Ai lettori del mio blog offro oggi la mia versione del celebre poema “Il novizio” di M. Lermontov. Buona lettura e un caro saluto.
Michail Jur’evič Lermontov
Mcyri (1)
Ho gustato con la punta del bastone un po’ di miele,
e già devo morire. (1 Re)
1
Sappiate che alcuni anni orsono,
Là dove unendosi con un tuono,
Si abbracciano come due parenti
Di Aragva e Kurà le correnti,
C’era un convento. Da oltre il monte
Anche adesso il viandante scorge
Le colonne della porta lesa,
Le torri e la volta della chiesa;
Dove più non si spande il denso
Profumato fumo dell’incenso,
Non si ode il canto a tarda sera
Di chi leva per noi una preghiera.
Solo un vecchio prossimo alla fine,
Custodisce ora le rovine,
Da tutti e dalla morte obliato,
Cura il cimitero impolverato
Che narra le glorie del passato,
E la storia di quel sovrano
Che ormai lo scettro aveva invano,
E allora senza esitazione
Lasciò alla Russia la sua nazione.
————
E Dio la Georgia benedì!
E da allora quel paese fiorì
All’ombra di fragranti giardini,
Senza più temere i nemici,
Protetta da fucili amici.
——————
(1) Mcyri nella lingua georgiana significa «monaco non ancora ordinato», una sorta
di «novizio». (Nota di M. Ju. Lermontov).
2
Un giorno un russo generale,
Di ritorno nella capitale,
Portava con sé in servaggio
Un fanciullo malato, che al viaggio
Arduo non aveva resistito.
Poteva avere sei anni; spaurito
E selvaggio come un cerbiatto,
Come giunco flessibile al tatto.
Ma allora il tormentoso male
Destò in lui la forza ancestrale
Degli antenati. Senza lamento
Egli soffriva e nessun pianto
Dalle sue labbra infantili usciva,
Con un gesto il cibo respingeva
E in silenzio e altero si spegneva.
Un monaco mosso a compassione
Offrì a lui la sua protezione,
E tra le mura di un convento
Trovò rifugio e salvamento.
Gli svaghi infantili non amava,
Dapprima da tutti si straniava,
Solo e silenzioso vagando,
Guardava l’oriente sospirando,
Afflitto da oscura nostalgia
Per la lontana terra natia.
Poi alla sua prigione si abituò,
Il linguaggio straniero imparò,
Da un santo padre fu battezzato
E ai voti era già preparato,
Lontano dal mondo chiassoso,
Come giovane e pio religioso,
Quando all’improvviso una notte
Sparì. Con la sua nera coltre
Il bosco copriva i monti e il piano.
Tre giorni lo cercarono invano
E finalmente lo trovarono
Nella steppa, stordito e sgomento.
E lo riportarono al convento.
Era così pallido e smagrito,
Debole quasi avesse patito
Un male o la fame più nera,
Alle domande non rispondeva
E tutte le sue forze perdeva.
E ormai era prossimo a spirare;
Allora un frate prese a pregare
Ardentemente esortandolo;
E il giovane il capo sollevando,
Orgoglioso con queste parole
A quel pietoso frate rispose:
3
«Sei giunto qui per compassione
A udire la mia confessione.
Ti ringrazio. E’ sempre bene
Alleviare il petto dalle pene
Confidandosi con qualcuno;
Non ho fatto male ad alcuno,
Perciò che vi giova ascoltarmi,
Posso mai l’anima mia svelarvi?
Poco ho vissuto e in una prigione.
Due per una sola stagione,
Ma ricolma di angosce amare,
Io darei se lo potessi fare.
Mi ha dominato un solo pensiero,
Una sola impetuosa brama:
Come un verme in me celata,
Mi ha roso l’anima e l’ha bruciata.
Essa i miei sogni chiamava
Dalle preghiere e invitava
Nel magico mondo di lotte,
Dove nelle nubi si celano le rocce
E l’uomo è libero come uccello.
Io questa brama nel mio avello
Ho nutrito di pianto e tormento;
Davanti al cielo in questo momento
Con forza la confesso di nuovo
E per essa non chiedo perdono.
