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Stefan Bronisław Flukowski (1902-1972)

15 Nov

Prosatore e poeta polacco legato al gruppo letterario Quadriga, uno dei primi e principali rappresentanti del surrealismo in Polonia. Traduttore di Anatole France, Paul Eluard e dello scrittore svizzero Charles-Ferdinand Ramuz. Studiò filosofia alla Facoltà di Umanistica dell’Università di Varsavia e al tempo stesso diritto. Debuttò nel 1927 sulla rivista “Quadriga”. La sua prima raccolta di poesie – Il sole nella fatica giornaliera uscì nel 1929. La sua creazione era vicina all’Avanguardia di Cracovia. Nel periodo in cui Tadeusz Peiper e Julian Przyboś, tendevano ad esprimere l’eternità nelle immagini del tempo presente e della vita quotidiana, Flukowski al contrario, con la metafora dell’eternità esprimeva la ciclicità del presente. Il poeta si opponeva anche alla innovazione della forma, postulando la semplicità della lingua. La sua poesia manifestava l’apoteosi del lavoro come valore fondamentale del mondo. Motivo costante della sua creazione era il quadro del lavoro quotidiano dell’uomo, come compimento della creazione divina.

Le sue opere possono essere viste come rappresentazione del moderno prospettivismo. Le sue tecniche più caratteristiche sono le variazioni del punto di vista narrativo, le giustapposizioni di pareri e attitudini, l’esposizione della complessità inerente ai caratteri e alle situazioni, e la collisione di differenti lingue, allo scopo di scorgere sprazzi di realtà oltre la lingua. Poiché molti di questi espedienti si possono trovare sia nei drammi, che nella poesia e narrativa di Flukowski, si può concludere che la sua produzione letteraria lo colloca in una indistinta linea di confine tra l’avanguardia e il modernismo.

Ha scritto sei raccolte di poesie, sei drammi, racconti, le biografie di Słowacki e Norwid e il romanzo grottesco Le vacanze del nostromo Jan Kłębuch, che diversi anni fa il mio amico poeta Marian Grześczak (1934-2010) mi consigliò di tradurre. Desideravo farlo ma non trovai un editore interessato. Uscì poco prima dello scoppio della guerra e fu confiscato e bruciato dagli hitleriani. Per i suoi valori artistici e per la problematica intellettuale e morale in esso toccata, questo romanzo – notevole esempio di prosa sperimentale nel periodo tra le due guerre, non ha perso la sua attualità e può essere raccomandata ai lettori dei nostri giorni. Flukowski in questa sua opera affronta il problema del mito: del suo sorgere, delle sue conseguenze, del suo contrasto col pensiero razionale. Attorno a questo tema si svolgono tutte le altre costruzioni narrative e filosofiche di questo interessante romanzo, saturo di uno straordinario simbolismo. Forse si troverà finalmente in Italia un traduttore e una casa editrice interessati a pubblicarlo.

P.S.

Di Stefan Flukowski ho tradotto questo poema:

Johann Sebastian organista

                                                 Al dottor Franciszek Łukaszczyk

Il “pianoforte ben temperato”,

nero, di lacca lucida,

si muove nello spazio come pianeta

con moto regolare, preciso,

ubbidiente alle proprie leggi

dell’armonia assoluta.

Ci vorranno cento anni,

perché diventi un sole

e accenda il fuoco in ciascuno.

Una nube con la chiave d’ebano

scorre sui campi di grano,

un’allodola si alza in volo, vola, vola

e in questa chiave

canta allegra un madrigale.

                            *

Da tre giorni il giovane cammina,

tre giorni diretto a Lubecca

dove vive Buxtehude,

organista assai provetto

e compositore illustre.

Vuole imparare da lui,

desidera apprendere

come quattro o  sei torrenti

tramutare in un fiume solo,

e di esso fare un mare

coronato da un orizzonte  

di cadenze, code, finali…

Il giovane andando a Lubecca

spesso sotto un albero passa le notti.

Non può assopirsi…

Si costruisce un organo

in cima a un tiglio, un olmo, un carpine,

suona.

Comincia con un vecchio ricercare.

L’ha trovato oggi sulla strada,

un bel manoscritto, caduto

dal finestrino di una carrozza italiana,

che l’ha superato a una svolta.

Era vuota, non c’era neanche il cocchiere,

ma correva a meraviglia

tra due filari di olmi e pioppi.

E man mano che si allontanava

era simile a Venezia –

oro e azzurro.

Ha già trovato il tema, già lo possiede,

conduce al tempo stesso quattro voci –

tema quinta risposta

pedale manuale, poi insieme,

dalle semiminime passa alle crome,

dalle crome alle semicrome.

La fuga si svolge ininterrotta,

raddoppia, aggiunge nuove forze:

da forte a fortissimo. presto, presto,

e a un tratto piomba nel paese

del sogno, dell’oblio

insieme con l’organo in cima agli alberi.

Dorme adesso, respiro regolare,

fili d’erba nei capelli,

un coleottero imprigionato nell’orecchio

stride con le quattro zampette a coppia –

tutto intorno rispondono i grilli.

Cammina già da cinque, sei giorni,

è giunto alla strada maestra per Lubecca,

va dal maestro Buxtehude

a studiare composizione,

a penetrare i segreti dell’esecuzione,

il meccanismo dello strumento.

Calura, ma prosegue sempre,

la parrucca infilata nel bastone,

accanto al fagottello col pane.

E non sa nemmeno

che è più alto dei pioppi.

Nelle calze bianche i grossi polpacci

più grossi dei più grossi tronchi,

la parrucca è una nuvola.

                                  *

L’organista

con le calze bianche

                         obeso e incantato

corre là dove ci sono

                         quattro pianoforti,

e ad essi si siede.

                         Suona

un concerto per quattro pianoforti.

È solo… nessuno lo ascolta…

Solo gli uccelli sono ammutiti

e la pioggia ha smesso di cadere.

Il pubblico verrà il seguente

secolo diciannovesimo

negli abiti Luigi Filippo.

Senza sosta sarà scoperta la tastiera

ed egli guizzerà come scòrfano sul palco,

sibilerà un proiettile,

brillerà una baionetta,

prenderà con foga il foglio con le note,

… passa al tono piano…

poi di nuovo con gli accordi

comincia coi cannoni.

Johann Sebastian, organista

– parrucca con cura incipriata –

corre all’interno dell’organo,

salta da un registro all’altro,

incalza con il contrappunto,

insegue con le fughe

Johann Sebastian, organista Johann…

E da tutto questo

               dritta in cielo

la melodia più pura.

Sulle strade

                     a un tratto

la bufera infuria –

strappa i cappelli ai passanti,

li posa sui tetti,

sposta le case solide come roccia,

lacera i dialoghi nelle tragedie,

pesta i cristalli dell’aria

e lancia intermezzi che parlano di sé.

Qualcuno corre sulla strada

inseguendo un cavallo

trasformato in vento,

in uragano, in tornado,

in fattore di velocità.

E possono resistere solo gli alberi

che hanno il più alto indice

di elasticità.

Volano le pietre miliari,

                   i cappelli e

                         i portali delle chiese,

vola la gente,

che in un giorno di mercato

i corali di Johann Sebastian

hanno rapito.

                           *

Johann Sebastian, organista,

siede a tavola con la famiglia.

Dietro la finestra il bel tempo

          indossa gli abiti domenicali,

          con un fiore di visciolo sulla fronte

invita gli uccelli a posarsi sui rami.

                                  Dalla finestra

                         un solerte zeffiro

                  sospinge

i profumi dei prati e del frutteto,

                  rinfresca le fronti,

                          i ragni dagli angoli scaccia.

A tavola un Oceano –

                      otto figli a destra,

                      otto figlie a sinistra –

da una scala di otto toni costruisce

il pianoforte ben temperato.

                             *

Nell’organo arieggiato

un angelo ha perso una piuma,

verrà l’organista                

e la piuma soffierà via

attraverso la canna di stagno

sopra la chiesa

in un gaio mattino domenicale.

Quando la chiesa è vuota

e l’organista

a casa dopo pranzo riposa,

gli angeli coi diavoli

scherzano insieme:

            ora giocano a nascondino

dietro l’altare,

            ora a chiapparella nell’organo.

Allora può succedere

che premeranno il registro più grave

o tutti i toni insieme.

            L’organo rimbomberà

            come nel giudizio universale,

e in un altro momento si lagnerà

con l’armonia di Johann Sebastian.

Nella canna più grossa

siedono il diavolo e il becchino.

Da tre giorni bevono birra,

cantano canzoni scurrili e

mangiano arrosto di montone,

e bevono, e cantano,

mangiano

e bevono

nella canna più grossa

il diavolo e il becchino.

È arrivato l’organista

da un ruscello di cristallo

e con un corale a quattro voci

il canto, la birra e il diavolo,

il becchino e l’arrosto

ha soffiato via sotto la volta,

                    e tutti

hanno visto solo due pipistrelli.

Nell’organo arieggiato

la sera

un angelo dorme profondamente –

ma la mattina  

arriverà l’organista

e comincerà a svegliarlo.

L’angelo destato

sui registri dei toni

salterà fuori dall’organo

e sbatterà contro il soffitto,

respinto dal soffitto

si schiaccerà contro la vetrata,

in estasi si condenserà…

E allora

un novello raggio di sole

gli ridarà un bel colorito

e lo riscalderà.

Un vecchio manticere

con una donna viveva nel peccato,

si ubriacava e truffava,

rubò una stella a un angelo,

che si era appisolato in un boccale

e la nascose nel mantice.

Johann Sebastian

le toccate, le fughe e i corali

a modo suo rafforzò,

la stella schizzò via

lontano oltre la luna.

                          *

Appena sorto il sole,

l’organista Johann Sebastian

corre nell’enorme organo,

salta da un registro all’altro,

insegue tema con tema.

Tuonano le fughe, le toccate,

si accavallano messe e corali.

Non vede nemmeno

che su di lui c’è già un altro sole:

l’Opera Omnia di Johann Sebastian.

