Archivio | luglio, 2014

Konstanty Ildefons Gałczyński (1905-1953)

28 Lug

Una bella poesia del poeta polacco Konstanty Ildefons Gałczyński, scritta un anno prima della morte, nella versione di Paolo Statuti

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La luna

Sul cerchio tracciato accuratamente
il mio meccanismo gira splendente;

ogni linea, ogni forma lambisco
con questo mio lucente meccanismo,

da questo – di notte l’ombra argentina
che sul mondo e sul volto cammina.

Mosse dalla mia molla enorme
scorrono le cose vive e quelle morte,

il colore, il nome, il peso, la forma
in fluido sonoro la notte trasforma,

si calma il vento e tace la civetta,
quando l’ora della luna s’appresta.

I ponti sfumano. Gli archi si allungano.
Le strade all’improvviso si fanno

inclinate. La vite canadese
si arrotola in figure curiose.

Sui parapetti e sopra i balconi
ogni raggio il suo rebus compone,

e quando l’oscurità spegne il raggio,
il rebus torna nel suo buio spazio,

là dove corre in una nube scura
libera dalle cifre l’architettura.

E di nuovo dal mare, da cupi fondi
emergono instabili contorni,

da ogni lato dalla luna intricati,
e dai raggi come forbici affilati;

una pietra geme, dice la sua pena,
si muta in un basso e poi in lampadina,

da lampadina in un volto e, per cambiare,
si muta poi in altra forma lunare,

in candeline, in mela rosata,
e in vento scuro in una scura strada.

Da parete a parete, lungo le strade,
la luce porta le sue linee spezzate;

vela una piazza e non si può andare oltre,
ruba le scale e le finestre sposta altrove,

la gente perde le chiavi, i cavalli –
le stanghe, danno l’allarme i campanelli –

e la luna piena scorre raggiante,
splendente filarmonica volante.

Allora la mia luce fa il suo ingresso
nei più segreti recessi del cervello,

nei toni tenui come vetri, nei torrenti,
nelle alture, nei colori e nei tempi,

negli occhi delle donne e degli uccelli,
in una candela verde, nei ramoscelli,

nell’edera che si arrampica lesta,
in tutto ciò che trascorre, che alletta,

che ruota con mutamento costante,
e io dico: buonanotte a tutti quanti.

Ma io chi sono? Un barlume soltanto,
e questo è il mio ultimo canto.

Cose care, cupe e brillanti lascerò,
buonanotte! Io presto mi spegnerò.

La mia luce come musica svanisce,
questo raggio rimanga. Io sparisco.

Ma prima di sparire – perché ricordiate –
il mio ultimo concerto ascoltate;

direttamente dal cielo, oltre i vetri, io
inargentato prenderò il leggio,

quattro valzer sonerò in sordina, quali
escono da corde immortali,
sotto una cupola alta e oscura –

e sarà soltanto un lungo turbinare,
soltanto un appassire e sbocciare,
tempo danzante, le quattro stagioni.

Neve e vuoto, frutto e passione,
nomi di stelle e ombre senza nome,
e deserto, e verde femminile,

e il chiasso nel cuore, e la stella sull’abete –
tutto gira nella ruota che vedete,
e i raggi in questa ruota io rischiaro.

Queste sono le mie faccende lunari,
assai difficili, benché secolari.

Vedi? nel vetro una testa d’argento?
Sono io, il plenilunio-concerto.

Appeso a questo vetro sorridendo,
brillo per te nelle notti senza vento,

nelle tue lettere confondo le parole,
con pioggia argentea bagno le tue chiome

e una notte di settembre sognerai
che un rametto di pioggia toccherai –

e i tuoi occhi come due piccole stelle,
brillano in due gioie, in due fiammelle.

Poi, dispensatore di luce diversa,
con la luce mi avvicino alla tua coperta;

brillando come lanterna, come luce di notte,
sulla tua coltre ricamerò le note,

le nuvole, le stelle, le vie stellari,
tutti gli uccelli, le torri medioevali.

E tu, argentea, dormi col tuo argenteo volto,
ed è notte, e ai sogni tutto è rivolto.

Quando me ne andrò, non piangere, o diletta –
tornerò come luna alla tua finestra.

Quando sul vetro un raggio scintillerà,
sarò io. La tua luna. Il cuore della notte
con te sarà.

1952

(C) by Paolo Statuti

Sergej Esenin (1895-1925)

20 Lug
Ritratto di Sergej Esenin eseguito da Jurij Annenkov (1889-1974)

Ritratto di Sergej Esenin eseguito da Jurij Annenkov (1889-1974)

Un uomo nero, nero, nero, un uomo nero si siede sul mio letto, un uomo nero che non mi fa dormire…Appare un uomo nero in Puškin, l’uomo nero che commissiona a Mozart il Requiem e poi scompare; una figura inquietante che già Ripellino suggeriva di accostare ai macabri sosia di Blok, inconsolabile fidanzato di Lillà, e a Esenin, teppista col cervello spogliato dall’alcool, come un boschetto spogliato a settembre. L’uomo nero è sempre un ospite sgradito.
Negli ultimi due anni della sua vita Sergej Esenin vive negli eccessi, spesso ubriaco; ma in questo periodo di disperazione personale egli creò alcune delle sue poesie più belle e note, tra le quali troviamo appunto il poema L’uomo nero, considerato una peculiare confessione del poeta, l’apice delle vicissitudini di un uomo che conosce la solitudine e il vuoto, il punto estremo della tragica parabola di Esenin. In questo poema autocommiserazione e angoscia balenano per l’ultima volta in un ubriaco delirio in cui si muove funereo e funesto il sosia-nemico del poeta.

L’uomo nero tradotto da Paolo Statuti

L’uomo nero

Amico mio, amico mio,
Sono molto molto malato.
Io non so perché questo tormento.
Forse è il vento che fischia
Sul campo vuoto e desolato,
O a settembre spoglia un boschetto,
Come l’alcool spoglia il cervello?

La mia testa agita le orecchie,
Come un uccello le ali.
Sul collo della notte
Non può più apparire.
Un uomo nero,
Nero, nero,
Un uomo nero
Si siede sul mio letto,
Un uomo nero
Che non mi fa dormire.

