La difesa dei valori umani
Jerzy Ficowski appartiene alla schiera dei maggiori poeti polacchi del secondo dopoguerra, e soprattutto di quelli più attentamente letti e seguiti dai lettori. Nato il 4 settembre 1924 a Varsavia, ancora giovanissimo prese parte attiva alla lotta contro l’occupante nazista. Combatté nei ranghi dell’Armia Krajowa, l’armata clandestina fedele al governo polacco in esilio a Londra, e sulle barricate durante l’insurrezione di Varsavia (agosto e settembre 1944).
Studiò filosofia e sociologia all’Università di Varsavia. Debuttò come poeta nell’anno 1946. Già il suo primo volume di poesie Soldatini di piombo (1948) gli attirò l’attenzione della critica letteraria. Divenne però famoso per le sue ricerche sulla vita degli zingari: Gli zingari polacchi, un volume di studi storici e sociologici che uscì presso la casa editrice statale PIW nel 1953, frutto del suo errare per molti mesi con un gruppo di zingari girovaghi. Conoscendo alla perfezione la loro lingua, egli riuscì a scoprire Papuša, una poetessa zingara analfabeta, e a tradurre e pubblicare le sue poesie in una edizione bilingue. Lottò per anni per i diritti di questo popolo e pubblicò in seguito vari libri dedicati al loro folklore, alla loro mitologia e ai costumi, diventando membro della Gipsy Lore Society d’Inghilterra. A tale proposito va ricordato che Ficowski è anche autore di una bella raccolta di fiabe zigane, tradotte in italiano da Paolo Statuti e stampate dalla casa editrice e/o nel 1985 con il titolo Il rametto dell’albero del sole.
Ottimo conoscitore della pittura moderna, pubblicò tra l’altro le Fiabe macovschiane, illustrate con disegni di Thaddée Makowski, noto pittore polacco-francese, e Lettera a Marc Chagall, libro tradotto in molte lingue e illustrato dallo stesso Chagall.
Alternando l’attività poetica con seri studi storico-letterari, Ficowski si è occupato anche dell’opera di Bruno Schulz, uno dei maggiori prosatori polacchi (Le botteghe color cannella, Il sanatorio all’insegna della clessidra), assassinato dai nazisti in una strada della natia Drohobycz durante la guerra. Fu Ficowski a divulgare le sue lettere e a scrivere la più acuta monografia di questo autore: Le regioni della grande eresia, 1967.
Con tutto ciò, Ficowski non ha disdegnato la cosiddetta poesia di largo consumo: fu infatti l’autore dei testi delle canzoni di maggior successo, fu anzi uno dei rinnovatori di questo genere letterario; cosa del resto non tanto rara nella Polonia contemporanea, dove i compositori e i cantanti più celebrati raggiungono la fama proprio cantando testi dei più grandi poeti classici e di quelli più recenti. Va ricordato a tale proposito, che neppure i poeti della generazione precedente (Tuwim, Hemar, Słonimski, Gałczyński) si rifiutarono di scrivere anche per la piazza o perfino per il cabaret. Ficowski ha però aggiunto una nota nuova al lavoro del paroliere: ha portato in questa materia tradizionale le conquiste della post-avanguardia poetica. Così, insieme con Agnieszka Osiecka, egli ha creato un diverso metro con cui valutare la canzone; dopo di loro è difficile in Polonia essere banali anche in questo campo.
Ficowski è sempre stato in prima fila tra gli scrittori impegnati nel senso più vero di questa parola, come tenace difensore degli oppressi e dei perseguitati. Negli anni della reazione gomulkiana e del regime di Gierek, prese parte al movimento della contestazione e, in consonanza con le migliori tradizioni della poesia polacca, intervenne spesso come poeta a difesa dei diritti umani e soprattutto del diritto alla libertà di parola. Di conseguenza, negli anni Settanta dovette pubblicare le proprie poesie presso case editrici “fuori censura”, cioè nel samizdat polacco, come noto assai attivo e diffuso. Così fu pubblicato anche il suo poema ormai famoso La lettura delle ceneri, dedicato alla memoria dei tre milioni di ebrei polacchi sterminati dai nazisti.