(C) by Paolo Statuti

Nuove poesie di Urszula Kozioł

23 Ago

Oggi pubblico alcune poesie della mia carissima amica Urszula Kozioł, tratte dalla sua ultima raccolta Znikopis (Scritti fugaci), che sarà pubblicata  nel prossimo mese di settembre dalla prestigiosa casa editrice di Cracovia Wydawnictwo Literackie.

Sul punto di partire

                         “Canto e alle Muse…”  J.K.

Credo nelle cose invisibili

nella musica non udibile

credo nelle parole non pronunciate

che restano solo presupposte

e in quelle impensabili

benché da qualche parte esistano

Credo nel grido del silenzio

credo nella capacità di superare il limite

del tempo e del territorio

tramite un verso

che sa elevarsi

da questa a un’altra lingua

leggermente spostarsi “coi piedi di piombo”

Credo che l’inesistente

mi trasformerà e illuminerà

perché io possa più quietamente

scomparire da questo mondo

senza spaventare una farfalla

assorta su un fiore

(perché presto forse proprio lei

diventerà me stessa)

La lettera dell’alfabeto

Il mondo reale sparisce

in mondi paralleli

già vivo più nel virtuale

che nel reale

Spedisco lettere a nessuno

invento risposte

cerco di attingere fiducia

dal fruscio degli appunti

Gironzolo qua e là e vago

nello scarico delle parole abborracciate

prive di senso fino alla nuda lettera

Come di nuovo collegare queste lettere dell’alfabeto?

come di nuovo metterle in ordine?

come spostarle da una parola a un’altra?

Dal chiasso

La parola dal chiasso finalmente è giunta

alla soglia della parola

affannata

non so niente

agnosco agnosco

sussurra

non è più in grado di dire alcunché

di mettere insieme

né di collegare in strofe

figuriamoci di tuffarsi

in questo suo abisso non ancora trasparente

lascia che riprenda fiato

coprila di silenzio

Nel cuore della notte

                   litania

Sei l’alta roccia

da cui nel cuore della notte

salto nel precipizio

sei questo precipizio

in cui nel cuore della notte

salto dalle alte rocce

mi trascini per i capelli

attraverso il buio sonno

interrotto nel cuore della notte

l’impenetrabile TU

che nel cuore della notte

è assai lontano da me.

Una lacrima repressa

è rimasta in gola

nel cuore della notte

               amarezza

               lontanezza

               tristezza

soltanto esse

soltanto questi stati

duraturo e duraturo

non perdendomi di vista

nel cuore della notte

l’oscurità mi ha trafitta da parte a parte

e non sono più in me

nel cuore della notte

troppo tardi

troppo tardi

mi suggerisci

il nome

l’intransigente TU

ha cancellato le tracce                                     ‘

e nessuno

verrà più da me

nel cuore della notte

dunque vi dico

andatevene

per anni non eravate con me

quando dall’alta roccia

notte dopo notte saltavo nel precipizio

che mi spogliava di me

Momenti

Le nuvole vanno per monti

le nuvole vanno per alberi

i pensieri si disperdono nell’aria

nell’aria pende il sole

nell’aria pendono gli uccelli

nell’aria il mio pensiero

erra sulle nuvole

il cuore giunge al respiro

giunge alle onde del mare

che battendo contro la riva

accompagna coi battiti del cuore

nell’aria pende la mia anima

vicino a me

la tempesta come uccello rapace

mi cade sulla testa

mi getta nefasti bagliori

ruggisce

spezza gli alberi

batte alla porta

abbatte i tetti

il mio cuore vuole saltare dalla finestra

di un invisibile grattacielo

il respiro per una strada circolare

cerca di tornare a posto.

Le foglie pendono nell’aria

un incomprensibile verso

si sparge nell’aria

e a un tratto si dilegua.

Aria

Il giardino è tutto nei gorgheggi dei colori

le tinte cantano un’aria a me nota dall’infanzia

eseguita da Amelita Galli-Curci

a   aaaa  aaaa   a

Mozart

Allora non sapevo

che fosse Mozart

l’avevamo in un disco in vinile

sfuggendo alla deportazione a opera dei Tedeschi

nell’inverno del 1942

a   aaaa  aaaa   a

Le farfalle congiungevano le ali

come per pregare

quando l’ascoltavamo con mia sorella

con la finestra aperta in primavera

l’usignolo spargeva i trilli

che rotolavano come le perle

dalla collana spezzata di Rebecca

a   aaaa   aaaa   a

l’oscura materia anni dopo

vuole accostarsi a me da dietro

e all’improvviso sta come impietrita

dunque era Mozart?

Mozart?

e Galli-Curci?

Tremendum

L’oscurità mi addomestica sempre più profondamente

mi rivolgo alle parole

chiedo la loro protezione

Ogni notte mi affido alla parola

non conosco nessun altro che riesca

a stare dalla mia parte

Le parole hanno già montato la guardia

sul mio sonno

la notte

in cui ho udito tre volte il grido del gufo

Gettando il grano agli uccelli

ho svelato loro il mio nome

forse nell’ora della verità

mi proteggeranno dal silenzio

ho piantato tre alberi

li ho salvati dal taglio

forse nell’ora della verità

mi proteggeranno dal cielo

tuttavia non vedo chi

mi proteggerà

dalla luce

prima che COLUI

al quale penso tremando

irrevocabilmente e definitivamente

mi getterà in pasto

alle tenebre.

Tempo abbreviato

Le parole saltano da una settimana

come cavalli impauriti

al galoppo sfrecciano nel campo

con la criniera arruffata

lasciandosi dietro lontano

l’eco degli zoccoli

che battono un nostalgico fado

le tue parole da tempo

non richiamano le mie parole

i tuoi occhi

non i miei sguardi cercano

mi propongo da domani

di non saperne niente

ma oggi –

ah oggi verso una botte di lacrime

il tempo non scorre

è un attimo nel finish della vita

come se volesse contenere in “oggi”

i dopodomani

non indovinerò come devo intendere

cosa per me è “adesso”

ogni “sempre”

è già una particella di me stessa

che si è abbreviata

prima di cominciare a essere.

Le tue donne

I caratteri della tua lettera profumano di un’altra donna

lo so

ti ha affascinato Marina

perché Rilke l’amava?

ma egli all’ultima lettera di lei

non rispose

benché la lettera fosse così ardente

da bruciare le labbra

ma lui di regola preferiva essere amato

da grandi dame

principesse

ma tu –

perché ami soltanto le donne

create da altri

nelle pagine dei romanzi e nelle strofe?

Omero Dante Petrarca

o Tolstoj –

tu stesso non riuscirai a scorgerla nella folla –

Sei come Ulisse che non riusciva ad amare

riusciva solo ad essere fedele

(e terribilmente geloso!)

Respinse una tale Circe

e lei subito notò i suoi falsi amici

in ciascuno di loro si celava un maiale

non le credette

ma il grugno messo a loro lo rivelò

nell’ora della verità

gli era amica

soffocando l’amore

che infiammava i suoi sensi

non solo gli permise di andarsene

ma gli diede per il viaggio

anche buoni consigli

lettere di raccomandazione

esse si rivelarono assai utili

O eroine di antiche strofe

di miti

di grandi romanzi anche dei tempi moderni

non c’è modo di rivalizzare con voi

per noi mortali,

benché scorra in voi soltanto sangue di carta

e i vostri sensi

siano generati in un fazzoletto

(quello col quale asciughiamo una lacrima leggendo i libri

sulle sventure degli amanti)…

Con niente sono giunta qui

…con niente sono giunta qui

e con niente me ne andrò

e presto sarà come non fossi mai esistita.

(C) by Paolo Statuti

Jarosław Iwaszkiewicz (1894-1980)

23 Giu

 

Johannes Brahms

 

Il valzer di Brahms

Il valzer di Brahms in La bemolle maggiore

è il leitmotiv della mia vita.

Lo sonavo a lei che doveva tornare e non tornò.

Lo sonavo a lei per la quale ero cattivo.

Lo sonavo a te – allora, quando una volta per sempre

mi stesi ai tuoi piedi, come infinito calpestato.

Lo suono ogni volta che nell’esecuzione aureoalata

mi sfiori con un sorriso fugace, che per te è

come il riflesso di nuvole sull’acqua.

E per me è la gioia più profonda.

E lo suono quando so che sei da me lontana

col pensiero, quando sei altrove allegra e ami altri

felice, fugace come al solito…

E proprio allora esso risuona nel modo più delicato.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

Aleksander Gierymski: I pini di Villa Borghese a Roma

7 Giu

Aleksander Gierymski: I pini di Villa Borghese a Roma

 

La poetessa Marzanna Bogumiła Kielar (v. nel mio blog) mi ha inviato in omaggio una copia della sua ultima raccolta Navigazioni, uscita quest’anno. Da essa ho scelto la poesia Jan Cybis e un quadro di Gierymski. Eccola nella mia versione:

Jan Cybis e un quadro di Gierymski

Per anni tendere solo a questo e a niente di più, scriveva.

Dipingere le cornacchie che volano sulla campagna, perché non si dica

“che bel dipinto”, ma perché chi guarda il quadro dica

“le cornacchie volano sulla campagna”.

 

Non darei I pini di Villa Borghese

per tutta la pittura di Renoir.

In questo quadro gli alberi crescono pacatamente, le ombre cadono

senza esitare,

senza indugi. Come se chi li ha dipinti

 

vedesse chiara la propria visione e scorresse – con l’erba, coi pini,

con la sabbia,

con l’iridescente cielo rosa pallido

sopra di lui.

 

Alcuni pensano che qui si tratti di sottomessa ripetizione di ciò

che hanno davanti agli occhi.

No.