L’uomo nero
Scorre col dito un libro ripugnante
E, con voce nasale su di me,
Come un monaco con un morto,
Mi legge la vita
Di un furfante cialtrone,
E il cuore colma di paura e sconforto.
L’uomo nero
Nero, nero!

«Ascolta, ascolta –
Mi mormora ora –
Il libro è pieno di stupendi
Pensieri e piani.
Quest’uomo viveva in un paese
Di spaventosi
Banditi e ciarlatani.

A dicembre in quel paese
La neve è dannatamente pura,
E le bufere muovono
Allegri filatoi.
Quell’uomo era un avventuriero,
Ma della migliore specie
Che incontrare tu puoi.

Era brillante,
E per giunta poeta,
Con una forza non grande,
Ma pronta e animata,
E una certa donna
Di quarant’anni e più
Lui chiamava ragazzaccia
E mia cara amata.

La felicità – egli diceva –
E’ la prontezza della mente e delle mani.
Tutte le anime incapaci
Sono nate come già infelici.
Non fa niente
Che tante pene
Derivino da gesti
Spezzati e mendaci.

Nelle tempeste, nelle bufere,
Nel freddo quotidiano,
Nelle perdite gravi
E quando sei triste,
Sembrare semplice e sorridente –
E’ l’arte più grande che esiste».

«Uomo nero!
Non osare questo!
Non sei uno che esplora
Le profondità altrui.
Non m’interessa la vita
Di un poeta scandaloso.
Ti prego, leggi ad altri
Questa storia».

L’uomo nero
Mi guarda insistente,
E i suoi occhi si velano
Di vomito bluastro –
Quasi volesse dirmi:
Sei un ladro impudente
Che in modo arrogante
Ha derubato qualcuno.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Amico mio, amico mio,
Sono molto molto malato.
Io non so perché questo tormento.
Forse è il vento che fischia
Sul campo vuoto e desolato,
O che a settembre spoglia un boschetto,
Come l’alcool spoglia il cervello?

Gelida notte.
All’incrocio silenzio e pace.
Sto solo alla finestra,
Ospiti o amici io non aspetto.
La pianura è coperta
Di calce friabile e soffice,
E gli alberi, come cavalieri,
Son riuniti nel nostro boschetto.

Chissà dove un uccello notturno
Piange funesto.
I cavalieri di legno
Spargono il battito degli zoccoli.
Ed ecco la figura nera
Si siede sulla mia poltrona,
Togliendosi il cilindro
E aggiustandosi la finanziera.

«Ascolta, ascolta! –
Gracchia, guardandomi in volto,
E chinandosi
Sempre più vicino –
Non ho mai visto
Un farabutto come te
Soffrire d’insonnia
In modo così inutile e stolto.

Ah, forse sono in errore!
C’è la luna stanotte.
Cos’altro serve
Al tuo piccolo mondo di sonno?
Forse «lei» verrà di nascosto
Con le sue grasse cosce,
E tu le leggerai
I tuoi languidi putridi versi?

Oh, io amo i poeti!
Gente spassosa.
In loro io trovo sempre
Una storia nota al cuore –
Come un mostro capelluto,
A una studentessa pustolosa
Parla di mondi,
Grondando sessuale languore.

Non so, non ricordo,
In quale contrada,
Forse a Kaluga,
O forse a Rjazan’,
Viveva un bambino
Di semplice famiglia contadina,
Con gli occhi azzurri
E la testa dorata…

E diventò adulto,
E per giunta poeta,
Con una forza non grande,
Ma pronta e animata,
E una certa donna
Di quarant’anni e più
Chiamava ragazzaccia
E mia cara amata».

«Uomo nero!
Ospite sgradito!
La tua fama
Da tempo s’è sparsa».
Sono arrabbiato, infuriato,
E vola il mio bastone
Dritto dritto
Sul suo naso…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

…La luna è morta,
L’alba si fa azzurra alla finestra.
Ah, notte!
O notte, cos’hai distrutto?
Sto col cilindro in testa,
Con me non c’è nessuno.
Sono solo…
E lo specchio è rotto…

14 novembre 1925

(C) by Paolo Statuti

Emily Elizabeth Dickinson (1830-1886)

18 Lug
Emily Dickinson

Emily Dickinson

Tre poesie sulla Natura tradotte da Paolo Statuti

C’è un altro cielo…
C’è un altro cielo,
Sempre bello e sereno,
E là il sole ha una diversa luce,
Per quanto possa essere buio;
Lascia che i boschi si secchino, Austin,
Lascia che i campi tacciano –
Qui c’è un piccolo bosco,
E le sue foglie sono sempre verdi;
Qui c’è un giardino più luminoso,
Dove non c’è mai la brina;
Nei suoi fiori sempre freschi
Io sento chiaro il ronzio dell’ape:
Ti prego, fratello caro,
Vieni nel mio giardino!

“Natura” è ciò che vediamo…

“Natura” è ciò che vediamo –
La collina – il meriggio –
Lo scoiattolo – l’eclissi – il calabrone –
Ma no – la natura è il cielo –

Natura è ciò che sentiamo –
L’uccellino – il mare –
Il tuono – il grillo –
Ma no – la natura è l’armonia –

Natura è ciò che conosciamo –
Ma non possiamo esprimere –
La nostra saggezza è impotente
Di fronte alla sua semplicità.

C’è una luce in primavera…

C’è una luce in primavera
Non presente nell’anno
In nessun altro momento –
Quando marzo giunge con affanno

Sopra i campi solitari
Un colore si distende
Che la scienza non può intendere
Ma la natura umana sente.

Si attarda sopra il prato,
Mostra l’albero più lontano
Sopra il più lontano pendio
Quasi ti parla pian piano.

Poi quando gli orizzonti si muovono
O i meriggi si allontanano
Senza la formula del suono
Esso ci lascia e noi restiamo –

Una qualità della perdita
Turba l’animo contento
Come un improvviso commercio
Contamina un sacramento.

(C) by Paolo Statuti

Robert Frost (1874-1963) – 5 poesie tradotte da Paolo Statuti

17 Lug
Robert Frost

Robert Frost

Presento oggi ai miei lettori cinque poesie di Robert Frost nella mia versione.