Ficowski con la sua inventiva e perseveranza, con la profonda conoscenza sia delle tradizioni letterarie, sia del vivo folklore, contribuì in modo straordinario ad uno dei più tipici fenomeni polacchi: far parte di coloro che fanno della poesia una cosa indispensabile ai Polacchi, al pari del loro pane quotidiano.
Jerzy Ficowski è morto a Varsavia il 9 maggio 2006.
Jerzy Pomianowski
Jerzy Ficowski tradotto da Paolo Statuti
Sette parole
“Mammina! Però sono stato buono!
E’ buio!”
(parole di un bambino rinchiuso
nella camera a gas a Bełżec nel 1942 –
Testimonianza di Rudolf Reder,
unico prigioniero scampato –
Bełżec 1946)
Tutto è stato sfruttato
tutti sono morti ma tutto rimane
un mucchio di capelli caduti dalle teste
per la fabbrica di materassi di Amburgo
denti d’oro strappati
sotto l’anestesia della morte
Tutto è stato sfruttato
è servita anche quella voce
contrabbandata fin qui sul fondo di qualche memoria
come calce non spenta con le lacrime
e a volte il lager si apre nel profondo
e scoppia da esso il buio perpetuo
come fermarlo
anche il lamento del bambino che fu che fu
benché la memoria impallidisca
non di orrore
ma perché impallidisce da trent’anni
E tacciono milioni di silenzi
trasformati in un numero di sette cifre
e grida grida un posto vuoto
Voi che non mi temete
perché sono piccolo e non ci sono più
non rinnegatemi
lasciatemi il ricordo di me
quelle parole post-ebraiche
quelle parole post-umane
solo quelle sette parole
Come guastare la festa ai cannibali
da lungo tempo medito
come guastare la festa
ai cannibali
attendere
che si arrostiscano
sotto l’aureo coperchio del sole
macché sono troppo immuni
dal proprio arrosto
non lasciarsi
mangiare
è un piano troppo magro
e poco realistico
dal momento
che sei già
sulle loro bocche
mangiarli
sarebbe
insipido
allora forse cominciare
a render loro gli uomini disgustosi
ma come sarebbe possibile
quindi restano
nelle loro comode giungle
con le fauci
piene di umanità
L’ora è maturata
E’ notte l’ora è maturata
uccideremo i morti
se per caso qualcosa è rimasta
la ridurremo al niente
se è rimasto un osso
non lo riconosceremo
se sono ascesi al cielo
manderemo alti uccelli
per ucciderli a beccate
se una loro parola un loro gesto
albergarono tra noi
azioneremo
i cattivi conduttori della memoria
se è rimasto di loro un segno
ne faremo il marchio di fabbrica
p es di un topicida
se hanno lasciato orfani
preverremo la separazione
in nome del vincolo familiare
perché i morti sono contagiosi
perché i morti sono troppo loquaci
perché i morti non hanno niente
a nostra discolpa
E’ notte l’ora è maturata
uccideremo i morti
non si possono lasciare
in preda all’eternità
Exodus 1947
C’era una volta una nave fiabesca,
l’ubriaco vascello di Rimbaud,
contrade di acque multicolori,
di cieli-pavoni, di lune succose
e il verde fluttuante delle maree,
soavi come una parola – atollo.
Piangevano i bambini un gabbiano
gettato con le conchiglie nella sabbia.
Oggi il fondo del mare non illumina
sotto i tremuli passi degli erranti –
con la forra gialla come ambra,
che si stende fra rupi scoscese
di acqua frusciante come cedro.
Alla Terra Promessa
lungo il fondo non ti condurrà Geova.
Chiazzato di spuma delle maree
attraverso le ciglia grevi di gocce
saluta da diciassette miglia
la terra strappata ai tuoi occhi
dai colpi dei vittoriosi fucili.
L’Exodus vaga per i mari,
il vascello che cerca la casa,
che alla notte li ha strappati
e fatti uscire dalla casa di schiavitù,
riconsegna i corpi dei morti
ai delfini, e lo sguardo ramingo
dei vivi – rimanda agli alcioni.
I gabbiani tornano ai nidi.
Lo sguardo di chi ha fame – greve per i torti.
Ed essi crescono. C’è la marea.
E percuote con l’onda cieca
i placidi sonni costieri
delle città satolle.
