Archivio | marzo, 2012

Anna Swirszczynska

31 Mar

Una poetessa innovatrice e femminista

 

   Anna Swir (Świrszczyńska) – Varsavia 1909 – Cracovia 1984, poetessa, prosatrice, autrice di drammi e di libri per la gioventù. Figlia del pittore Jan Świerczyński. A tale proposito va notato che il suo cognome si differenzia leggermente da quello del padre, a causa di un errore anagrafico che la poetessa non ha mai corretto. Avrebbe voluto seguire le orme paterne, ma dovette rinunciare per motivi economici. Conseguita la maturità nel 1927, si iscrisse alla facoltà di lingua e letteratura polacca dell’università di Varsavia.

   Debuttò con la poesia “La neve” nel 1930, pubblicata dalla rivista “La fiammella”, ma come suo vero debutto ella considerava la poesia “Mezzogiorno”, per la quale fu premiata al Torneo di Giovani Poeti nel 1934. Durante l’occupazione svolse attività clandestina nell’ambiente letterario della capitale, prese parte all’Insurrezione di Varsavia (1 agosto-2 ottobre 1944), e lavorò come operaia, cameriera e inserviente d’ospedale.

   Quando era già sessantenne cambiò radicalmente il suo linguaggio poetico e segnò una svolta innovatrice nella poesia polacca. Le sue raccolte “Sono una vera donna” del 1972 e “Ho alzato la barricata” del 1974 furono accolte come un fulmine a ciel sereno. Creò una nuova forma, sentiva che la lingua della sua poesia di prima della guerra non era adatta a descrivere la realtà dell’Insurrezione e il suo  vero essere femminile.

   A proposito delle sue raccolte “Il vento” e “Sono una vera donna” scriveva nell’introduzione autobiografica al volume “Poesie scelte” del 1973: “Se il simbolo della raccolta-debutto poteva essere uno spettacolo teatrale in costume, simbolo di queste due ultime sarà forse il reparto maternità di un ospedale. Cosa è più consono alla poesia? Molti lettori risponderanno di sicuro diversamente da me”.

   Ora nella poesia della Świrszczyńska la donna genera non solo bambini, ma anche il mondo. Essa assume volti diversi: madre, figlia, amante, donna desiderosa, tenera, disperata, piangente per i morti, assistente dei feriti, stravagante o molto pratica. La poetessa raggiunge una tale intensità di sentimenti, una tale descrizione erotica, da essere spesso tacciata di esibizionismo, e lei stessa ammetteva di spingersi fino a questo punto.

   Un critico letterario ha scritto: “E’ vera poesia! Non un nostalgico miagolio o piagnucolio di una donna debole e sola. Nelle poesie di Anna Świrszczyńska la donna ha un corpo che può essere bello o brutto, porta in sé il dolore ma anche la voluttà, è giovane e poi è anche vecchia. Nei suoi versi semplici e chiari la poetessa non si perita di parlare di sesso, di orgasmo senza eufemismi. Il fatto che riesca ad amare intensamente deriva anche dalla sua forza. Tutto senza veli e abbellimenti, senza finzioni o falso pudore. Czesław Miłosz nel suo libro su Anna Świrszczyńska “Chi abbiamo avuto”, ammette di aver dovuto superare alcuni pregiudizi maschili, per capire bene il femminismo della poetessa. Egli, d’accordo con il poeta Miron Białoszewski, la considera una grande rinnovatrice della poetica polacca e una delle maggiori individualità nella storia di tutta la letteratura polacca.

   Si autodefiniva una femminista. Attraverso la poesia voleva liberare la mente femminile dai vincoli della cultura maschile, dal patriarcato. In brevi, chiare e realistiche poesie descrive il destino delle semplici donne. Le sue protagoniste sono donne coraggiose che non ammettono compromessi, contadine, operaie, casalinghe, madri stanche, donne tormentate dalla vita e dai mariti, donne che vincono o perdono, restando tuttavia sempre in conflitto con l’uomo, che la poetessa giudica severamente, spesso con disprezzo e a volte anche con umorismo. Il suo “io” poetico non è languido o sentimentale. Nei suoi versi si sente l’orgoglio di essere donna, di avere il suo corpo di donna. Le sue poesie, soprattutto quelle del ciclo “Sono una vera donna”, costringono a riflettere seriamente sulla femminilità e sui problemi delle donne nel mondo contemporaneo.

                                                                                                Paolo Statuti

Opere di Anna Świrszczyńska:

Poesie e prosa, Varsavia 1936

Orfeo, dramma in 3 atti, 1946

Spari in via Długa, 1948

Arkona – la fortezza di Świętowit, 1948 (per la gioventù)

L’appello sul muro, 1951

Liriche scelte, Varsavia 1958

Racconti di vecchio argomento, 1958 (per la gioventù)

I cornetti del re Giovanni, 1960 (per la gioventù)

Parole nere, Cracovia 1967

Il vento, Varsavia 1970

Sono una vera donna, Cracovia 1972

Storia di vecchi tempi, 1972

Poesie scelte, 1973

Ho alzato la barricata, Varsavia 1974

Felice come la coda del cane, Cracovia 1978

Teatro poetico, Varsavia 1984

Sofferenza e gioia, Varsavia 1985

 

 

10 poesie di Anna Świrszczyńska nella versione di Paolo Statuti

 

Alzando la barricata

Avevamo paura alzando sotto il fuoco

la barricata.

Il bettoliere, l’amante dell’orefice, il barbiere,

tutti paurosi.

Cadde a terra una servetta

sollevando un masso dal selciato, avevamo molta paura,

tutti paurosi –

il portinaio, la mercatina, il pensionato.

Cadde a terra il farmacista

trascinando la porta della latrina,

avevamo ancora più paura, la contrabbandiera,

la sarta, il tranviere,

tutti paurosi.

Cadde un ragazzo del riformatorio

trascinando un sacco di sabbia,

ebbene avevamo paura

davvero.

Benché nessuno ci costringesse,

alzammo la barricata

sotto il fuoco.

1974

 

 

La donna conversa con la sua coscia

Solo grazie alla tua bellezza

posso partecipare

ai riti dell’amore.

Le mistiche estasi,

i tradimenti voluttuosi

come scarlatto rossetto,

il perverso rococò

dei grovigli psicologici,

la dolce nostalgia del corpo

che mozza il respiro nei petti,

i crateri del tormento

che precipita sul fondo del mondo –

li devo a te.

Con che tenerezza devo ogni giorno

sferzarti con la sferza dell’acqua gelata,

giacché proprio tu mi concedi di giungere

alla bellezza e al senno,

che niente può sostituire.

Si schiudono dinanzi a me

nell’attimo dell’amore

le anime degli amanti e le possiedo.

Guardo, come scultore

la sua opera,

i loro volti serrati dalle palpebre,

straziati dall’estasi,

densi

di felicità.

Leggo come angelo

i pensieri nei crani,

sento nel palmo

il cuore umano che batte,

ascolto le parole

che l’uomo all’uomo sussurra

nel più sincero istante della vita.

 

Entro nelle loro anime,

percorro

la strada dell’incanto o dello sgomento

verso contrade inaudite

come fondi di oceani.

Poi, carica di tesori,

torno a lungo

in me stessa.

 

Oh, quante ricchezze,

quante costose verità,

che ingigantiscono in un’eco metafisica,

quante iniziazioni

delicate e sconvolgenti

devo a te, coscia mia.

 

La più compiuta bellezza della mia anima

non mi darebbe alcuno di quei tesori,

se non ci fosse la tua tersa, liscia grazia

di animaletto amorale.

 

1972

 

 

Verso recondito

 

Vivo qui nel lusso,

ho una speciale stanza per ridere.

 

Dopo un giorno senza gente

nella stanza fuisce la notte

come alleviamento.

 

Fiammanti giungle di risatine

sbocciano

e scoppiano estatici soli

di scoppi di risa.

 

La delizia del riso

fa esplodere le pareti

forte come delizia d’amore.

 

Nella piccola stanzetta

scorrono ghignando costellazioni di stelle

e ululanti di risa vie lattee.

 

Posso accoglierle tutte e ospitarle,

poiché vivo qui nel lusso.

Ho una speciale stanza per ridere.

 

1970

 

 

 

 

Separazione

 

Il nostro amore ha languito lunghi anni.

Ed ecco ora la separazione

lo ravviva d’un tratto.

Il nostro amore si leva dai morti

allucinante

come cadavere, rinato per morire

una seconda volta.

 

Ogni notte ci amiamo,

ogni ora ci separiamo,

ogni ora

ci giuriamo fedeltà fino alla morte.