La strada non presa

Due strade a un bivio in un bosco ingiallito,

Peccato non percorrerle entrambe,

Ma un solo viaggiatore non può farlo,

Guardai dunque una di esse indeciso,

Finché non si nascose al mio sguardo;

E presi l’altra, era buona anch’essa,

Anzi forse con qualche ragione in più,

Perché era erbosa e quindi più verde,

Benché il passaggio suppergiù

Le avesse segnate ugualmente,

E ambedue quella mattina eran distese

Nelle foglie che nessun passo aveva marcato.

Oh, prenderò la prima un’altra volta!

Ma pur sapendo che strada porta a strada,

Non credevo che sarei mai ritornato.

Dirò questo con un lungo sospiro

Chissà dove e fra tanti anni a venire:

Due strade a un bivio in un bosco, ed io –

Presi quella meno frequentata,

E da ciò tutta la differenza è nata.

1920

Fuoco e ghiaccio

C’è chi dice che il mondo finirà bruciato,

E chi dice che finirà nel ghiacciare.

Per quanto in vita ho desiderato

Direi anch’io che sarà bruciato.

Ma se due volte dovesse finire,

Conosco abbastanza il rancore

Per poter anche dire

Che al fuoco il ghiaccio non è inferiore,

E per distruggere il mondo può bastare.

L’uccello fornaio

 

C’è un cantante che tutti hanno udito,

Nel bosco in piena estate il suo grido

Perfino i tronchi fa di nuovo risonare.

Dice che il fogliame è vecchio, che in estate

I fiori sono assai meno che in primavera.

Dice che i primi petali sono già caduti

Quando i fiori la pioggia ha battuti

Nei giorni di sole per un attimo velati;

E viene l’altra caduta che autunno han chiamato.

Dice che dalle strade tanta polvere s’è formata.

L’uccello tacerebbe come gli altri uccelli

Se non fosse che nel canto sa di non cantare.

La domanda che egli pone in tutto tranne le parole

E’ che fare di ciò che viene a scemare.

Ho conosciuto la notte

 

Io sono uno che la notte ha conosciuto.

Sono uscito e tornato col temporale.

Ho superato il lampione più sperduto.

Ho visto il vicolo più triste della capitale.

Ho incrociato la guardia notturna armata

E ho abbassato gli occhi, riluttante a spiegare.

La cadenza dei miei passi s’è fermata

Quando da lontano un grido improvviso

E’ giunto dalle case di un’altra strada,

Ma non per chiamarmi o per avviso;

E quasi ultraterreno e più distante

Sullo sfondo del cielo un orologio brillante

Ha dichiarato: “Il tempo non è errato né giusto”.

Io sono uno che la notte ha conosciuto.

Orazione di primavera

 

Oh, dacci oggi il piacere nei fiori;

Distoglici da ciò che non è d’ora

Come l’incerto raccolto; lasciaci qua

Nel tempo in cui l’anno rifiorirà.

Oh, dacci il piacere di un bianco orto,

Che di notte come spettro è scorto;

E rendici felici nei felici insetti,

Nel loro sciame tra gli alberi perfetti.

Dacci la gioia dell’uccello che si lancia

Improvviso sopra le api e canta,

Penetra col becco-ago come cometa,

E fuori di un fiore nell’aria si acquieta.

Perché questo è l’amore e nient’altro,

Quello riservato a Dio lassù in alto

Per santificare anche il più lontano,

E ha bisogno solo che lo realizziamo.

