o addosso agli alberi, lo trascinava per terra, lo lanciava in aria e lo riprendeva al volo, ma a volte la cosa non gli riusciva e il poveretto si abbatteva al suolo con un gemito.

Quando poi lo apriva per ripararsi dalla pioggia, lo agitava di qua e di là, procurandogli un forte giramento di testa.

Dopo qualche settimana di quel trattamento, l’ombrello era già tutto ammaccato, aveva la punta storta e consumata e il manico scheggiato. Ma a quanto pare anche gli ombrelli devono avere un loro santo in paradiso, perché un giorno al nostro protagonista la fortuna piovve come dal cielo: il ragazzo oltre ad essere un campione di disordine, era anche molto distratto e lo dimenticò sull’autobus. L’ombrello tirò un sospiro di sollievo e cominciò a sperare in un futuro migliore. L’autista lo portò all’Ufficio oggetti smarriti, e così finì  assieme a tanti altri colleghi che, per la verità, lo accolsero con una certa freddezza. Erano tutti ombrelli che avevano conosciuto la vita, che avevano avuto esperienze più o meno allegre, più o meno piacevoli. La maggior parte di loro era ancora abbastanza giovane e in grado di opporsi validamente alla pioggia, ma non erano più come una volta, quando erano entrati nei negozi ansiosi di vivere e di lottare. Nel deposito ce n’erano di tutti i tipi e di tutte le tinte: buoni, scadenti, sani, malati, grandi, piccoli, tristi, allegri, neri, rossi, gialli, ecc, ecc.

Il nostro ombrello, dopo ciò che aveva passato, era tra quelli malandati e stanchi, ma aveva ancora fiducia nella vita e voglia di lavorare, e quindi considerò subito il suo soggiorno nel deposito come un provvidenziale e salutare riposo. Vi restò quasi un mese e fu un periodo molto istruttivo e interessante. Dai racconti dei colleghi ebbe modo di accrescere le sue conoscenze sul carattere e sui sentimenti contrastanti, non solo degli ombrelli, ma anche degli uomini. Prepotenza, invidia, egoismo, come pure: benevolenza, modestia e altruismo – erano le parole che ricorrevano più spesso, e l’ombrello si meravigliava che sulla terra potessero esserci tante varianti di «buoni e cattivi».

Per quanto riguardava poi i rapporti tra uomo e ombrello, tutti erano concordi nel ritenere i peggiori difetti umani la negligenza e la distrazione. Quante sofferenze dovevano patire gli ombrelli a causa di esse!

Un giorno la direzione dell’Ufficio oggetti smarriti decise di vendere all’asta tutti gli ombrelli, e il nostro amico venne acquistato da un calzolaio, che lo rimise bene in ordine, tanto da farlo tornare come nuovo. Se lo portava sempre dietro, come un Inglese, e durante il lavoro lo appendeva a un chiodo sulla parte, accanto alla porta d’ingresso. Da quella posizione l’ombrello poteva comodamente osservare la gente che entrava e ascoltare i loro discorsi. Era un’altra interessante esperienza di vita. Inoltre, quando era nuvolo o pioveva, la gente entrava con l’ombrello e questa per il nostro amico era una buona occasione per fare nuove conoscenze.

Assieme al calzolaio visse lunghi anni sereni e felici. Ma gli ombrelli sono come gli  esseri umani, non vivono sempre giovani, e così anche per lui arrivò il momento della vecchiaia. Quando sentì di non poter più rendersi utile, si accomiatò per sempre dalla pioggia con queste parole:

– Tu puoi essere molto utile o molto dannosa, ma sei pur sempre un’avversaria degna di gran rispetto. Con te ho passato molte ore burrascose, ma anche piacevoli ed emozionanti. Ora devo lasciarti. Cerca di non fare troppi danni e ricordati di me ogni tanto. Addio…

– Ti ringrazio – rispose la pioggia, che in quel momento aveva qualche lacrima in più – e mi dispiace perdere un avversario leale e coraggioso come te. Ognuno di noi due ha il suo lavoro da svolgere, ma non c’è ragione di essere nemici. Ti ricorderò, ne puoi essere certo. Addio!

– E’ vero, non c’è ragione di essere nemici… addio… – sospirò l’ombrello e finì in una vecchia cassa nella cantina della bottega, dove restò a lungo, dimenticato da tutti… tranne che dalla pioggia.

(C) by Paolo Statuti

Paolo Statuti: L’albero di Natale

1 Dic

Dedico questa mia favola scritta e pubblicata negli anni ’80 a tutti i bambini del mondo e in special modo a quelli che soffrono a causa dell’ingiustizia e dell’indifferenza umana. 

 

Buon Natale ai bambini di tutto il mondo!!!

Buon Natale ai bambini di tutto il mondo!!!

 

L’albero di Natale

 

     Era piuttosto basso e tozzo, ed era finito nella casa di un operaio povero e per giunta senza lavoro. Aveva poche palline e nessuna lampadina, ma in compenso era illuminato dagli occhi sgranati di quattro vispi ragazzini. Di tanto in tanto, correndogli intorno, essi lo urtavano facendolo vacillare, ed egli doveva compiere un miracolo di equilibrio per non cadere. Cominciava già a perdere qualche ago e ad ingiallire un po’. Insomma, non era più sano e forte come nei giorni in cui cresceva nel bosco, ma aveva ancora energie sufficienti per svolgere degnamente la sua parte; e poi non era lì per rimpiangere il passato, ma per cercare di abbellire e rallegrare il presente.