 

Soffriamo intensamente

come si soffre nell’inferno.

Abbiamo entrambi

45 gradi di febbre.

 

Gemendo di odio

strappiamo dall’album la foto delle nozze.

E intere notti fino al chiarore dell’alba

piangendo, amandoci,

sudando di mortale sudore

ci parliamo,

parliamo di noi

la prima e ultima volta nella vita.

 

1972

 

Dico a me stessa: tu carogna

                                                                  Ad Artur Sandauer

Dico al mio corpo:

– Tu carogna – dico.

Tu carogna inchiodata alla sordità,

cieca e sorda

come un catenaccio.

 

Devo batterti fino a farti urlare,

metterti a digiuno per quaranta giorni,

sospenderti

sul più alto abisso del mondo.

 

Forse allora si aprirebbe in te

una finestra

su tutto ciò che intuisco – sia.

su tutto ciò che è chiuso

davanti a me.

 

Dico al mio corpo:

Tu carogna,

temi il dolore e la fame,

temi l’abisso.

 

Tu sorda, cieca carogna – dico

e sputo nello specchio.

 

1978

 

 

Coraggio

 

Non sarò schiava di nessun amore.

A nessuno

darò lo scopo della mia vita,

il mio diritto a una continua crescita

fino all’ultimo respiro.

 

Impastoiata da un oscuro istinto di maternità,

assetata di affetto come un asmatico di aria,

con qualche sforzo costruisco in me

il mio bello umano egoismo,

riservato da secoli

al maschio.

 

Contro di me

sono tutte le civiltà del mondo,

tutti i santi libri dell’umanità

scritti da mistici angeli

con l’eloquente penna del lampo.

Dieci Maometti

in dieci lingue elegantemente muscose

mi promettono la dannazione

sulla terra e nell’eterno cielo.

 

Contro di me

è il mio proprio cuore.

Addestrato da millenni

alla crudele virtù della vittima.

 

 

La molla

 

La più grande felicità che mi dai,

è la felicità che non ti amo.

La libertà.

 

Mi crogiolo vicino a te

nel calore della tua libertà

mansueta della mansuetudine della forza.

 

Tenera

vigile come una molla.

 

In ogni mio abbraccio

sono pronta ad andarmene.

Come nel corpo dell’atleta

il prossimo salto.

 

1972

 

Sono ricolma di amore…

 

Sono ricolma di amore

come un grande albero – di vento,

come una spugna – di oceano,

come una grande vita – di sofferenza,

come il tempo – di morte.

 

 

 

 

 

Colloquio notturno molto triste

 

– Dovresti avere molti amanti.

– Lo so, caro.

– Ho avuto molte donne.

– Ho avuto molti uomini, caro.

– Sono un uomo finito.

– Sì, caro.

– Non fidarti di me.

– Non mi fido, caro.

– Temo la morte.

– Anche io, caro.

– Non lasciarmi.

– No, caro.

– Sono solo.

– Come me, caro.

– Stringiti a me.

– Buonanotte, caro.

 

1972

 

Il lucchetto

 

I nostri corpi

non vogliono separarsi.

Si sono serrati con le braccia

e ci guardano con terrore,

come due bambini guardano un assassino

che si avvicina.

 

Non capiscono niente. Impazziti,

bagnati di lacrime,

tremanti dal singhiozzo,

chiedono, chiedono senza fiato

perché.

E non ascoltano la risposta,

chiedono di nuovo

senza fiato, senza fiato,

gemendo, implorando

pietà.

 

Ma noi

non possiamo aver pietà di loro.

Spezzeremo il lucchetto delle braccia,

strapperemo i capelli arruffati

getteremo

nelle due parti della stanza

due morenti

impotenti brandelli.

 

1972

 

Alla memoria di „Che” Guevara

Vado tra le pallottole,

accanto cammina la mia Leggenda,

essa non morirà.

Vado lungo una valle di scuro pianto,

lungo possenti paesaggi di disperazione.

Chiamo i morti e i vivi,

si alzano,

i vivi simili ai morti, così senza forza,

i morti simili ai vivi, così minacciosi.

Non sanno parlare, non hanno

volto. Io sono

il loro volto, la lingua ardente

della loro gola.

Vado tra le pallottole,

la mia Leggenda procede accanto,

ha il muso di leonessa,

sei ali

come sei cascate

di vittoria.

Quando cadrò strada facendo,

la sua pesante patetica scarpa

oltrepasserà il cadavere

come cosa irrilevante.

Andrà non trattenuta

con la gola di un toro,

da questa gola scaturirà

ieratico un canto

su di me.

La mia Leggenda

condurrà i morti e i vivi

più lontano di me.

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Halina Poswiatowska

27 Mar

Halina Poświatowska

Olga Celuch

Olga Celuch

  Dedico questo mio post alla memoria della indimenticabile amica e poetessa bilingue (italiano e polacco) Olga Celuch, sopraffatta da un male incurabile il 5 giugno 2010. Aveva appena 30 anni.

   “Amo la vita, amico mio, e anche quando essa mi ha ferita al punto che per un breve istante ho desiderato morire, neppure allora l’ho tradita”. (Halina Poswiatowska)

 

   Halina Poświatowska era nata a Częstochowa il 9 maggio 1935. Nel 1945 si ammalò di artrite ed endocardite e di conseguenza di una malattia di cuore a quei tempi incurabile. Ciò le impedì di frequentare regolarmente la scuola, perché si stancava presto e doveva restare in letto.    Tuttavia studiò e superò gli esami come privatista, dapprima al ginnasio “Studio e Lavoro” e poi al liceo femminile “J. Słowacki” a Częstochowa. Nello studio e nella scelta delle letture l’aiutava la madre. Trascorse tutta la sua breve vita tra ospedali e case di cura. Nel 1953 conobbe nel sanatorio di Kudowa il futuro marito, Adolfo Poświatowski, pittore e studente della Scuola Superiore di Cinematografia a Łódź, anch’egli gravemente malato di cuore, e lo sposò il 26 giugno 1954. La morte del marito, avvenuta improvvisamente meno di due anni dopo, fu per Halina un grave colpo e cominciò a vivere nella convinzione di dover subire presto la stessa sorte. I medici, infatti, le davano al massimo sei mesi di vita.

   Nel 1956 debuttò con le due poesie “Felicità” e “L’uomo dell’Annapurna”. Conoscendo lo stato di salute e il talento della giovane poetessa, il prof. Julian Aleksandrowicz, suo amico e medico, si interessò, perché fosse operata al cuore negli Stati Uniti. La cosa andò in porto e per giunta gratuitamente. Nel frattempo la prestigiosa casa editrice di Cracovia “Wydawnictwo Literackie” pubblicava la sua prima raccolta di poesie “Inno idolatrico”.

   Dopo la riuscita operazione, avvenuta il 12 novembre 1958, Halina iniziò gli studi allo “Smith College” di Northampton. Nel 1960 seguì i corsi estivi alla Columbia University di New York, al termine dei quali, nel 1961, tornò a Cracovia. “Non aveva bisogno di tornare in Polonia – dice la sorella – lì stava bene. La borsa di studio di quattro università, viaggi, amici. Ma amava troppo Cracovia, la considerava la città più bella del mondo”.

   Iniziò gli studi alla facoltà di storia e filosofia presso la celebre Università Jaghellonica. Un anno dopo uscì la sua seconda raccolta “La giornata odierna”, seguita dalla terza “Ode alle mani” nel 1966. Infine nel 1967, sempre la stessa casa editrice Wydawnictwo Literackie pubblicò la sua autobiografia in prosa “Racconto per un amico”.

   Nell’autunno dello stesso anno fu nuovamente operata al cuore a Varsavia. Morì pochi giorni dopo, l ’11 ottobre. Forse senza questa operazione sarebbe vissuta ancora qualche anno, ma voleva sentirsi bene e poter lavorare.

   La sua città natale Częstochowa ogni anno organizza un concorso di poesia intitolato ad Halina Poświatowska.

Lascio ora la parola a due autorevoli poeti polacchi che erano amici della poetessa.