4
O vecchio! più volte ho sentito
Che alla morte mi hai rapito –
Perché mai?…Tenebroso e solo
Come foglia caduta al suolo,
Crebbi tra queste mura oscure.
Nel mio animo come bambino
E monaco per mio destino.
Mai pronunciai le parole sante
«Padre» e «madre» un istante.
Certo, o vecchio, invano eri contento
Ch’io dimenticassi nel convento
Queste parole – prezioso dono,
Di cui mi ha cullato il dolce suono.
Altri avevano patria, un focolare,
Per me nulla potevo trovare,
Nemmeno una pietra sepolcrale!
Allora senza inutile pianto
A me giurai questo soltanto:
Che per un attimo, non so quando,
Il mio petto che arde da tanto
A un altro stringere con bramosia,
Anche ignoto, ma della terra mia.
Ma, ahimé! questi sogni adesso
Di godere non mi è concesso ,
Sono morti al loro fiorire,
Schiavo e orfano dovrò morire.
5
No, la tomba non mi spaventa,
Là dove dorme la sofferenza
Nella fredda quiete infinita,
Ma non voglio lasciare la vita.
Sono giovane, giovane…Ma tu
Conosci i sogni della gioventù?
Non sai o hai dimenticato
Come hai odiato e amato;
Come il cuore in petto esultava
Vedendo il sole che brillava
Dall’alto di una torre avvolta
Dall’aria fresca e, dove talvolta,
In un profondo foro nel muro,
Un colombo si cela al sicuro,
Figliolo di terra straniera,
Spaventato dalla bufera?
Dalle bellezze del mondo affranto,
Tu, ormai così debole e stanco,
Non sei più spinto dai desideri.
Che importa? Tu sei quello di ieri!
Puoi scordare ciò che hai avuto,
Tu vivesti, – anch’io avrei potuto!
6
Tu vuoi sapere cosa io scorsi
In libertà? – Campi rigogliosi,
Colli dagli alberi coperti,
Cresciuti intorno come serti,
In lieta compagnia fruscianti
Come fratelli in cerchio danzanti.
E masse di rocce annerite,
Quando il torrente le divide,
E ciò che pensavano indovinai:
Il cielo questa sorte mi rese!
Da tempo nell’aria sono tese
Le braccia di pietra e anche adesso
Si tendono e bramano l’amplesso;
Ma passano gli anni, come tu sai,
Ed esse non si riuniranno mai.
E ancora ho visto creste montuose
Come visioni misteriose,
Quando nell’ora mattutina
Fumavano come tante are
Le cime nell’aria turchina,
E nube dietro nube lasciare
Insieme il loro asilo presente,
Dirigendosi verso oriente –
Come una bianca carovana
Di uccelli da una terra lontana!
E ho visto nella nebbia distante
Il Caucaso come un diamante,
Il Caucaso possente e canuto;
E il mio cuore per un minuto
Si è fatto leggero e festante.
E in segreto io mi dicevo
Che un tempo anch’io là vivevo,
Nella mia memoria ricordavo
E il passato era sempre più chiaro…
7
Ricordai il mio paterno tetto,
La nostra forra e come un tappeto
L’aul disteso tutto intorno;
Il rombo dei cavalli al ritorno,
Credevo di udire, ormai lontani,
I latrati dei noti cani.
E rammentai i vecchi abbronzati,
Dalla luna più illuminati,
Seduti con le facce comprese
Nell’unica piazza del paese;
E le belle guaine luccicanti
Dei lunghi pugnali…a me davanti,
Come in sogno in ordine impreciso,
Tutto questo apparve all’improvviso.
E mio padre? Egli come vivo,
E come per lottare vestito,
Mi apparve e allora ricordai
Il bagliore del suo fucile,
Lo sguardo severo e virile,
E le giovani mie sorelle…
I loro occhi come stelle,
Le parole e i volti raggianti
E sulla mia culla i loro canti…
Là un torrente scrosciava in fondo
Al burrone, ma poco profondo;
E sulla riva dorata giocondo
Me ne andavo a giocare a mezzodì
E le rondini seguivo da lì,
Quando prima dei temporali
Sfioravano l’onde con le ali.
