Archivio | settembre, 2017

Joanna Kulmowa

25 Set

 

 

  

 

Joanna Maria Kulmowa è nata a Łódź il 25 marzo 1928. Della sua infanzia parla con tenerezza, anche se afferma che essa avrebbe avuto un corso più felice se “lei fosse stata meno piagnucolona”. Si ricorda come anima solitaria, amante della natura e “bambina eternamente sconsolata”. Trascorse gli anni della guerra prima a Varsavia e poi a Milanówek. Nel 1945 tornò a Łódź. Sognava la carriera teatrale. Conseguito il diploma all’Accademia d’Arte Drammatica nel 1952, studiò regia all’Accademia Teatrale di Varsavia fino al 1955. Nel 1954 la censura le impedisce di pubblicare i suoi testi. Per puro miracolo non viene espulsa dalla scuola superiore per avere eseguito i canti di Natale durante il campeggio invernale studentesco. Un’altra volta viene redarguita da membri del partito, per aver recitato all’Accademia la poesia A un uomo semplice di Julian Tuwim (v. nella mia versione in musashop.wordpress.com).

Durante gli studi lavorò come aiuto regista nei teatri Contemporaneo e Nazionale e come regista nel Teatro Polacco di Poznań e nel Teatro di Danzica. All’inizio degli anni ’60 fondò col musicologo Stefan Sutkowski la Sala da Camera presso la Filarmonica Nazionale.

Come lei stessa ricorda, cominciò a scrivere versi quasi per gioco, quando dettò una poesiola per la nonna malata; la dettò, perché ancora non sapeva scrivere. La sua prima composizione poetica uscì nel 1945 sulla rivista di Łódź L’Amico con il titolo Storiella di un moscerino che nella minestra nuotava. Ma lei considera come suo vero debutto poetico gli Appunti di Zakopane dedicati a Tuwim (Nuova cultura, 1954).

Nel 1952 conobbe il suo futuro marito Jan Kulma, regista, filosofo e musicista. La Kulmowa ricorda: “Facevamo passeggiate nel parco e poi esse si trasformarono in relazione amorosa”. Oltre alla comune passione per il teatro,  li univa l’attaccamento allo stesso libro: Il vento tra i salici di Kenneth Grahame, nell’infanzia lui era stato il Tasso e la piccola Joanna il Topo.

Nel 1961 i due coniugi si trasferirono nella campagna di Strumiany, nei pressi di Szczecin. La Kulmowa scrive: “Io amavo il bosco, Jan cercava silenzio e tranquillità per la sua filosofia”. Descrisse così questo periodo della sua vita nel libro Passeggiate a Strumiany: “Anche 35 anni di permanenza in un luogo sono una passeggiata, se non nello spazio – nel tempo. Nel 1968 rischiarono la confisca della loro casa, quando la poetessa si rifiutò di sottoscrivere la decisione del partito di espellere dall’Unione dei Letterati Polacchi lo storico e saggista Paweł Jasienica e lo scrittore e compositore Stefan Kisielecki. Nel 1996 Joanna e Jan lasciarono Strumiany e si trasferirono a Varsavia, donando alla Biblioteca dell’Università di Szczecin molti preziosi ricordi: libri, quadri, mobili antichi.

Nel periodo dello stato di guerra prese parte col marito al boicottaggio degli attori e per questo persero l’unica fonte di sostentamento – la regia. Allora Jan trovò lavoro presso il suo parroco come organista. Negli anni 1996-1998 Joanna Kulmowa fu presidente della Associazione degli Scrittori Polacchi.

La sua creazione comprende 24 raccolte di poesie, in gran parte per bambini,

più di 20 testi drammatici e radiofonici  e 5 libri di prosa, tra i quali ricordiamo i romanzi metafisici e ricchi di fantasia poetica Arri, Leocadia! (1965) e La stazione “Mai nella vita” (1967), nei quali esprime ai giovani lettori le sue riflessioni sui contenuti fondamentali dell’esistenza umana e sugli aspetti del mondo contemporaneo. Ma i numeri non rendono la ricchezza del suo linguaggio, la straordinaria semplicità e originalità, né il lirismo, il calore e l’arguzia di Joanna Kulmowa. Scrive Jan Miodek, linguista e professore di scienze umanistiche: “Con assoluta certezza annovero Joanna Kulmowa tra i maggiori maestri polacchi della parola, per la sua ricerca di parole uniche, irripetibili, autentiche. Tutta la sua creazione poetica è come un lavoro artigianale che il poeta deve eseguire abilmente, proprio come un artigiano”.

Tra le poesie per adulti ricordiamo in particolare: Poesie scelte (1988), Il mio supplemento (1990), Richiesta d’infinito (2015), 37 Joanna Kulmowa (2017). In essi la poetessa cerca di conoscere l’Inconoscibile, di esprimere l’Inesprimibile e di toccare l’Intangibile.

Come autrice per l’infanzia Joanna Kulmowa è definita dai critici la Astrid Lindgren polacca. In quasi ogni sua opera la scrittrice esalta la vita e la forza dell’immaginazione, incantata dal mondo naturale e cercando in esso le impronte divine. In uno dei suoi libri scrive: “Io fin dall’inizio sentivo, e poi sapevo, che la mia vita sarebbe stata una lunga serie di miracoli, e ogni giorno mi sveglio con un presentimento metafisico, e ogni sera mi addormento con la stessa fede infantile che domani accadrà qualcosa di straordinario. E ciò accade! Continuamente faccio la conoscenza di persone non comuni, prendo parte ad avvenimenti inattesi”.

Nel 1968 in una sua lettera allo scrittore Kornel Filipowicz, Wisława Szymborska scriveva a proposito di Joanna Kulmowa: “…una mia cara amica e una poetessa grossolanamente sottovalutata”. Oggi questa scrittrice e poetessa è giustamente apprezzata non solo in Polonia per i suoi notevoli meriti letterari, e può vantare il titolo di “first lady” polacca nel campo della letteratura per l’infanzia e per la gioventù. Ha ricevuto diversi prestigiosi premi e riconoscimenti, e le sue opere sono tradotte in molte lingue.

 

Poesie di Joanna Kulmowa tradotte da Paolo Statuti

 

Chagall

La fidanzata, la fidanzata,

guarda, l’asinello raglia sul prato.

Io non andrò, là tre candele,

tre angeli che cadono.

 

Non aspettiamo neanche un istante,

il cielo intreccia corone di pioggia.

Qui si soffoca per troppe farfalle.

Tu ancora vivi? Ancora vivo.

 

Il fidanzato, il fidanzato,

per me suona il morto Herszel.

Cose terribili in questo villaggio.

Tu ancora vivi? Ancora vivo.

 

Va’ in cielo. Là riposerai.

Solo non guardare. Non pensare.

Voleremo di sbieco, di sbieco,

finché non ci troveremo mai.

 

1959

 

L’infallibile opinione

Oltreoceano in Pennsylwania

lontano da qui eccome!

un tale lasciò in deposito

la sua infallibile opinione.

L’assicurò per una somma ingente

foderandola con dodici tele

poi chissà dove se ne andò.

Si smarrì e non tornò.

Ma l’infallibile opinione trapelava

ed era più insidiosa della lebbra

e scoppiò a un tratto in Pennsylvania

un’epidemia d’infallibili opinioni.

I virus a tiro rapido e precisi

correvano in città come vento velenoso

che diventò davvero mortale

e per molti indecisi fu l’eterno riposo.

Di certo sarebbe morta tutta la nazione

per via di quell’appestamento –

ma qualcuno finalmente alla buon’ora

scoprì la fonte di quel funesto evento.

Se non avesse buttato via quell’opinione

non sarebbe rimasta pietra su pietra.

Grazie a Dio l’infallibilità va in malora.

Anche con l’assicurazione.

 

1967

 

 

Lazzaro

 

Cos’è?

Una rappresentazione?

Perché io mi strappi di dosso il sudario?

“Guardate come scompare la rigidità cadaverica!”

E voi

sapete freddarvi?

Sapete che significa inerzia?

 

Già in polvere lentamente mi mutavo –

questo dalla polvere di nuovo mi forma.

Non voglio i vostri occhi sgranati.

Ridatemi il sudario.

 

Per questo morire nel sudore della fronte,

per questo faticare mortalmente,

per burlarsi di me?

 

Ecco come si tratta Lazzaro

per la vostra gioia.

Pietosamente lo risuscita dai morti.

Crudelmente lo fa morire due volte.

