Archivio | novembre, 2016

Jan Brzechwa: Pulce Birbantella

11 Nov

 

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   Pulce Birbantella (Titolo originale: Pchła Szachrajka) di Jan Brzechwa (v. nel mio blog) è una favola in versi presente in Polonia nella biblioteca di ogni bambino, ma è letta con piacere anche dai grandi. Pulce Birbantella è una piccola elegantona. Oltre al fascino, possiede molti altri attributi utili per la sua vita avventurosa. E’ assai intelligente, furba e vivace, in grado di cavarsela in ogni situazione pericolosa e di trarre vantaggi dai suoi “scherzi”. Approfitta dell’ingenuità del prossimo, si spaccia per chi in realtà non è. Utilizzando queste “doti”, mette in atto le sue spericolate monellerie. L’autore, ispirandosi ai comportamenti umani negativi, ha creato una figura apparentemente amichevole, ma in realtà guastata e maliziosa. Alla fine Pulce viene scoperta e abbandonata da tutte le amiche, e finisce in prigione. Quindi paga per i suoi errori, ma al tempo stesso ciò le serve come lezione, e da Pulce sconsiderata qual era diventa coscienziosa e matura. Questa esilarante e saggia favola occupa un posto di primo piano tra i libri di Jan Brzechwa. Pochi come lui sanno mettere alla berlina i difetti umani, fornendo nel contempo molti saggi consigli. Questo testo, scritto nel 1946, è stato tradotto in molte lingue. Ecco la mia versione.

 

Pulce Birbantella

 

Tra le favole ecco quella

della Pulce Birbantella.

Sembra assurdo ma è avvenuto,

che qualcun così minuto,

per di più di nessun conto,

abbia fatto in questo mondo

tanti scherzi e birbonate,

che nemmeno immaginate.

 

Dimorava la Pulcetta

nella comoda casetta

di due piani con cantina

che già fu di sua cugina:

quattro stanze e un salottino,

c’era pure un bel giardino.

Niente al mondo le mancava

e la gente l’invidiava.

Un landò aveva ancora

e due pony la signora,

e una mucca americana,

una pecora australiana,

un cagnetto, un canguro

e due gatti grigio scuro.

Scarafaggi tutti insieme

in cucina a pance piene,

e alla Pulce un grillino

sviolinava il suo violino,

e così in quell’andazzo

la sua vita era un sollazzo.

Dice: “Al club voglio recarmi

e alle pulci trastullarmi”.

E vestita assai elegante,

sorridente e raggiante,

Pulce va con la carrozza

colorata gialla e rossa,

va con grande alacrità,

ha un gilè di taffettà,

di velluto gli scarpini,

ed i guanti porporini.

 

Ma il club è assai affollato,

farsi strada è complicato.

Birbantella grida allora:

“Fate largo a una signora!”.

Tra la folla premurosa ,

passa Pulce baldanzosa.

Giunta al tavolo si siede,

posa i soldi che possiede.

“Io tre soldi punterei…

sopra il verde” – dice lei.

E le pulci van su e giù,

quelle rosse e quelle blu,

una vince, un’altra perde.

“E io punto ancora verde!”.

 

Salterina, saltarella,

tra le pulci Birbantella

sceglie sempre il suo colore,

ed allora un signore

dice alzando la sua mano:

“Questo verde è molto strano!”.

Prima ancora che capisse,

lei si disse e si ridisse:

“Da qui è meglio scappar via

e tornare a casa mia”.

 

Da quel giorno la beffarda

da quel club stette alla larga,

e pensò dove poteva

fare ancor ciò che voleva:

“Sono Pulce, sono audace,

e farò ciò che mi piace!”.

E incontrò in quell’istante

un bellissimo elefante,

che felice sgambettava

e per poco  la schiacciava.

 

“Ciao, che cosa fai di bello?”.

Pulce gli agita l’ombrello:

“Sono Pulce e non tua zia,

chiedo un po’ di cortesia!”.

E lui replica così:

“Riverisco, sono Jombo,

e provengo da Colombo”.

 

Birbantella molto seria:

“E io sono di Madera,

ho una grande piantagione,

dove cresce il peperone,

dove cresce il pomodoro,

e ci pianto anche l’avorio,

cento tigri fan la guardia,

attenzione con chi parla!”.