E ricordai la casa serena,
E davanti al camino la sera
Raccontavamo come viveva
Nei tempi passati la gente,
Quando il mondo era più attraente.
8
Ecco come ho passato il mio tempo
Fuori da questo sacro convento:
Tre giorni di vita così lieta!
Senza essi sarebbe più tetra
Della tua vecchiaia, o anacoreta.
Io prefisso mi ero da tanto
Di ammirare i campi distanti,
Della terra scoprire gli incanti,
Sapere se liberi o reclusi
Noi siamo nati e siamo vissuti.
E in una notte spaventosa,
Quando la tempesta furiosa
Vi atterriva e intenti a pregare
Eravate davanti all’altare,
Io son fuggito. Oh, la procella
Per abbracciare come sorella!
Dietro alle nuvole correvo,
Con la mano il fulmine coglievo…
Dimmi, tra queste mura, ahimé,
Cosa potevate darmi, anziché
L’amicizia breve eppur vera
Tra un cuore impetuoso e la bufera?…
9
Correvo. Dove andavo, dov’ero?
Non so! Non una stella nel cielo
Illuminava la strada scura.
Con sublime gioia respiravo
Nel mio affranto, tormentato petto
Dei boschi la soave frescura,
Niente più! Corsi con diletto
E alfine stanco mi coricai
Tra alte piante e ascoltai:
Di certo nessuno m’inseguiva.
La tempesta ormai era finita.
Una bianca luce mi appariva,
Tra cielo e terra si stendeva
Qual ricamo di seta e lontane
In essa le cime montane;
Giacevo silenzioso e immoto.
A tratti uno sciacallo remoto
Piangeva come un infante,
E brillando come diamante,
Una serpe strisciava su un muro;
Ma io mi sentivo al sicuro:
Come bestia, anch’io alla gente
Ero estraneo come un serpente.
10
Un torrente in basso alla mia destra
Rumoreggiava, dalla tempesta
Ingrossato, e il suo fragore
Era simile a umano clamore.
Anche senza affatto parlare,
Quel colloquio m’era familiare,
L’eterna disputa e il mormorare
Col caparbio ammasso di pietre.
Ora risonava nella quiete,
Ora taceva tutto a un tratto;
Ed ecco nella nebbia in alto
Un coro di uccelli risonò,
E l’oriente intero s’indorò;
Un vento leggero da levante
Agitava le roride piante;
Si mossero i fiori nel sonno,
Ed anche io, incontro al giorno
Levai il capo guardandomi intorno;
Provai spavento, non lo nascondo:
Giacevo su un abisso profondo
Dove scorreva un’onda rabbiosa,
Vidi anche una scala rocciosa,
Percorsa dal demone soltanto,
Quando, precipitato dall’Alto,
Disparve nell’infernale antro.
11
Un giardino divino a me intorno
Di piante iridescenti adorno,
Con tracce di celestiale pianto,
E ricci di vite come un manto
Avvolgevano alberi e liane
Col verde diafano del fogliame;
E i grappoli , a ciondoli preziosi
Simili, pendevano orgogliosi,
E sopra di essi ogni tanto
Volavano gli uccelli esitando.
Mi ritrovai a terra disteso
E di nuovo l’orecchio ho teso
A voci che non ho compreso;
Sonavano magiche e in segreto
Tra i rovi, come togliendo il velo
Ai misteri di terra e cielo;
Tutte le voci della natura
Eran lì, non mancava nessuna
Nell’ora solenne del peana
– Soltanto l’altera voce umana.
Tutto ciò che provai in quel momento
E i pensieri – tutto è ormai spento;
Ma lo vorrei ancora narrare,
Nella mente farlo tornare.
Quel giorno il cielo era così puro,
Che un occhio attento avrebbe potuto
Il volo di un angelo seguire;
Era così fondo e cristallino,
Era colmo d’identico turchino!