Qui si tratta, scriveva,

 

di essere come un lago, in cui si riflettono i monti –

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

IL pittore Aleksander Gierymski è già presente nel mio blog, mentre per Jan Cybis (1897-1972), pittore, pedagogo e critico d’arte, ho scritto questo breve testo basandomi sulle sue Annotazioni di pittura. Diari 1954-1966 (PIW, Varsavia 1980). Fu uno dei principali rappresentanti della corrente coloristica nella pittura polacca degli anni ’30 e nell’arte del dopoguerra, e cofondatore del gruppo di giovani pittori Kapisti creato nel 1923 e facente capo a Józef Pankiewicz (1866-1940). I coloristi prediligevano i paesaggi e i ritratti. Per essi il colore era più importante della costruzione, era decisivo per creare l’aura dell’opera. Realizzavano la forma e la luce col colore. Cybis diceva: “L’artista ottiene lo spazio grazie alla vibrazione basata sulla temperatura dei colori e la ripartizione lineare… Io sento un paesaggio più che vederlo, cioè lo sento come suono colorato”. Dipingeva acquerelli e schizzi dal vero e poi nello studio li ricreava ad olio. I colori nella loro denominazione di fabbrica per Cybis non esistevano. Se li usava puri, era solo per un piccolo accento o per sottolineare il disegno. Eppure i suoi quadri sono sempre pieni di colore luminoso. Affermava: “Non esistono colori belli o brutti, esistono solo quelli usati bene oppure no.” Prendeva quelli che aveva sottomano. Forse in questo era d’accordo con Picasso: “Quando non ho il colore rosso, uso il verde”. I suoi fiori sono sempre lontani dalla fedeltà botanica, eppure generalmente riconoscibili. Essi pulsano di vitalità sensuale. Cybis non illustra, ma crea un “equivalente” che risveglia la fantasia. In lui il gioco pittorico è sempre basato su somiglianze e contrasti. Nelle nature morte gli oggetti adiacenti si influenzano reciprocamente, si spartiscono i colori, la propria luce, completano a vicenda le forme, e ciò crea una particolare armonia. Si abbandonava totalmente all’istinto e alla spontaneità. Ritoccava senza sosta con un piacere maniacale di costruire e distruggere. La tela bianca lo spaventava. “Bisogna non avere paura di dipingere male” – sosteneva.

 

Tre quadri di Jan Cybis.

 

Jan Cybis: Parigi

 

Jan Cybis: Natura morta

 

Jan Cybis: Fiori

 

(C) by Paolo Statuti

Krzysztof Karasek: I miei pittori

23 Mar

 

 

     Il ciclo I miei pittori del poeta Krzysztof Karasek (ho già pubblicato nel mio blog alcune sue poesie) fa parte della sua ultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015). Esso è dedicato alla memoria del padre artista grafico. Il poeta esprime il suo grande interesse per la pittura, e in particolare per i pittori come Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper ed altri ancora. Vede l’affinità esistente tra la pittura e la poesia, e considera le visioni pittoriche come visioni del mondo. Per questo nella Lettera a Paul Cézanne scrive: “Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce”. Sia il poeta che il pittore creano composizioni strettamente collegate, le quali da una certa concreta prospettiva permettono di guardare un fenomeno studiato (descritto, dipinto). Con vero piacere e interesse ho tradotto 11 poesie di questo ciclo con l’animo del poeta e del pittore, dando loro appropriata collocazione nel mio blog, dedicato com’è noto, alla poesia, alla pittura e alla musica.

 

Poesie del ciclo I miei pittori tradotte da Paolo Statuti

 

Lettera a Cézanne

Per tanti anni non ti ho pensato, Cézanne,

eppure davvero eri uno degli ostetrici

della mia giovinezza. Sei volato via chissà dove

nello spazio dell’oblio e a un tratto

hai ricordato la tua assenza dentro di me.

 

Avevo vent’anni, cioè più di mezzo secolo fa,

ma ricordo bene cosa scrivevi a Emile Bernard,

nella lettera che mi affascina ancora oggi:

devi trattare gli oggetti come cilindro, sfera, cono,

il tutto messo in prospettiva, in modo

che ogni parte di un oggetto, di un piano

sia diretta verso un punto centrale.

Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione,

cioè una sezione della natura. Le linee perpendicolari

danno la profondità. Per noi uomini la natura è più

in profondità che in superficie, di qui la necessità

di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce,

rappresentate dai rossi e dai gialli,

una quantità sufficiente di toni blu,

per far sentire l’aria.

 

e vedo quei cubi, coni, sfere

diventare miei. Si compongono

nella mia visione del mondo

piena di fessure e di fori.

Restringo le linee, tra esse allargo le fessure,

aumento lo spazio tra le linee – tridimensiono –

creandone una terza, come interlinea,

svuotata delle parole, ma riempita di significati.

Desiderando una nuova sintesi,

creo una nuova misura del verso,

inesistente ma concretizzata

nella mia e nella tua mente.

 

Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne,

è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose

in una nuova luce. L’arte è artificiosa, questo truismo

nel modo più evidente mostra la sua mutevolezza,

non c’è in essa niente di naturale e ciò che vedono gli occhi

si rivela, una volta ancora, un inganno della fantasia,

che ci rimanda all’oggetto.

Perché la verità stessa è artificiosa, convenzionale,

vediamo diversamente e ciò ci avvicina alla natura più

della fedeltà di una fotografia. Questo

e un certo tipo di freddezza – diciamo meglio distanza –

che ritroviamo tra la visuale e la natura. E’ come

se dall’oggetto ci separasse un vetro,

che impedisce di vedere con le dita, con la bocca – per fortuna.

Proprio la freddezza, l’intangibilità delle cose

apre davanti a noi nuove possibilità, una nuova loro verità

e un nuovo orizzonte visibile.

 

Ti ringrazio, Cézanne, per la dimenticata lezione

della giovinezza, il cui conto vorrei lasciare aperto.

Sì, bisogna prima scomporre il mondo per poterlo poi

ricomporre. Cioè calcolare se non si è persa nel frattempo

una sua parte, se non ne manca qualcuna,

per dargli un suono diverso e più espressivo.

 

23.09.2014

 

Monet sulla barca

(da Manet)

 

Luglio. La luce con l’oscurità mi moltiplica,

siedo all’ombra.

La visuale dell’occhio si restringe, l’ombra

si divide in penombre.

 

Un rametto del linguaggio rimane staccato,

non voglio spartire con nessuno la luce e l’oscurità.

Desidero l’ombra. Boschetti e cardi

ombrati.

 

La mano fredda, un impacco sugli occhi

che canta. La visuale

che non tormenta più e non brucia.

La luce attenuata del sapere.

 

20.07.2010

 

Alla maniera di Monet

 

Nei portici di bianco ciliegio

quando il futuro delle api è incerto,

le ortensie nel mio giardino si sono scurite.

La morte è la morte,

perché non ha mai gustato i frutti della vita.

Sta sulla soglia di casa,

e davanti casa giocano i bambini.

 

Di primo mattino tutti i colori della luce

prendono la succosità dell’arancia.

Il grande frutto del sole

percorre la volta celeste

fino al completo smarrimento.

E’ l’istante in cui nascono i sogni.

Qua e là il gufo

emette l’aspro frutto della voce,

che fa rizzare i capelli in testa

agli ultimi cercatori di funghi,

gli alberi allungano le braccia come il Re degli elfi

per afferrare il bambino, alberi incappucciati,

alberi fantasmi.

 

Le rose Dio solo sa quanto belle,

si spengono nell’azzurro chiarore

come le fiammelle di gas

dei lampioni di periferia,

i loro petali si agitano al vento

si spengono sull’altare della notte come candele.

Ma guardate, il giorno sull’altura ad est

in un manto di rose

fa cadere la rugiada,

dice Shakespeare.

E a lui bisogna credere.

 

Gauguin, il sole nero

 

Il Cristo giallo, il sole nero, il palpito

del paesaggio. Il prato rosso invaso

dal verde di sangue.

Mescolava i colori come un giocatore le carte,

il suo viaggio nel suo intimo

si approfondiva ad ogni respiro. L’apostata

lo effettuava al contrario della maggior parte di noi –

nel ritorno alla fonte animistica. Non conosceva Nerval,

ma quel sole nero, che abbiamo scoperto nei suoi scuri,

ci attira ancora oggi, il sole nero delle sue pupille,

e brilla più di un’arancia che avvoltoliamo nel sole.

 

Getta via il nero cilindro e i guanti bianchi,

il cambio della nevrosi con la sifilide, le nozze col colore

sono spossanti come quelle con Matilde. Le sue pupille

assorbirono tale dose di colori, che il mondo perse

la compattezza che cercavano di conservare

tutti, da Rembrandt a Monet.

 

Viveva per il colore e il colore

lo trascinò nel suo abissale

vortice giallo, che vide negli occhi

del dio tahitiano. L’abisso:

dal Cristo giallo alla selvaggia, avida

divinità. Vieni con me, lascia il Cristo giallo.

In me c’è il sole nero della rovina,

l’autodistruzione. Gli abbiamo creduto,

anche senza seguirlo. Proprio a causa

di questo sole.

 

11.04.2011

 

Nostro fratello Vincent

                                            

                                           Apollo mi ha colpito.

Hölderling

 

Il colore è un dio minaccioso,

ci riempie fino al bianco degli occhi

abbaglia

ed esterna

(ne sapeva qualcosa Nietzsche,

ma ha portato il segreto

nella tomba);

un dio

che cela con cura il suo nome

dietro una cortina di nuvole

e si mostra

ora nella parola, ora

nella morte, ora

nell’amore.

Un’altra volta nell’ira

(il colore è la speranza suddivisa,

svela il suo segreto agli eletti, ma al tempo stesso

offusca la mente).

 

Lo vedo, in piedi

nel campo,

nel dolore accecante di luglio,

e la sua testa brucia

di luminosa fiamma

(gli occhi fumano),

il colore è un dio minaccioso,

che consuma dall’interno

– chiarore rinasto orfano, superumana

oscurità. – La luce

è un dio crudele,

visibile,

ma non commestibile,

penetra in ogni cellula

e incenerisce

i frutti. Sapendo ciò

siamo tuttavia incapaci

di respingerla: crudele Apollo

che scortica

la nostra giovinezza.

Per questo

amiamo così tanto

la luce scura, gli umidi

recessi del bosco. Amiamo

tutti la nostra notte.