Tadeusz Nowak (1930-1991): …Ho conosciuto Halina dopo il suo ritorno dall’America. Era alta, esile, molto bella. Una figura in parte primaverile, in parte autunnale. Forse pensavo a queste due stagioni dell’anno, perché Halina, ricordando che il suo cuore era malato, camminava con cautela, quasi avesse sotto i piedi un sottile strato di ghiaccio, o una gran quantità di foglie appena cadute dagli alberi, di foglie che frusciano e fanno dimenticare la propria voce, la propria anima…Ho rivisto Halina pochi giorni prima della morte. Era con la sorella in una piccola stanzetta. L’ossigeno era a portata di mano. Ricordo che la segretaria del prof. Aleksandrowicz entrò e con un lieto  sorriso comunicò che l’operazione avrebbe avuto luogo qualche giorno dopo. E allora per la prima volta vidi Halina spaventata al pensiero della data così vicina dell’operazione. Una fugace ombra di morte le coprì il viso…le cadde il libro dalle mani…era la Bibbia. Quel giorno Halina stava leggendo “Il cantico dei cantici”…

   Aveva già scritto molte poesie e quasi tutte senza titolo. Cominciavano come i Salmi di Davide, o come lettere d’amore indirizzate a qualcuno. Eppure era una poesia autentica, insolita e bella. Una poesia molto femminile, ma non come in Pawlikowska-Jasnorzewska o in Szymborska. La poesia di Poświatowska era eccitata, rivestita di un qualcosa molto erotico, carnale, ma al tempo stesso straordinariamente eterea. Era una poesia luminosa, chiara…eravamo tutti stupiti dai suoi versi. Non potevamo credere che ci fosse qualcuno che nell’arco di qualche mese, forse di un anno, potesse rivivere – nelle parole, nelle metafore, nelle bellissime immagini – tutta la sua vita”.

Stanisław Grochowiak (1934-1976):

                           Non era bella – in compenso era molto Bella,

                           Non era sensibile – in compenso era troppo Sensibile…

   E’ sorprendente come questa giovane poetessa amasse e stimasse la vita… Era un amore essenzialmente religioso…Questa donna, che ad ogni emozione, ad ogni palpito del cuore rischiava la vita, cantava l’amore indomabile, sensuale…Tutta la sua poesia è una profonda, dolorosa e intensa meditazione sul prodigio del proprio corpo…

 

   Di Halina Poświatowska presento alcune poesie nella mia versione

  

*  *  *

mia principale cura è il trucco dei sopraccigli

li dipingo con raccoglimento

così fanno le donne ormai spaurite

pungendo gli specchi con lo sguardo attento

l’angolo di casa che oltrepasso ogni mattino

la svolta della strada che attraverso

tenui dita di muffa afferrano granelli di sabbia

crescono le crepe sui muri sono enormi le crepe sul pavimento

si frangono si disseminano le strade

il vento le porta in igni lato

il vento gioca con esse a rimpiattino

accostando i capelli alle guance

guardo le pietre che si coprono di erba

 

*  *  *

sempre quando voglio vivere grido

quando la vita mi abbandona

mi afferro ad essa

dico – vita

non andartene ancora

la sua calda mano nella mia mano

la mia bocca al suo orecchio

sussurro

vita

– come se la vita fosse un amante

che vuole andar via –

mi aggrappo al suo collo

grido

morirò se te ne andrai 

 

*  *  *

sulla mia casa

le cui pareti

di caldi sogni impensati 

scriverò la poesia più bella

sui capelli del bambino

che mai si arrufferanno

nelle mie mani di donna

sulle labbra che con cupa brama

non penderanno sopra l’ansia delle mie notti

sull’amore che fiorisce

in ogni parola sussurrata

nel colore delle rose

nel profumo dell’erba falciata

nel rapido cadere di stelle

nell’amaro

annientamento di ali di farfalla

spente nella fiamma della candela

sull’amore –

perfetto nel suo fosco non avverarsi

 

*  *  *

Quando morirò mio caro

quando dal sole mi separerò

e sarò un lungo oggetto piuttosto triste

 

mi stringerai a te

mi abbraccerai

e riparerai ciò che il crudele destino ha guastato?

 

spesso ti penso

spesso ti scrivo

stupide lettere – in esse c’è amore e sorriso 

 

poi nella stufa le metto

la fiamma salta sulle parole

prima che tranquilla finisca in cenere

 

guardando la fiamma mio caro

penso – che avverrà

del mio cuore avido d’amore 

 

ma tu non permettere

che io muoia in un mondo

che è buio freddo 

 

*  *  *

Sono Giulia

ho 23 anni

un giorno ho incontrato l’amore

aveva un gusto amaro

come una tazzina di caffè scuro

ha accelerato

il ritmo del cuore

ha irritato

il mio vivo organismo

ha cullato i sensi

 

se n’è andato

 

Sono Giulia

su un alto balcone

sospesa

grido torna

imploro torna

macchio

le labbra morse

di colore sanguigno

 

non è tornato

 

Sono Giulia

di anni mille

vivo –

 

*  *  *

Se vorrai lasciarmi

non dimenticare il sorriso

puoi dimenticare il cappello

i guanti il notes con gli indirizzi importanti

qualunque cosa infine – per cui dovresti tornare

tornando all’improvviso mi vedrai in lacrime

e non te ne andrai

se vorrai rimanere

non dimenticare il sorriso

puoi non ricordare il mio compleanno

o il luogo del nostro primo bacio

o il motivo della nostra prima lite

se tuttavia vuoi rimanere

non farlo con un sospiro

ma con un sorriso

rimani

*  *  *

Uccello del mio cuore

non affliggerti

ti sfamerò con un chicco di gioia

sfavillerai

uccello del mio cuore

non piangere

ti sfamerò con un chicco di tenerezza

volerai 

uccello del mio cuore

con le ali abbandonate

non dimenarti

ti sfamerò con un chicco di morte

ti addormenterai

 

*  *  *

Ti cerco nel morbido pelo del gatto

nelle gocce di pioggia

nello steccato

mi appoggio al buon recinto

e velata dal sole

– una mosca nella ragnatela –

aspetto…

 

*  *  *

Chiedi – cosa portano sul basto i cammelli da viaggio

essi portano il mio cuore

attraverso il deserto

quando mi lasciasti

restai sola

sotto il giallo sole

la terra è secca

e i cuori della gente vuoti

non per me sgorga

la fonte della tenerezza

a volte ti vedo

ma con le mani tese

tocco soltanto

il mio pensiero di te

chiedi – cosa portano sul basto i cammelli da viaggio

essi portano il mio cuore

attraverso il deserto

 

*  *  *

Il mondo morirà un poco

quando io morirò?

guardo guardo

indossando un collo di volpe

il mondo va

non ho mai pensato

di essere un pelo della sua pelliccia

io ero sempre qui

esso – là

eppure

fa piacere pensare

che il mondo morirà un poco

quando io morirò

 

Tutte le mie morti

quante volte si può morire d’amore

la prima volta fu un amaro sapore di terra

un amaro sapore

un aspro fiore

un rosso garofano ardente

 

la seconda volta – solo un sapore di spazio

un bianco sapore

un fresco vento

la risposta di ruote con sordo rimbombo

 

la terza volta la quarta volta la quinta volta

morivo per abitudine in modo meno elevato

le quattro pareti  supina

e su di me il tuo profilo affilato

 

La morte di Esenin

ricordo la morte di Esenin

in piena estate

in un albergo

la terra fiorita

presso la finestra

sul tavolo

su un pezzo di carta

la larva del cuore

scavata a pezzi

 

immaginare

avvicinarsi

osservare il silenzio della radice

la rabbiosa lotta della radice

il tremito

il desiderio

il peso

 

il fazzoletto era di seta

quindi morbido

sulla salda parete un gancio

da punto interrogativo

in esclamativo s’è rappreso

 

presso la finestra

il cinguettio dei passeri

nessuno sa

come muoiono gli uccelli

una percentuale investita da un’auto

relativamente esigua

gli uccelli si appendono ai rami

gli uccelli nella pioggia

con le piume incollate al fianco

 

lottava col peso dell’attrazione terrestre

portando la sedia presso la finestra

ricordo la morte di Esenin

in piena estate

nel festival delle foglie

sopra il festival dell’erba

dell’orchestra dei grillini

e al soggetto dell’esistenza

il verde aggiunto splende

 

il fazzoletto era di seta

fredda

una sedia

col ricordo giungeva fino al bosco

generazioni di pazienti faggi

s’indurivano nel tronco

crescevano

generazioni di foglie

silenziose

si posavano in terra

con un sottile filo di colore

la larva del cuore

nessuno sa come muoiono gli uccelli  

*  *  *

Saskia

perché sei morta

mancava alle tue dita la perfezione della forma

alla tua bocca – la perfezione della tinta

agli orecchini – la luce?

eri forma e colore

la luce

ti abbracciava come gli occhi di amante

Saskia

Perché sei morta?