 

L’elefante un po’ confuso

disse piano: “Oh, mi scuso!”.

E in ginocchio le confessò:

“Io ti sposo, e lo farò,

cerco proprio una così,

Oh, mia cara, dimmi di sì”.

 

E allora in risposta,

lei gli fece una proposta:

“La tua tromba è imponente,

ma la tromba solamente.

Se però vuoi, con piacere,

ti farò mio trombettiere”.

 

Tutti sanno che le pulci

alla larga stan dai dolci,

ma Pulcetta era assai ghiotta

dei cannoli alla ricotta,

molto amava le ciambelle,

marzapane e pastarelle,

il torrone, i confetti,

le crostate e gli amaretti.

La carrozza è già arrivata,

scende Pulce estasiata.

 

Nel negozio tutti quanti

la ricevono coi guanti,

ed aspettano già in posa

che lei ordini qualcosa.

“Dei cannoli, per favore,

con la crema e il liquore,

trenta penso basteranno,

di più, forse, non mi andranno!”.

Un cannolo solamente

mangia Pulce avidamente,

tutti gli altri restano lì.

“Uno solo pago, merci!”.

Ringraziato con sussiego,

le rispondon: “Prego, prego!”.

Esce e in fretta si allontana

la carrozza con la dama.

Son stupiti i camerieri

e si chiedon seri seri:

“Trenta paste ha ordinato,

e una sola l’è bastato?

Oh! – gli occhi hanno sbarrati –

Tutti quanti li ha svuotati!

Che imbrogliona, che impostora,

e fa pure la signora!”.

Per la rabbia al padrone

si bruciò un panettone,

e gridò: “Comprate svelti

un veleno per gli insetti,

se qui torna, spudorata,

farà ancora una mangiata!”.

 

Un bel dì fece una festa.

Tanti ospiti Pulcetta

invitò a casa sua:

quattro ragni, un cacatua,

una mosca e un grillino,

cinque bombi e un maggiolino,

tre formiche ed un lombrico,

una vespa con l’amico,

un moscone assai contento,

e iniziò il divertimento.

Una torta coi canditi

portan ora ben vestiti

due solenni scarafaggi,

con diversi beveraggi

in minuscoli ditali,

e ciambelle come occhiali.

Ad un tratto Pulce dice:

“Grazie a voi sono felice,

voi mi fate un grande onore

e perciò dal «Trovatore»

canterò in italiano

quattro arie per soprano.

Tutti gridano: “Evviva!

canta pure «Casta diva»!”.

 

Dalle labbra piccoline

escon note cristalline,

e si mettono in ascolto

nel silenzio più raccolto.

La sua voce era divina

e stringeva la manina

sul suo cuore rattristato,

tutti eran senza fiato

per la forte emozione,

ma finì l’esibizione.

“Ah, che voce! Ah, che incanto!”.

“Se volete, ancora canto”.

“Certo! Certo!” – e presto detto

attaccò dal «Rigoletto»

l’aria di Sparafucile.

Con che forza, con che stile,

E che basso, miei signori,

Birbantella tirò fuori.

“Meno male che finisce,

questa Pulce mi assordisce!” –

gridò il grillo spazientito.

Poi il fatto fu chiarito:

Non cantava la Pulcetta,

ma un grammofono a cassetta,

dove dentro era nascosta

una vespa facciatosta.

Messo aveva il «Rigoletto»

per errore o per dispetto.

Disse il grillo: “Io, in futuro,

qui non torno di sicuro!”.

 

A Pulcetta non piaceva

restar sola, perciò aveva

sette amiche molto belle,

eran giovani e snelle,

tutte ancora signorine,

come sette francesine

abbigliate ed eleganti,

alla moda pettinate,

con le calze satinate.

Ed insieme a carnevale

frequentavano le sale,

e con lor pettegolava.

Pulce a turno visitava

un’amica e criticava

con lei tutte le restanti.

Era noto a tutti quanti

che aveva un gran successo,

e – ciò avviene molto spesso –

le sue amiche eran gelose

e dicevano invidiose:

“Pulce  è un tipo molto strambo,

ma cos’ha che piace tanto?