 

1988

 

Le poesie

 

Le sospetto di pochezza e imponderabilità

mi sospetto di logorrea

grondante al pensiero di mordere il mondo.

 

Non me ne vogliono per questo

accettano di essere la mia saliva

sono disposte a farlo.

 

Saltano fuori dalla bocca

con la formula magica di una lepre

volgendo la lingua in metafora

chiudendo una rondine in una gabbia di tre sillabe.

 

Sgambetto nella mia breve distanza coi piedini dei versi.

 

Mi affretto.

Tengono il passo con me.

Tengono il passo con le mie parole.

 

1988

 

Giuda

 

Ho creduto alle parole e ai miracoli,

non sapevo fare niente, tranne aver fiducia.

Allora Lui mi chiamò: – Giuda,

tu mi ami più sinceramente degli altri.

 

Posò una mano sulla mia testa,

dicendo attraverso il calore e il tatto:

– Ho scelto te, perché sei un UOMO,

Ascolta, ascolta, tu bello di bruttezza.

– Ricorda, da te voglio questo:

aprimi la via del martirio,

non secondo me, ma contro di me

tu devi fare la tua scelta.

 

E la morte del Tuo corpo,

è il Tuo trionfo e il mio  peccato.

Per cosa ho ascoltato la Tua dottrina,

ah, io devoto, piccolo uomo innamorato?

 

Dunque cedere alle Tue esigenze

significa il proprio essere degradare?

Dovevo pur uccidere, perché tu potessi,

o Idea, tramite me te stessa diventare!

 

1988

 

Lettera ad Andersen

 

Io la ringrazio

signor Hans Christian

per le favole molto infantili.

 

Per lo spazzacamino che amava la pastora.

Per l’usignolo –

perché aveva un cuore vivo.

Per il vetrino della regina della Neve.

E per la triste sorte del soldatino di stagno.

Per la principessa sul chicco di pisello.

 

Per l’Ombra

che dappertutto mi accompagna.

E per ogni brutto anatroccolo

il quale adesso sa

che diventerà

un cigno.

 

La polvere

 

E io amo la polvere.

Amo la polvere

e basta.

 

Perché quando il sole entra nella stanza

accende granellini danzanti

e balleranno così bene senza musica

i dorati fili

le dorate scintille

i dorati dorati puntini.

E quando si coprirà di polvere il ripiano

si possono con un dito fare righe e cerchietti

e una navicella disegnare e le onde

e andare su di esse quanto più lontano

fino al paese sul tavolo

dov’è la polvere dorata sul campo

e sulla strada dorate nubi danzanti.

 

E in quet’oro

il sole tramonta.

 

Non crescere troppo per il sogno

 

Sembra che per questo si cresce troppo,

che il tempo cambia più del bisogno,

Tu non cambiare, rimani così,

non crescere troppo per il sogno.

 

Anche se non ti ci trovavi bene,

anche se con esso stavi male,

cambialo un poco, un tantino,

ma non gettarlo a mare.

 

Diranno che sei ancora bambino,

forse ti rifaranno il verso,

ma tu non badare a loro,

sii così come sei, non diverso.

 

E anche se non riuscissi a cavartela

nel mondo che cambia più del bisogno,

non preoccuparti, resta come sei,

non crescere troppo per il sogno.

 

 

Come sono

 

Come sono?

A volte alta alta

lacero le nubi coi rami della testa

di aghi

e di scorza di pino mi vesto.

 

A volte

piccola piccolina

una coccinella davvero

sotto gli arbusti di mirtilli giro

e penso che sia il bosco intero.

 

A volte

sono una fiamma, un lago ardente

canto

odoro di falò.

 

A volte sono

un mare verde chiaro.

Negli occhi isole lontane e vicine.

 

E a volte ancora –

il più volentieri il più spesso –

sono come il cielo stesso

il più vasto

che abbraccia tutto ed è ovunque.

 

Nella notte aperta con la chiave di violino

 

O Dio che hai creato gli usignoli senza peccato

e il silenzio della notte per loro nelle fronde

perdonaci per lo stridio dei megafoni

per il torrente inquinato

e per non essere degni di questo mondo.

 

Per aver tutto intorbidito

stordito

logorato

e per tacere solo quando morti

perdonaci.

 

Lasciaci sulla nota dell’usignolo

quando il silenzio sull’acqua trilla e cinguetta.

Fa’ che io di nuovo impari il vento la pioggia la quiete

nella notte per l’eternità aperta

dalla chiave di violino

dell’usignolo.

 

2015

 

*  *  *

 

Si è stretto un poeta a una nuvola.

Il mondo chiassoso passa accanto.

Si è stretto il poeta si è smarrito.

Sta la gente ai bordi e niente vede

stupida.

 

Istupidite stanno le auto

i tram.

E sulla città il frastuono tace cessa.

La città tace in sé oltre se stessa.

 

Una nuvola soltanto c’è

non più in alto

non più lontana.

 

E nella nuvola brilla

la  p a r o l a.

 

2017

 

Pensi a me

 

Sono passati inverno primavera estate autunno

e tu pensi a me

o mio bosco lontano.

 

Quando le api ronzano sui gelsomini

tu pensi a me

con la resina dei pini.

 

Quando il faggio arrossisce

tu pensi a me

con il rosso che marcisce.

 

Quando la quercia nuda le foglie indossa

tu pensi a me

con amarezza e con forza.

 

Dovunque la morte mi porterà

sarò con te

sarò te

o bosco.

 

2017

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Tytus Czyżewski

15 Set

 

 

Leon Chwistek: Ritratto di Tytus Czyżewski

 

Tytus Czyżewski: Nudo con gatto

 

Tytus Czyżewski: Natura morta

Tytus Czyżewski, poeta, pittore, critico d’arte, drammaturgo, nacque nel 1880 nei pressi di Limanowa. Studiò all’Accademia di Belle Arti di Cracovia. Negli anni 1907-1909 e 1910-1912 soggiornò a Parigi, dove restò affascinato dalla pittura di Cézanne e dal cubismo. Nel 1914 si stabilì a Cracovia. Nel 1917 aderì al gruppo degli Espressionisti polacchi, che nel 1919 prese il nome di Formisti e svolse un ruolo di primo piano nella storia dell’avanguardia polacca. Con Leon Chwistek e Karol Winkler diresse la rivista “I Formisti”, dove pubblicava articoli e poesie. Prese parte ai primi incontri dei futuristi polacchi e contribuì alla creazione dei club futuristi di Cracovia “L’organetto” e “La noce moscata”. Nel 1922 partì per Parigi e lavorò presso l’Ambasciata polacca. Viaggiò molto, visitando anche Francia, Spagna e Italia. Nel 1930 si stabilì a Varsavia. Dal 1934 fece parte della redazione della “Voce degli Artisti”. Durante l’occupazione tedesca scrisse la raccolta di poesie “L’antidoto”, che andò perduta durante l’Insurrezione di Varsavia. Morì a Cracovia il 6 maggio 1945. Nelle prime raccolte poetiche “L’occhio verde” e “Notte-giorno” Czyżewski espose le idee del futurismo e dadaismo, manifestando la sua passione per la natura, gli istinti biologici e la civiltà delle metropoli. Con l’andare del tempo nelle sue opere acquistò sempre più spazio il folclore polacco ed europeo. Il suo interesse per lo spirito popolare è evidente anche nella sua ultima raccolta di versi “Lajkonik nelle nuvole” (1936), da cui è tratta la “Poesia sulla pittura”. La poesia di Czyżewski, così come anche la sua pittura, si ispirano alle correnti di avanguardia nell’arte degli inizi del XX secolo. La sua creazione letteraria e artistica costituisce un ricco e coerente insieme.

 

 

Tytus Czyżewski

 

Poesia sulla pittura

“Tutta la pittura – dai dipinti

greci a Pompei, fino a Cortot

passando per Poussin, è come

se fosse uscita dalla stessa

“tavolozza”.

                                                     Auguste Renoir (“Pensieri”)

 

A Pompei ho visto gli affreschi

nella Villa dei Misteri.

Là i fondi viola sono in armonia

Col nero dei capelli

Con la luce color rosa opaco

Dei perlacei corpi femminili.

La pittura è armonia

Di raffinate gamme di colori,

Che vivono negli occhi del pittore

Come vive una nuvola in cielo,

Come riflesso di un giglio rosa pallido

Nell’acqua azzurra di uno stagno,

Come vive la luce di un’ala di farfalla

Sul fondo di un azzurro scuro

D’un cielo sereno

La pittura è diletto musicale

Dei toni più rari, più semplici

Con cui il pittore crea l’immagine del mondo.