(C) by Paolo Statuti

Un poeta grottesco e beffardo: K.I. Galczynski

14 Lug
Konstanty Ildefons Galczynski

Konstanty Ildefons Galczynski

Konstanty Ildefons Gałczyński nacque nella modesta famiglia di un ferroviere nell’anno 1905. Studiò filologia classica e inglese nella Polonia ormai libera e riunificata. Debuttò già nell’anno 1922, ma la prima opera che lo rese famoso fu una dissertazione universitaria, dedicata a un certo poeta inglese della Restaurazione, illustrata con una scelta di poesie di questo poeta nella traduzione polacca. Ben presto si scoprì che il poeta non era mai esistito, e che tutti i dati e i poemi erano stati inventati dallo studente Gałczynski. Era ubriaco di fantasia, ed è forse vero che il suo secondo strano nome, Ildefons, se lo sia dato lui stesso. La sua fantasia era apocalittica e insieme grottesca; le immagini che creava erano vicine ai quadri di Hieronymus Bosch. Ciò appare evidente specie nelle sue poesie della serie “catastrofica”, come anche nelle “Profezie” – piene di garbo e di follia, o nel poema meritatamente famoso – “La fine del mondo”. Esse riassumono e rappresentano i tratti più salienti della poesia di Gałczyński, ma forniscono soprattutto la misura del suo umorismo.
Ed ecco la seconda e forse più rilevante prova dell’originalità di questa poesia. Gałczyński è irresistibilmente spiritoso. Le sue grottesche e vulcaniche visioni, considerazioni e battute sono tutte piene di una grazia inconfondibilmente poetica. In modo molto evidente esse illustrano la parentela costruttiva tra una metafora poetica ed una riuscita battuta umoristica. Gałczyński era un satirico dotato di una mira infallibile. Fu lui che innestò la tecnica del surrealismo nella satira polacca. Basti leggere poesie come: “Un cavallo in platea”, o il ciclo delle esilaranti scenette teatrali “Il teatrino dell’oca verde”.
Queste particolarità lo legano alla importante e più autorevole corrente d’avanguardia nella prosa e drammaturgia polacca. I suoi rappresentanti più noti sono: Stanisław Ignacy Witkiewicz e Witold Gombrowicz. L’ironia è l’effettivo substrato delle loro opere, peraltro così diverse. Essi adoperarono la beffa come ancora di salvezza della loro dignità, nell’imminenza della catastrofe, e con la coscienza dell’assurdità della vita.
Gałczyński invece cercò la salvezza anche nella solidarietà con l’uomo della strada. La sua felice maniera stilistica e la popolarità delle sue poesie, già grande prima della guerra, lo spinsero verso un certo qualunquismo. Egli ruppe con la lingua curata e con la tradizione intellettuale nella poesia, e fu quindi naturale che schernisse coerentemente l’intellighentzia, portatrice di queste tradizioni. Egli divenne così oggetto di tentazioni da parte della destra nazionale polacca, nemica, come tutte le destre, dell’intellighentzia, delle discussioni e dei ragionamenti. Per un breve periodo, fino al termine degli anni trenta, questa corrente affascinò Gałczyński col suo dinamismo artificioso, con lo scherno dell’apparente logorio delle tradizioni democratiche della classe intellettuale, ma particolarmente con l’adesione della gioventù. L’aspirazione ossessiva di Gałczyński fu il legame stretto coi lettori. Egli faceva tutto senza alcun cinismo e sempre con la maestria di un “buon artigiano”, come lui stesso amava definirsi.
Sopraggiunse la guerra. Nel 1939 la Polonia venne assalita e distrutta proprio da quelli che erano serviti da esempio alla destra. Gałczyński che era soldato semplice, finì in un campo di prigionia di rigore. Proprio lì, nell’Altengrabow, nacquero le commoventi poesie alla moglie adorata Natalia e le liriche che mezza Polonia ricopiava e diffondeva clandestinamente. A cinque anni dalla liberazione, egli tornò nella patria socialista e approfittò di una delle reali possibilità sorte col cambiamento di regime: al posto del popolino, poteva avere ora il popolo stesso come interlocutore. Così almeno egli sperava. Le sue poesie, infatti, acquistarono una risonanza assai ampia, sebbene ancora non generale. Malgrado le limitazioni tematiche imposte e il crescente oscuramento dell’atmosfera sociale in quegli anni, Gałczyński riuscì a pubblicare, una dopo l’altra, diverse raccolte di poesie, come: “La carrozza incantata” e “Le vere”, i poemi “Niobe” e “Wit Stwosz”, le commedie “La notte dei miracoli” e “Il ballo degli innamorati”, un nuovo divertentissimo libretto per l’”Orfeo all’inferno”. Scrisse inoltre testi di canzoni popolari, un ciclo di spassosi feuilleton: “Le lettere pazzarelle”, e tradusse Shakespeare. Venne lasciata ai poeti la terra appena sufficiente per un vaso, ma Gałczyński riuscì a cavarne un intero giardino pubblico.
Morì colpito da infarto il 6 dicembre 1953, proprio quando cominciavano a soffiare le prime attese ventate del disgelo nell’atmosfera politica del paese. Di solito, un poeta che muore celebre viene ben presto dimenticato, e bisogna attendere molti anni per la rinascita della sua fama. Gałczyński è uno dei pochissimi scrittori la cui popolarità non solo continua, ma cominciò a crescere subito dopo la morte e, nel suo caso, occorre aggiungere, a crescere con la forza di una valanga.
Grazie a Paolo Statuti, sono state tradotte in italiano alcune opere tra le più amate nella patria del poeta, e va sottolineato che la versione è tale da far capire le bellezze tipiche e le componenti melodiche dello stile di Głaczyński. Chi scrive è stato amico e ammiratore del poeta, ed ha un solo desiderio: che anche i lettori italiani si rendano conto del perché la sua poesia ha ridato a noi polacchi la fiducia nel significato e nella serietà della bella arte dello scrivere.
Jerzy Pomianowski