Forse quelle sue moine,

quegli stecchi di gambine,

o gli azzurri cappellini

o i guanti porporini,

quel sorriso che lusinga,

i suoi scherzi, la sua lingua?”.

Questi erano i commenti

delle amiche coi parenti.

Ma da gente assai fidata

giunse a Pulce una soffiata.

Quale fu la sua reazione!

Bianco il viso e arancione,

la gambetta agitava,

e la casa traballava.

“Che sfacciate, che insolenti,

arroganti e prepotenti,

questa me la pagheranno,

molto presto, entro l’anno!”.

 

Ecco cosa escogitò:

alle amiche sue inviò

questo semplice biglietto:

“Giovedì cara ti aspetto,

Ti offrirò un buon caffè

con la panna oppure un tè”.

 

Alle amiche lo spedì

e le aspetta giovedì.

Già le vede arrivare

senza nulla sospettare,

tutte allegre ed eleganti,

una dietro e l’altra avanti.

 

Pulce corre loro incontro

col sorriso più giocondo:

“Che piacere che mi fate,

care amiche, prego entrate!”.

Tutte sembrano modelle,

risplendenti come stelle.

I vestiti di alta moda

e qualcuno con la coda.

Sono tutti di modiste

conosciute e brave artiste.

“C’è uno specchio, per chi vuole”

– dice Pulce alle signore.

Grida una: “Io mi guardo!”.

Ma per poco ha un infarto:

guarda guarda e le appare

una mucca con collare.

“Che vuol dire? Mamma mia!

Può venir l’apoplessia!”.

Corre un’altra più spedita,

ma rimane allibita.

“Anche io, che spavento,

una mucca ora mi sento!”.

Guardan tutte una ad una,

quella bionda e quella bruna,

e si dicono piangendo:

“E’ orrendo! E’ orrendo!

Questo è un altro suo dispetto,

è di Pulce uno scherzetto,

come può trattarci male

quell’ingrata, quella tale,

questa non la perdoniamo,

presto, presto, andiamo, andiamo!”.

 

Senza dir neppure ciao,

le fan tutte maramao.

 

Non sapevano spiegarsi

il perché di quel mutarsi,

il perché di quel testone,

ma ecco a voi la spiegazione:

lei lo specchio aveva tolto,

e poi senza pensar troppo,

una mica aveva messa

con la mucca dietro ad essa,

e ciascuna era d’avviso

di vedere il proprio viso.

 

 

In carrozza la Pulcetta

sembra una reginetta.

Mantellina sulle spalle,

gonnellina di percalle,

camicetta di batista,

una spilla di ametista.

Nel negozio entra e dice:

“Voglio un abito da attrice.

Penserei ad una seta

colorata e non consueta”.

E il commesso: “Glielo giuro,

qui la trova di sicuro,

guardi questa seta a fiori,

che finezza e che colori:

bianco, giallo paglierino,

verde chiaro, celestino,

o un azzurro, un lillà,

ciò che cerca troverà”.

Nel negozio Pulce allora

si fermò per qualche ora,

molte stoffe osservava,

le sceglieva, le scartava.

Disse infine: “Mi dispiace,

questa seta non mi piace,

chi lo sa, forse tra un anno,

i disegni cambieranno”.

Nel negozio nulla spese,

Ma era stata assai cortese,

e perciò fino al landò

il commesso l’accompagnò.

Riordinando i tessuti,

gridò: “Diavoli cornuti!

Questa seta era fiorita

e adesso è in tinta unita!”.

Pulce i fiori ha rubato,

e il commesso è disperato:

“Se la prendo, quella peste,

io la concio per le feste!”.

In carrozza la Pulcetta

sembra una reginetta.

Ecco arresta il carrozzino

proprio là dov’è il giardino.

In segreto tira fuori

tutti quanti quei bei fiori:

bianchi, gialli paglierini,

verdi chiari, celestini,

con gli azzurri e coi lillà,

pianta Pulce di qua e di là,

ciclamini e anche narcisi,

roselline ed elicrisi,

e – finito quel trapianto –

tutti esclamano: “Che incanto!”.