Congiunge sulla superficie della tela

Le più rare, più semplici armonie

Così come

Le congiunge nella sua possente

Ricchezza

L’armonia della natura

Impenetrabile per l’uomo.

E il pittore i suoni, i toni e la forma

Sceglie

Dal ricco giardino di fiori

E crea un mondo nuovo

Sulla sua tela

Il mondo dell’armonia interiore

Che sente e che

Vive in lui.

 

Primavera del 1917

 

                                       Alla memoria del poeta Apollinaire

 

Terra ho più volte invocato

oggi il sole è lo squarcio d’un gigante

già da tempo privo dei pugnali

Cesare Borgia il giullare scarlatto

l’ombra gobba di Riccardo III sul muro

guardano la fetta di luna che sporge

dalla sacca sulle spalle

nella volta del cielo scorrono le rondini

i fiori primaverili sbocciano nei campi

le nubi si preparano alla scontro armato

vedo Alessandro il Grande

dal mosaico pompeiano

le armate coi vessilli escono

dalle trincee di Verdun

e lontano nelle nubi primaverili

si delinea l’elmo scuro d’artigliere

del tenente Wilhelm Kostrowicki

il treno blindato sfreccia nel cielo

il tuono primaverile scuote la terra

fino alle sue viscere bacate

fino al cuore messo a nudo dell’uomo

la tempesta piega un grosso albero

sfogliato là in mezzo ai campi

il verde esuberante della vite selvaggia

s’inerpica sul tronco annerito

 

 

 

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

La fine del mondo secondo Zbigniew Herbert e Czesław Miłosz

12 Set

 

 

La poesia “All’entrata della valle” di Zbigniew Herbert contiene riferimenti sia all’Apocalisse di san Giovanni che ai campi di concentramento nazisti. Là i prigionieri venivano divisi e privati delle loro cose, i bambini venivano tolti alle madri. Successivamente aveva luogo la selezione che doveva stabilire chi restava nel campo e chi invece doveva morire nelle camere a gas. Coloro che nella poesia cantano i salmi sono le persone uccise, mentre coloro che digrignano i denti sono quelli che dovranno soffrire nella realtà del campo. Sembra che questa da me tradotta sia la versione censurata della poesia, e che quella non censurata, ma introvabile, contenesse anche un chiaro riferimento all’invasione dell’Ungheria nel 1956 da parte delle truppe del Patto di Varsavia.

La poesia “Canzone della fine del mondo” di Czesław Miłosz, diversamente dalla poesia di Herbert e dall’Apocalisse, presenta un Giorno del Giudizio tutt’altro che spettacolare, come si prevede che sarà. Fu scritta da Miłosz nel 1943 a Varsavia occupata dai nazisti. Nella sua “Storia della letteratura polacca” (1969), il poeta scrive: «Nella breve e ironica poesia “Canzone per la fine del mondo” Armageddon è permanente, ma sempre seguito dagli alberi in fiore, dai baci degli amanti, dalla nascita dei bambini». Da queste parole di Miłosz possiamo dedurre che il “Dies irae” è un fenomeno quotidiano, e che il mondo materiale esiste  come se in realtà nulla fosse successo.

 

Zbigniew Herbert: All’entrata della valle

 

Dopo la pioggia di stelle

Sul prato di ceneri

si raccolsero tutti sorvegliati dagli angeli

 

dall’altura scampata

l’occhio abbraccia

l’intero gregge belante dei bipedi

 

veramente non sono molti

contando anche quelli che verranno

dalle cronache dalle fiabe e dalle vite dei santi

 

ma tralasciamo queste considerazioni

spostiamoci con lo sguardo

nella gola della valle

da cui proviene un grido

 

dopo il sibilo delle esplosioni

dopo il sibilo del silenzio

quella voce suona come fonte di acqua viva

 

è come ci spiegano

il grido delle madri che vengono divise dai bambini

perché risulta

che saremo redenti separatamente

 

gli angeli guardiani sono inesorabili

e bisogna ammettere che svolgono un duro lavoro

 

lei prega

– nascondimi in un occhio

in una mano nelle braccia

siamo stati sempre insieme

non puoi abbandonarmi

adesso che sono morta e che ho bisogno di affetto

 

l’angelo anziano

sorridendo spiega il malinteso

 

una vecchia porta

la salma di un canarino

(tutti gli animali sono morti poco prima)

era così dolce – dice piangendo

capiva tutto

quando parlavo –

la sua voce si perde nello strepito generale

 

perfino il taglialegna

che è difficile sospettare di simili cose

vecchio tarchiato ingobbito

si preme l’ascia sul petto

– tutta la vita è stata mia

anche adesso sarà mia

mi manteneva là

mi manterrà qui

nessuno ha il diritto

– dice

non la consegnerò

 

quelli che a quanto pare

ubbidivano rassegnati agli ordini

vanno a testa bassa in segno di riconciliazione

ma stringono nei pugni

brandelli di lettere nastri capelli tagliati

e fotografie

che ingenuamente pensano

non verranno tolti loro

 

così appaiono

un momento

prima dell’ultima divisione

in quelli che digrignano i denti

e in quelli che cantano i salmi

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

 

Czesław Miłosz: Canzone della fine del mondo

 

Nel giorno della fine del mondo

L’ape vola e si posa sui nasturzi,

Il pescatore ripara la sua lucente rete.

Saltano in mare allegri i delfini,

I passerotti si aggrappano alle grondaie

E il serpente ha la pelle dorata, come deve avere.

 

Nel giorno della fine del mondo

Le donne vanno nel campo sotto gli ombrelli,

L’ubriaco si addormenta sul bordo di un’aiola,

Chiamano sulla strada gli erbivendoli

E una barca con la vela gialla raggiunge l’isola,

Il suono di un violino si diffonde nell’aria

E la notte si apre alle stelle.

 

E chi si aspettava lampi e fulmini,

Resta deluso.

E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,

Non crede che stia già avvenendo.

Finché il sole e la luna restano lassù,

Finché il bombo visita la rosa,

Finché i bambini nascono rosati,

Nessuno crede che stia già avvenendo.

 

Solo un vecchio canuto che sarebbe un profeta,

Ma profeta non è, perché ha altre occupazioni,

Dice legando i pomodori:

Una diversa fine del mondo non si sarà,

Una diversa fine del mondo non ci sarà.

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

(C) by Paolo Statuti

Adam Asnyk

9 Set

 

 

Adam Asnyk

  

 

Poeta e drammaturgo polacco, Adam Asnyk nacque a Kalisz da nobile famiglia l’11 settembre 1838. Suo padre partecipò all’Insurrezione di Novembre (1830-1831) e per questo fu deportato in Siberia. Il poeta, educato nello spirito del patriottismo, prese parte a sua volta all’Insurrezione di Gennaio (1863). Frequentò a Varsavia la facoltà di medicina nel 1857 e successivamente studiò filosofia e storia a Heidelberg. Compì un primo viaggio in Italia nell’inverno del 1864-65. Conseguita nel 1866 la laurea in filosofia all’Università tedesca, pubblicò nel 1868 la commedia in versi “Il rametto di eliotropio”. Nel 1869 uscì la sua prima raccolta di poesie. Tornò in Italia (1872-73), dove scrisse un dramma storico – “Cola Rienzi” e uno sociale – “L’Ebreo”. Nel 1872 sposò Zofia Kaczorowska che morì un anno dopo. Partecipò alla vita pubblica, dapprima come consigliere comunale (1883), poi come deputato alla dieta provinciale di Leopoli (1889). Già malato di tisi, nel 1897 a Napoli contrasse una forma di tifo e dopo lunghe sofferenze morì a Cracovia il 2 agosto dello stesso anno.