 

4.09.1990

 

Ensor

 

Totem, maschere, spettri

mi guardano, imitando

il luccichio della memoria, li inserisco

tra le linee dell’orologio

appostato sulla parete, così come mi piace,

senza chiaroscuro e flessioni,

 

dico loro di non guardarmi così

con quello sguardo saponato

qui occorre l’arte drammatica, la forza dell’idea,

ma essi, si sono sistemati di traverso sul tavolo

come l’orologio di Dalí e grondano dal piano

come fresco camambert, in modo surrealistico

sistemando gli accenti, ammirando il paesaggio,

immergendo la fantasia nella visione di un sogno,

 

li invito a passeggiare nei vialetti

invasi dalle righe di poeti prestigiosi,

dove da una parte fiorisce

la primula arcadica, e dall’altra

i mezzi stilistici che ammaliano l’epoca

col canto delle sirene.

 

12.11.2008

 

Mondrian

 

Le cinque erano più volte

più volte erano le quattro

più volte erano anche le dodici

E più volte anche

l’ora zero.

 

Più volte le ore si addormentavano

e si svegliavano

più volte Tracciavano

la traiettoria di un qualche destino

e la mezzanotte era mezzanotte benché nessuno la vedesse

Benché proprio allora fossero le cinque

 

Per niente le cinque

Per niente neanche le quattro le dodici

Ed anche l’ora zero

Per niente

 

marzo 2006

 

Soutine: vene di bile, sangue del bianco

 

Il sangue del bianco mescolato con l’agonia dello spazio

ci fa capire questo viaggio. Il panorama danza

come visto da dentro un vortice

che ci attira nel centro.

Gli alberi respinti dalla centrifuga, come dopo un’esplosione,

si aggrappano ai bordi dello stagno. Mi sforzo di dominare

il caos, di ristabilire l’ordine, che non conosce limiti

né possibilità. Gli intensi impasti

esprimono la tirannia del dramma del cielo, che si svolge

tra colore e preghiera, tra sofferenza

e stupore. Tra i grani del rosario

sparsi nella sinagoga di Mińsk e il kaddish

del pesce quaresinale, appeso a un chiodo nello studio,

e che si guasta da una settimana, quanto basta

perché cominci a puzzare,

perché egli lo possa dipingere. Perché niente è finito ancora,

e già comincia.

 

23.07.2008

 

Hopper

 

Dipingeva di primo mattino o al crepuscolo,

quando l’ombra lascia una lunga traccia bagnata,

tagliando la superficie. Proprio allora

appariva lei, Penelope, Josephine Verstille

Nivison, Jo.

 

Lo stato Hopper e lo stato di Platone, lo stato di due.

Sempre varcava le sue frontiere, e quanto più le contestava,

tanto più le smarriva

negli ombrosi giardini del quadro,

dove i colori ondeggiavano come tenda, quando si alza il vento,

o bruciavano, quando cadevano le foglie.

Si chiamava anche Euridice, ma ciò non contava

per chi come lui amava i colori

e le ombre. E proprio il luccichio della sua sterpaglia,

comunque lo guardasse lo attirava

più di tutto. Ombre tra le ombre di un bar notturno,

uomini che siedono una domenica mattina

sul ciglio della strada deserta

tra i fantasmi delle case. Era il re dell’ombra

in un  giardino di crepuscoli e diluvi,

e lei era la sua regina. Una fessura di luce

nella porta socchiusa del fienile, la mattina,

l’ombra diventava la sua Penelope.

 

24.07. 2008

 

Balthus

 

Le donne nella vecchiaia diventano simili

agli uomini, e al contrario gli uomini

si differenziano sempre più.

 

Era una menzogna ben scritta.

Pensava che il superamento di un pendio

si protraesse all’infinito.

 

Tra molte strade ho scelto la meno frequentata

ed è stata una buona scelta.

Solo i buoni ricordi valgono qualcosa.

 

Le nostre lacrime sono salate e il sangue è rosso,

perché dunque le divisioni? Processo creativo?

Raggiungere lo stato di vuoto,

Non cercare nulla. Non vedere nulla.

La casa è là, dove sono i miei debiti.

 

A lei piacciono i gatti?

Sì. Ma senza reciprocità.

 

Wróblewski, prova di fedeltà

 

Wróblewski lo prevedeva, Wróblewski lo sperimentava.

Siamo fucilati.

Eravamo. Saremo.

Ci fucilano e ci immortalano.

E fucileremo i vostri

e i nostri sogni.

Wróblewski lo sapeva bene, Wróblewski ha visto

qualcosa che dovrà essere, che accadrà.

Tempo passato imperfetto, inevitabile,

imprevedibile.

Lo vedo seduto su una pietra con la ferita aperta del libro

sui ginocchi, presso un sentiero di montagna. La gente passa,

lo supera, non vedono che lo legge un defunto. Che libro è?

E dove conduce il sentiero?

 

Wróblewski sulla pietra con la ferita aperta del libro

sui ginocchi, non riconosciuto, defunto.

Il più bel quadro che ha lasciato,

non dipinto.

 

17.07. 2014

 

Nota: Andrzej Wróblewski (1927-1957). Uno dei più illustri artisti polacchi del dopoguerra. Fino al termine della sua breve vita rimase un ribelle alla ricerca di un suo stile personale, tra arte astratta e figurativa. La sua morte ha dell’incredibile: durante una gita sui monti Tatra si è seduto su una pietra per leggere un libro. Probabilmente ebbe un arresto cardiaco e restò seduto a lungo, e nessuno dei passanti pensava che fosse morto.

 

 

 

Julian Kornhauser

19 Mar

 

 

Julian Kornhauser

 

 

Poeta, prosatore, critico letterario, traduttore della letteratura serbo-croata, professore di Filologia slava all’Università Jaghiellonica di Cracovia, è uno dei principali rappresentanti della Nouvelle Vague polacca degli anni ’70 e una delle figure di primo piano nella vita letteraria polacca dell’ultimo mezzo secolo. Come critico letterario è ricordato soprattutto nella veste di appassionato difensore dei valori tradizionali della poesia, restando in acceso e ironico contrasto con la generazione dei poeti riuniti intorno alla rivista trimestrale underground “bruLion”, i quali cercavano la libertà come assoluto e propugnavano la rivolta e la contestazione, respingendo la tradizione patriottica e culturale.

E’ nato il 20 settembre 1946 a Gliwice. Il suo debutto poetico risale al 1967 sulla rivista Poesia e sull’Almanacco dei giovani. Dal 1968 al 1975 membro del gruppo Adesso. Negli anni 1981-83 è stato uno dei redattori del mensile Scrittura. Ha pubblicato 18 raccolte di poesia, tre romanzi e numerosi saggi, tra i quali ricordiamo quelli sull’opera di Zbigniew Herbert dal titolo Il sorriso della sfinge.

Fin dalla sua prima sorprendente raccolta Verrà la festa anche per i pigri (1972), dove troviamo inquietanti e fantasmagorici quadri surreali, ispirati dalle visioni di Bruegel e Goya, ha trovato un suo personale linguaggio con l’impiego di un’ampia gamma di mezzi e temi poetici: dalla cronaca di scene di vita a insolite visioni sature di elementi simbolici. E’ rimasto sempre fedele all’idea di letteratura impegnata, dove la poesia è banco di prova del mondo e sensibile apparato di conoscenza dell’uomo.

La sua poesia, che alcuni definiscono anche come “annotazioni sonore della realtà”, è ricca di colori. E’ profondamente personale e sorprendentemente universale. Lirico delicato, sensibile alla bellezza della vita quotidiana, capace di trasformare in materia poetica il ciarpame esistenziale. La sua penultima raccolta Origami si compone di miniature paesaggistiche, annotazioni contemplative e sommesse, dove il poeta cerca di esprimere le impercettibili relazioni tra ciò che è fragile, fugace, e ciò che costituisce l’eterna Natura. Egli riesce sempre ad essere un osservatore raccolto e un acuto pensatore.

Il poeta e critico letterario Bartosz Suwiński scrive: “La poesia di Julian Kornhauser è fragile e delicata come porcellana, è semplice, sobria e coraggiosa, si presta a continue interpretazioni. Essa impiega registri diversi per raccontare poeticamente la realtà. Concede la parola a individui indifesi, esclusi, dimenticati, ed essi a un tratto reclamano dignità. La forza della sua poesia risiede nella franchezza del suo poetare, captando ciò che viene dalla gente, dal mondo. E’ dalla parte dell’uomo. Vede chiaramente e senza pregiudizi. E’ una poesia fatta soprattutto di osservazioni intime, piene di serenità e raccoglimento”.

Penso che Julian Kornhauser, oltre che della propria opera, può essere fiero anche della sua prole: la figlia Agata è la moglie dell’attuale presidente polacco Andrzej Duda, mentre il figlio Jakub, poeta anche lui, è dottore in scienze umanistiche e insegna all’Università Jaghiellonica di Cracovia.

 

Poesie di Julian Kornhauser tradotte da Paolo Statuti

 

Vietnam

                                                                    Ecco il succo rosso scorre sull’erba verde,

                                                                    il succo rosso penetra nella terra nera,

                                                                    e sedici milioni di uomini uccidono…

                                                                    uccidono, uccidono.

                                                                                                             Carl Sandburg

 

Lanciate di più, lanciate più

sogno, in cui non c’è pallottola né fuoco,

in cui il gas è profumo

del paradiso promesso, lanciate più

rami respiranti e trasparenti

frutti, il corpo della giungla è spaccato,

nel fango dei mattini affondano le decisioni

e i rapporti, nella ragazza martoriata

matura il mondo, matura l’uccello

rigonfio, ritagliato dall’Europa e dal progresso,

dall’ora sognata e da un messaggio d’amore,

in entrambe le parti della giungla fiorisce

la benzina, in entrambe le parti del mondo

scoppia il fegato, e l’uomo plasma

di sangue il suo futuro e il suo odio,

non nascono i bambini, le madri non sono più

quelle care signore dalle seriche bianche

mani, e nessuno di questi

intelligenti assassini piange

nemmeno le piante uccise col gas.