 

ecco con grande stupore

guardo la tua scarpina

riscaldo con la mano il freddo della collana

getto le perle ai colombi

perché le mangino come  grano

 

stupidi uccelli

passano accanto

portando nelle gonfie gole

forma colore e luce

tutto ciò

che manca ai tuoi occhi

 

soltanto i gioieli brillano

allo stesso modo – morti

 

 *  *  *

come il fuoco consuma un albero lieve

ugualmente io avvolgo il tuo corpo

morbida e agile come fiamma

 

amandoti con delicatezza

attizzo i tuoi pensieri in fiamma

il mio ardore la loro fredda forma ruba

 

il mio tocco il chiaro cielo dei tuoi occhi

restringe in una scura fiamma

così ti amo amando me stessa

 

la fiamma ripeto la fiamma la fiamma

storpia la bocca ferisce le mani

e ogni forma sotto l’oro infossa

 

 *  *  *

l’addio – l’ala distesa di un uccello

un’ombra

una nuvola a ovest gironzola nel cielo

i pini bruciano

 

i pini spauracchi

ficcati nella scura terra

si mettono a vicenda nei capelli

pettini verdi

 

ma i tuoi capelli – il sonno

ma la tua bocca – la morte

gli occhi – l’ala distesa di un gabbiano

nerezza

 

 *  *  *

a volte

crudelmente nostalgica

appaio alla gente

con la mia faccia d’un tempo

vado sui miei piedi d’un tempo

e li tocco sorridendo

con le mani d’un tempo

 

ma mi tradisce

la trasparenza della pelle

che somiglia alla struttura della carta

e l’immobilità dell’ombra

e dopo il mio passaggio

l’assenza della più lieve traccia sulla neve

 

e a un tratto fulminati sanno

si scostano spauriti

offrendomi un grande spazio bianco

senza orizzonte

 

 

*  *  *

voglio scrivere di te

col tuo nome sorreggere il recinto piegato

il gelato ciliegio 

descrivere la tua bocca

comporre strofe incurvate

delle tue ciglia mentire che sono scure

voglio

impigliare le dita nei tuoi capelli

trovare una fossetta nel collo

dove con un sussurro represso

il cuore smentisce la bocca

voglio

il tuo nome mescolare con le stelle

con il sangue

essere in te

non essere con te

sparire

come goccia di pioggia assorbita dalla notte

 

 

 

 

*  *  *

nelle tue perfette dita

sono soltanto un fremito

un canto di foglie

al tocco delle tue calde labbra

 

l’odore irrita – dice: tu esisti

l’odore irrita – urta il naso

nelle tue perfette dita

sono la luce

 

di verdi lune brucio

sul morto cieco giorno

a un tratto sai – che ho le labbra rosse

 

– con sapore salmastro affluisce il sangue –

 

 

Incontrato

 

sono chiuso

con un’acida spilla

non ho la bocca

nel rigido lenzuolo

oggetto con una gamba urlante

cinque dita

presso l’ascensore

gettato in pasto

 

– non voglio –

prendo a calci

prendo a calci la porta ostinata

tendo le orecchie al paziente mugolio

aspetto

 

curvo su di me

ieri

mi bisbigliava una grande verità

su un cielo verde

sugli angeli danzanti

l’ostia della fede era così tonda

che mi si è piantata in gola

sono sceso in basso

 

prendo a calci

prendo a calci la porta defunta

voglio salire con l’ascensore

fino al piano più alto del cielo

 

* *  *

essa è con noi

ascolta il ronzio d’una vespa

gioca coi miei capelli

nelle tue dita è impigliata

 

il sole

mette mollemente sotto la testa

poi un po’ di erbe

poi un fiore di papavero

come esclamativo

rosso

 

essa contraddice i nostri gesti

ci piega a terra

col profumo

col calore

trattiene per sempre

sulla ruvida crosta terrestre

i tarpati dall’amore – la morte

 

 

Essi ci amano, i cimiteri solitari, essi che sono tanto con noi, che sono quasi dentro di noi. Paradosso reversibile, perché forse siamo noi dentro di loro. Delineando con un dito il contorno del proprio corpo, consideriamo il geranio piantato in basso e la clessidra posta a capo del letto. Il sussurro della betulla inclinata, l’intreccio delle sue avide radici, il succulento verde delle foglie. E baciando per la buona notte la tua fronte sul sopracciglio sinistro, penso alla piccola cappella con la croce di legno messa di traverso. Odore di terra…

 

 (C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Adam Mickiewicz

12 Mar

Adam Mickiewicz – due poesie del più grande poeta polacco nella versione di Paolo Statuti

 

Incertezza

Se non ti vedo – non soffro, non piango,

E non perdo i sensi, quando ti guardo;

Eppure, quando a lungo non ti vedo,

Qualcosa cerco, e di vederti chiedo

E, struggendosi, si domanda il cuore:

E’ l’amicizia, o non sarà l’amore?

Quando scompari, nemmeno una volta

Riesco a ricordare il tuo volto;

Eppure spesso, anche se non voglio,

Esso  è così vicino al mio ricordo;

E nuovamente si domanda il cuore:

E’ l’amicizia, o non sarà l’amore?

Spesso ho sofferto – e non ho mai pensato,

Che il mio dolore ti avrei riversato;

Senza meta, non badando alla strada,

Non so come raggiungo la tua casa;

Ed entrando, si domanda il cuore:

M’ha guidato l’amicizia – o l’amore?

Per la tua salute la vita darei,

Per la tua quiete all’inferno scenderei,

Benché non senta un desiderio audace,

Di essere per te salute e pace.

E nuovamente si domanda il cuore:

E’ l’amicizia, o non sarà l’amore?

Quando posi la tua mano sulla mia,

Mi avvolge una serena nostalgia,

Mi sembra di morir come in un sogno;

Ma impetuoso mi risveglia dal sonno,

E a voce alta si domanda il cuore:

E’ l’amicizia o è anche l’amore?

Quando per te ho scritto questo canto,

La musa del vate non m’era accanto;

Pieno di stupore non ho compreso,

Da dove i pensieri e le rime ho preso,

E alla fine ha domandato il mio cuore:

M’ha ispirato l’amicizia – o l’amore?

 

Al mio Cicerone a Roma

                                          Alla signora Henryka Ankwiczówna

Sul tuo monumento, mio Cicerone,

Un viandante, un’ignota persona,

Come segno d’essere stato a Roma,

Ha scritto illeggibile il suo nome.

Forse presto un’ondata veemente

Lo inghiottirà; o la sabbia silenziosa

Coprirà la sua vita e le vicende,

E mai di lui sapremo qualcosa…

Voglio indovinare cosa provava,

Quando in Italia, sul tuo libro aperto,

Quel nome come epigrafe lasciava,

Unica traccia del suo cammino incerto.

Forse dopo aver a lungo pensato,

Con la mano tremante lo ha inciso?

Oppure andandosene gli è sfuggito,

Come una lacrima nel commiato?

Mio Cicerone! d’un bimbo hai le gote,

Ma sulla fronte hai la saggezza antica;

Fra i templi di Roma e le sue porte,

Tu sei stato per me l’angelo guida.

Tu sai entrare nel cuore più duro;

Con un solo tuo sguardo turchino,

Leggi il passato, e forse anche il futuro

Tu puoi conoscere del pellegrino!…

 

(vedi anche in questo blog Due ballate di Adam Mickiewicz)

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

Tadeusz Rozewicz

7 Mar

Tadeusz  Różewicz

 

   Poeta, drammaturgo, novelliere e saggista, Tadeusz Różewicz – da qualcuno definito “specchio e sismografo della realtà contemporanea” – è senza dubbio il più illustre scrittore polacco della generazione cui la guerra tolse la prima giovinezza. E’ nato il 9 ottobre 1921 a Radomsko. Durante il periodo dell’occupazione si mantenne dando lezioni private e lavorando saltuariamente come operaio e corriere. Nel 1942 terminò la scuola clandestina per sottufficiali. Negli anni 1943-44 combatté nei reparti partigiani dell’Armata Nazionale.