Adam Asnyk iniziò la sua creazione letteraria negli anni 1864-65. Nella letteratura polacca egli rappresenta un fenomeno a se stante. E’ difficile inquadrare le sue opere in un concreto momento letterario. Fu poeta della generazione che all’indomani della fallita Insurrezione di Gennaio voltò le spalle ai poeti del Romanticismo e cominciò a opporsi alla realtà presente in nome del futuro. La lirica “Inutili rimpianti” è come una lettera aperta ai romantici, una discussione su due opposte visioni del mondo: romantica e positivista, cioè su passato e futuro, tradizione e modernità. La sua creazione si può dividere in due periodi. Nel periodo legato alla città di Leopoli il poeta si rifà anzitutto al passato, al significato che la sconfitta del 1863 ebbe per chi considerava la libertà della nazione lo scopo della propria vita. La sua lirica, piena di amarezza, è espressione delle perplessità spirituali ed esistenziali acuite dalla tragedia nazionale.  Un capitolo a parte è costituito dalla poesia amorosa, in cui il poeta in una ricca gamma di sentimenti esprime tristezza, malinconia e i delicati fremiti del suo cuore. Le poesie del periodo cracoviano segnano una riconciliazione con il mondo, la ricerca di un’intesa con la contemporaneità, la conferma che i valori spirituali non periscono. In questo contesto ricordiamo le poesie dedicate ai monti Tatra, e tra esse in particolare “Il cembro”, in cui il poeta raggiunge una perfetta armonia tra la descrizione del paesaggio montano e le riflessioni sul mistero della vita. Il cembro cresce solitario, respinto dagli abeti nani che rapprentano l’umana mediocrità. Egli invece raffigura l’uomo che attraverso le sue aspirazioni e i suoi sogni viene nobilitato.

La creazione di Asnyk vede i lati oscuri della vita che non tutti possono scorgere. Riflette sulla volubilità dei sentimenti umani. Afferma che l’amore può facilente morire, che chi soffre può trovare conforto nella natura. “I monti e il mare – scrisse il 28 maggio in una lettera al padre – è l’unica medicina universale per i malanni, là respirando l’aria fresca e profumata, godendo la fresca e sublime natura, si possono dimenticare le sofferenze e le preoccupazioni…”

Pubblicò 4 raccolte di poesie e un ciclo di 30 sonetti, dove espresse il suo sistema filosofico, come tentativo di conciliare l’idealismo col realismo positivista, nonché numerosi drammi. Caratteristica principale della sua poesia è la perfezione formale dei versi e delle rime, la chiarezza e la precisione della parola e dell’immagine, e la trasparenza compositiva.

Secondo il critico Tedeusz Chrzanowski, “nessuno tra i poeti postromantici ha altrettanto diritto al nome di poeta europeo, quanto Adam Asnyk”.

 

Poesie di Adam Asnyk tradotte da Paolo Statuti

 

Nell’antiinferno

Un giorno mia moglie mi ha così irritato,

Che m’impiccai, successe in inverno.

L’anima volò subito all’inferno

E il corpo alla corda restò attaccato.

In un abisso scuro finì il suo volo,

Tremando come foglia di terrore,

E quando dello zolfo sentì l’odore,

Capì che era il regno del sottosuolo.

E non appena l’anima poverina

Sull’orlo di un burrone si ritrovò,

Il terribile Cerbero azzannò

Le falde della mia pellegrina.

Strappava con rabbia e forza alla cieca,

Cercavo di difendermi ad ogni costo.

Ma intanto la mia veste quel mostro

Aveva trasformato in tunica greca.

 

Quindi in questo classico abbigliamento

Io, nobiluomo del Podolano,

Camminavo, e dal mio vestimento

Pensavano che fossi un pagano,

Caronte mi mise una catena al collo

E al corpo di guardia mi portò diretto,

Là dove davanti all’ìnfero prefetto

Bisognava stendere il protocollo.

 

Nel tribunale Eaco era seduto,

Vicino a lui Minosse e Radamanto;

Mi guardavano di sbieco ogni tanto,

E poi mi chiesero: “Perché sei venuto?”

Visto che li fissavo con occhi assenti,

Non sapendo proprio che cosa dire,

Radamanto si alzò in preda all’ira

E urlò: “Perché? Mi senti o non mi senti?

Con quale diritto sei qui, con quale?

Che hai fatto per meritarti l’inferno?

Dei tuoi delitti è così lungo l’elenco

Da procurarti una fama criminale?

Hai forse come capo senza pietà

Sguinzagliato nel mondo le tue orde,

Oppure hai seminato incendi e morte,

Chiamando in aiuto le divinità?

O come novello titano del male

I cieli interi volevi violentare,

E la terra volevi trasformare

Distruggendo il fatalismo spirituale?

O della vendetta eri l’Oreste

Nel sangue delle tue care persone?

Di’, cosa ti ha dato la reputazione?

Il delitto? il tradimento? l’incesto?

 

Io risposi, nobile creatura atterrita:

“Mi prenda di diavoli una masnada,

Se ho mai impugnato una spada

In tutta la durata della mia vita!

Io sono benestante e onorato…

Miei cari signori qui risiedenti ,

Ma come possono le vostre menti

Pensare ch’io sia così scellerato?!

La mia vita è stata sempre esemplare.

Senza macchie davanti a Dio e alla gente,

Amico sempre fedele e diligente,

Ho evitato con cura di folleggiare;

Biasimavo la vita passionale,

I vani e futili sogni di progresso

In me non hanno mai avuto accesso,

Per le dottrine avevo un odio mortale.

Non provavo gusto per la poesia,

Non veneravo gli dei pagani,

Gli ideologi tenevo lontani,

E ugualmente l’eroica eresia.

Conducendo una vita incorrotta,

Avevo una sola grande ambizione:

Essere eletto nella mia regione,

Dov’ero amato per la mia condotta.

Ma per qualche diavoleria ho preso

Una sbornia per cause famigliari,

Che hanno reso i miei giorni amari,

E così a una trave mi sono appeso”.

 

Quando finii Minosse si alzò di botto

E disse: “Che fare con questo intruso,

Oscurantista e per giunta ottuso?

Per l’inferno è troppo sempliciotto!”

E dopo una breve consultazione

Tutti e tre fra i denti borbottando,

Minosse, Eaco e Radamanto

Svelarono la loro decisione:

“Torna sulla terra per il momento,

Occupati ancora del tuo mestiere,

Sarai eletto e potrai sedere

Perfino nell’austriaco parlamento;

E quando sarai già rappresentante,

Della libertà diverrai la coscienza,

Volendo mostrarci riconoscenza

La vodca liberalizza all’istante!

E la speranza non perdere giammai,

Lotta a viso aperto in ogni sessione:

Conquisterai più di una concessione…

Molte banche e nuove ferrovie avrai.

E se qualcuno la prenderà a male ,

Tu ridi! la questione pulita sarà,

Perché anche il paese approfitterà,

Se tu aumenterai il capitale.

Sii soltanto deciso e insolente

E dell’inferno non avere timore,

Ti garantiamo sul nostro onore,

Che l’inferno ti disprezza cordialmente”.

 

(12. XI. 1867)

 

Sonetto

 

Un solo cuore! così poco, così poco,

Vorrei su questa terra soltanto!

Vicino al mio fremente d’amore,

E sarei tranquillo, oh quanto!

 

Una sola bocca! da cui berrei

In eterno la felicità,

E due occhi, dove mi specchierei,

Vedendomi santo nella santità.

 

Un solo cuore e due palmi amorosi!

Per coprire i miei occhi ansiosi,

E dormire un angelo sognando,

 

Che mi porti sulle braccia in cielo;

Un solo cuore! così poco anelo,

Eppure vedo che troppo domando!

 

(1869)

 

Tra di noi niente c’è stato

 

Tra di noi niente c’è stato!

Nessuna confessione sincera,

Niente ci ha uniti l’un l’altro,

Tranne i falsi sogni di primavera;

 

Tranne gli aromi, i colori e le luci

Che nell’aria ci hanno estasiati,

Tranne i boschi fruscianti di canto

E quel fresco verde dei prati;

 

Tranne le cascate e i torrenti

Che bagnavano ogni vallata,

Tranne gli arcobaleni e le nubi,

Tranne la natura incantata;

 

Tranne le nostre limpide fonti,

Da cui il cuore beveva inebriato,

Tranne le primule e i convolvoli

Tra di noi niente c’è stato!

 

(5. IV. 1870)

 

L’uccellino sul ramo

 

L’uccellino posato sul ramo

Guarda la gente e si stupisce,

Che neanche il più saggio tra loro,

Dove si trovi la gioia non capisce.

 

Perché la cercano sempre intorno,

Là dove essa mai la vedi,

Il sudore bagna la loro fronte,

La spina lacera i loro piedi.

 

Sprecano il giorno della vita

Lamentandosi di sforzi e guai,

E là dove si trova – nel petto,

Ahimé, non la cercano mai.

 

Nell’odio e nelle contese

A vicenda si fanno soffrire,

Finché stanchi e intristiti

Nella tomba non vanno a dormire.