 

Come gli altri, anche tu sai,

che una donna quasi mai

compra e legge un giornale,

e per Pulce ciò pur vale.

 

Ma un dì – lo credereste?

Tra le piccole richieste,

legge che una certa Franca,

che abitava in viale Francia,

imparare vuol l’inglese.

E Pulcetta, è palese,

trama subito qualcosa,

e vestita color rosa,

di velluto gli scarpini

ed i guanti porporini,

va di corsa in viale Francia

a trovare quella Franca.

Con la sua parlantina,

somigliando a un’inglesina,

non sapendo cosa fare,

lei di nuovo vuol scherzare.

 

Suona dunque alla sua porta,

e le apre l’inquilina.

“Molto lieta, stamattina

ho veduto l’inserzione,

sono qui per la lezione”.

Dice Franca: “Prego, entri,

senza fare complimenti,

son felice, benvenuta,

lei dal cielo m’è piovuta!

Ho in America un parente

e l’inglese è occorrente,

se un bel giorno lui – chi lo sa?-

sua erede farmi vorrà.

Ho il quaderno e la matita,

dell’inglese son patita,

oggi è sabato e perciò

da lunedì comincerò”.

 

Pulce niente conosceva

dell’inglese e ripeteva

due parole imparate

e mai più dimenticate,

quando era una bambina,

dalla zia Giuseppina.

 

E iniziò così lo studio:

le parole Pulce detta

Franca scrive e le balbetta,

senza sosta Pulce inventa,

Franca ascolta ed è contenta:

tirli – tutto, pirli – niente,

tirlipirli – esattamente.

Fiki – campo, miki – vino,

fikimiki – contadino.

Limpa – ruota, pimpa – fretta,

pimpalimpa – bicicletta…”

Franca pronta e zelante

le trascrive tutte quante,

le ripete ogni sera,

Pulce è lieta e molto fiera.

 

Dice a Franca: “Complimenti!

Penso siano sufficienti

le lezioni che ha già prese,

la pronucia è in un mese

pari a quella del re inglese.

 

Solo un’altra settimana

durò ancora la panzana.

Franca a corso ormai finito,

tocca il cielo con un dito,

ma rimane piedi in terra,

come nata in Inghilterra.

Anche pulce è soddisfatta,

e in tal modo si accomiata:

“Sono fiera, cara Franca,

Pimpalimpa, Fikimanca!”.

 

Franca entra in un caffè,

dove tanta gente c’è,

perché è molto frequentato.

Dice: “Prego, un gelato!”.

Le sue amiche son curiose,

e per renderle invidiose

usa solo in inglese

le parole già apprese

dalla Pulce Birbantella.

Ora lei vuol farsi bella,

e risponde all’occasione

nella lingua di Albione.

 

Nel locale ad un tratto

ebbe luogo questo fatto,

molto strano veramente:

ogni pulce lì presente

salta lesta e si avvicina

dove siede l’”inglesina”.

Le sue amiche tutte quante

si disperdono all’istante.

 

E le pulci, è accertato,

si dividono il gelato.

Franca scappa atterrita

dalle pulci inseguita,

ma le saltan sul vestito,

sulle calze, sopra il viso,

sulle mani e sulla testa.

Di quel fatto così strano

poi svelarono l’arcano:

Pulce – è chiaro – non potendo

insegnare,  non sapendo

quella lingua complicata,

delle pulci la parlata

ha insegnato a Franca e quelle

si sentiron sue sorelle.

 

Pulce dopo lo scherzetto

si nascose in un boschetto,

si nascose e per un po’

alla casa non ritornò.

Era giunto il carnevale,

quando ogni scherzo vale.

“Tutti vogliono ballare,

quindi un ballo voglio dare  –

pensa Pulce – ma attenzione!

Lo darò dal calabrone”.

Mandò quindi questo invito:

“Cari sabato vi aspetto” –

sottoscritto dal suddetto.

Recitata la preghiera,

già dormiva quella sera,

perché era molto stanco,

Calabrone, proprio tanto.

E del sonno sul più bello,

suona allegra il campanello

una folla d’invitati,

tutti alquanto scalmanati.