   Il primo volume di poesie, uscito nel 1947,  è intitolato non a caso “Niepokój” (Inquietudine, 1947). E’ l’inquietudine dell’uomo scampato allo sterminio, che lotta affinché le atroci esperienze che ha vissuto non si ripetano più. Ancora più incisive, da questo punto di vista, sono le due successive raccolte “Czerwona rękawiczka” (Il guanto rosso, 1948) e “Pięć poematów” (Cinque poemi, 1950). Il poeta penetra sempre più profondamente nelle questioni che lo travagliano, e sempre più faticosamente cerca la salvezza nell’osservazione dei mutamenti che avvengono nel suo paese. L’inquietudine morale continuerà a tormentare il poeta anche nei poemi “Równina” (La pianura, 1954) e “Srebrny kłos” (La spiga d’argento, 1955), nonché nel successivo volume “Rozmowa z księciem” (Colloquio con il principe, 1960). Il moralista non può permettere alla sua coscienza di quietarsi davanti a un mite quadretto della natura o in un pacifico idillio. Różewicz risveglia incessantemente le coscienze, perché la coscienza inquieta determina la ricerca della verità, e la ricerca della verità porta alla ricerca del bello. Różewicz è concreto e misurato. Cerca di cogliere l’essenza di un fatto, di un fenomeno, mette a fuoco ciò che vede e ne evidenzia gli elementi essenziali.

   Negli anni ’50 lo scrittore, pur continuando ad esprimersi nella poesia, iniziò la sua attività di novelliere e di drammaturgo. Sono apparse così le sue raccolte di racconti “Opadły liście z drzew” (Sono cadute le foglie dagli alberi, 1955), “Przerwany egzamin” (L’esame interrotto, 1960), “Wycieczka do muzeum” (Gita al museo, 1966) e “Śmierć w starych dekoracjach” (Morte tra le vecchie scene, 1970). Caratteristica specifica delle novelle di Różewicz è l’ostinata ricerca dell’umanità in ogni frammento di vita. E’ una prosa incredibilmente condensata, dai molti sottotesti, che scava il realismo dalle vicissitudini umane. Lo scrittore diventa maestro di una nuova prosa, che si può definire realismo poetico. Spesso intreccia elementi occasionali, brandelli di conversazione, il balbettìo di un ubriaco, annunci, frammenti di trasmissioni radiofoniche e televisive, di giornali e di libri. Tutto gli serve come materiale da costruzione, tutto si amalgama nel crogiolo della sua arte.

   Altrettanto inquietante e originale come la poesia e la prosa, è la drammaturgia di Różewicz. Lo scrittore, giustamente definito un classico vivente, è sempre fedele a se stesso, alla sua visione del mondo, alle sue ossessioni e alla sua poetica. “Kartoteka” (Cartoteca, 1960), è il dramma di tanti uomini vissuti nel mondo della seconda metà del XX secolo, un mondo in cui lo scrittore scorge molti sintomi di caos e di crisi dei valori tradizionali.

   Nei suoi drammi Różewicz è riuscito magistralmente a “spiare” lo stile di vita di certi gruppi sociali, il cui obiettivo è soltanto l’arricchimento e le cui aspirazioni sono esclusivamente di natura consumistica. Ad esempio in “Akt przerywany” (Atto interrotto, 1970), bersaglio dello scrittore diventa il livellamento, l’appiattimento dei costumi, che riguarda non solo la sfera dei problemi quotidiani, ma si imprime anche nella psiche dell’uomo contemporaneo, impoverendone la vita interiore.

   Różewicz – drammaturgo ha creato una nuova forma teatrale, nella quale trovano posto la vita concreta, l’iperbole poetica, l’ironia e il grottesco. Il dramma “Pułapka” (La trappola, 1982), ritenuto da molti un capolavoro, è basato sulla figura di Franz Kafka. Vi si ritrovano fatti della vita di questo scrittore e alcuni echi dei suoi diari. Meditando su Kafka, Różewicz scrive anche di se stesso e un po’ anche di tutti noi, delle nostre paure, del destino dell’uomo – “animale immolato” del XX secolo, “intrappolato” dalla metafisica. La prima trappola di ogni essere umano è l’esistenza stessa. “Sono una trappola, il mio corpo è una trappola in cui sono caduto dopo la nascita”, dice Kafka nel dramma di Różewicz.

   Scrive il drammaturgo: “Cosa mi lega al teatro? Al teatro mi lega il desiderio di scrivere un dramma veramente realistico e al tempo stesso poetico. Non è una cosa facile, perché non so in cosa si differenzi il teatro poetico da quello realistico. Considero tutta la mia creazione come un’incessante polemica con il teatro contemporaneo e con le recensioni teatrali.

   Nel suo libro “Il teatro della comunità” il regista Kazimierz Braun scrive: “Dopo Wyspiański e Witkacy, dopo Gombrowicz e Mrożek, proprio Różewicz, a mio avviso, è il più autorevole drammaturgo del teatro polacco contemporaneo. Attualmente proprio lui traccia l’indirizzo delle ricerche più importanti”. E’ inutile dire che i drammi di Różewicz sono rappresentati sulle scene di tutto il mondo, inclusa  l’Italia.

   “Tanti anni sono dovuti passare, prima di riuscire a capire che lo scrittore poeta non ha il diritto di disprezzare, ma ha soltanto il diritto di amare” – ha scritto Różewicz nel volume di saggi “Przygotowanie do wieczoru autorskiego” (Preparazione a una serata d’autore, 1971), e forse in questa affermazione  risiede la verità sull’evoluzione di questo scrittore, la cui creazione ha sempre reagito vivacemente sia alle grandi crisi politiche del nostro tempo, sia a tutti i fenomeni della sfera esistenziale, culturale, di costume, attraverso i quali un umanista del rango di Różewicz non può passare indifferente. Giustamente ha detto Konrad Górski che “non si diventa umanisti per caso. La passione del conoscere in un umanista nasce da un’esigenza istintiva, per capire il senso della vita, per scorgere il legame tra l’enigma del mondo e il destino morale dell’uomo”. Queste parole si adattano alla perfezione a tutta l’opera di Tadeusz Różewicz.

   Da tanti anni mi occupo di letteratura polacca e conosco bene questo scrittore. Ma c’è una cosa che continua a stupirmi: che cioè non abbia ricevuto il Nobel per la Letteratura, al pari di Henryk Sienkiewicz (1905), Wladyslaw Reymont (1924), Czesław Miłosz (1980) e Wisława Szymborska 1996). In ogni caso ormai è troppo tardi, perché questa grande figura della letteratura polacca è scomparsa il 24 aprile del 2014.

                                                                                                         Paolo Statuti

Altre opere di Tadeusz Różewicz:

Poesia

“Czas, który idzie” (Il tempo che va, 1951)

“Wiersze i obrazy” (Versi e immagini, 1952)

“Nic w płaszczu Prospera” (Il nulla nel mantello di Prospero, 1962)

“Duszyczka” (Piccola anima, 1979)

“Płaskorzeźba” (Bassorilievo, 1991)

“Recycling” (Recycling, 1998)

“Nożyk profesora” (Il coltellino del professore, 2001)

Teatro

“Grupa Laokoona” (Il gruppo del Laocoonte, 1961)

“Śmieszny staruszek” (Il vecchietto ridicolo, 1965)

“Wyszedł z domu” (Se n’è andato di casa, 1965)

“Spaghetti i miecz” (Gli spaghetti e la spada, 1967)

“Przyrost naturalny” (Incremento demografico, 1968)

“Na czworakach” (Carponi, 1972)

„Białe małżeństwo” (Matrimonio bianco, 1974)

“Odejście Głodomora” (La partenza del morto di fame, 1976)

“Do piachu” (Morto e sepolto, 1979)

 

Poesie di Tadeusz Różewicz tradotte da Paolo Statuti

 

Sono nessuno

the dogs leap on Actaeon

Fu condotto

al luogo di pena

il 24 maggio 1945

alle ore quindici

Ich bin Niemand

Mein Name ist Niemand

lo riconobbi dagli occhiali

e dai peli sulla faccia

aveva allora 60 anni

portava una rozza uniforme

scarponi militari

cintura e lacci

si toglievano alle persone

rinchiuse in gabbia

nei giorni afosi

sfoggiava verdi-oliva

mutande e maglietta

le stecche della gabbia furono rinforzate

diceva che dalla pazzia

lo salvava un’antologia di liriche

che aveva trovato nella latrina

that from the gates of death,

that from the gates of death:

Whitman or Lovelace found

on the jo – house seat at that

in cheap edition!

Whitman liked oysters

stringo alleanza con te  

Walt Whitman

Ti ho detestato

troppo a lungo

vengo da Te

come bambino adulto

che aveva un caparbio

padre

sono Nessuno

conoscete Nessuno?

il poeta è una bestia

affogata nel mondo

per questo è così insicura

di fronte al mondo

und schritt im Käfig

auf und ab

ohne einen Blick

nach draussen zu werfen

 

poi lo lasciarono andare

nel serraglio

 

calcò nell’erba

un sentiero circolare

che non conduceva

all’abbeveratoio

 

il ballo dell’intelletto

tra le parole

 

trovò il manico

di una vecchia scopa

il manico si trasformò

nelle sue mani

in spada

racchetta da tennis

stecca da biliardo

bastone da passeggio

 

Interrogatorio

nel tribunale di stato

del distretto di Columbia

13 febbraio 1946

 

Mister Pound è qui

Voglia alzarsi e mostrarsi

Alla corte

Grazie

 

–  Qualcuno conosce Mister Pound?