 

E allora, l’uccellino sul ramo

Sospira: io non mi raccapezzo,

Nel canto do loro il mio consiglio…

Ma loro ascoltano con disprezzo.

 

(1. VI. 1871)

Inutili rimpianti

 

Inutili rimpianti – vana fatica,

Non serve imprecare!

Nessun prodigio le vecchie forme

In vita potrà riportare.

 

Non vi renderà, andando a ritroso,

I vostri spettri nuovamente –

Non riuscirà né la spada né il fuoco

A fermare la corsa della mente.

 

Bisogna con i vivi andare avanti,

Una diversa vita s’è destata…

Gettate le foglie di lauro avvizzite

Di cui la vostra fronte s’è adornata.

 

 

Nulla potete contro i flutti della vita!

Il vostro lamento non vi aiuterà –

Rabbia impotente – rimpianto vano!

Per la sua strada il mondo avanzerà.

 

(1. IV. 1877)

 

Placati, o cuore!

 

Placati, o cuore! – le tue perdite

Più non piangere, rattristato;

Ma saluta il mondo che sorge

E il suo nascere rosato.

 

Benedici i nuovi giorni della vita,

Ciò che sorge e cresce com’era,

Le nuove speranze, i nuovi sogni,

La nuova giovinezza e la primavera.

 

Saluta le future generazioni,

I loro pensieri, mete e voglie,

Il fiore di nuovi sentimenti e virtù,

Cresciuto sulle nostre spoglie.

 

Saluta la spiga dei nuovi campi,

Le estasi dei nuovi amanti,

Le nuove sofferenze e nostalgie

E degli azzurri gli eterni incanti.

 

Saluta tutti i fedeli servitori

Che pagano il debito dell’umanità

Con il duro lavoro e la fatica,

Non pensando alla loro felicità.

 

E quelli che porteranno la luce

Nelle case, dove sono cupi e affamati,

Che lotteranno per scacciare

Lo spettro della miseria e dei reati.

 

Accogli tutti nella luce delle albe,

Che sembra mostrarsi a malincuore,

Nelle loro mani metti la tua fede,

La tua speranza e il tuo amore.

 

La felicità, per la quale tu oggi

Provi invano nostalgia e che attendi.

E tutti i sogni non ancora avverati,

Tutti i desideri – a loro estendi!

 

Vola oltre i limiti della tua strada,

Con la benedizione per il mondo,

Che agli errori, al pianto e alle lotte

Intreccia un sentimento profondo.

 

E un filo d’oro si svolgerà,

Anche se tu non ci sarai più…

E vivrai con una nuova vita

Nella forza della gioventù.

 

Dei tuoi sentimenti e sogni perduti ,

Dappertutto qualcosa troverai,

E con gli amanti tu di nuovo

La dolcezza di nuove ebbrezze berrai.

 

Sarai dove la fonte del pensiero

Scorre in un’eterna corrente…

Dove si decide lo scontro degli spiriti,

Nella schiera di chi lotta strenuamente.

 

Dove scorre la triste voce del lamento,

Là sarai, e sarai con chi odia la guerra,

E vuole migliorare la sorte umana,

E portare la felicità su questa terra.

 

Entrerai nelle case dei contadini

Per risvegliare il sentimento ignorato…

Dunque non piangere le tue perdite,

Consolati, o cuore rattristato!

 

(15. II. 1879)

 

Durante la tempesta

 

In basso – il vento porta nubi grevi,

Le spinge contro rocciosi dirupi;

La tempesta tuona nel bosco annerito

E scaglia fulmini nei burroni cupi…

E lassù, sulla più elevata cima

Splende il cielo sereno come prima.

 

Ah! lo stesso sulle strade della vita:

A volte la bufera infuria sulla testa,

Il vento ci spinge su un precipizio,

E il fulmine illumina l’oscurità funesta;

Ma più in alto – il cielo è più chiaro…

Ma volare oltre le nubi è necessario.

 

(17. XII. 1879)

 

Il cembro

 

Il cembro la sua conifera chioma

In alto, dalla sommità rocciosa,

Sporge sulla buia oscurità,

Dove scorre l’acqua tumultuosa.

 

Solitario sulla roccia si erge,

Quasi come ultimo figliolo…

E non si cura che le onde rigonfie

Sotto di lei hanno eroso il suolo.

 

Con lutto pieno di dignità,

Sul dirupo la chioma chinata,

Vede sul fondo sotto di sé

Dei bassi abeti la parata.

Quei nani che crescono facilmente,

Avanzando in serrata schiera,

Dalla sua dimora l’hanno spinta

Dove la neve regna perpetua.

 

Che i nuovi arrivati alteri

Striscino pure in folta ressa!

Lei si dondola sulle nuvole –

Ha il cielo libero sulla testa!

 

Mai si abbasserà fino a loro,

Né per la sua vita lotterà –

Sempre e solo più in alto

Sui cigli scoscesi si alzerà.

 

Con disprezzo guarda dalla roccia

Il trionfo degli abeti non cresciuti…

Sceglie solitaria d’essere squarciata

Dai fulmini dall’azzurro caduti.

 

(1880)

 

Non-favola

 

E’ caduto da un pioppo un germoglio

E scorre nella schiuma del torrente,

Su di lui un ragno ha steso la sua tela,

Dove una mosca è finita casualmente.

 

Invano dai fili elastici l’insetto

Cerca di liberarsi e invano li tira;

Poi quando si sporge semivivo,

Il ragno nelle braccia l’attira.

 

Lentamente lo soffoca e tormenta,

Prima di dare il colpo mortale,

E il ragno nuota verso il fondo,

Dove il torrente precipita come strale.

 

E poco dopo la sconfitta della mosca,

Quando essa più non si schermisce,

Nel vortice d’acqua il vincitore

Insieme alla sua vittima finisce.

 

(30. 12. 1888)

 

IV

 

Come gli uccelli, quando cominciano a migrare,

Senza sosta volano nel livido spazio,

E la linea dell’orizzonte visibile

Appena superata – muoiono senza scampo…

 

Così le generazioni nell’infinito oscuro

Scorrono come ininterrotte catene,

Non sapendo l’origine, né dove riposeranno…

Né dove si alzeranno, su quale paese.

 

Nelle nubi e tempeste o nella luce di un raggio,

Soggette alla lancetta d’istinti segreti,

Volano, studiando la stretta via dello spazio,

 

Che a loro segnano le schiere degli avi –

E quel fugace gioco di ombre e di luci,

Che nel breve cammino vedranno.

 

(1893)

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

Sara Teasdale (1884-1933)

6 Set

 

 

Sara Teasdale

 

 

Traducendo questa poesia ho visto l’anima di Sara…

 

Sara Teasdale

I have loved hours at sea

I have loved hours at sea, gray cities,

The fragile secret of a flower,

Music, the making of a poem

That gave me heaven for an hour;

 

First stars above a snowy hill,

Voices of people kindly and wise,

And the great look of love, long hidden,

Found at last in meeting eyes.

 

I have loved much and been loved deeply –

Oh when my spirit’s fire burns low,

Leave me the darkness and the stillness,

I shall be tired and glad to go.

 

Io ho amato le ore al mare

 Io ho amato le ore al mare, le città grigie,

Il fragile segreto di un fiore,

La musica, le poesie scritte

Che mi hanno dato il cielo per poche ore;

 

Le prime stelle sopra una collina imbiancata,

Le voci sagge e gentili che ho ascoltato,

E il grande sguardo dell’amore, a lungo nascosto,

E nell’incontro degli occhi infine trovato.

 

Profondo è l’amore che ho dato e avuto –

Oh, quando il fuoco del mio spirito andrà a scemare,

Lasciami l’oscurità e la quiete,

Io sarò stanca e felice di andare.