 

Poesia

 

La poesia non mi serve per respirare

né per amare, né per mordermi le labbra, per sciogliermi

nella città, per il dolore, per gridare, uccidere. La poesia

non mi serve affatto, mi stringe al collo

con un pugno di carta, gocciola il sangue

secco degli aforismi, gli occhi grigi dei postulati si chiudono,

si aprono, il sordo grido del corteo da dietro

la barricata, che viene alzata, crea

in essa piccole dimore per gli evacuati.

Oh no, la poesia mi guarda come un animaletto

spaventato, sbattete la porta, e andrà a pezzi

la realtà, la modesta stanza di un lirico

naturale, che coltiva la polemica per

tempi migliori. Poesia, sporco asciugamano di albergo

che passa di mano in mano e odora

sempre dello stesso sapone da bucato. Che bello

mantenersi con la morte, che si allena

per le lunghe distanze al Madison Square Garden,

e credere che sia una metafora che assicura

un’onesta immortalità.

 

La pergola

 

Al lavoro vado a piedi

comincio alle sei e mezza

accendo la luce della macchina

se è rimasto il lavoro del giorno prima lo termino

se qualcosa non mi riesce mi innervosisco

smetto riposo penso

ciò che non riesce oggi riuscirà domani

lacune non ci sono

l’uomo come il ferroviere

batte sulla ruota e non chiede perché

come nella vita

il pomeriggio vado nel mio terreno

mi rallegro quando tutto germoglia

dalla pergola vedo l’alveare

 

Colpi

 

Quando il poeta scrive,

scrive per gli altri.

Ma gli altri non si rivolgono a lui,

cercano quelli delle prime pagine dei giornali.

Pieno di odio,

si getta su di loro.

Morde, prende a calci, impreca.

Vuole essere notato,

scrive sempre più furiosamente e di più.

Quanto più a lungo lotta,

tanto meno è per gli altri,

e tanto più è per se stesso.

 

Split

 

Attraverso a piedi la città

di notte, fino al porto.

Cade una calda e fitta pioggerella.

Sento davanti a me soltanto

i passi del mare.

 

La mietitura

 

Leggo le poesie di un nuovo poeta.

Notte, calura estiva, temporale.

Leggo, provando un vago timore

davanti alle sue parole, immensità delle graminacee

silenziosità del mare.

Sento in esse un grido di aiuto, ma

so che ormai non riuscirò a darlo.

Le mie futili parole contro le sue parole.

La mia incertezza e la sua mietitura.

 

Ricordare

 

Hai gli occhi, dunque guarda.

Non perdere neanche una fogliolina di questo mondo,

né un solo nervetto della sua delicata pellicola,

 

guarda e ricorda:

quella è una quercia che non lascerà mai la terra,

quella è una stella che regge con un filo i tuoi sogni,

 

quella è una casa, tronfia come saggio gufo,

e quella è una mamma che toglie le patate dal tegame.

 

Librerie

 

passeggiare tra le librerie

sfogliare i libri

copertine a colori come donne incinte

difficilmente si armonizzano

gli autori sorridono per le alette

le loro note si gonfiano

milioni di parole come piccoli insetti che conquistano i boschi

mi godo le interiezioni

fisso i titoli

non c’è fine all’insolito errare delle illusioni

i ripiani si piegano sotto il peso di sentenze e idee

la ragazza che cura gli affari ha un’aria annoiata

nelle librerie non c’è più anima

è scomparso quel lieve fruscio irritante dei fogli

che conduceva al vestibolo del paradiso del mistero dell’essere

i libri non profumano

le copertine non aprono i portoni

ciò che si sente stride

ciò che si vede si frantuma come vetro

i libri

giardini trascurati con gli aculei pungenti del biancospino

entro in essi rischiando

e mi divora il selvaggio canto delle pagine

 

Era è passato

 

era è passato

tra era ed è passato una piccola fessura bianca

uno stretto varco una pausa senza significato

eppure tante cose sono avvenute

slanci e cadute di sentimenti

previsioni danzanti nei sogni

incontri al vertice e ai margini del bosco

era ciò che è ardente flessibile in una luce improvvisa

era sciocco insidioso ma pieno di contenuto ignoto

è passato perché non ha tremato nelle fondamenta

piccolo era piccolo è passato

era a lungo

è passato due volte

e in mezzo l’erba secca colpita dalla falce del sole

il convento sul fiume l’inquietante rombo del treno

la ghiaia sottile che scende a valle

 

La passata di prugne

 

E’ il libro della primavera,

aperto da una fetta di pane.

Uno spirito buono

che aziona la lama del coltello.

Si siede sulle labbra

come respiro di una primula,

dorme dolcemente

dalla mattina alla sera.

Se cade sulle dita

per disattenzione,

non scappa –

si arrampica sulla corda della bocca.

 

Morte del poeta

 

Sulla rivista Poesia di Belgrado una breve menzione

sulla morte di Miloš Komadina (1955-2004).

Ricordo questo biondo esile ragazzo,

la cui raccolta del debutto Un normale mattino

mi arrivò nel 1978.

Non conosco le sue vicende di questi anni,

non so con chi si è schierato nella guerra civile.

Trent’anni fa scrisse:

Ho abbattuto un albero verde.

Ho tagliato i rami.

Ho tolto la corteccia.

Ho ricavato le tavole.

Ho trovato dei bravi mastri,

tutta la casa è in agitazione,

fanno la bara per me.

Come suona strano adesso:

Ho trovato i becchini,

Hanno scavato la fossa.

L’hanno messo nella bara della sua poesia

e l’hanno coperta di terra sillabotonica?

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Krzysztof Karasek

10 Mar

 

Krzysztof Karasek

 

 

Poeta, saggista, critico letterario. E’ nato a Varsavia il 19 febbraio 1937. Figlio dell’artista plastico Roman Karasek. Ha frequentato l’Accademia di Educazione Fisica e ha studiato filosofia all’Università di Varsavia. Ha pubblicato più di 20 raccolte di poesie. Il suo debutto poetico risale al 1966 sul mensile Poesia. Ha fatto parte della redazione di prestigiose riviste letterarie e ha ricevuto importanti premi per la sua creazione poetica, benché Karasek mantenga le distanze dai riconoscimenti: «… non importa chi riceve un qualunque premio di poesia. Perfino il premio Nobel può essere motivo di vergogna. Ad esempio si dice che Quasimodo, dopo aver ricevuto il Nobel, che allora avrebbe meritato di più Ungaretti, uscì dalla sala impacciato e quasi scappando. La mancanza di popolarità bisogna guadagnarsela. Io ho lavorato per essa troppo a lungo per rinunciarvi a favore dei premi» – ha confessato un giorno al poeta Jarosław Mikołajewski.

Il grande poeta Zbigniew Herbert (1924 – 1998) elogiò la sua poesia: «Krzysztof Karasek a mio avviso è il poeta di maggior spicco della Nouvelle Vague polacca. La sua è una poesia matura, intellettualmente e letterariamente assai ben costruita. Usando un liguaggio sportivo – egli “ha preceduto di una lunghezza” gli altri poeti della stessa generazione». Ryszard Kapuściński (1932 – 2007), scrittore di profonda cultura, critico e notissimo pubblicista, ha detto: «La poesia di Karasek è altamente creativa e in continuo movimento, con una straordinaria immaginazione esplorativa, alla ricerca del senso dell’esistenza, del mondo, della poesia stessa. La colloco tra le maggiori realizzazioni della poesia polacca contemporanea, e perfino europea». A sua volta il poeta e critico letterario Janusz Drzewucki afferma che un’ampia gamma di voci poetiche e una certa eterogeneità hanno caratterizzato la sua creazione fin dall’inizio: «La lirica di questo autore è da sempre polifonica. Egli si serve di poetiche, stili, idiomi di ogni genere. Sa essere poeta pubblicistico, riflessivo, tradizionale e di avanguardia, sa essere univoco ed equivoco, del mondo circostante lo attira sia l’aspetto fisico che metafisico». Nella prefazione alla raccolta L’assolata tinozza dell’infanzia (2013), il poeta e critico Grzegorz Kociuba ha scritto: «La forza di questo libro è l’intimità, la liricità intesa anche tradizionalmente… Non è soltanto l’ennesima raccolta di un autore contemporaneo, ma è il libro di un grande poeta che non getta le sue parole al vento!». Karasek parla dalla posizione del saggio che conosce la vita, la osserva attentamente e a volte anche argutamente.

Il poeta è affascinato dalla pittura. Nel ciclo I miei pittori, dedicato alla memoria del padre, è attratto in particolare da Paul Cézanne, Claude Monet, Vincent van Gogh, Paul Gauguin, Edward Hopper. Vede la parentela tra pittura e poesia, le visioni pittoriche sono visioni sintetiche del mondo. Per questo nella poesia Lettera a Paul Cézanne scrive: «Tutto ciò che si può apprendere dai nostri quadri, Cézanne, è quell’artificiosità che colloca gli oggetti e le cose in una nuova luce». Sia il pittore che il poeta creano composizioni coesistenti, che da una sola concreta prospettiva permettono di osservare il fenomeno descritto o dipinto. La sua gamma tematica è assai ampia. Vale la pena ricordare che una parte delle sue opere poetiche si basa sui sogni, che non necessariamente tratta come visioni incomprensibili, ma come una serie di quadri collegati con la realtà e col subconscio.

Nella sua penultima raccolta La gioiosa conoscenza (2015), emerge la convinzione che il processo di conoscenza del mondo sia una gioia. In una delle sue ultime interviste dichiara: «Ritengo che la gioia della creazione, dell’amore, dell’amicizia e della loro reciproca sperimentazione siano questioni per le quali valga la pena di vivere e forse anche di morire. E’ la manifestazione di qualcosa di sacro, è la gioia come una festa. Ci sono persone che vivono nei cimiteri e altri che vivono per la gioia». Della sua ultima raccolta dal titolo enigmatico E’ giunto un uomo per frustare il mare (2017) dice: «Mi hanno chiesto tante volte il perché di questo titolo, alla fine ho cominciato a rispondere che è così, affinché ognuno possa dire la sua».