Calabrone si sorprende,

un invito da uno prende:

“La mia firma è contraffatta” –

dice e aggiunge contrariato:

“Qui qualcuno vi ha ingannato!”.

Ma le dame eleganti

gli sorridono festanti.

Calabrone a malincuore,

li fa entrare con onore,

senza farsi più pregare.

Pulce vuole già ballare.

Veste l’ultimo modello

pieghettato e molto bello,

ha di seta le scarpette,

senza indugio già si mette

proprio al centro della stanza

e inizia la sua danza.

 

I signori son stupiti,

incantati e incuriositi.

Pregan tutti: “Dicci il nome,

dicci il nome, calabrone!

Ma lui tace, non risponde,

pensa solo e ne ha ben donde:

“Nel mio frigo non c’è niente

da offrire a questa gente,

potrei fare a palate

solo gnocchi di patate”.

Pulce or con eleganza

balla una contraddanza.

 

Piega e china la testina,

fa al suo partner una moina.

Le figure son perfette,

lievi come nuvolette.

Poi l’orchestra fa una sosta,

calabrone già si apposta,

vuole tendere un agguato

a chi l’ha così ingannato.

Ma Pulcetta furbacchiona

ha capito l’antifòna.

Gli altri vogliono ballare

ma lei pensa di scappare,

e lasciando quella festa,

salta via dalla finestra.

In carrozza è già al sicuro,

e facendo uno scongiuro

torna a casa e, presto detto,

poco dopo è già nel letto.

 

Ad un tratto a Pulcettina,

dalla sera alla mattina,

 

viene voglia di viaggiare,

e si mette in riva al mare.

Una nave presto arriva,

e Pulcetta persuasiva

dice a tutti i marinai:

“Ho una voglia grande assai

di girare il mondo intero,

di viaggiar con voi io spero”.

“Certo sì, cara signora,

sarà qui la sua dimora”.

E Pulcetta, senza ingaggio,

in un sabato di maggio,

incomincia il lungo viaggio.

Molto spesso si abbronzava

e i marosi ammirava.

Poi un giorno il comandante

gridò: “Terra a levante!”.

 

“Fermi qui, per cortesia,

della terra ho nostalgia” –

dice Pulce al capitano,

lui le fa il baciamano,

fa calare una barchetta,

si allontana già Pulcetta.

Un gabbiano l’accompagna.

 

Vede Pulce una campagna,

ed in mezzo un bel castello,

con davanti un gran cancello.

Dieci torri fan da cinta,

molte guardie con la grinta

si domandano chi sia

che cammina sulla via,

e a caval le vanno incontro

per poter rendersi conto.

Al castello è già scortata

e sarà interrogata.

Entra in una grande sala,

dove i paggi fanno ala.

Il suo cuore batte forte

in presenza della corte.

Candelabri e vetrate

e pareti colorate,

ed il re Bajbajo siede,

tambureggia con un piede,

ha un mantello di castoro,

e la sua corona d’oro.

 

Birbantella assai gentile

fa un inchino signorile:

“Principessa Biancoviso –

dice poi con un sorriso –

sono figlia del re Paja

del paese Patataja,

ho un palazzo d’oro e argento

e di servi un reggimento,

la mia flotta è ancorata,

numerosa e bene armata.

La mia stella ho seguito,

sono in cerca d’un marito”.

 

“Bene bene! – tutto gaio

le risponde Bajbajo –

a dicembre o a gennaio

questa dama io sposerò,

la mia idea non cambierò!”.

A Pulcetta si avvicina

e le bacia la manina.

Sull’attenti i cavalieri,

tutti accesi i candelieri,

le donzelle, i cortigiani,

tutti battono le mani.

Ed il re molto contento

proclamò il fidanzamento.

 

Proprio allora il cancelliere

grida: “Fatemi il piacere!

Sire illustre e preclaro,

io vi informo e vi dichiaro

che non è di nobil casta,

è una pulce – punto e basta!”

Si creò una confusione,

una grande agitazione

di gendarmi e cavalieri,

castellane e stallieri…

I ministri con spavento

non han più l’orientamento,

e il re con una lente:

“E’ una pulce! Veramente!