Konstanty Ildefons Gałczyński tradotto da Paolo Statuti

VISIONI DI SAN ILDEFONS
ovvero
S A T I R A S U L L ‘ U N I V E R S O
LA FINE DEL MONDO
Al mio Amico S.E. SIGNOR TADEUSZ KUBALSKI
come anche alla memoria delle mie zie buon’anime:
Pitonessa, Ramona, Ortoepia, Leonora, Eurasia, Titina,
Ataracsia, Repubblica, Ierusalem, Antropozooteratologia,
Trampolina, Ortodossia – rapite nel fiore degli anni da una
tromba d’aria nelle vie di Bologna
dedica l’inconsolabile
AUTORE
Apparebit repentina
Dies Magna Domini
Fur obscura velut nocte
Improvisos occupans…
cantilena latina
A Bologna in Accademia
l’astronomo Pandafiland
disse, levando la berretta:
– Signori, si profila
la Catastrofe Estrema,
la fine del Cosmo ci aspetta;
tutto vi voglio chiarire:
parallasse e perturbazione,
tra un’ora – è mia opinione –
il mondo dovrà sparire..
A quell’atroce accenno
saltò su Ser Marconi,
colui che avea più senno
fra tutti quei barboni.
E disse: – O adunata
di savi, amici miei,
ciò che udiste è una boiata,
come tre e tre fa sei;
in veste di rettore,
dichiaro che l’autore
di questo sporco intrigo
si merita un castigo,
che solo un invasato
può avere escogitato
una simile impostura.
Chiasso e vocìo nella sala:
ogni sapiente fischiava,
gridava: – Che fregatura!
ci voleva irretire,
corrompere, incantare,
idiotizzare.
Aspetta: ti concio io,
quest’onta nessuno ti scaccia!
Ciò detto uscirono, sbattendo il leggio,
come alla dieta polacca.
Restarono gli scanni scuri
e i Cristi neri sui muri,
e sul pulpito – avvilito,
piccino, rattrappito –
l’astronomo.
Gli doleva assai la testa,
allor prese un calmante,
e per un breve istante
non fece alcuna mossa:
anche lui è di carne e ossa.
Poi su e giù passeggiò alquanto,
cupo – più cupo non puoi –
e borbottò: – Cessa il comando…
Sul muro bianco, dipoi,
segnò cifre e così pure
zodiachi e figure –
per un tempo senza fine,
sibilline.
Poi sopra un blocco notes,
sbirciando il suo quadrante,
tracciò facce curiose
con piglio da gigante.
Quindi, sui palmi appoggiato,
guardò a lungo alla finestra:
Bologna era verde come un prato
ombrato.
Era sera.
E da lontano – pensate! –
giungevan note flautate –
era d’estate.
Stop.
Quando il tempo fu scaduto,
vale a dire alle otto,
il rettore prevenuto
ogni specchio trovò rotto;
e li trovarono spezzati
i pensionati e i tappezzieri,
come anche tutti i barbieri,
e fu la piaga pei peccati.
Che buffo! Il bidello Malvento,
guardandosi allo specchio:
– Ho nel volto un tagliamento!
Gridò. Era nello specchio.
Qui, nelle mie visioni,
una pausa si perdoni.
LE VISIONI RIPRENDONO
Piante, farfalle e gatti
riddavano balzelloni,
biancheggiavano i rondoni
e c’era sangue sui sassi.
Calando le tende trapunte,
anche il rettore tremava,
come un neonato frignava,
e non era un fesso qualunque.
In tutte le strade, oramai:
“Muore Bologna!” – gridavan.
Quel forsennato viavai
la polizia caricava;
coi loro corti randelli –
botte da orbi alla gente,
ahi, ahi! urlavan quelli:
“Si salvi chi è credente!”
Chi lo era diceva “O Dio”,
e chi non – “Morte ai paurosi!”
Salivan sui tetti i curiosi
ed anche il bue, caro mio,
muggiva, muggiva, muggiva.
Per le strade il flagellante,
invocando le sante,
il suo corpo feriva.
Solo gli allegri studenti,
nelle taverne, incoscienti,
in mezzo alle foglie di vite
scrivevan versi alle amiche,
e quelle ch’eran più schive,
dietro una foglia – davvero! –
baciavano sulla bocca.
Ma bravi! Crepa il mondo intero
e qui si fa bisboccia.
Peccate reciprocamente
studenti e madonne,
bevete cognàc – vergogna! –
cantate,
con le chitarre sonate:
“Evviva Bologna,
città delle belle donne!”
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qui, pausa: crepo d’invidia.
Durante questi portenti
senza capo né coda,
inauditi e sconvolgenti,
l’artigiano G. Lucco
si divertiva parecchio
cantando e sgrossando bare:
cantava Giovanni: “Ti sgrossi,
mia bara, ti sgrossi;
accoglierai una fanciulla
dai capelli rossi”.
E quando sentì d’aver fame,
messo dell’olio sul pane,
mangiò piano, con devozione;
dopo – politico all’erta –
mise gli occhiali a stanghetta
con oculata attenzione,
se no saltavano le lenti;
con la pipa tra i denti
e la mano incallita,
le lettere conficcava
di chi più non c’era:
– Basta…chiudo e me ne vado…
uhm…la fine del creato…
in fondo…non è sgradita…
e già dormiva sereno,
Giovanni, nell’orto, sul fieno.
Ma negli ospedali affollati
eran desti, poverini,
dentro i bianchi lettini,
i malati.
Ognuno là dentro gridava,
tossiva ed imprecava:
– Dove sono i dottori?!
i vasi, le sputacchiere,
gli stecchini e le infermiere?!
Ci aumentano i dolori!
non fateci morire,
ci vogliamo vestire,
dateci una cravatta –
non vogliamo bende e ovatta!
C h e p o r c h e r i a !
ma il coro pian piano scemava,
più d’uno la notte crepava.
Ora il silenzio regnava
nella bianca corsia.
Ed ecco che da un pitale
saltò fuori il Mostro Astrale
e ingoiò le medicine.
Visione quarta: fine.
Davanti all’Accademia,
a mazzetti come viole,
compiangevano la terra,
ciarlavan le fruttaiole:
– Lei vede?
– Non vedo.
– Si vede qua e là.
– Qualcosa viene.
– Di brutto.
– Bla bla!
– Bla bla!
– Ho visto, signora mia,
– andava in sagrestia,
– è vero sì
– è vero sì.
– Proprio.
– E’ sul giornale financo,
– nero su bianco.
– Oh!
– Qui
– Pro
– Quo
– Dio ci punisce…
– Cosa?
– Cosa?
– E questo Cosmo…
– Ahimé il Cosmo perisce…
Emerge come una palla
dal fiume la luna bianca.
Il bosco sul fiume balla
come uno senza cianca.
E il fiume scorre e cela –
la lunga – parola – celeste.
La luna, come una mela,
ad un rametto s’appende.
Ma a che servirà quel disco?
Sarà ciò ch’è previsto.
Non serviran le onde:
l’allarme già s’effonde.
Plebe e Re che posson fare?
Si peggiora ed il timore
si solleva come il mare.
La nuvolaglia scura
galoppa stancamente;
l’ira della Natura
annuncia pigramente.
Alla città s’appressa,
sulla terra oppressa
cadrà assai presto,
enorme, orrenda, avversa.
Da San Michele arriva
un rintocco funesto.
Più morta che viva
Bologna trema.
Banchieri, confessatevi:
vita e soldi perderete!
e voi tra i topi celatevi,
voi che massoni siete.
Vedo avvicinarsi l’Orrore,
il Principe delle Tenebre
conficca al polo la bandiera.
Perché dall’a alla z, sissignore,
la profezia di Pandafil s’avvera.
S’avvera, sì, sì, s’avvera,
tutti i telefoni han tremato,
nella sala degli specchi
corre il Re spaventato.
Pronto
Pronto
Pronto
Sei tu? sei tu, Genoveffa?
Son’io, son’io – Antonio!
Lei sbaglia! Quattro-cinque-zero!
E’ il negozio di bare?
Non si capisce, a quanto pare.
Io sono suo genero!
Stasera i cavalli spedire.
Posta Pinocchio, dodici per 15 lire.
Pronto
E’ la cancelleria reale?
Sei tu, micino?
Alienato!
Sono il ministro della guerra,
Sire,
insorge il proletariato:
P come Pitonessa
Ramona
Ortoepia,
Leonora
Eurasia
Titina
Ataracsia
Repubblica
Ierusalem
Antropozooteratologia
Trampolina
Ortodossia!
IL PROLETARIATO
Mandaron l’esercito in città,
e l’esercito marciò:
Piccolo-flauto – fi-fiù-fi-fi-fiù,
e i tamburi – tara-tarapùm:
– Il Cosmo schiatta passa il Cosmo,
il tapino non sarà più!
Poi seguiva curvato,
pensoso, accerpellato,
con occhiali e scopetta
il compagno Saponetta;
e alla luce dei fari
ripuliva i binari.
Borbottava qualcosa
Sputando le parole:
– Il Cosmo è una gran cosa,
ma l’ordine ci vuole.
E su lui che spazzava,
e su questi binari,
un colombo volava
e batteva le ali.
Sul colombo – la luna
rischiarava il cammino.
Sparivan nella bruma:
quello, rotaie, spazzino…
Laggiù, l’ombra, nei pressi
della città, calava.
E ad essi, solo ad essi
Pandafiland sogghignava;
idillico si fece,
e in estasi pensava:
– Dio mio, che incantevole
scenetta proletaria!
Pensavano ugualmente
i poeti di Bologna:
Spazzino commovente,
far come te bisogna!
Cantavano i poeti:
– Orsù, non disperiamo,
il mondo è spacciato,
ma col proletariato
giochiam, giochiam, giochiamo.
Divertitevi, ragazzi.
Frattanto già tonava,
frattanto lampeggiava
e qualcosa di brutto
in giro s’annunciava.
Non servì il turpiloquio,
né gli insulti alla Madonna:
terminava ormai l’obbrobrio,
il mondo e la vergogna.
Nelle vie di Bologna –
folle peregrine.
Adunate, consigli:
come impedir la fine.
Ma come restar vivi
nel giorno delle stragi!
ribaltavano gli archivi,
teatri, colonnati,
negozi, templi, arene,
diverse ubicazioni,
elefanti e stazioni,
e al cinema le scene.
Ed a Giovanni Lucco
Che dormiva profondo,
crollò la colombaia
e ne fuggì un colombo:
quel colombo benigno,
quello dello spazzino,
cui Pandafil maligno
lanciò quel sorrisino.
Solo quando i pianeti
cambiaron direzione,
fu indetta su due piedi
una contestazione:
C’erano tutti quanti:
vecchi, adulti e minori,
i bianchi, i gialli e i mori,
anche i parlamentari,
ventriloqui e fornai,
Satanassi e Santi.
E ancora i commedianti,
e i poliziotti – tanti;
c’eran preti, un rabbino,
ed anche molte suore.
E in testa era il rettore
in groppa a un bel suino;
senza scarpe passavano
gli esibizionisti,
con gli striscioni i socialisti,
con le bombe i comunisti
sfilavano.
Cosa ovvia – gli anarchici
con diabolici ingranaggi,
i massoni coi compassi,
e i bambini
con graziosi mazzolini;
i più incalliti monarchici
cantavan “Viva il Re”,
e dietro, i neopapisti,
invero un po’ marxisti,
cantavano “scotendo i cieli”:
Evviva bandiera rossa!
Risatine!
La cosa andava bene,
con ordine, tutti insieme:
adunate, comizi imprevisti,
ku klux klan e squadristi,
dum-dum a tracolla;
risoluzioni, pretesti,
rivoluzioni e manifesti.
LA FOLLA
Apparve l’Arcobaleno,
rifugio del mondo
ormai vano:
come bambini impauriti
si presero per mano,
ma turbinavano,
impietriti,
e da tutte le gole
si levarono i gridi:
– NON VO-GLIA-MO LA FI-NE DEL MON-DO!
Per dispetto iniziò il finimondo
Sic!
Incominciarono i malanni
in un orrida atmo-
sfera. Vedi Giovanni,
Apocalisse – Pathmos:
Già i soli peri-
vano e lungi cadevano.
Giù le stelle, come pere,
che gli Ebrei si rivendevano.
La luna in questa buriana
seguì il comune destino,
disse addio alla vita grama
e si tuffò nel vino;
gorgogliava da ogni poro
quella vecchia alcoolizzata,
poi il barile divenne d’oro,
e lei morì annegata.
Sempre più si sgretolava
questo lurido creato,
e schiantandosi affogava
anche il vecchio antico stato.
In quel solenne istante
Pandafil disse raggiante:
– E’ terminato lo scompiglio,
s’immerge il mondo
come l’enorme scafo d’un naviglio
nei flutti dell’etere profondo.
TUTTO QUESTO HO SAPUTO
DAL CIEL TELEFONANDO
E SCRIVERE HO VOLUTO –
ILDEFONS IL SANTO.
FINIS
(1930)