–  Io lo conosco

–  La poesia che lei ha letto era buona?

–  Penso che quello che ho letto fosse in regola

–  Il fatto che avesse mania di grandezza

   e una buona opinione di sé

   è una cosa singolare, anormale?

–  Non nel caso di un poeta

–  Ed egli è uno dei più illustri

   poeti

–  Sì

–  Capisce egli di aver commesso un tradimento?

–  L’accusato ritiene di possedere la chiave

   della pace mondiale

   tramite la comprensione e la spiegazione di Confucio

–  Soffre di psicosi?

–  Sì. Penso che soffra di mania di grandezza

   e di mani di persecuzione…

   Entrambe tipiche degli stati

   Paranoici

 

Dalla cella della morte

fu trasferito

alla “Gorillakäfig”

 

il poeta è una bestia

affogata nel mondo

per questo è così insicura

di fronte al mondo

 

the dogs leap on Actaeon

stava nella gabbia

delle bestie feroci

di giorno

accucciato in un angolo della gabbia

di notte

nella luce dei riflettori

 

i guardiani tacevano

 

a volte un soldato passando

si fermava

osservava il curioso esemplare

poeta bestia traditore

“padre della letteratura contemporanea”

 

gettava nella gabbia

sigarette coccolata frutta

passava oltre

il vecchio bofonchiava

Usura usura usura

Rothschild Roosewelt Morgenthau

Usura usura usura

lodava le stragi hitleriane

il miglior fabbro

 

Ich bin Niemand

mein Name ist Niemand

 

the dogs leap on Actaeon

 

l’amore verso il prossimo lo praticavano Quelli

che respingevano la lettera della legge

 

sempre ho commesso soltanto errori

le parole per me non avevano più senso

risvegliato

mi stupisco

 

 – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

Elpenore come hai raggiunto questa buia riva?

Sei venuto a piedi? Precedendo i Naviganti?

Ed egli in risposta:

Triste sorte e molto vino. Dormivo nel focolare di Circe…

Uomo senza fortuna e senza nome.

 

CANTO DELLA GABBIA

 

Chi può    Kto może

non vuo’  nie chce

Chi vuo’   Kto chce

non può   nie może

Chi sa       Kto wie

non fa      nie czyni

Chi fa        Kto czyni

non sa fare    nie umie

e così la vita se ne va!

 

I sipari nei miei drammi

 

I sipari

nei miei drammi

non si alzano

e non calano

non coprono

e non mostrano

 

arrugginiscono

marciscono stridono

lacerano

 

il primo di ferro

il secondo di straccio

il terzo di carta

 

cadono

a pezzi

 

sulle teste

degli spettatori

degli attori

 

i sipari nei miei drammi

pendono

sulla scena

sulla platea

sul guardaroba

 

ancora dopo

la rappresentazione

si appiccicano alle gambe

frusciano

pigolano

 

1967

 

Il testimone

 

Tu sai che ci sono

ma non entrare all’improvviso

nella mia stanza

 

potresti vedermi

tacere

su un foglio bianco

 

E’ mai possibile scrivere

sull’amore

sentendo le grida

degli ammazzati e dei disonorati

è mai possibile scrivere

sulla morte

guardando le faccine

dei bambini

 

Non entrare all’improvviso

nella mia stanza

 

Vedrai un muto

e confuso

testimone dell’amore

l’amore vinto dalla morte

 

1952

 

 

Chi è poeta

 

poeta è colui che scrive versi

e colui che i versi non scrive

 

poeta è colui che si toglie le catene

e colui che le catene si mette

 

poeta è colui che crede

e colui che credere non può

 

poeta è colui che mentiva

e colui al quale hanno mentito

 

poeta è colui che mangiava dalla mano

e colui che mozzava le mani

 

poeta è colui che ha la bocca

e colui che ingoia la verità

 

poeta è colui che cadeva

e colui che si rialza

 

poeta è colui che va via

e colui che andar via non può

 

1962

 

 

 

Angolini

 

Autunno

le piogge dietro le finestre passano volando

le castagne si spaccano

saltellano

i ragazzi dalla scuola corrono

con un allegro grido

frantumano l’acqua

 

le cicogne sono volate via

soltanto un passero

col pelo rizzato nero

come un piccolo spazzacamino

aspetta le briciole

di pane del sole

 

la sera le nebbie si trascinano

per le strade

 

un uomo

va

sul globo terrestre

con la testa immersa

nell’universo

 

i ragazzini

non mettono nelle bottiglie

gli spinarelli argentati

e i neri girini

 

le ragazzine non intrecciano ghirlande

di calta palustre

e di azzurri nontiscordardimé

 

viene l’inverno

 

La spina

 

non credo

non credo dalla fine

all’inizio del sonno

 

non credo da una sponda all’altra

della mia vita

non credo in modo franco

profondo

come profondamente credeva

mia madre

 

non credo

mangiando il pane

bevendo l’acqua

amando il corpo

 

non credo

stando nei suoi templi

tra i suoi sacerdoti e segni

 

non credo stando sulla strada della città

in un campo sotto la pioggia

nell’aria

nell’oro di un annuncio

 

leggo le sue parabole

semplici come una spiga di grano

e penso al dio

che non rideva

 

penso a un piccolo

dio sanguinante

nei bianchi

pannolini dell’infanzia

 

alla spina che lacera

i nostri occhi la bocca

adesso

e nell’ora della morte

 

Le forme

 

Queste forme un tempo così ben disposte

docili sempre pronte a ricevere

la morta materia poetica

spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue

si sono spezzate e disperse

 

si gettano sul loro creatore

lo lacerano e trascinano

per lunghe strade

nelle quali un tempo sfilarono

tutte le orchestre le scuole le processioni

 

la carne che ancora respira

piena di sangue

è il nutrimento

delle forme perfette

 

convergono così ermeticamente sulla preda

che perfino il silenzio non filtra

all’esterno

 

dicembre 1956

 

Che bello

 

Che bello Posso cogliere

i mirtilli nel bosco

pensavo

non c’è il bosco né i mirtilli.

 

Che bello Posso sdraiarmi

all’ombra di un albero

pensavo  gli alberi

non danno più ombra.

 

Che bello Sono con te

il cuore batte così forte

pensavo  l’uomo

non ha il cuore.

 

1948

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Zbigniew Herbert

3 Mar

Un classicista del XX secolo

   Zbigniew Herbert, poeta, drammaturgo e saggista, nato il 29 ottobre 1924 a Lwów e morto a Varsavia il 28 luglio 1998, è senza dubbio uno dei più illustri protagonisti della storia della poesia polacca del dopoguerra, e uno dei più conosciuti e letti oltre i confini della Polonia. Ha ricevuto infatti importanti premi internazionali, tra cui ricordiamo: Nikolaus Lenau (1965), G. Herder (1973), Gerusalemme (1990), ed è stato tradotto in diverse lingue: tedesco, inglese, ceco, olandese, svedese, italiano a cura di Piero Marchesani.

   Debuttò nel 1956 con la raccolta “Corda di luce”, cui fecero seguito “Ermes, il cane e la stella” (1957), “Studio dell’oggetto” (1961),  “Epigrafe” (1969), “Il signor Cogito” (1974), “Rapporto dalla città assediata” e altri versi (1983), “Elegia per l’addio” (1990), “Rovigo” (1992) e “Epilogo della tempesta” (1998). E’ autore anche di drammi e di bellissimi saggi sull’arte, come ad esempio quelli raccolti nel volume “Un barbaro nel giardino” (1962), ambientato in Italia.

   La creazione di Herbert ha svolto un ruolo essenziale nel rinnovamento della poesia, alla ricerca di nuovi modi di descrivere la drammatica situazione dell’uomo moderno. Sensibile ai conflitti morali della nostra epoca, essa si serve spesso della metafora e della parabola, ricorrendo alla mitologia, alle opere d’arte, ai fenomeni naturali, ai personaggi storici e letterari dai valori simbolici. Abbina in sé il rispetto per la tradizione culturale europea con la modernità dei mezzi d’espressione, gli interessi filosofici con la semplicità poetica della lingua, l’etica e la problematica esistenziale con l’ironia e il senso dell’umorismo. Tra le sue opere più riuscite va annoverata senz’altro la raccolta “Il signor Cogito”, il cui protagonista vive i problemi fondamentali di questa poesia e viene presentato con un distacco moderatamente scherzoso, che elimina il patos e – paradossalmente – accresce il ruolo del messaggio morale contenuto in questi versi. Il carattere intellettuale della poesia di Herbert, la sua erudizione, i legami con la tradizione, nonché il genere specifico di tragicità e il senso della misura, hanno indotto una parte della critica ad inquadrarla nel neoclassicismo del XX secolo.