Prego darmi uno staffile

per punire questa vile!”.

 

Ma Pulcetta, è naturale,

non si lascia staffilare,

e in quattro e quattr’otto

scappa via veloce al trotto.

 

Bajbajo infuriato

corre e grida a perdifiato:

“Se ti prendo sei spacciata!”.

Ma la Pulce si è salvata.

 

Dopo un mese di emozioni,

tornò a casa balzelloni.

 

Per la Pasqua le sue uova

pitturava Pulce sola.

Anche i dolci preparava,

con il burro l’impastava,

ci metteva anche i canditi

e venivano squisiti.

Quando tutto era pronto,

accendeva anche il forno,

e i domestici più esperti

infornavan quelli e questi.

Due cuoche – Mira e Lina,

han versato la farina,

e lo zucchero a velo,

e con tutto il loro zelo,

e secondo la ricetta,

voglion mettere l’uvetta.

 

Cercan tanto ma non c’era,

Birbantella si dispera.

Era lì quella mattina.

Poi la chiede alla vicina –

niente – “Ahimé, come farò?

Senza uvetta non si può!”.

 

Dovrà andare fino in città,

chissà forse  la troverà.

Pulce ora è allo specchio,

si sistema in fretta ed ecco –

è già pronta per uscire

e l’uvetta reperire.

 

Non ce l’hanno in trattoria

e nemmeno in frutteria,

né al negozio coloniale,

c’è una jella più fatale?

“Mi dispace, son sprovvista” –

dice pur la farmacista.

Ed informa un pensionato:

“So che l’import è bloccato”.

 

Forse un’altra avrebbe ammesso:

“Senza uvetta fa lo stesso”.

Ma la Pulce è capricciosa,

è testarda e ingegnosa.

Guarda e vede – meno male –

un negozio musicale.

entra e chiede gentilmente

qualche pezzo divertente:

“Avrò ospiti importanti,

che sian brani non pesanti.

 

Che sia facile capire,

e ancor più da digerire”.

“Di spartiti ne abbiam tanti,

anche marce, anche canti,

e la nota serenata

«Alla pulce innamorata»…”

“Non saprei che cosa dire,

me la faccia un po’ sentire…

sì, d’accordo, prendo questa,

andrà bene per la festa…”

 

Giunta a casa Birbantella

prende svelta una scodella,

e le note dalla carta

con le forbici ritaglia.

Perché è cosa certa e vera

che la nota è tonda e nera.

 

 

La scodella è già piena,

corre Pulce di gran lena

in cucina e allegretta

dice: “Eccovi l’uvetta!”.

Ah, che torte prelibate,

Birbantella ha preparate,

smette solo a mezzanotte,

e le cuoche allegrotte,

ammirati quei portenti,

fanno tanti complimenti.

 

Bussan gli ospiti festanti,

Pulce accoglie tutti quanti

con calore e simpatia:

“Benvenuti a casa mia!”.

Poi a tavola li invita,

alla tavola imbandita.

 

Versa loro un po’ di vino,

a qualcuno anche un grappino.

“Spero il vino sia gradito,

ma il dolce è ben riuscito,

specie questo dove ho messo

tanta uvetta proprio adesso.

 

Su, mangiate e bevete

tutto quello che volete”.

Non si fecero pregare,

e poi presero a cantare,

soprattutto le budella,

e cantavano la bella

commovente serenata

«Alla pulce innamorata».

 

 

“Qui san tutti come sono,

non mi aspetto alcun perdono,

meglio allor cambiare aria,

me ne vado a Falconara!”.

 

E la Pulce, è presto detto,

le valigie dal palchetto

tira giù e le riempie

di vestiti e ovviamente,

mette i guanti porporini

e tre paia di scarpini.

 

La mattina di soppiatto,

forse erano le quattro,

fatta in fretta colazione,

corre dritta alla stazione.

 

Nella sala dell’attesa,

sorridente e distesa,

Pulce scarta un cremino

e lo mangia pian pianino.

Quando il treno arriverà

non si dice e non si sa.

Mangia ancora una focaccia,

ma del treno non c’è traccia.