PROFEZIE
Quando il Gran Codanera
a Lisbona arderanno,
e nella stratosfera
tre zeri splenderanno,
sbucherà la Pantera,
verrà l’Empio Colera,
Arturo e Malacoda
la man si stringeranno.
Buio cupo e terrori,
notte come un dragone,
presto usciranno fuori
il baro e l’imbroglione,
banditi e ambasciatori,
sicari e distruttori –
che gioia veder tutti
nell’infero burrone!
Rammentate quel prete
profeta del destino!
La luna forse avrete,
ma sembrerà un porcino.
Voi che cassieri siete,
l’orrore proverete –
vi torrà l’ombelico,
v’andrà nell’intestino.
Vedrete i calabroni,
i tafani regnare,
orribili scorpioni,
zecche, pulci, zanzare;
e vermacci a milioni
dai cassetti dei demòni,
eppur la lucciolina
uscirà per brillare.
Diran, piangendo, i vati
che la luna è un’arancia –
ma alle arance, annoiati,
chi più darà la caccia?
Voi ci avete infettati,
o giambografi amati,
v’oltraggerà la morte –
simpatica vecchiaccia.

La falce darà addosso
A tutti i porci ingordi.
Avranno il naso rosso –
così saranno scorti.
Addio, porcello arrosto!
Addio, ciambelle al mosto! –
balordi, Malacoda
è nel caviale – accorti!
Malacoda scorrazza,
le palle a sonagliera,
davanti – una mazza,
dietro – un culone a pera.
Sic Malacodae gratias,
dei maiali disgrazia,
a VILNO partorito
dalla notte più nera.
Pieno zeppo è il papiro.
Già profonda è la notte.
Predìco per finire:
la siccità è alle porte.
Se ti manca il respiro:
“Pasticche dell’Emiro” –
Malacoda è la base,
confida in lui – è forte.
(1936)

LA MIA POESIA
La mia poesia sembra una notte lunare,
una quiete sconfinata;
quando la fragola dolce nei borri appare
e l’ombra è più grata.
Quando nessuna donna mi sorride
e ogni cosa è sopita,
quando un grillino da un mattone stride:
“che pacchia la vita!”
La mia poesia è un mero prodigio,
è il paese ove d’estate
dormiva rannicchiato un gatto grigio
sul davanzale.
(1937)