In quella casa aveva già assistito a diverse scene e scenette, taluna lieta, tal’altra meno, testimone sempre attento e sensibile, ma la cosa che più lo aveva colpito era stata una conversazione del giorno prima tra i genitori dei quattro bambini, dopo che questi ultimi erano andati a letto. Il papà era serio e avvilito e la mamma aveva gli occhi lucidi…

– Non possiamo permetterci di comprare regali, lo sai che ce la passiamo male – diceva il babbo.

– Lo so – aveva risposto la mamma – ma è un peccato, domani è la Vigilia, in fondo sono stati bravi e si aspettano certamente qualcosa sotto l’albero.

– Sì, ma dove andiamo a prendere i soldi…

Il colloquio era proseguito per un po’, quindi i genitori erano andati a dormire.

L’alberello era rimasto molto male, sia per i bambini che per se stesso – che albero di Natale sarebbe stato senza regali! Ah, che delusione, che dispiacere per quelle povere creature! Bisognava subito trovare una soluzione.

Se qualcuno fosse entrato nella stanza in quel momento, avrebbe visto una cosa del tutto insolita: un alberello che dal punto in cui si trovava, vicino alla finestra, cercava di richiamare l’attenzione degli altri colleghi del palazzo di fronte, che splendevano carichi di palline e di luci colorate. Attraverso il vento gelido e sferzante inviava loro la stessa domanda:

– Non avrò niente, potete aiutarmi?

Ma tutti gli rispondevano allo stesso modo:

– Noi avremo tanti regali la notte di Natale e vorremmo fare qualcosa per te, ma non sappiamo come… se avessimo mani e piedi potremmo venirti in aiuto, ma così…

Dopo questo tentativo poco fortunato, l’alberello diventò ancora più triste. Intanto era giunta la notte di Natale, ed egli cominciava già a rassegnarsi all’amaro destino. Gli  era rimasto appena un filino di speranza… ed esso non era infondato. A sua insaputa, infatti, qualcosa stava avvenendo. Il vento, amico da sempre di tutti gli alberi, aveva raccolto il suo messaggio e si era meso subito al lavoro. Aveva aumentato la sua velocità, soffiando come non mai, ed era giunto nel bosco dove il nostro alberello era nato, raccontando ciò che aveva visto e sentito.

In ogni bosco c’è uno spirito buono e uno cattivo. A Natale però, quest’ultimo per secolare tradizione è impossibilitato a perpetrare le sue malefatte, e così lo spirito buono ha mano libera e può agire senza alcun ostacolo. Egli dunque ordinò al vento di tacere e di fermarsi, poi alzò gli occhi alla luna e disse:

– Un nostro fratello sta soffrendo e noi abbiamo il dovere di aiutarlo. O luna, nostra amata regina e fedele compagna, permettimi di impiegare la mia magia in questo triste frangente.

La luna sorrise e lasciò cadere un bigliettino d’argento con la sua risposta:

«Quell’albero e quei bambini

meritano tanti regalini»

Lo spirito buono ringraziò la regina e si avviò verso la povera casa. Ormai mancava poco alla mezzanotte. Tutto intorno si udiva il riso e il cicalare dei bambini, tutte le luci erano accese e una dolce musica riempiva l’aria. Lo spirito fece un rapido giro, si rese subito conto della situazione e scelse gli alberi più ricchi. Si avvicinò e diede loro precise istruzioni, poi si rivolse al vento dicendogli cosa doveva fare, e soltanto allora volò a casa dei bambini poveri e si sedette accanto all’alberello per gustarsi la scena.

Gli alberi prescelti, che non si aspettavano quel compito così inconsueto e delicato, erano molto emozionati e forse anche un po’ titubanti… Ma sapevano che non c’era tempo da perdere. Gli orologi segnavano le 23.50. Avevano soltanto dieci minuti. Attorno a loro erano già raccolti, felici e impazienti, i piccoli destinatari dei pacchetti colorati e così invitanti… Ad un tratto i bambini si fecero seri e attenti… Udivano una voce profonda e accorata che pareva provenire dai propri alberi, e per una segreta ragione – solo loro la sentivano:

   – Nella casa di fronte ci sono quattro bambini poveri che non hanno neanche un dono, scegliete un regalo per loro e mettetelo fuori della finestra. Siate gentili e solidali, donate loro un po’ della vostra gioia…

Udite quelle parole, essi restarono sorpresi e interdetti, guardarono i genitori e i parenti che, ignari di quanto stava accadendo, ridevano e chiacchieravano animatamente… nessuno in quel momento poteva consigliarli, e poi era una questione strettamente personale, dovevano decidere da soli e rispondere a quell’invito pressante, a quella voce misteriosa che poteva essere la voce dell’albero, ma che a ben pensarci sembrava piuttosto la voce del cuore… Sì, pensarono, doveva essere proprio così. Ciascuno di loro prese un pacchetto e di nascosto lo mise fuori della finestra. Nessuno si accorse di nulla. In quel momento stesso il vento passò allegro e sibilante e raccolse i loro regali, quindi cambiò direzione e si precipitò alla finestra dei quattro fratellini, con un soffio poderoso la spalancò, entrò e depose i doni ai piedi dell’albero.

Alla vista di quella meraviglia i nostri quattro piccoli amici presero a gridare:

– Mamma, papà, correte, correte!

E’ difficile descrivere la felicità che s’impadronì di tutti, compresi i rametti dell’alberello.

Ma non erano i soli ad essere contenti. Quella notte i bambini generosi non pensarono di aver perso dei regali, ma di avere scoperto una gioia ancora sconosciuta – la gioia di donare.

 

(C) by Paolo Statuti