   Particolarmente interessante è il rapporto del poeta col mondo degli oggetti. Secondo Herbert, tutto possiede una qualche propria identità. Tutto è ricolmo di contenuto e di significato. Anche la materia, a suo modo, è imbevuta di spiritualità, ma in ogni caso essa è un mistero e costituisce una barriera al di là della quale l’uomo colloca il mondo delle proprie aspirazioni e dei propri desideri. Forse – dice il poeta – l’oggetto più bello è quello che non esiste. Esso non serve a niente, non si lascia verificare in modo fisico, e quindi non si può metterne a nudo l’imperfezione. E’ un concetto ideale e non soggiace né alla temporaneità, né alla distruzione.

   L’uomo deve conciliarsi col suo destino e con la missione che deve svolgere nella storia della creazione. Si tratta dell’ordine morale, del diritto naturale scritto negli strati più profondi della psiche umana; si tratta della sincerità e del coraggio di ammettere che si è soltanto uomini. E non è poco esserlo. Una simile tesi è racchiusa nella creazione di Zbigniew Herbert, spesso ardua, tagliente, ironica, piena di rigore interno, ponderosa nel suo appello racchiuso nelle ultime parole della poesia “Il sermone del signor Cogito”:

                                            Sii fedele va’.

 

 

 

Poesie di Zbigniew Herbert tradotte da Paolo Statuti

 

Il ritorno del proconsole

Ho deciso di tornare  alla corte di cesare

ancora una volta proverò se è possibile viverci

potrei restare qui nella remota provincia

sotto le foglie del sicomoro piene di dolcezza

e il mite governo dei malaticci nepoti

quando tornerò non intendo cercare meriti

offrirò una parca dose di applausi

sorriderò di un’oncia aggrotterò le ciglia con discrezione

non mi daranno per questo una catena d’oro

questa di ferro deve bastarmi

ho deciso di tornare domani o dopodomani

non posso vivere tra le vigne tutto qui non è mio

gli alberi sono senza radici le case senza fondamenta la pioggia

                                              è vetrosa i fiori odorano di cera

un’arida nube bussa sul cielo deserto

in ogni caso tornerò dunque tornerò domani dopodomani

bisognerà di nuovo intendersi con il volto

con il labbro inferiore perché sappia reprimere lo sdegno

con gli occhi perché siano idealmente vuoti

e con il povero mento lepre del mio volto

che trema quando entra il capitano delle guardie

di una cosa sono certo non berrò il vino con lui

quando accosterà la sua ciotola abbasserò gli occhi

e fingerò di estrarre dai denti le tracce del pasto

cesare del resto ama il coraggio civile

entro certi limiti entro certi ragionevoli limiti

in fondo è un uomo come tutti gli altri

e ne ha abbastanza dei trucchi col veleno

non può bere a sazietà incessanti scacchi

la coppa a sinistra per Druso nella destra bagnare le labbra

poi bere soltanto acqua non staccare gli occhi da Tacito

uscire in giardino e tornare quando già hanno portato via il corpo.

Ho deciso di tornare alla corte di cesare

spero proprio che in qualche modo ci intenderemo

 

Perché i classici

                                                     Ad  A. H.

1

Nel quarto libro della Guerra del Peloponneso

Tucidite racconta la storia della sua fallita spedizione

tra i lunghi discorsi dei condottieri

le battaglie gli assedi la peste

la fitta rete d’intrighi

di brighe diplomatiche

questo episodio è come un ago

in un bosco

la colonia ateniese di Amfipolis

cadde nelle mani di Brazydas

perché Tucidite tardò a soccorrerla

pagò per questo alla città natale

con l’esilio a vita

gli esuli di ogni tempo

sanno quale prezzo sia

 

2

i generali delle ultime guerre

se accade un impiccio simile

guaiscono in ginocchio davanti ai posteri

elogiano il proprio eroismo

e l’innocenza

incolpano i subalterni

i colleghi invidiosi

i venti sfavorevoli

Tucidite dice soltanto

che aveva sette navi

era inverno

e navigava velocemente

 

3

se tema di un dramma

sarà una brocca infranta

una piccola anima infranta

con una grande compassione di sé

ciò che resterà dopo di noi

sarà come il pianto degli amanti

in un lurido alberghetto

quando spunta la tappezzeria

 

Rapporto dal paradiso

In paradiso una settimana lavorativa dura trenta ore

gli stipendi sono più alti i prezzi calano sempre

il lavoro fisico non stanca (effetto di una minore gravitazione)

spaccare la legna è come scrivere a macchina

l’ordinamento sociale è stabile e il regime ragionevole

davvero in paradiso è meglio che in qualsiasi altro paese

All’inizio doveva essere diverso –

cerchi luminosi cori e gradi di astrattezza

ma non si è riusciti a separare completamente

il corpo dall’anima e veniva qui

con una goccia di grasso attraverso una fibra dei muscoli

è stato necessario trarre le conclusioni

mischiare il seme dell’assoluto con il seme dell’argilla

ancora un abbandono della dottrina l’ultimo abbandono

soltanto Giovanni l’aveva previsto: risorgerete con il corpo

Pochi guardano Dio

è solo per quelli di aria pura

gli altri ascoltano i comunicati sui miracoli e i diluvi

con il tempo tutti guarderanno Dio

quando ciò avverrà non lo sa nessuno

Per il momento il sabato  a mezzogiorno

le sirene muggiscono dolcemente

e dalle fabbriche escono azzurri proletari

sotto il braccio portano goffamente le ali come violini

 

Mamma

Pensavo:

non cambierà mai

sempre aspetterà

col suo abito bianco

e gli occhi azzurri

sulla soglia di tutte le porte

sempre sorriderà

mettendosi la collana

finché di colpo

il filo si spezzò

adesso le perle svernano

nelle fessure del pavimento

la mamma ama il caffè

la calda stufa

la quiete

siede

si sistema gli occhiali

sul naso affilato

legge una mia poesia

e con la testa grigia disapprova

colui che è caduto dalle sue ginocchia

serra la bocca tace

dunque un mesto colloquio

sotto la lampada fonte di dolcezza

o dolore non assopito

da quali pozzi egli beve

per quali strade cammina

figlio diverso dalle attese

l’ho nutrito con un latte benigno

l’inquietudine lo brucia

l’ho lavato nel caldo sangue

ha le mani fredde e ruvide

lontano dai tuoi occhi

trafitti dal cieco amore

è più facile subire la solitudine

 

tra una settimana

nella fredda stanza

con un nodo in gola

leggo la tua lettera

 

nella lettera

i caratteri sono staccati

come i cuori che amano

 

Il sermone del signor Cogito

 

Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta

cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio

 

va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati

tra spalle voltate e nella polvere abbattute

 

non per vivere ti sei salvato

hai poco tempo devi testimoniare

 

abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio

in fin dei conti questo solo è importante

 

e la tua Rabbia impotente sia come il mare

ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati

 

non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno

per le spie i boia e i vili – essi vinceranno

sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla

e il tarlo descriverà la tua vita allineata

e non perdonare invero non è in tuo potere

perdonare in nome di quelli traditi all’alba

 

ma guardati dall’inutile orgoglio

osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio

ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore

 

fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina

l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno

la luce sul muro il fulgore del cielo

 

ad essi non serve il tuo caldo respiro

sono solo per dirti: nessuno ti consolerà

 

bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’

finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella

 

ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende

raggiungerai così quel bene che non raggiungerai

 

ripeti solenni parole ripetile con tenacia

come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia

 

e ti premieranno per questo come altrimenti non possono

con la sferza della beffa con la morte nel letamaio

 

va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi

nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando

che difendono un regno sconfinato e città di ceneri

sii fedele va’

                 

 

 All’entrata della valle

 