Ti narrerò una storia
ti narrerò una storia
prima che emerga purgata di noi
cioè della sabbia
discretamente conservata
come carcassa di plesiosauro
sotto il deserto del gobi
narrerò ancora una calda
dai forni di auschwitz
narrerò ancora una gelida
dalle nevi di kolyma
storia di sporche mani
storia di mani amputate
essa manca nei manuali
per non sporcare
le bianche macchie
sulla mappa del tempo e dei tempi
ti narrerò questa storia
mai scritta
che giunge di rado
alla esumazione dei sogni
come prova ho il silenzio
sforacchiato così a fondo
per questo parlo sottovoce
narrerò una storia
ma non ripeterla
La base della divisione
Aveva solo le parole
gli hanno piegato le parole
sul dorso
sparolato partecipò
alla divisione
equa come la mannaia
il manico per il boia
la lama per il condannato
Voleva chiedere
in base a che cosa
ma la base era
il ceppo per il collo
ormai avvezzo
già una volta
gli hanno troncato l’albero
“Vanno i carri colorati” (“Jadą wozy kolorowe” – parole di Jerzy Ficowski e musica di Stefan Rembowski) è una canzone di grande successo, interpretata dalla nota cantante Maryla Rodowicz e premiata nel 1970 dalla TV polacca al Festival della Canzone di Opole. Ho modificato leggermente il testo originale per adattarlo alla musica.
Vanno i carri colorati
Van di carri colorati lunghe schiere
vanno i carri colorati nelle sere
forse il vento predirà la loro sorte
dalle foglie che si posano contorte
prima che la vostra impronta sia sparita
raccontatemi gitani come da voi è
molto e poco abbiamo è la verità
rosso e verde lampi e l’oscurità
da noi è blu da noi è violetto
da noi è bello da noi è brutto
ma colori sempre in grande quantità
van di carri colorati lunghe schiere
oh! Potessi coi gitani rimanere
me ne andrei presso la musica sognando
quelle vecchie viole in estasi ascoltando
con il vento caldo cucirò le tele
che mi date per guarir la mia infelicità
molto e poco noi daremo in verità
rosso e verde lampi e oscurità
blu daremo col violetto
vi daremo bello e brutto
ma colori sempre in grande quantità
son partita allora al limite del mondo
con le trecce i venti fanno un girotondo
e del bosco picche e fiori raccoglievo
dove nascono le musiche correvo
con gli zingari in regioni nuvolose
e colori alla gente gratis oggi do
molto e poco prenderete in verità
rosso e verde lampi e oscurità
chi il blu vuole chi il violetto
chi le impronte del carretto
a colui che coi gitani partirà
a lui il blu od il violetto
a lui l’eco del carretto
a colui che coi gitani partirà
5 VIII 1942
Alla memoria di Janusz Korczak
Che faceva il Vecchio Dottore
sul carro bestiame
diretto a treblinka il 5 agosto
per qualche ora di circolazione sanguigna
lungo lo sporco fiume del tempo
non lo so
che faceva il Caronte volontario
traghettatore senza remo
donava forse ai bambini l’ultimo
respiro affannato
lasciando per sé
solo il gelo lungo la schiena
non lo so
mentiva loro forse
con piccole dosi
soporifere
o toglieva dalle testoline sudate
i timorosi pidocchi della paura
non lo so
ma per questo ma poi ma là
a treblinka
tutto il loro spavento tutto il pianto
erano contro di lui
ah ormai era solo questione
di minuti cioè della vita intera
era poco era tanto
io là non c’ero non lo so
vide il Vecchio Dottore a un tratto
che i bambini
erano invecchiati
come lui
erano sempre più vecchi
dovevano giungere alla canizie della cenere
dunque quando l’àscaro o l’esse-esse
colpì il Dottore
vide che egli
diventava bambino come quelli
sempre più piccolo
finché non nacque
allora insieme al Vecchio Dottore
è pieno di loro in nessun luogo
lo so
(C) by Paolo Statuti
Straziante, inconcepibile. Ottima iniziativa. Le poesie sono strardinariamente incisive. Questo Ficowski meriterebbe di essere conosciuto di più. Brvissimo Statuti d’averlo proposto, ricordato!