In esso con l’animo e lo sguardo
Io annegai, finché il caldo
Al mio sognare non pose fine,
E la sete non si fece sentire.
12
Dall’alto allora verso il torrente
Tenendomi agli arbusti pendenti,
Di lastra in lastra, come potevo,
Io lentamente e cauto scendevo.
Di tanto in tanto si staccava
Da sotto i piedi un sasso e piombava,
Lasciando dietro un solco fumante;
Poi risonava saltellante,
Finché non scompariva nel gorgo;
Pendevo sull’abisso profondo,
Ma una giovane vita è forte
E non mi spaventava la morte!
Appena sceso da quell’altezza,
Dell’acqua montana la freschezza
Sentii accarezzarmi il viso,
E in essa mi gettai deciso.
A un tratto – dei passi silenziosi…
Io tra gli arbusti mi nascosi,
Colto da improvviso tremore,
Levai lo sguardo con timore
E presi ad ascoltare attento:
Un vicino e dolce accento
Di giovane voce georgiana,
Così naturale esso era,
Così libero e grato mi giungeva,
Come se amici nomi soltanto
Lei pronunciasse nel suo canto.
Esso era semplice, ma nella mente
S’è insinuato e quando scende
L’oscurità mi risuona lieto,
Cantato da spirito segreto.
13
Reggendo la brocca sulla testa,
La georgiana per una stretta
Viottola scendeva agile, diretta
Alla riva del fiume e scendendo
Ogni tanto inciampava ridendo.
E il suo abito era modesto
E camminava con passo lesto,
Le lunghe falde del suo velo
Scostando. Il suo viso e il seno
La grande calura dell’estate
Ricopriva di ombre dorate;
Eran rosse le guance e la fronte
E le pupille così profonde,
Così colme di segreti d’amare,
Che si turbò il mio pensare.
Ricordo la brocca che sonava
Quando il getto d’acqua vi entrava,
Scorrendo in essa allegramente,
E un fruscio…null’altro nella mente.
E quando mi destai dal torpore
E il sangue si riversò dal cuore,
Lei, ahimé, era ormai lontana;
Tranquilla e snella camminava,
Portando il suo peso sulla testa,
Come il pioppo, re della sua terra!
Non lontano dalla nebbia fasciate,
Due casupole come inchiodate
Alla roccia, come coppia amica;
Dal piatto tetto d’una di esse
Un fumo azzurrino saliva.
E vedo come fosse adesso
Che pian piano si apre un ingresso…
E di nuovo torna a chiudersi poi!…
Io lo so, tu capire non puoi
La mia tristezza e malinconia;
E se tu provassi com’essa sia,
Io mi dorrei, dunque è meglio per te
Che il loro ricordo muoia con me.
14
Stremato dalle notturne ore
Alfine un sonno consolatore
Mi chiuse gli occhi all’improvviso…
E di nuovo in sogno ho rivisto
Della georgiana il giovane volto.
E da una strana tristezza colto
Di nuovo mi si strinse il cuore.
E a lungo provai a respirare –
E mi svegliai. La luna intanto
Splendeva e una nube soltanto
Furtivamente la seguiva,
Come preda alla quale ambiva,
Pronta a un abbraccio bramoso.
Il mondo era buio e silenzioso;
Soltanto come frangia argentata
La vetta d’un monte innevata
Davanti a me splendeva lontano,
E le sponde lambiva il torrente.
Nella stessa casetta in quel mentre
Un focherello andava e veniva:
Così in cielo di notte finiva
Di brillare d’una stella il raggio!
Volevo…ma mi mancò il coraggio
Di salire. L’unica mia meta
Era rivedere la mia terra –
Solo questo volevo e soffocai
La fame come non potrei mai.
E mi misi di nuovo in cammino
Silenzioso e intimidito.
Ma presto nel folto boschivo
Dei monti ho perso la veduta
E la mia strada ho perduta.