In uno degli ultimi incontri con i suoi elettori ha detto: «La vera poesia è il linguaggio che possiede una straordinaria dinamica. Parole incompatibili tra loro trovano il proprio posto, l’ordine è messo in dubbio. La poesia smentisce il nostro concetto di letteratura. In quest’ultima ogni opera ha un inizio, una parte centrale e una fine. In una buona composizione poetica tutto è inizio, parte centrale e fine».

Krzysztof Karasek rivolge una particolare attenzione alla poesia dei giovani. La sua sete di letteratura è inestinguibile. A tale proposito egli afferma: «In generale nella poesia mi incuriosiscono due poetiche. La prima si ha quando un verso è assai benfatto, delicato, accurato come in Herbert o Ungaretti. La seconda si ha quando agisce come se qualcuno ti infilasse nel posteriore un generatore elettrico, quando cioè è dotata di energia e ti elettrizza. Nei giovani la cosa più importante è l’imprevedibilità. Se sono diversi dagli altri. Se hanno una voce personale. E ogni volta che apro la raccolta di un giovane, spero sempre di trovare un nuovo Rimbaud».

 

Poesie di Krzysztof Karasek tradotte da Paolo Statuti

 

Deutsches requiem  (frammento)

Ho visto la maschera mortuaria di Gottfried Benn

le orbite coperte di gesso del tempo

la fronte

che sosteneva il giogo della vita. E la bocca

dove covava ancora una piccola scintilla di rivolta

e di speranza – l’orgoglio deluso

e la dignità sconfitta; l’amarezza del resoconto

di un testimone oculare.

 

Tutta l’anima tedesca è concentrata in quella fronte,

in quegli occhi incavati come vetro in fondo al fiume,

l’anima di Novalis e Hölderlin, di Beethoven

e di Hegel. Mistiche tenebre

versate con ogni attrezzo della materia, e

l’anima nuda collocata nella scura fonte

di una eredità romantica; la cieca ragione

e la biologia impazzita, che crearono la superbia

di Nietzsche e l’amara saggezza di Kant

 

colavano da quella bocca, adesso vuota e sterile

come frammento di paesaggio dissanguato

o sonno di fiume frantumato contro l’orizzonte;

con un solo getto traboccavano dall’esofago

e cadevano ai piedi di un testimone casuale.

 

1982

 

Dalla lettera di Bertolt Brecht al figlio

 

Quando la parola sangue è assente in un verso?

 

La parola sangue è assente in un verso quando il sangue

è sospeso in aria, quando diventa pioggia. Quando le vene

non lo reggono più nell’ardente involucro del corpo e lo

mettono in libertà e nel futuro.

 

La parola sangue è assente, quando il vero sangue si

riversa sulle strade, allora malvolentieri si parla di sangue,

la parola sangue scompare dalle enciclopedie e dai dizionari,

i manuali diventano più pallidi, i giornali si ammalano di

anemia, le pagine di storia scompaiono in circostanze

misteriose, la sintassi diventa oggetto di scherni;

 

la parola sangue diventa antiestetica, non risponde alle

necessità delle convenzioni e delle poetiche, del lessico

e della sintassi, non risponde alle “reali” esigenze della

lingua, mentre l’uomo qualunque non distingue più un fiore

da una ferita da sparo (si dice allora: i papaveri sono fioriti

nel tempo sbagliato – poiché è inverno – oppure:

il succo di pomodoro si è sparso sulla spiaggia di una città

litorale – perché finisce l’estate, e le acque del golfo

si sono tinte di rosso).

 

La parola sangue è assente, quando coloro che hanno fatto

versare il sangue, non parlano più di prezzo, ma soltanto

dei profitti ottenuti grazie a questo sangue.

 

Impara a seguire il seme del sangue nelle pagine dei manuali

di storia e di grammatica, nelle fessure tra le frasi di un verso

irregolare, nelle fessure tra le parole. Impara a leggere dalla

sua presenza e assenza le impronte delle ruote della storia.

Lo schianto delle ossa spezzate e il grido della frase torturata,

che si è iniettata di sangue.

1982

 

Agli animali piace la guerra

 

Agli animali piace la guerra,

il suo sapore, la forza che gira nell’aria.

Gli uccelli muoiono nel suo alito,

annerita la forma e il becco –

scheletro steso sull’aria,

sui tendini del vento.

 

Il polso staccato dall’osso,

le braccia vuote, private di muscoli e vene,

la mano, attraverso cui trapela la forma della luce

la circolazione sanguigna della cenere –

agli animali piace la guerra.

 

In qualche luogo nel folto

si sono rapprese le loro voci beffarde,

la caccia è iniziata,

la battuta si avvicina alla fonte.

Agli animali piace la guerra –

l’uomo va a caccia della propria carne,

lascia a loro l’intangibilità di gesti e sogni,

il sonno sprofonda in un udito ansioso,

di mani che non possono reggere il proprio amore.

 

La mia donna grida nel sonno

non potendo trattenere con le mani sfuggenti

la luce che si spegne.

A lei sembra

che dal giardino arrivino animali a cavallo,

in ordine ansioso

trova nella stanza una volpe, una talpa, una puzzola,

un lupo dorme nel suo letto

e mostra i denti.

1988

 

Desidero un buio splendente

 

O verso, mia unica patria

o patria dell’uccello e patria dell’albero

nelle cui foglie la pioggia

di stelle cadenti segue

la pianura con sguardo smarrito

Quando le nubi scorrono di notte sulla città

esco sul balcone e guardo il cielo

Non vedo le stelle e nemmeno la luna

Non vedo neanche il cielo

Tutto ha coperto

Qualche mano sporca

Tutto

è inondato dal piatto paesaggio

di riflessi filtranti della città

e della neve sporca

Nel chiarore spariscono le forme e la gente

la tenebra uguaglia i loro mondi

muoiono in essa alberi e uccelli

come caduti dalle stelle sull’asfalto

muore in essa perfino l’oscurità

Non è la mia patria, grido

non è la mia casa

 

Sono un buio splendente

 

E se essere un cavallo

 

allora solo giallo come in Gauguin,

oppure fulvo,

come nell’Apocalisse,

con una rosa ponsò all’orecchio,

non il mio

ma del cavallo, come un bicchiere

odorare di vodca e di fienile,

guardare il mondo con gli occhi degli oggetti,

essere un cavallo

giallo

oppure fulvo,

con una rosa ponsò

Eccetera.

 

Ciò si chiama vivere non nel proprio corpo.

 

Consigli per Orfeo

 

la luce rivela la grammatica dell’ombra,

l’oscurità denuda la logica della conoscenza,

la fede ci rimanda al passato.

Vediamo confusamente, nel caos,

il tempo cede, lo spazio si rapprende,

il visibile genera l’invisibile,

l’invisibile apre la pianura

dove camminano Shakespeare e Rimbaud.

Dunque non guardare dietro

la luce è una pioggia scura che bevono i morti,

non dire che non lo sapevi. La gente è ammutita

per questo sapere, con cui tutti, noi stessi

dobbiamo vivere. Il chiarore

è una goccia, lo lecca da sotto le palpebre

la neve mattutina mentre

l’orizzonte, come la riga in mano al pittore

s’incurva. Tua è l’aria,

l’oblio e la sorpresa. E ancora

l’istante, quando passa. Era,

dunque è. Nutriti di esso

ma non guardare, non girarti, proprio lui

ti divorerà, quando a dispetto dei miti

la fisserai. Va’

dove le sirene portano il loro dolce canto,

tieni gli occhi rivolti ai sacri altari, non tremare

quando la disonestà ti bacia la bocca. Guarda

attentamente, fino al più crudele sapere, che ti porti

come eco la volta celeste, il suo bagliore

come gelida luce dell’alba ti abbronzerà il viso.

 

Dalla vita degli insetti

 

E di nuovo, come nell’infanzia

torno nel paese dei grilli.

Sono più vecchio, ma nelle orecchie

risuona sempre

la buona novella.

La conversazione tra di noi

 

ancora non è finita.

 

Il tempo prima e il tempo dopo

dorme negli armadi

e negli orologi.

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Se non vuoi essere selvaggina

diventa cacciatore.

 

Non fare domande

se non conosci la risposta.

Una grande bocca deve avere grandi orecchie.

Forse esiste una farfalla con tre ali,

un naso di guttaperca,

un volto di ceralacca,

ma io non l’ho visto.

 

Quando ero piccolo

andavo in biblioteca

e al libro restituito strappavo

l’ultima pagina

per lasciare spazio alla fantasia

di un lettore sconosciuto.

 

Lui dormiva nel libro.

Lo leggeva a dispetto delle frasi.

In ordine alfabetico si avvicinava

e si allontanava.

Conoscevo il suo nome.

Ma questo non bastava per conoscere la vita.

 

Niente può cambiare la posizione delle macchie

sulla pelle di leopardo.

Per questo permettetemi di andarmene.

 

Sérénité

 

Un rametto di lillà nelle tenebre

rischiara la mia mente.

E’ la mia infanzia angelica,

la malerba diabolica.

Il rullo di tamburo della notte

e lo sciame di api sulla stoppia calpestata,

bellezza e minaccia, cui pensava forse

Breton, quando scriveva le parole:

“la bellezza sarà convulsa

o non sarà”,

esigono l’elegia.

 

Una farfalla si è alzata sulla brughiera

di questa sera

portando su di sé un pulviscolo di luce,

e gli stukas in picchiata sulla strada,

per la quale siamo fuggiti ad Est

e poi di nuovo ad Ovest,

riempivano le mie orecchie come galoppo

dei cavalieri dell’Apocalisse.

 

E’ una pallida sera, quasi notte,

sto sul balcone di casa a Varsavia,

una buia sera di maggio,

fisso le luci che si spengono nei grattacieli

e ricordo quando qui c’era un campo

e vedevo l’aereo che un attimo dopo si schiantò,

trent’anni prima,

e i volti nelle aperture

fissi su di  me

fino ai limiti dello stupore.

 

Cerco di nuovo i segni dell’infanzia

e ricordo l’aurora boreale

in Mazovia,

ancora trenta anni prima,

le ondeggianti tende del cielo,

dei verdi e delle rose.