 

(Versione di Paolo Statuti)

Walt Whitman: Ottimismo e Felicità

2 Set

William James

 

Walt Whitman

    

 

Nella mia biblioteca conservo un libro prezioso. Si tratta di una raccolta di 20 conferenze del filosofo e psicologo William James (1842-1910) che ha per titolo “La coscienza religiosa” (Fratelli Bocca Editori, Torino, 1904, con prefazione di Roberto Ardigò). Nella conferenza “La religione del perfetto equilibrio mentale”, là dove si parla di scrittori con un temperamento organicamente formato per la gioia, e che non può fermare la sua attenzione sugli aspetti più tristi della natura, William  James scrive: «In certi individui l’ottimismo può divenire addirittura semi-patologico. E’ come se non fossero capaci di provare una amarezza anche transitoria o un’umiltà momentanea, e ciò, per una specie di anestesia congenita. Il più splendido esempio contemporaneo di una simile inabilità a sentire il male è naturalmente quello di Walt Whitman:

“La sua occupazione favorita” – scrive lo psichiatra canadese R.M. Bucke, autore di un libro sul poeta – “era quella di andare girovagando o oziando all’aperto, solo, guardando l’erba, gli alberi, i fiori, gli effetti di luce, i vari aspetti del cielo, ascoltando gli uccelli, i grilli, le rane canterine, e i mille suoni della natura. Era evidente che tutte queste cose davano a lui un piacere ben maggiore di quello che esse diano agli uomini ordinari. Prima di conoscerlo non mi era mai capitato di vedere un uomo trarre un piacere, una felicità così assoluta da simili cose. Egli era innamorato dei fiori, tanto selvatici che di giardino, di qualunque specie fossero. Egli ammirava, credo, le siringhe e i girasoli quanto le rose. E forse nessun uomo al mondo ha amato tante cose ed è stato indifferente per un così scarso numero di esse quanto Walt Whitman. Tutti gli oggetti naturali possedevano, secondo lui, una grazia speciale. Tutte le viste, tutti i suoni gli aggradivano. Sembrava che amasse (e io credo che li amasse davvero) tutti gli uomini e tutte le donne e tutti i bambini che vedeva (sebbene non lo abbia sentito dire che ne prediligesse alcuno), ma ognuno che lo conoscesse sentiva di essere amato da lui, non meno che gli altri. Non l’ho mai sentito arrabbiarsi o discutere, né mai l’ho inteso parlar di denaro. Egli trovava sempre una giustificazione, talvolta scherzosa, talvolta seria, per quelli che parlavano duramente di lui e dei suoi scritti, e spesso mi parve che l’opposizione dei nemici gli facesse piacere. Quando lo conobbi la prima volta, pensavo che egli si sorvegliasse, non volendo dar seguito al risentimento, all’antipatia, al rimprovero. Non potevo capacitarmi che un individuo potesse essere assolutamente privo di certi stati d’animo. Ma dopo una lunga osservazione, compresi che una tale indifferenza o una tale incoscienza erano cose perfettamente reali. Non parlava mai con asprezza di alcuna nazionalità o di alcuna classe di persone, né di alcuna epoca della storia del mondo, né di alcun mestiere o di qualche occupazione commerciale, neppure di alcun animale, di alcun insetto, né di cose inanimate o leggi della natura, né di alcun effetto di queste, quali le malattie, le deformità, la morte. Non si lamentava mai, né brontolava, sia del tempo, sia dei dolori, delle malattie o d’altre cose. Non imprecava mai. Non l’avrebbe potuto, infatti, poiché mai parlava irritato. Mai mostrò di aver paura, né credo l’abbia sentita mai” (1).

 

Walt Whitman deve la sua importanza nella letteratura all’avere sistematicamente espulso dai suoi scritti ogni elemento contrattile. I soli sentimenti che egli si permetteva di esprimere erano di ordine espansivo; e li esprimeva in prima persona, non come lo potrebbe fare un qualsiasi individuo mostruosamente pieno di sé, ma in nome di tutti gli uomini, per modo che tutte le sue parole sono pervase da un’appassionata e mistica emozione ontologica, e finiscono per persuadere il lettore che uomini e donne, vita e morte, come ogni altra cosa, tutto è divinamente buono.

E’ avvenuto così che moltissime persone considerano oggi Walt Whitman come il restauratore dell’eterna religione naturale. Egli le ha pervase del suo amore per i compagni, della sua gioia che egli ed esse esistessero. Delle società si sono perfino formate per il suo culto, esiste un periodico per la sua propagazione, e in esso si vanno già disegnando le linee rispettive dell’ortodossia e dell’eterodossia; si scrivono da altri degli inni con quella sua particolare prosodia; e, perfino, lo si confronta esplicitamente col fondatore della religione cristiana, in modo non del tutto lusinghiero per quest’ultimo.

Si parla spesso del Whitman come di un “pagano”. Attualmente una simile parola significa l’uomo dalla natura prevalentemente animale, e privo del sentimento del peccato; un Greco o un Romano colla sua particolare coscienza religiosa. Ora né nel primo, né nel secondo di questi sensi quella parola riesce ad una definizione del nostro poeta. Egli è qualche cosa più del semplice uomo animale che non ha saggiato il frutto dell’albero della scienza del bene e del male. Egli ha pur sufficiente coscienza del peccato per avere una specie di tremito nella sua indifferenza a questo riguardo, una specie di conscio orgoglio per la sua mancanza di flessioni o di contrazioni, che nel vostro vero pagano, nel primo senso della parola, non si sarebbero manifestati.

______________________

(1) R.M. Bucke, La coscienza cosmica.

 

Credo che potrei vivere  con gli animali, così placidi e dignitosi,

Mi fermo e li osservo per ore e ore;

Non si affannano mai, non si lagnano per la loro condizione.

Non vegliano al buio a piangere i loro peccati.

Non mi annoiano discutendo dei loro doveri verso Dio.

Nessuno è scontento, nessuno impazzisce per brama di possesso,

Nessuno s’inginocchia davanti a un altro, o a un suo simile,

vissuto migliaia di anni fa,

Nessuno è rispettabile o infelice sulla terra intera…

 

(da: Il canto di me stesso, 32. Versione di Paolo Statuti)

 

Nessun pagano autentico avrebbe potuto scrivere queste notissime linee. Ma d’altra parte Whitman è meno di un Greco o di un Romano; perché la coscienza di costoro, anche nei tempi omerici, era tutta piena dell’amara mortalità e fugacità di questo mondo, mentre Walt Whitman si rifiuta assolutamente di avere una simile coscienza. Quando, per esempio, Achille sta per massacrare Licaone, il piccolo figliolo di Priamo, e lo ascolta chiedere mercè, si ferma per dirgli:

 

Nessun da morte scamperà, nessuno

De’ Teucri, e meno del tuo padre i figli,

Muori dunque pur tu. Perché sì piangi?

Morì Patroclo, che miglior ben era.

E me, bello qual vedi e valoroso,

E di gran padre nato e di una Diva,

Me pur la morte ad ogni istante aspetta,

E di lancia o di strale un qualcheduno

Anche ad Achille rapirà la vita.

 

(Iliade, I, libro XXI, vv. 141-150, Trad. Monti)

 

E Achille selvaggiamente sgozza colla spada il povero ragazzo, lo lancia per un piede nello Scamandro e invita i pesci del fiume a divorare il bianco adipe di Licaone. Come in questo esempio la crudeltà e la simpatia sono entrambe sincere, ma non si mescolano e agiscono l’una sull’altra; così in generale Greci e Romani mantenevano tutta la loro gioia e la loro tristezza non mescolate ed intere. Buoni per istinto, essi non riconoscevano il peccato, e neppure erano posseduti dal desiderio di salvare il credito dell’universo, così da insistere come tanti di noi insistono, nell’asserire che ciò che ci appare direttamente come un male dev’essere un bene in formazione, o qualche cos’altro di altrettanto ingegnoso. Per gli antichi Greci invece il buono era buono e il cattivo proprio cattivo. Essi non negavano mai i mali della Natura, – il verso di Walt Whitman “Ciò che diciamo buono è perfetto, e ciò che chiamiamo cattivo è altrettanto perfetto”, sarebbe stato un puro non-senso per essi, – né inventarono mai, al fine di sfuggire a questi mali, un altro mondo, migliore, immaginario, nel quale, assieme ai mali, non troveremmo alcuna delle innocenti gioie dei sensi. Questa integrità delle reazioni istintive, questa libertà da ogni sofisticheria come da ogni costrizione morale, dava una certa tragica dignità all’antico sentimento pagano. Ora questa qualità gli sfoghi di Whitman non posseggono. L’ottimismo di lui è cosa troppo voluta e diffidente; il suo Vangelo ha un tantino della bravata e un leggero sapore di affettazione (1), ora questo ne diminuisce l’efficacia rispetto ad alcuni lettori, i quali pur non di meno hanno le migliori disposizioni  verso l’ottimismo, che in complesso sono inclini ad ammettere che per molti e importanti rispetti, Whitman appartiene di buon diritto alla schiera genuina dei profeti.

 

____________________________

(1) “Dio ha paura di me!” mi diceva un simile titano dell’ottimismo un bel mattino in cui si sentiva più vivace e cannibalistico del solito. La spavalderia della frase mostrava che tutta una educazione Cristiana d’umiltà faceva ancora sentire i suoi effetti sull’animo suo.