15
Invano a volte infuriato
Strappavo con gesto disperato
Il pruno dall’edera nascosto:
Intorno c’era solo il bosco,
Sempre più folto e spaventoso,
E il buio della notte bramoso
Con milioni di occhi guardava
Attraverso il muro frondoso…
Poi cominciò a girarmi il capo;
Sugli alberi mi arrampicavo,
Ma fino alla volta celeste
C’eran sempre del bosco le creste.
Allora a terra precipitai
E con furore singhiozzai.
Il petto della terra mordevo
E il mio pianto sulla terra bagnata
Scorreva come ardente rugiada…
Ma, credimi, l’aiuto umano
Non volevo…Sempre fui estraneo
Alla gente…come una belva;
E se anche soltanto un grido
Mio malgrado mi avesse tradito,
Mi sarei tolto la favella.
16
Quando ero un fanciullo sereno
Io non conobbi mai il pianto;
Ma qui io piansi senza freno.
Chi poteva vedermi? Soltanto
Il bosco cupo e la luna in alto!
Rischiarata dalla luna piena,
Coperta di muschio e di arena,
Cinta da impenetrabile muro
Davanti a me, io te lo giuro,
A un tratto vidi una radura.
E in essa due fuochi e un’ombra scura,
Un fascio di faville si alzava,
E vidi una belva che balzava
Dal folto, e poi sulla rena supina
Giocava come una bambina.
Regina del deserto essa era –
L’eterna possente pantera.
Rodeva un osso mugolando;
Lo sguardo sanguigno volgendo
Alla luna piena e, frattanto,
Il suo pelo si faceva d’argento.
Afferrato un ramo forcuto
Attesi dello scontro il minuto;
A un tratto la brama di lottare
E il sangue mi bruciarono il cuore…
Sì, la mano del mio destino
Mi ha imposto un altro cammino…
Ma oggi dico senza timore,
Che nella cara terra avita
Avrei avuto un’eroica vita.
17
Attesi. Nel buio notturno
Essa il nemico fiutava e un urlo
Prolungato, come un lamento,
Risonò improvviso, con rabbia
Prese poi a scavare la sabbia,
Si rizzò minacciosa e si chinò,
Il primo salto il cuore mi gelò
E vidi della morte il viso…
Ma il mio colpo l’ha preceduta,
Esso fu rapido e preciso.
Il mio bastone come una scure
La larga e forte fronte le spaccò,
E come un uomo si lamentò.
Cadde a terra. Ma dopo un istante,
Malgrado la fronte sanguinante,
Come un’ondata minacciosa
La lotta riprese impetuosa!
18
Essa si slanciò sul mio petto,
Ma in gola le infilai più lesto,
Con un vero colpo da maestro,
La mia arma…Con un urlo straziante
Si gettò con le forze rimaste,
Allacciati come due anelli,
Abbracciati come fratelli,
Cademmo insieme e sul terreno
La lotta riprese senza freno.
Ma anche io in quel momento,
Come la pantera del deserto,
Ero selvaggio e cattivo,
Come essa ardevo e ruggivo,
Quasi fossi nato da una belva,
Sotto il fresco tetto d’una selva.
Era come se la lingua umana
Avessi a un tratto dimenticata,
E scagliai un terribile grido,
Come se da quand’ero bambino
Fossi avvezzo a quel suono felino…
Ma il mio nemico ormai cedeva,
Si agitava, il respiro perdeva,
Mi strinse per l’ultima volta…
Ma la sua vista era stravolta,
Ancora un lampo e finalmente
Essa si spense completamente;
Ma col suo nemico vincente
Aveva incontrato la morte,
Come si addice a un milite forte!…
19
Sul petto le tracce son restate
Delle sue unghie affilate;
Sono ancora aperte le ferite,
Ma della terra il manto mite
Ad esse sollievo porterà,
E la morte per sempre sanerà.
Ad esse allora non detti peso,
E, dopo essermi ripreso,
Nel bosco mi rimisi in cammino…
Ma invano lottai col mio destino:
Esso mi derideva perfino!