 

Per di più la gente aumenta,

e la calca più non c’entra,

con valigie e fagottelli,

con bambini, cani e uccelli…

Ah che strazio, che calore,

son passate già tre ore!

Alla cassa c’è una fila –

saran forse almen duemila,

e per giunta – sorte amara –

vanno tutti a Falconara.

Pulce quasi soffocava,

poco spazio occupava,

e una ganba sola usava.

 

Giunta l’ora di cenare,

ecco il treno arrivare,

tutti corron come matti,

tutti saltan come gatti,

con valigie e fagottelli,

con bambini, cani e uccelli.

 

Nei vagoni numerati

tutti entrano sudati,

e chi è basso e chi è alto,

siede ognuno accanto all’altro,

e qualcuno sta perfino

sopra il tetto o il predellino,

e si vedono signori

anche sopra i repulsori.

 

Birbantella è piccoletta,

ma in tutta quella fretta,

quelle spinte e quel fermento,

trova il suo scompartimento.

Su un baule si è seduta

e si beve una spremuta.

 

Ma continua il pigia pigia,

Pulce in mano ha la valigia.

Pensa d’essere un’acciuga

e una lacrima si asciuga.

 

 

 

Finalmente il macchinista

è già pronto, quindi fischia,

il vapore è già nell’aria,

vanno tutti a Falconara.

 

Per i campi e le colline

corre il tren con le sardine,

soffia, sbuffa e corre presto,

ed intorno è buio pesto.

Nonostante quel calore,

più di un solo viaggiatore

dorme in piedi come mai.

Solo Pulce soffre assai,

e, ahimé, non può dormire,

è sul punto di svenire.

 

Ora il treno ha rallentato

e a Fabriano s’è fermato.

Pensa Pulce: “Adesso basta!”.

Benché piccola è rimasta,

ad un tratto a gridar prende,

imitando il conducente:

“Falco-nara! Falco-nara!

Senza fare una cagnara,

chi è arrivato scenda in fretta,

chi non scende in treno resta,

sosta breve, è risaputo,

ci fermiam solo un minuto!”.

 

E succede un putiferio

su e giù nel treno intero:

saltan pur dai finestrini,

con i gatti e i canarini.

Or nel treno tutto tace.

 

Pulce esclama: “Ah, che pace!”

E prosegue il suo cammino

tutta sola nel trenino.

Beve un tè, poi si distende,

soddisfatta pienamente.

E alla fine del tragitto –

“Falconara” vede scritto.

 

Tante volte, fortunata,

dagli scherzi si è salvata,

ma una volta le andò male –

uno scherzo fu fatale.

L’arrestò un caporale,

e così la Birbantella

si trovò in una cella.

Affluirono all’istante

le denunce da ogni parte.

Era il giudice turbato

ed assai meravigliato:

“Di reati, è un bel guaio,

ne ha commessi un centinaio!

Bel lavoro mi son scelto,

la salute ci rimetto,

ho già perso i miei capelli,

che eran neri, folti e belli!”.

 

E si reca alla prigione,

e domanda al piantone:

“Dov’è Pulce Birbantella?”.

“Vostro Onore, Pulce è quella”.

Pulce era spaventata.

Sorridendo impacciata,

lei gli tende la manina.

 

“Mi dispiace, signorina… –

dice il giudice tossendo –

io di lei mi sorprendo,

la dovrei condannare,

ma una chance le voglio dare,

Mah…beh…sì, cara figliola…

se mi dà la sua parola,

che da oggi la condotta

sarà saggia e incorrotta,

se promette che lo sarà,

la rimetto in libertà”.

 

“Vostro Onore, le prometto

che il mio comportamento,

fin da oggi e in futuro,

sarà onesto di sicuro”.

E con questa sua premessa,

onorò la sua promessa.

 

Quella volta non scherzava,

e adesso è così brava,

che la gente con trasporto

dice: “Pulce è un conforto!”.

Un bel giorno si sposò

con il principe Cocò.

Anch’io sono intervenuto,

e il Barolo ho bevuto.

Ebbe figli, oh! suppergiù

mille e forse anche di più,

certamente in ogni via

ha un cugino o una zia –

una casta infinita.

Ma la favola è finita.

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

(C) by Paolo Statuti