 

 

 

 

 

 

Konstantin Dmitrievich Bal’mont

1 Set

Konstantin Bal’mont

 

Konstantin Dmitrievič Bal’mont, poeta, critico e traduttore, fu uno dei primi poeti simbolisti dell’Epoca d’Argento della letteratura russa. Nacque il 15 giugno 1867 nel villaggio di Gumnišci, nei pressi di Vladimir, da una nobile famiglia. Della sua infanzia e adolescenza egli scrisse nella sua autobiografia: «I miei migliori maestri di poesia furono la nostra tenuta, il frutteto, i ruscelli, le paludi, il fruscio delle foglie, le farfalle, gli uccelli e le aurore».

Nel 1884 fu espulso dal ginnasio per essere entrato a far parte di un gruppo rivoluzionario. Quando frequentava la facoltà di Legge all’Università di Mosca, partecipò a una rivolta studentesca e fu espulso anche da lì. Poco dopo fu riammesso agli studi, ma non li terminò. Nel 1889 lasciò l’università per la letteratura. Su ciò che influì maggiormente sul corso della sua vita, Bal’mont scrisse: «E’ difficile elencare le esperienze che hanno lasciato un’impronta nella mia vita, ma ci proverò: la lettura di “Delitto e Castigo” quando avevo 16 anni e poi “I fratelli Karamazov” a 17. Quest’ultimo libro mi ha dato più di ogni altro libro al mondo. Il mio primo matrimonio (quando avevo 21 anni, e che finì col divorzio cinque anni dopo), il mio secondo matrimonio quando ne avevo 28. I suicidi di molti miei amici quando ero giovane. Il mio stesso tentativo di suicidio (a 22 anni), quando mi gettai dalla finestra al terzo piano, riportando fratture multiple, ma che portò a un risveglio senza precedenti della mia mente e della volontà di vivere. La scrittura di poesie (la prima a 9 anni, poi a 17 e 21) e i viaggi in Europa (restai particolarmente impressionato da Inghilterra, Spagna e Italia).

Dopo vari tentativi falliti finalmente riuscì a pubblicare la sua prima raccolta di poesie nel 1890. Ma fu un fiasco e Bal’mont distrusse quasi l’intera edizione. Poi, anziché scrivere, si dedicò alla traduzione, sfruttando anche le sue straordinarie capacità linguistiche e la conoscenza di una dozzina di lingue. Tradusse così in russo, tra gli altri, Poe, Ibsen, Calderon, Verlaine, Baudelaire, Whitman, nonché opere di poeti armeni e georgiani. Nel 1893 pubblicò l’intera opera di Percy B. Shelley in russo. Ma tradusse anche da altre lingue slave, dall’indiano e dal sanscrito. Il successo conseguito come traduttore lo spronò a pubblicare altri suoi lavori, e così nel 1894 vide la luce la raccolta “Sotto i cieli del nord”, in cui cantava l’astratta bellezza di favolosi paesaggi boreali, seguita da “Il silenzio” nel 1898. Queste opere gli procurarono il riconoscimento e il successo tanto attesi.

La poesia simbolista di Bal’mont si esprimeva attraverso allusioni e ritmi melodiosi. Divenne l’impressionista della poesia, del suo mondo fatto di delicate osservazioni e fragili sentimenti. Nel 1903 uscirono le sue raccolta più belle: “Saremo come il sole” e “Soltanto l’amore”. La sua popolarità era ora all’apice. La sua poesia diventò la nuova filosofia che segnò l’inizio dell’Epoca d’Argento. Nella creazione successiva Bal’mont mutò l’intonazione lirica in un tono più aggressivo e alquanto sorprendente. Egli protestava contro l’ingiustizia in generale, ma il suo spirito ribelle esplose nella controversa poesia “Il piccolo sultano”, nella quale egli criticava lo zar, e questo gli procurò l’esilio da San Pietroburgo e il divieto di abitare nelle città sedi di atenei. Allora il poeta lasciò la Russia, divenne un esiliato politico e viaggiò molto nei vari continenti. Nel 1913, in occasione del trecentesimo anniversario della dinastia dei Romanov, a tutti gli emigrati politici fu concessa l’amnistia e Bal’mont poté tornare in Russia. Nel 1917 egli accolse con entusiasmo la Rivoluzione di Febbraio, ma non mostrò lo stesso gradimento per quella di Ottobre. Soprattutto non poteva accettare la nuova politica volta alla soppressione dell’individualità. Egli ricevette un visto temporaneo e nel 1920 lasciò la Russia per sempre. Si stabilì a Parigi con la famiglia. Nell’esilio scrisse 22 libri dei circa 50 che costituiscono il suo patrimonio letterario. La sua poesia però era in declino. Inoltre non riusciva a inserirsi nella comunità degli immigrati russi e si isolò da essi. La nostalgia per la sua terra lo tormentava. Dopo il 1930 i segni dei suoi disturbi mentali si fecero sempre più evidenti, e le sue condizioni furono peggiorate dalla povertà, e soprattutto dal digiuno di scrittura. In realtà finì vittima della pazzia.

Morì il 23 dicembre 1942 nella Francia occupata dai nazisti, all’età di 79 anni e fu sepolto nella piccola città di Noisy-le-Grand. Sulla lapide fu semplicemente scritto: KONSTANTIN BAL’MONT, POETA RUSSO.

Bal’mont ebbe una grande influenza sulla letteratura e poesia russa, liberandole dai vincoli della vecchia scuola e creando nuovi mezzi espressivi. Egli aveva, tra l’altro, una straordinaria abilità di trattare i suoni, combinando le parole in modo da esprimere le impressioni poetiche in modo musicale. A questo proposito, Renato Poggioli, critico specializzato in letteratura russa e illustre studioso di critica comparata, ha scritto: «Egli riduce la poesia soprattutto a suono, ad “amore sensuale della parola”, o, per usare le sue parole, a una “illusione canora”». Il poeta Andrej Belyj lo definì un uomo solitario e vulnerabile, completamente fuori dalla realtà: «Non riusciva ad amalgamare e armonizzare i tesori ricevuti dalla natura, spendendo la sua ricchezza spirituale senza uno scopo preciso». Marina Cvetaeva disse di lui che “avrebbe dato a un bisognoso il suo ultimo pezzo di pane, il suo ultimo ciocco di legna”. Mark Talov, un traduttore russo che nel 1920 si trovò senza un soldo a Parigi, ricordava quante volte, dopo aver lasciato la casa di Bal’mont, egli si trovava del denaro in tasca; il poeta (egli stesso molto povero) preferiva aiutare in modo anonimo, per non mettere in imbarazzo un visitatore. Il poeta Valerij Brjusov scrisse di lui: «Regnava sulla poesia russa all’inizio del Novecento…Genio spontaneo, viaggiatore instancabile, idolo di tutta la sua generazione, distintosi per le sue avventure amorose e azioni stravaganti».

Poesie di Konstantin Bal’mont tradotte da Paolo Statuti

*  *  *

Io libero vento, io soffio senza sosta,

Agito le onde, accarezzo il querceto,

Cullo i campi, cullo l’erba verde,

Tra i rami sospiro, e poi mi acquieto.

A primavera, come messo maggese,

Bacio i mughetti, del sogno infatuato,

L’azzurro muto ascolta il vento,

Io soffio, languisco, lieve, assonnato.

In amore infedele, mi muto in ciclone,

Spazzo le nubi, increspo il mare,

Sfreccio nelle piane con lungo lamento –

E nello spazio muto inizia a tuonare.

Come fata che altra fata accarezza,

Di nuovo lieve e felice sono io,

Mi stringo agli alberi, sul campo respiro

E, sempre libero, io soffio l’oblio.

Parole-stiletti

Sono stanco di tenere parole,

Di questi armoniosi conviti,

Di queste melodiche cantilene

E di questi elogi infiniti.

Io voglio strappare l’azzurro

Dei sogni tranquillizzati.

Io voglio edifici in fiamme,

Io voglio uragani infuriati.

L’ebbrezza della pace –

La ragione si assopirà.

Si accenda un mare di ardore,

E nel cuore tremi l’oscurità.

Io voglio suoni diversi

Per i miei diversi banchetti,

Esclamazioni prima di morire,

Io voglio parole – stiletti!

*  *  *

Voglio essere spavaldo, voglio essere audace,

Intrecciare grappoli di succo pieni.