20
Uscii dal bosco. Il giorno si destava
Nel suo splendore e cessava
La danza degli astri del commiato
Nella sua luce. Il bosco annebbiato
Parlava. Da un aul lontano
Il fumo si levava. Un vago
Rombo era portato dal vento…
Mi sedei prestando ascolto attento;
Poi tornò un silenzio profondo.
Io rivolsi lo sguardo intorno:
Mi sembrava un paese a me noto.
E provai spavento e delusione
D’esser di nuovo nella prigione;
Ero lì, ahimé, nuovamente,
Dopo aver sognato vanamente,
Dopo aver sopportato e sofferto,
E mi chiesi: perché tutto questo?…
Perché giovane ed errabondo,
Gettato appena uno sguardo al mondo,
Nel sonoro mormorio del bosco
Lieto della libertà che conosco,
Dovessi portare con me sotterra
La nostalgia della mia terra,
Delle speranze la deplorazione
E della vostra pietà il disonore!…
Ancora, dall’incertezza roso,
Pensavo fosse un sogno mostruoso…
Ma ecco il suono d’una campana
Mi giunse all’orecchio lontana –
E allora tutto si fece chiaro…
Oh! lo riconobbi all’istante!
Più volte dai miei occhi d’infante
Aveva cacciato i seducenti
E vividi sogni dei parenti,
Della terra libera e stepposa,
D’una cavalla agile e impetuosa,
Di scontri tra pareti rocciose
Dove io solo ero il vincitore!…
Senza lacrime e forze ascoltavo.
Era come se uno sconosciuto
Con un ferro avesse battuto
Nel mio petto il tormentato cuore.
E allora ebbi un vago sentore
Che non avrei mai più varcato
Le porte del mio paese amato.
21
Sì, ho meritato la mia sorte!
Un cavallo veloce e forte,
Sbalzato un cattivo cavaliere,
Da lungi verso le sue frontiere
Troverà diretta e breve via…
E io al suo confronto? – di nostalgia
Invano il mio petto è ripieno,
Di un ardore impotente e alieno,
Di sogno, di male della ragione.
Su di me un marchio la prigione
Ha lasciato…Tale è il fiore
Del carcere: cresciuto con timore
E pallido tra pareti spoglie,
A lungo le sue giovani foglie
Non lasciò spuntare, aspettando
I raggi vivificanti. E quando
Una buona mano s’impietosì
Di lui, in un giardino egli finì,
A far compagnia alle rose,
E da ogni parte nell’aria
La gioia di essere respirava.
Ma non appena sorse l’aurora,
Un solo suo raggio infocato
Bruciò il fiore nel carcere nato.
22
E come esso, mi bruciò il fuoco
Del giorno crudele e tormentoso.
La testa affaticata, invano
Nell’erba seccata io celavo:
L’arido fogliame come serto
Di spine la fronte mi cingeva,
E sul mio viso si posava e ardeva
Il fuoco della terra stessa.
Un fascio di scintille in alto
Rotava; dalle rocce biancastre
Un denso vapore si levava.
Sulla sfera del mondo gravava
Un sonno di desolazione.
Se almeno della quaglia il grido,
O della libellula il trillo,
O di corrente si fosse udito
Il mormorio…Soltanto una serpe
Nelle seccate erbe frusciante,
Col suo giallo dorso brillante,
Quasi fosse una lama affilata
Coperta da una scritta dorata,
Solcando la friabile rena
Scivolava lenta e serena;
Poi giocherellando su quella,
Si attorcigliava in tre anella;
O, come se a un tratto scottata,
Si contorceva, saltellava,
Nei lontani rovi si celava…
23
E il cielo era tutto splendore
E quiete. Attraverso il vapore
Lontane – due montagne scure.
Dietro ad una il nostro monastero
Risplendeva come un maniero.
In basso l’Aragva e il Kurà,
Avvolti da cimose argentate
Lambivano nuove isolette
Di fruscianti arbusti coperte,
E scorrevano lievi e festanti…
Ma da me erano distanti!
Mi volli alzare – davanti a me
Tutto girava rapidamente;
Volevo gridare – ma muta e inerte
La mia lingua ora si faceva…
Io stavo morendo. Mi struggeva
Il delirio dell’ora estrema.