ADDIO ALLE LANTERNE
Voi che di notte risplendete
rischiarando i vicoli stretti,
sempre pazienti e uguali siete,
voi – le stelle dei poveretti;
e l’uomo che a caso procede,
di notte, ubriaco, nel gelo,
alzando la testa vi vede,
e mormora: – Son forse in cielo?
ADDIO, MIE CARE LANTERNE.
Voi, qualunque contrada accolga
la vostra luce indulgente,
a Parigi, dove una volta
amai senza ottenere niente;
o a Londra, ove la nebbia rammenta
il sonno e il vento è un ossesso,
e dove la lanterna “addenta
con la luce” – già Eliot l’ha detto.
ADDIO, MIE CARE LANTERNE.
Voi che cantate ogni notte,
finché Venere ancora balena,
voi sotto le quali tre volte
lessi il “Divino Poema”;
voi di paura non tremate,
come sonetti nell’eternità,
voi con la luce perdonate
come donne – popoli e città.
ADDIO, MIE CARE LANTERNE.
(1948)

LA PASQUA DI JOHANN SEBASTIAN BACH

La famiglia è andata ad Hagen.
Sono rimasto solo in questa enorme casa.
Dei miei passi rimbomba l’andante.

Mi fa ridere tutta questa doratura
e questi pellicani scolpiti senza cura,
e quelle nuvole che corrono a levante.
Io amo le nuvole. E le luci cupe.
Come le fortezze. Come le mie quadruple fughe.

Girare per le stanze – che incanto,
con la Signora Musica accanto!
Come bosco d’autunno le rosse candele d’oro.
Oggi è Pasqua. Le campane conversan tra loro.
Oh, felice è il mio cuore!
Nei vecchi cassetti le vecchie missive,
e nei libri le foglie seccate;
che bello frugare tra le carte d’un tempo…
Oh, ore festive piene di dolce fermento!
o estri come colonne d’oro, o cantate!
Vestito di verde velluto
sguazzo, vago per queste stanze,
sui ballatoi e sulle scale;
oh, prima di sera, quante ore ancora, quante,
per borbottare, canterellare, camminare,
scorrere come acqua incantata!
Scuri come la notte i ritratti mi salutano,
e ancor più scuriscono quando m’allontano.
E’ buffo che alcuni m’han chiamato maestro,
dicono che nelle cantate il Cielo ho messo.
Peccato che qui non tutti conoscete il mio merlo,
ah, come questo merlo canta, ah, che bravura!
A lui devo molto. E anche alle grandi nubi.
E ai grandi fiumi. E al tuo seno, o Natura.
Guardate questi giacinti azzurri,
queste sedie di legno nero,
tutti questi mobili dorati,
questa gabbia coi pappagalli, che canticchia,
quelle nubi come vascelli argentati,
che il vento del sud solleva.
Sì. Guardate. Qui dimoriamo.
Qui ricorderanno Johann Sebastian.
Dicono che sono vecchio. Come il fiume.
Che il tempo sempre più mi sfugge di mano.
E’ vero che molte ore ho sprecato.
Non fa niente. Al diavolo! Io suono su corde resistenti
e ci sono ancora le mie cantate, accidenti!
Non il tempo me, ma io lui all’incudine ho legato.
Presto tornerà la famiglia e comincerà il banchetto.
Le mie figlie, prima di sedersi, si acconceranno.
Lo sciame degli ospiti giungerà. Il ballo inizierà.
Mangeranno e berranno a profusione.
E anche il pastore dall’arazzo zufolerà una canzone.
Poi calerà la sera. E io sparirò nel pergolato.
Perché migliore del mio violino, quando ero a Weimar,
delle perle che sogno per mia moglie,
delle sonate dei miei figli, di ogni vaghezza,
è questo attimo di grande dolcezza,
proprio quando, nella pergola, da una sua fessura,
vedo una cosa insolita, vertiginosa, pazzesca a dismisura:
IL CIELO STELLATO DI PRIMAVERA.
(1950)

IN MORTE DI ESTERINA
DEPORTATA
DAI NAZISTI
VENEZIANA

I
Sulle tue trecce il cielo avrei scalato
e di colpo cosa? Un drappo.
Il cuore t’è fuggito come un ratto,
e nemmeno s’è scusato.
Perché racimolare scienza? – mi chiedo.
Ti scuoto: – Dimmi, perché? –
Il cero langue. Sei morta. Siedo
la notte accanto a te.
Risuscitarti non posso. Capisci?
L’ombra la beltà scolora.
Nemmeno l’acqua non vuoi. Non capisci.
Dai cupi fiumi bevi ora.
Già altrove il tuo occhio riluce
d’un bagliore verdigno,
quando vai per la sotterranea palude,
e delle canne odi il bisbiglio.
Oltre i vetri la foresta è affanno
che aumenta, a chi servirà?
Gli uccelli sui nodi stanno
immobili, sciocchi, di legno già.

II
Se un giorno incontrerò tua madre,
dirò che t’ho seppellita –
che avevi le ciocche tirate
e trecce dal cielo fuggite;

che gettai una volta un piccolo ramo
di mughetto ai tuoi piedi, dirò:
caricando il concime parlavamo
del clown dal naso lungo-Pierrot.
III
Tu, foresta, disperati con me,
tu, querceto, faggeto, betulla –
buco nella scarpa, struggiti anche te
sulla bella, sulla morta fanciulla!

Cervi di legno, uccelli di vetro,
lepri di maiolica alate,
aiutatemi a gettare, vi prego,
l’odiosa terra sulle labbra odorate.

La pioggia ha lavato i grossi rami.
Il fiume del cruccio balbetta e scorre.
Coraggio, fratelli: trecce, mani,
bocca e occhi sotterrare occorre.

(1945, frammento)

Il ritorno

 

C’è una via non ancora sparita

(ma come arrivarci, e per quali strade?),

la via dell’infanzia tradita,

la via della Grande Pastorale.

Là nella polvere di carbone,

e non in un giardino incantato,

c’è una casa dal tetto arancione,

la casa dove un giorno sei nato.

La stessa pietra davanti all’ingresso.

E il custode è sempre lo stesso.

Mi chiede: “Dov’è stato per tanti anni?”

“Ho girato questo mondo d’inganni”.

Sali le scale col cuore in gola.

Entri. La mamma è bella come allora.

Con lei mio padre coi baffi neri.