Dopo la pioggia di stelle

Sul prato di ceneri

si raccolsero tutti sorvegliati dagli angeli

 

dall’altura scampata

l’occhio abbraccia

l’intero gregge belante dei bipedi

 

veramente non sono molti

contando anche quelli che verranno

dalle cronache dalle fiabe e dalle vite dei santi

 

ma tralasciamo queste considerazioni

spostiamoci con lo sguardo

nella gola della valle

da cui proviene un grido

 

dopo il sibilo delle esplosioni

dopo il sibilo del silenzio

quella voce suona come fonte di acqua viva

 

è come ci spiegano

il grido delle madri che vengono divise dai bambini

perché risulta

che saremo redenti separatamente

 

gli angeli guardiani sono inesorabili

e bisogna ammettere che svolgono un duro lavoro

 

lei prega

– nascondimi in un occhio

in una mano nelle braccia

siamo stati sempre insieme

non puoi abbandonarmi

adesso che sono morta e che ho bisogno di affetto

 

l’angelo anziano

sorridendo spiega il malinteso

 

una vecchia porta

la salma di un canarino

(tutti gli animali sono morti poco prima)

era così dolce – dice piangendo

capiva tutto

quando parlavo –

la sua voce si perde nello strepito generale

 

perfino il taglialegna

che è difficile sospettare di simili cose

vecchio tarchiato ingobbito

si preme l’ascia sul petto

– tutta la vita è stata mia

anche adesso sarà mia

mi manteneva là

mi manterrà qui

nessuno ha il diritto

– dice

non la consegnerò

 

quelli che a quanto pare

ubbidivano rassegnati agli ordini

vanno a testa bassa in segno di riconciliazione

ma stringono nei pugni

brandelli di lettere nastri capelli tagliati

e fotografie

che ingenuamente pensano

non verranno tolti loro

 

così appaiono

un momento

prima dell’ultima divisione

in quelli che digrignano i denti

e in quelli che cantano i salmi

 

Vorrei descrivere

Vorrei descrivere la più semplice emozione

la gioia o la tristezza

ma non come fanno gli altri

cercando un raggio di pioggia o di sole

 

vorrei  descrivere la luce

che nasce in me

ma so che essa non somiglia

a nessuna stella

perché non è così luminosa

né così limpida

e incerta

 

vorrei descrivere il coraggio

senza tirarmi dietro un leone impolverato

e anche l’inquietudine

senza urtare un bicchiere d’acqua

 

in altre parole

darò tutte le metafore

per una sola espressione

estratta dal petto come costola

per una sola parola

che rimanga nei confini della mia pelle

 

ma a quanto pare non è possibile

 

e per dire – amo

corro come un folle

cogliendo fasci di uccelli

e la mia tenerezza

che non è di acqua

chiede all’acqua un viso

 

e la rabbia diversa dal fuoco

prende in prestito da esso

una lingua loquace

 

così si mescola

così si mescola

in me

ciò che canuti signori

hanno diviso una volta per sempre

e hanno detto

questo è il soggetto

e questo è l’oggetto

 

ci addormentiamo

con una mano sotto la testa

e con l’altra in un cumulo di pianeti

 

e i piedi ci lasciano

e assaporano la terra

con piccole radici

che la mattina

strappiamo con dolore

 

Ipotesi su Barabba

Che ne è stato di Barabba? Ho chiesto nessuno lo sa

Liberato dalla catena si avviò sulla strada bianca

poteva voltare a destra andare dritto voltare a sinistra

fare una giravolta cantare con gioia come un gallo

Lui Imperatore delle proprie mani e della propria testa

Lui amministratore del proprio respiro

 

Chiedo perché in un certo senso presi parte alla questione

Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo

come gli altri libera Barabba Barabba

Gridavano tutti se solo io avessi taciuto

sarebbe successo esattamente come doveva succedere

 

E Barabba forse tornò alla sua banda

Sui monti uccide in fretta rapina ad arte

Oppure aprì una bottega di vasi

e le mani macchiate di delitti

purifica nell’argilla della creazione

E’ un acquaiolo un mulattiere un usuraio

proprietario di navi – su una di esse Paolo andò dai Corinzi

oppure – ciò che non si può escludere –

è diventato un’apprezzata spia al soldo dei Romani

 

Guardate e ammirate il vertiginoso gioco del destino

o potenze della possibilità o sorrisi della fortuna

 

E il Nazzareno

rimase solo

senza alternativa

col ripido

sentiero

di sangue

 

 

La gallina

 

La gallina illustra nel modo migliore dove porta la stretta

convivenza con la gente. Ha perso del tutto la leggerezza

e la grazia degli uccelli. La coda sporge sul prosperoso sedere,

come un cappello troppo grande e di cattivo gusto: I suoi

rari momenti di estasi, quando si regge su una sola zampa

e copre gli occhi rotondi con le palpebre-membrane, sono

decisamente disgustosi. E per giunta la sua parodia del canto,

le soffocate suppliche su una cosa indicibilmente buffa: l’uovo –

rotondo, bianco e imbrattato.

La gallina fa venire in mente alcuni poeti.

 

 

La traduzione poetica

 

Come il goffo calabrone

si è posato sul fiore

piegando l’esile gambo

s’introduce negli strati di petali

simili a pagine di un dizionario

tende al cuore

dove c’è l’aroma e la dolcezza

e benché abbia il raffreddore

e gli manchi il gusto

tende lo stesso

finché sbatte la testa

contro il giallo pistillo

 

e lì si ferma

è difficile attraverso

il calice dei fiori arrivare

alla radice

quindi il calabrone esce

fiero di sé

e squillante ronza:

sono giunto al cuore

 

e a quelli

che hanno qualche dubbio

mostra la punta del naso

coperta di polvere gialla

 

Il  signor Cogito pensa al ritorno nella città natale

 

Se tornassi là

senza dubbio non troverei

neanche un’ombra della mia casa

né gli alberi dell’infanzia

né la croce con la targa di ferro

la panca su cui sussurravo scongiuri

i castagni e il sangue

e nessuna cosa che è nostra

 

tutto ciò che si è salvato

è una lastra di pietra

con un cerchio di gesso

sto al centro

su una gamba

un attimo prima del salto

 

non posso crescere

benché passino gli anni

e in alto rombano

pianeti e guerre

 

sto al centro

immobile come un monumento

su una gamba

prima di saltare nella necessità estrema

 

il cerchio di gesso prende il colore

del sangue seccato

intorno crescono mucchi

di cenere

fino alle spalle

fino alla bocca

 

Che sarà

 

che sarà

quando le mani

si staccheranno dai versi

 

quando in altre montagne

berrò acqua asciutta

 

dovrebbe essere indifferente

ma non lo è

 

che ne sarà dei versi

quando se ne andrà il respiro

e sarà negata

la grazia della voce

 

lascerò il tavolo

e scenderò nella valle

dove echeggia

un nuovo ridere

presso una cupa selva?

 

Spine e rose

 

Sant’Ignazio

bianco e fervente passando

accanto alle rose

si gettava sull’arbusto ferendo il corpo

 

con la campana della nera tonaca

voleva coprire

la bellezza del mondo

che sprizzava dal suolo come da una ferita

 

mentre giaceva sul fondo

della culla di spine

vide

che il sangue grondante dalla fronte

si coagulava sulle ciglia

formando una rosa

 

e la cieca mano

che cercava le spine

restò trafitta

dal dolce tocco dei petali

 

piangeva il santo ingannato

tra lo scherno dei fiori

 

spine e rose

rose e spine

cerchiamo la felicità

 

Canto del tamburo

Sono scomparsi gli zufoli dei pastori

l’oro delle trombe domenicali

i verdi echi i corni

anche i violini sono scomparsi –

è rimasto soltanto il tamburo

e il tamburo ci suona ancora

la marcia festiva la marcia funebre

semplici sentimenti vanno a tempo

sulle rigide gambe il tamburino suona

e un solo pensiero una sola parola

quando il tamburo chiama il ripido abisso

portiamo spighe o la lapide

che il saggio tamburo si predirà

quando il passo batte sulla pelle dei selciati

quel passo altero che trasformerà il mondo

in un corteo e in un solo grido

finalmente va l’umanità intera

finalmente ognuno ha trovato il passo

la pelle di vitello due bacchette

hanno distrutto torri e solitudine

e il silenzio è calpestato

e la morte non fa paura quando è densa

la colonna di polvere sul corteo

si aprirà il mare obbediente

scenderemo giù nel baratro

nei vuoti inferni e più in alto

del cielo verifichiamo la falsità

e liberato dagli spaventi

in sabbia si muterà l’intero corteo

portato dal vento beffardo

e così l’ultima eco passerà

lungo l’indocile muffa della terra

resterà solo il tamburo il tamburo

dittatore di musiche disperse

 

1957

 

 

 

(C) by Paolo Statuti