Mi pareva
Di giacere sull’umido fondo
Di un fiume rapido e profondo –
E intorno una nebbia misteriosa.
E un’eterna sete spegnendo,
La corrente fredda come ghiaccio
Gorgogliando nel petto affluiva…
Addormentarmi non volevo, –
Tale era il piacere che godevo…
E sopra di me assai alta
Un’onda inseguiva un’altra,
Il sole dalle onde rimbalzava
E più dolce della luna brillava…
E sciami di tinche variopinte
A volte dai raggi erano avvinti.
Ne ricordo una tra le tante:
Più affabile di tutte le altre
Mi lusingava. Di delicate
E sottili squame dorate
Tutta la schiena era coperta.
Più volte mi volò sulla testa,
E dei suoi occhi verdi lo sguardo
Era triste, tenero e maliardo…
Io non capivo quel portento:
La sua voce sottile e d’argento
Parole strane mi diceva,
E cantava, e poi di nuovo taceva.
Diceva: «Bambino caro,
Resta con me se ti piace:
Nell’acqua c’è libera vita,
C’è fresco e una beata pace.
*
Io chiamerò le mie sorelle:
Rallegreremo in girotondo
Il tuo spirito così stanco
E il tuo sconsolato mondo.
*
Dormi, morbido è il tuo letto,
Sotto diafana coltre dormirai.
Gli anni e i secoli passeranno,
Parole magiche ascolterai.
*
Oh, mio caro! sarò sincera:
Io ti amo perdutamente,
Ti amo come la mia vita,
Come la libera corrente…»
A lungo ascoltai la sua voce;
La corrente sonora e veloce
Sembrava unire il suo mormorio
Alle parole del pesciolino.
Poi sentii mancarmi il respiro.
Negli occhi sparì il lume divino,
Il delirio cedé allo sfinimento.
24
Così fui trovato in quel momento…
Il resto lo conosci a memoria.
Se credi o no alla mia storia
Per me non fa alcuna differenza.
Ho una sola sofferenza:
Il mio corpo freddo e ammutito
Non marcirà nel paese avito,
E il racconto del mio tormento
Non attrarrà in questo convento
L’attenzione mesta di qualcuno
Sul mio nome rimasto oscuro.
25
Addio, padre…la tua mano tendi:
La mia nel fuoco brucia, lo senti…
La fiamma dall’infanzia è durata,
E visse nel mio cuore celata;
Ormai essa non ha più alimento,
Ed è cessato il suo tormento,
E di nuovo a colui tornerà,
Che a ciascuno con equità
Dona sofferenza e virtù…
Ma a me cosa ne viene? – Lassù
Oltre le nubi trovi pure sollievo
Il mio spirito così inquieto…
Ahimé! – per soli pochi minuti
Tra le ripide e scure rupi,
Dove giocavo da bambino,
Io darei tutto il paradiso…
26
Quando alfine dovrò spirare,
E non dovrai a lungo aspettare,
Fa’ ch’io riposi nel giardino, lì
Nel luogo dove un giorno fiorì
Un giallo arbusto di mimosa…
L’erba là è folta e odorosa,
Un’aria dolce e fresca senti
E le foglie dorate e trasparenti
Giocano coi raggi solari!
Là, orsù, fammi riposare.
Dal nimbo del giorno turchino
L’ultima volta sarò rapito.
Da lì anche il Caucaso si vede!
Forse esso dalle sue vette
Mi manderà un saluto di addio,
Sulle ali di un vento fresco…Ed io,
Prima del mio ultimo respiro,
Sentirò di nuovo il suono natio!
E penserò che un caro amico
O un fratello su di me chino,
Mi terga con pietoso sorriso
Il sudore mortale dal viso,
E che mi canti sommessamente
Un noto canto della mia gente…
E ciò pensando io mi assopirò,
E mai nessuno maledirò!…»
1839
(Versione di Paolo Statuti)
(C) by Paolo Statuti
Tag:"Mcyri" di M. Lermontov tradotto da Paolo Statuti, poesia russa