Nell’aria si leva il profumo dell’assenza,

mi dice: mai più,

e io gli rispondo: non perdere la speranza.

 

Quello stesso profumo richiama gli echi

delle notti di maggio della giovinezza,

quando lo zaino sotto la testa

e qualche spicciolo in tasca

erano il senso

del mondo che franava nel sonno.

 

Sì, ti ricordo o buia sera,

sì, ti ricordo o pallida notte.

O sera, quando il cuore fugge verso l’amore,

o notte, che svuoti la promessa del giorno.

Vedevi come immergo le mani nelle tue acque

e come mi sforzo di afferrare un pesce

che nuota lentamente, ammutito come uccello

nella tua corrente.

 

Ti riconosco o pallida notte,

ti riconosco o buia sera.

 

Quasi vi tocco.

 

2005

 

Seppellito nella pelle d’insetto

 

L’amore è un vecchio canto umano;

è qualcosa di così potente,

che forse mantiene le stelle

nel firmamento.

Ma per amare

ci vuole coraggio.

Ascoltavo i gatti di sera,

cantavano tutti Rossini.

La mollica deve essere tolta,

io mangio soltanto la crosta

disse una certa sapientona.

Più di tutto conta conoscere i propri limiti.

E cercare di superarli.

Non permettere che l’anima

si stanchi prima del corpo.

La felicità consiste nell’avere

una buona salute

e una debole memoria?

Tutto ciò che è perfetto, cresce lentamente.

Abbiamo cominciato con Mozart,

finiamo col “Crepuscolo degli dei”.

 

2008

 

Il Lofoten

 

I morti sottoterra.

I vivi di sopra.

E noi in mezzo.

 

Spogliato del sonno. Domenica delle Palme.

Siedo nella veranda dell’amico Paweł Skrzeczkowski

A Kazimierz sulla Vistola.

Sotto di me il pozzo,

E in esso l’acqua. L’acqua della vita.

Il fumo del sigaro riempie lo spazio

Della mia veduta.

Riempie anche me.

Sospeso in aria come una nuvola

Sul Mercato, volo, navigo.

Fedele ai miei demoni.

 

La danza di una grande pipa.

A ritmo di gavotta.

La musica è matematica, tutto

Proviene da essa.

Mi ripeto la frase di Rameau.

E un’altra, di Ortega y Gasset:

Nessuno può capire il genere umano,

Se non vede che matematica e poesia

Hanno le stesse radici.

 

Purzyc si è comprato una casa nel Lofoten,

A che gli serve?

Lo stesso spazio, spopolato,

Lo trovi sul fondo di una scatola di fiammiferi.

Che c’entra con lo spazio

Del pensiero? Che c’entra

Con lo spazio della mia pipa?

 

Kazimierz e il Lofoten.

Qualcuno cammina

O è sospeso in aria.

E’ un angelo

O il passeggero di un boeing.

I versi uniscono il cielo alla terra,

Ma lo spazio rimane.

 

E il tempo, che stilla dalle mammelle

E dagli orologi.

Non sono mai andato nel Lofoten

E forse non ci andrò mai.

Ma questo nome, questa parola.

Si sogna

Come le Floride incredibili

Nel Battello ebbro di Rimbaud.

In realtà là non ci sono affatto,

le ha immaginate Miriam,

traducendo la poesia,

perché così gli andava.

 

Ebbene. Le Floride incredibili,

Il Lofoten sono piuttosto fantasmi di sogni

Non avverati.

Eppure sono necessari,

se vogliamo vivere

e significare qualcosa.

 

La vecchiaia è nella testa, non nelle gambe.

Ci crescono gli anni, ma né tu né io

invecchiamo. Come quelli che vivono

per abitudine.

Ci crescono i chili.

Scompaiono gli amici.

Cresce l’erba della vita.

 

2009

 

Spiegazione degli ultimi quartetti di Beethoven

                                                                                           A Paweł Mykietyn

 

Per essere folli bisogna avere conoscenze altolocate.

Quando le persone smettono di darsi del lei,

il resto è inevitabile.

 

Ho vissuto tanto da vedere i figli più vecchi dei genitori.

Grazie a ciò mi sono convinto che pensiamo le stesse cose.

Per quanto riguarda il mio lavoro, per esso ho rischiato la vita,

e la mia ragione è depressa.

Questo è Van Gogh.

 

Non c’è storia d’amore più triste

di quella di Giulietta e Romeo.

Morirò come il cigno, cantando

(Bianca dall’Otello).

Perché i nostri sogni sono sempre eterni?

 

Tre sono le streghe: fede,

speranza, amore.

La terza ora, ora delle streghe.

 

Il caso può essere sinonimo di Dio,

quando non permette troppe confidenze.

Must es sein? Must sein.

 

14.03.2012

 

Nasturzi punici

 

Come molti vecchi penso anch’io

che siamo soltanto di passaggio

in un mondo senza Dio.

Mi sputo in faccia quando penso

che mi piacevano un tempo

gli ululati dei poeti americani.

La poesia non è una stronzata.

Qui ogni spettro è l’estratto di un tabù.

Se ti accade di sognare una qualche sillaba,

cessa di battere l’orologio del cuore.

Sento qualcuno che riempie la vasca

tre traverse da qui, e loro dicono

che ho problemi di udito.

In ogni modo tutto ciò che è vero

lo devo a mia madre.

C’è la superstizione che si spegne l’incendio

gettando nel fuoco una salamandra.

Aristotele chiamava i lombrichi i budelli della terra.

Se i poeti, come vuole Platone, sono grilli,

finiremo tutti nelle ortiche.

2016

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Adam Ziemianin

19 Feb

Adam Ziemianin

 

Adam Ziemianin, poeta e giornalista polacco, è nato a Muszyna il 12 maggio 1948. Ha studiato presso l’Istituto Superiore per Insegnanti e alla facoltà di Filologia polacca dell’Università Jaghellonica. Nel 1977 ha iniziato a lavorare come giornalista nel periodico Il ferroviere. Ha debuttato nel 1968 sul settimanale Vita letteraria con la poesia San Giovanni di Kasina Wielka. Nella prima metà degli anni ’70 fu legato al gruppo poetico Tylicz. Nel 1975 è uscita la sua prima raccolta di poesie Torna il sereno sulla nostra casa. Il noto critico letterario Ryszard Matuszewski la considerò uno dei debutti più interessanti di quell’anno. Suoi lavori sono stati tradotti in inglese, tedesco, russo e italiano. Ha ricevuto diversi importanti premi letterari.

Ha pubblicato molte raccolte di poesie. Scrive il critico Ryszard Kołodziej: „Ziemianin parla di ciò che per lui è essenziale, che sperimenta nella vita di tutti i giorni. Le sue poesie piacciono per la loro delicatezza e per la simpatia verso il prossimo, nonché per la ricchezza delle associazioni, colorite, quando occorre, da un leggero umorismo, da una ironia senza cinismo e superbia.” Sensibile al dettaglio, dotato del dono dell’osservazione, penetra nella vita della Polonia dei palazzoni, dei tram e degli autobus, della gente semplice che non conosce il lusso. La costruzione trasparente, la chiarezza del contenuto attirano l’interesse dei compositori, e infatti Ziemianin è conosciuto anche come autore di testi di canzoni di successo.

 

Poesie di Adam Ziemianin tradotte da Paolo Statuti

 

 

Preghiera per ridere

 

Ridere mi serve

in questi strani tempi

un ridere sano

come acqua di fonte

 

che mi culli

in questo grande viaggio

e mi conduca

in una buffa locanda

 

Che risuoni e stanchi

fino all’affanno

ridere mi serve

più di ogni cosa

 

che tremino

dal ridere le pareti

che per sempre

io ne sia ubriaco

 

non un crudele

non un cinico

un ridere mi serve

molto umano

 

Siena

 

Qui gli scaltri uccelli

Cantano in italiano

E sul noce

– Benché sia ancora maggio –

I pugnetti dei frutti

Già si svegliano a Siena

 

Mi sveglio con loro felice

Nel cielo gli aquiloni italiani

Voglio in silenzio sospirare per Te

Questo soltanto mi viene in mente

Perché un grillo davvero

Si è posato su un ulivo

 

Guardo – in basso – questa città

Tutta di color mostarda

Dall’alto del sole dell’est

– una lacrima avverto nell’occhio –

E nella testa s’intromette

Quella mia nota quiete polacca

 

Le lettere bruciano

 

L’attizzatoio le ultime lettere leggeva

Col lungo naso frugava nella cenere

E volavano nell’aria le parole bruciacchiate

Se ancora significavano qualcosa – non lo so

 

“…solo vieni alla stazione – ti prego”

Ma la stazione era già carbonizzata

E l’ora del treno incenerita

Brani di lettere volavano come angeli neri

 

Le parole lette al mattino di nuovo

Erano anch’esse come neri fiocchi di neve

L’attizzatoio sgranava gli occhi

Ma niente di più poteva leggere

 

“…solo vieni alla stazione – ti prego”

Ma nessuno sapeva più per cosa

Perché si era carbonizzato l’orario e il treno

Ma l’attizzatoio solo lui non desisteva

 

Una notte così fedele

 

Una notte così fedele

come una cagna nera

i suoi denti scintillano

folli stelle

 

La luna a un abete

si è impigliata con un corno

le sarà difficile

rintanarsi dietro il monte

 

E sul balcone

qualcuno pallido come un cencio

gioca con se stesso

a carte scoperte

 

La donna di cuori

è caduta dal mazzo

ma bisogna contare

sui venti propizi

 

Silenzio nella stazione termale

in questa stagione dell’anno

il locale “Al Galletto”

è già quasi vuoto

 

Tra gli ultimi ospiti

si siede settembre

il villaggio a chiave

hanno chiuso le gru

 

                 Il tuo seno

   (Per ordine del cuore, del fuoco,

            dell’aria e dell’acqua)

 

Il tuo stupendo seno rigonfio baciavo

I tuoi capelli ondeggiavano nell’erba

L’aria si piegava del tutto

A volte s’inchinava solo su un ginocchio

 