Voglio ubriacarmi di uno splendido corpo,

Voglio il calore dei tuoi seni!

Voglio strapparti gli abiti di dosso,

Noi, due brame in una fonderemo.

O dei andate! O gente andate!

Mi è dolce che insieme staremo!

Domani sia pure buio e freddo,

Oggi il cuore a un raggio darò.

Sarò felice! Sarò giovane!

Io lo voglio! Io spavaldo sarò!

Rivali

Possiamo andare per vaste pianure,

Sempre per strade separate.

E resterà ciascuno signore assoluto,

Finché non spunterà la stella fatale.

Noi possiamo gettare ombre inquiete,

La luna le ingrandirà in lunghezza.

Nella stessa ascesa saremo i gradini,

E pari – finché non ameremo la stessa.

Allora noi mentiremo, senza aiutarci mai,

Allora il nostro dio scorderemo.

Noi possiamo, possiamo, molto,

O mio pari, ma solo se due resteremo.

A lei che fa giochi d’amore

 

Ci sono baci liberi come sogni,

Beati e lucenti, deliranti.

Ci sono baci freddi come neve.

Ci sono baci anche oltraggianti.

Oh, baci dati con violenza,

Oh, baci dati per rivalsa!

Quanto ardenti, quanto strani,

Con vampa di gioia e ripugnanza!

Fuggi con timore dalla frenesia,

I miei sogni immensi non hanno nome.

Io sono forte della volontà di amare.

Forte dell’arroganza – indignazione!

Fiore italiano

L’amore è la luce che viene a noi di là,

Dal regno stellare, dall’azzurra sommità,

Esso risveglia in noi la brama di prodigio,

E di bellezza.

E la bellezza è un raggio che annega,

Lungi dal sole, in un buio di ombre,

Quando esso lo versa

Nelle menti umane.

E, se lo spirito umano è saturo di luce,

Che una stella celeste gli manderà,

Esso avido si affretta in risposta,

Là, là.

 

Dare se stessi

Dare se stessi come preda,

Dimenticare le parole – tuo, mio,

Provare della tortura il tormento,

E amarlo come la luce.

Non provare né paura né rimorso,

Benedire la propria tristezza,

Benedire la propria disperazione,

Dire – nulla mi dispiace.

Essere pari ai miseri, ai differenti,

Prima del grido – essere come un sospiro:

Così si governano le forze possenti,

Così tra la gente tu sarai Dio.

La nascita della musica

Risonava il mare entro i limiti delle rive,

Quando giovani erano le forze del mondo,

Si formavano turbini di cori melodiosi,

Con mùgghio di corni e di corde un rombo.

Era musica il bosco e ogni fossato.

Enorme come luna ogni fiore sbocciava,

Quando la mente le corde sentiva.

Ma nei sogni un’altra campana sonava.

Soffiò il vento sulle canne come peana,

Attraverso i fori rinacquero i prati,

E il primo zufolo fu la sovrana

Dei venti e della libertà, che i lidi han spianati.

Perché vendetta e spada cantassero con ira,

Con le ossa del nemico io i flauti ho foggiati.

Alla gente

Oh, gente, a voi mi rivolgo, a voi tutti,

Sappiate che ero infelice e muto,

Ma, vista dei monti la maestà,

Io tutto ho amato e conosciuto.

Ho conosciuto col cuore, non con la mente,

So che il tuono zarista è beato,

Che il fulmine rovina uomini e animali,

Ma il nostro mondo da esso è accecato.

Amo tutto ciò che la terra mi diede,

Tutte le trame del bene e del male,

Tutto ho toccato, tutto io imploro,

Di un rivo ridevo, ma mi unisco al mare.

E di nuovo preda di raggi infocati,

Dall’alto scende il sonoro torrente.

C’è la saggezza, ma la vita è irrisolta,

Ai saggi e ai morti dico: «Ciò è niente!»

C’è qualcosa più alto di ogni scienza,

E io respingo ogni saggio sagace,

Io conosco e sento una cosa soltanto,

Che esso è ubriaco, il vino della pace.

Quando con questo vino mi ubriacherò,

Morirò e rinascerò e batterà il mio cuore,

Coi giovani sarò di nuovo mattino…

Oh, gente, io sento soltanto l’amore!

Cigno bianco

Cigno bianco, cigno immacolato,

I tuoi sogni sempre celando,

Tranquillamente argenteo,

Tu scivoli, l’acqua increspando.

Sotto di te – il baratro silenzioso,

Senza risposta, senza saluto,

Ma tu scivoli, immergendoti

Nel fondo di aria e luce intessuto.

Sopra di te – l’etere senza fine

Con la fulgida volta stellata.

Tu scivoli via, trasformato

Dalla bellezza rispecchiata.

Simbolo di affetto imperturbato,

Non del tutto espresso, timoroso,

Simulacro femmineo-armonioso,

Cigno bianco, cigno immacolato!

Il nostro zar

Il nostro zar è Mukden** e Tsushima,***

E’ una chiazza insanguinata,

Polvere da sparo e fumo che puzza,

Zar con la mente ottenebrata.

IL nostro zar è un cieco squallore,

Prigione, sferza, uccisione, processo,

Zar-galeotto, anche di più,

Non osò dare ciò che aveva promesso.

E’ un vile, il suo cuore è sordo,

Ma il tempo del saldo lo aspetta.

Se l’inizio del regno è Chodynka,****

La forca per lui è già eretta.

1907

* Bal’mont scrisse questa poesia nel 1907. La profezia si avverò nel 1918, circa 22 anni dopo l’incoronazione di Nicola II (anche se non in senso prettamente letterale).

**Località in cui, durante la guerra russo-giapponese, le truppe russe furono sconfitte per l’incapacità del comando.

***Battaglia navale vicino alle isole Tsushima nello stretto di Corea, tra la squadra russa e la flotta giapponese. La distruzione di quasi l’intera squadra russa, fu vissuta come una tragedia nazionale.

****Nel campo di Chodynka a Mosca il 18 maggio 1896 si tenne una festa popolare per l’incoronazione dello zar. La sera circolò tra la folla una voce che il giorno seguente lo zar avrebbe fatto distribuire ricchi doni (i quali in realtà consistevano in una pagnotta, un po’ di salame, pan di zenzero e una tazza di birra). A quella notizia un gran numero di persone cominciò a riunirsi in quel luogo. Ma intorno alle 6 di mattina del giorno dopo, improvvisamente circolò tra la gente una voce, secondo cui non c’erano abbastanza regali per tutti, creando in tal modo le premesse per la tragedia. Nella corsa precipitosa verso il punto di distribuzione, a causa dell’inettitudine delle autorità che non seppero  mantenere l’ordine,  morirono calpestate dalla folla circa 1400 persone, e all’incirca 1300 restarono ferite.

Addio all’albero

Amavo l’albero cresciuto dalle fiabe,
Sul quale l’usignolo sempre squillava,
E sotto il quale si stendeva il grano,
Frusciavano le spighe e il ruscello cantava.
Amavo i richiami, da un ramo all’altro,
Degli uccelli variopinti e spensierati,
C’erano monti antichi della sua età,
Coetanei della steppa e lampi filati.
Amavo dell’albero la voce della chioma,
Che annuncia un temporale con un canto,
E il fruscio delle foglie rotolanti,
E delle grevi nubi il primo pianto.
Amavo in quest’albero con le ciglia di Vij*,
Tra i muschi, di un vecchio fauno l’occhiata.
Per secoli l’albero hanno chiamato Russia,
E sul tronco с’è un’ascia affilata.
*Divinità mitologica controversa. Un mostro spaventoso diversamente interpretato. Le sue enormi palpebre incorniciate da ciglia toccavano il suolo. Con gli occhi chiusi era relativamente innocuo, ma quando i suoi servi gli sollevavano le palpebre coi forconi, il suo sguardo uccideva. Eppure nella mitologia slava non troviamo una sola menzione del fatto che il Vij abbia ucciso persone. In Gogol’ ad esempio Khoma Brut muore di paura, non a causa dello sguardo del Vij, sguardo che a volte può essere come una fiamma purificatrice. Insomma non è solo uno spirito maligno, ma anche una divinità oscura dotata di poteri straordinari, chiamata anche “custode delle anime”. In questa poesia Bal’mont identificando l’albero con la Russia e dicendo che ha le ciglia del Vij, credo voglia evidenziare la potenza e la grandezza “mostruosa” della Russia, con la scure pronta ad abbatterla.

(C) by Paolo Statuti