Nella preghiera le libellule immobili

Meditavano su una foglia o su se stesse

Per ordine del cuore del fuoco dell’aria e dell’acqua

Salivamo insieme le calde scale

 

Come caprioli spaventati correvano le nostre mani

Perché per mano ci conduceva la bianca ascia del sole

Tagliava i rami ai pini essi in cielo si slanciavano

Sempre più folli nella fuga dalla morte

 

E a un tratto esplose la radura davanti a noi

Gli occhi spalancati si stupivano loro stessi

Dicevi come nella febbre mostrando le campanule

Che le loro impronte conducono dritte in cielo

 

La casa verde

 

La mia casa mi è sempre più lontana

Tutte le chiavi si sono smarrite

La casa dietro il fiume

La casa verde di via del Giardino

 

Eppure là è rimasto tutto

L’orologio di papà l’anello di mamma

La moneta d’argento con Piłsudski

Il ditale dorato di nonna Anna

E gli incontri sotto il balcone

Quando la vite vergine toccava la testa

Quando arrivavi così bella

Col passo leggermente di maggio

 

E scoprivamo la lingua delle peonie

Lingua fiorita e rigogliosa

Jan Sopel sonava alla fisarmonica

La nota melodia inebriante

 

“Questa è l’ultima domenica

Domani ci lasceremo…”

Come faceva poi Jan a sapere

Che sarebbe stata l’ultima

 

Dall’orto

 

io newton del villaggio

insegno alle mie mele a cadere

non lontano dall’albero

 

ed ecco la dorata renetta

che siede nelle pieghe

del manto regale

e i meli selvatici tambureggiano

nel locale di servizio

 

ma i problemi maggiori

li ho con la renetta grigia

spaventata dal buffone

del re con il racconto

della sorella peccatrice nell’Eden

 

non riesco a convincerla

che il paradiso non ci sarà più

 

Soli come le stelle

 

A volte così umanamente

O Dio ci compatisci

Perché anche Tu

Non sempre puoi aiutarci

 

Non perché la Tua divinità

O il potere divino hai perso

Ma troppo chiaramente vedi

Che noi siamo così piccoli

 

Ti metti dunque

Le nostre faccende in tasca

Ed è come se dimenticassi

Che siamo qui sulla Terra

 

Soli come le stelle

Che mettesti in movimento

O come i fragili rami

Cui il vento ha rubato la forza

 

E i Tuoi santi precetti

I piani così straordinari

Spesso ci sono incomprensibili

Dunque come rispettarli?

 

Tu sai benissimo

Perché mandi la tempesta

E sai anche chi è paziente

E chi non sopporta a lungo

 

C’è tanta pazienza

Nella Tua condotta divina

A volte ci sentiamo persi

Tu lo sai benissimo – o Signore

 

E il mondo gira

Sempre più folle

Come fosse sfuggito a un tratto

Ad ogni controllo

 

Colloquio senza parole

 

Con te anche tacere

E’ così interessante

Quando siedi tutta bella

Con il tuo piccolo caffè

 

E sollevi la tazzina

Non troppo in alto

Quasi volessi controllare

Se c’è ancora un perché

 

I tuoi cari capelli

I tuoi occhi color caffè

Come ti ammiro

In questo tacito colloquio

 

La confessione

 

L’autunno si confessa con l’alveare

Che sta vuoto ai bordi dell’apiario

Gli è così difficile ricordare qualcosa

Perché quali mai peccati può avere

 

 

(C) by Paolo Statuti

C.K.Norwid: Rapsodia funebre in memoria di Józef Bem

28 Gen

 

Bassorilievo di C.K.Norwid nella cattedrale del Wawel a Cracovia

 

Józef Bem

Cyprian Kamil Norwid: Rapsodia funebre in memoria di Józef Bem (1)

 

“…Iusiurandum, patri datum, usque

ad hanc diem ita servavi…”  (2)

 

I

– Perché, ombra, ti allontani, le mani sulla corazza,

Con le torce che intorno ai ginocchi sprizzano faville? –

La spada verde di lauro dai ceri accoglie le stille,

Un falco si stacca e il tuo cavallo fa un passo di danza.

– Sventolano e si toccano tra loro gli stendardi vibranti.

Come tende di eserciti sotto il cielo erranti.

Lunghe trombe singhiozzano disperate e i vessilli

S’inchinano dall’alto con le ali abbandonate,

Come draghi, rettili e uccelli da lance trafitti,

Come le molte idee che con le lance hai afferrate…

 

II

 

Vanno le donne afflitte: alcune, le braccia alzando

Con profumati covoni che il vento in alto scompiglia,

Altre, il pianto dal viso raccolgono in conchiglie,

Altre invece la strada fatta secoli fa cercando…

Altre infine gettano in terra grandi vasi di argilla,

Il cui crepitare nel rompersi ancora più rattrista.

 

III

 

Ragazzi battono le asce azzurre nel cielo terso,

Valletti servitori battono gli scudi arrossati,

Un vessillo enorme si dondola nei fumi immerso,

E la lama della lancia sembra al cielo appoggiata…

 

IV

 

Entrano in una gola…riappaiono nella luce lunare

E nereggiano nel cielo, una fredda luce li sommerge

E brilla sulle lame come stella che non può cascare.

Il canto a un tratto cessa e poi come onda riemerge…

 

V

 

Oltre – oltre – verrà il tempo di ritrovarsi nelle bare

E in agguato oltre la strada vedremo un nero burrone,

Che l’umanità non troverà il modo di superare,

Col tuo corsiero useremo la lancia come vecchio sprone…

 

VI

 

Trascineremo il corteo, lamentando le città addormentate,

Battendo alle porte con le urne, fischiando sulle asce intaccate,

Finché le mura di Gerico come tronchi si abbatteranno,

I cuori rinveniranno, la muffa dagli occhi i popoli toglieranno.

 

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

Oltre – oltre…

 

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(1) Józef Bem (1794-1850) – generale dell’esercito polacco, prese parte all’insurrezione di novembre del 1830-31 contro l’Impero russo. Guidò anche l’insurrezione ungherese nel periodo delle guerre d’indipendenza del 1848-49.

(2) I giuramenti fatti a mio padre ho mantenuto fino ad oggi. (Annibale)

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

 

 

 

 

Il Don Chisciotte di Boleslaw Lesmian

14 Gen

 

Gustave Doré: Don Chisciotte e Sancho Panza

 

 

Don Chisciotte è il prototipo del sognatore che inconsapevolmente si scontra con l’amara realtà. In chiusura del suo immortale capolavoro, il mio libro preferito in assoluto, Cervantes racconta che il suo eroe cade preda di una forte febbre e dopo 6 giorni a letto, si sveglia da un sonno di sei ore, ringraziando Dio per aver riacquistato il senno, si dichiara risanato e pentito. Si confessa e, poco dopo, muore. Quindi la ragione in ultima analisi ha la meglio sulla finzione e sulla follia. Circa tre secoli dopo il grande poeta polacco Bolesław Leśmian (1877-1935) (v. nel mio blog Il maestro prediletto) ci ha offerto il suo ritratto poetico e tragico del cavaliere dalla trista figura. Don Chisciotte si trova nell’oltretomba. E’ solo e dubita della sua identità. Gli è stata restituita la ragione, ma questa consapevolezza anziché recargli conforto, lo rende ancora più infelice. Capisce l’inutilità delle sue azioni e la follia insita in esse, teme  possibili nuovi sogni e un nuovo delirio. Ma sulla terra egli aveva uno scopo, era pronto a sacrificare tutto, convinto di lottare per una giusta causa in nome del bene. Ora ha perso la sua fede, gli sono stati tolti i suoi sogni, i suoi ideali. Leśmian ci dice che la fantasticheria di Don Chisciotte è l’essenza della sua natura umana e che la ragione non gli è affatto necessaria. I sognatori sono utili al mondo: privi del senso di realtà, lottano all’insegna dei propri ideali, convinti di aiutare l’umanità. Quindi, conclude il poeta, non bisogna svegliarli, neanche nella risurrezione – meglio per loro e per il mondo è che continuino a dormire.

 

Bolesław Leśmian: Don Chisciotte

 

In un parco dell’oltretomba, con solennità

Dalle ali di angeli insonni spazzato,

All’ombra di alberi che hanno avuto in eredità

Terrestri foglie ingiallite – con animo gravato,

Benché ormai privo di miserie e di lotte,

Siede pensando lo smilzo Don Chisciotte

Che meditare non serve e con un’occhiata

Defunta, che non va oltre una mano

In preghiera, guarda il viale lontano,

Dove ogni traccia di vita è cancellata.

 

Dio gli tende le mani amorevolmente,

Per invitarlo a un comune convito

Nella nebbia che gli angeli appositamente

Sciolgono con segni di croce. Impallidito

Nel silenzio tombale l’ospite si discosta,

Di non vedere e sentire nulla fa mostra.

 

Un tempo le pale a primavera sognate,

Gli sembravano spade di bieche schiere,

Ma oggi nelle mani di Dio a lui mostrate

Vede infide pale di mulini-chimere.

E, guardingo, sfugge con un beffardo riso

A possibili nuovi sogni e a un nuovo delirio.

 

E non si avvede neanche che un silenzioso

Angelo gli si avvicina e ai piedi gli posa,

Da parte della sua Madonna, una rosa,

Per dirgli che ricorda il suo fedele animoso.

Ma lui, un tempo modello di cavaliere,

Ignorando il messaggero e chi gliela invia,

Distoglie gli occhi dalla rosa perché non crede

Più nei fiori, e li sospetta di scaltra magia.

L’angelo allora si china su di lui con un sorriso

E baciandolo sulla fronte sottovoce gli dice:

“Anche questo è da lei”… E arrossito nel viso

Vola via. E il cavaliere deluso e infelice,

Di sbieco e con sfiducia segue il suo volo,

E tormentato dal dubbio muore di nuovo

Di una morte che ai baci di non svegliare impone

Simili morti neanche nella risurrezione!

 

 

(Versione di Paolo Statuti)