E i nonni. Tutti come fosse ieri.

Anche mio fratello con l’ocarina,

e che poi morì di scarlattina.

Papà dice alla mamma: “E’ spuntata,

in cielo già brilla la cometa,

dividiamoci l’ostia consacrata”.

Ci stringiamo uniti nell’attesa

con i cuori che vibrano in coro

come sull’albero le foglie tra loro.

Silenzio. L’abete accende i suoi rami.

In cima un angelo sbatte le ali.

Alle finestre i rossi gerani,

delle candele i riflessi dorati,

e mio fratello suona in sordina

il canto di Natale all’ocarina:

FA LA NINNA, O GESU’,

MIO BAMBINO,

FA LA NANNA, O GESU’,

MIO TESORINO. (*)

(*) stesso brano dello Scherzo di Chopin)

(C) by Paolo Statuti. Riproduzione riservata

Piotr Oreshin

12 Lug

Петр-Орешин-222x300

Piotr Vasil’evič Orešin, poeta e prosatore contadino, nacque il 16 luglio 1887 nella città di Atkarsk (provincia di Saratov) nella famiglia di un commesso di negozio. Terminata a pieni voti la scuola elementare, a 12 anni iniziò gli studi presso una scuola quadriennale di Saratov, che tuttavia non poté terminare per mancanza di mezzi, benché avesse superato gli esami di ammissione alla terza classe. A 16 anni entrò in una scuola di ragioneria, ma ben presto la lasciò.
I suoi primi versi furono pubblicati nel 1911 sul Messaggero di Saratov. Ma l’attività letteraria del giovane poeta iniziò sostanzialmente nel 1913, quando si recò a Pietroburgo e cominciò a pubblicare sulle riviste della città.
Nel 1914 fu chiamato alle armi. Partecipò come soldato semplice ai combattimenti della I Guerra mondiale e fu decorato al valor militare. Nel 1918 Orešin pubblicò due libri di versi – Il bagliore e La Rus’ rossa. Sul giornale Il nostro cammino (n. 2, 1918) Sergej Esenin, il maggior rappresentante della corrente contadina, che 7 anni dopo – il 28 dicembre 1925 si suicidò (se non fu ucciso da agenti della polizia segreta), recensì in questo modo Il bagliore:
Chi ama il paese natio?
Il vento-vagabondo rispose al Signore:
– Chi piange in autunno
Per il campo falciato e di nuovo con gioia
Sotto il sole di primavera
Nel campo senza berretto e scalzo
Cammina dietro l’aratro –
E’ colui, o Signore, che più di tutti ama
Il paese natio.

Simili semplici e calde parole, paragonabili a un lago di campagna che riflette la luna, la chiesa, le case, ricorrono molto spesso nel libro di Piotr Orešin. Al giorno d’oggi, quando «Dio ha mescolato tutte le lingue», quando i patrioti di ieri sono pronti a rinnegare e maledire tutto ciò che da tempo immemorabile ha rappresentato «il paese natio», questo libro costituisce un evento particolarmente lieto… Ogni poeta ha le proprie tonalità di colori, il proprio scrigno di parole e immagini. Anche se in molti punti l’occhio di un lettore esperto può notare difetti o lacune, anche se alcune immagini siedono sul rigo come scarafaggi che rodono una crosta di pane, ciò non menoma affatto la freschezza e la fragranza di questa raccolta, per chi riesce a vedere «le albe che tessono ampie tele sulle case», per chi sente che «un gallo rosso ha gridato nelle nuvole»…
Sergej Esenin

Negli anni ’20 il poeta collabora attivamente con gli editori di Pietroburgo e di Saratov. Svolge un’intensa azione di propaganda, scrive moltissimo. Una dopo l’altra escono le successive raccolte di versi, tra le quali ricordiamo: Dulejka (1920), Piccola betulla (1920), Sole di segala (1923), Frantumi di paglia (1925), La sincera lira (1928). Per iniziativa di Orešin presso l’organismo proletario-culturale Proletkul’t di Mosca, fu creata una sezione degli scrittori contadini. Nel 1924 fu pubblicata a Mosca una raccolta intitolata Creazione dei popoli dell’URSS. Orešin fu non solo l’autore di questo volume, ma anche il traduttore di molti testi folcloristici di diversi paesi.
Negli anni ’30 Orešin senza mezzi termini esprime il suo giudizio negativo su molti dirigenti del partito. Nel 1934 la milizia ferma il poeta, dopo aver udito dalla sua bocca queste parole: «Una canaglia come il compagno Kaganovič, voi compresi, non posso sopportarlo, come non sopporto i furfanti». Un anno dopo, durante un’assemblea degli scrittori sovietici, Orešin dichiarò: «Il potere sovietico non lascia vivere la gente per bene. Stalin è una canaglia che non può apprezzare i lavoratori onesti». Nel 1937 uscì l’ultima raccolta del poeta – Sotto un cielo felice, ma il cielo felice disegnato sulla copertina del libro, non tardò molto a trasformarsi in un cielo profondamente infelice sulla testa del suo autore: il 28 ottobre dello stesso anno fu arrestato e il 15 marzo dell’anno seguente venne fucilato con l’accusa di attività terroristica, insieme con un altro poeta contadino – Vasilij Nasedkin, amico e cognato di Sergej Esenin. Altri due poeti contadini: N. Kljuev e S. Klyčkov, erano stati fucilati l’anno precedente con la stessa accusa.
Con la sua creazione Piotr Orešin contribuì notevolmente allo sviluppo della tematica contadina nella letteratura sovietica (A. Tvardovskij, M. Isakovskij).

Poesie di Piotr Orešin tradotte da Paolo Statuti

Non di opera umana

1
Prostratevi,
Cadete all’ingiù
Col muso nel fango.
Con gli occhi
Di un vecchio vampiro
Guardate:
Come sono bello!

2
Rossastre
Aurore a larga chioma
E
L’oscurità dei boschi,
La segala
E
I covoni dietro il villaggio –
Ecco il mio corpo!

3
Le orecchie
Lunghe,
Di lappe di nuvole,
Nei capelli rossicci,
Applaudiscono
Alla maniera degli asini
Verso il cielo.

4
Due
Occhi storti –
Due
Oceani che riposano in me,
E
Le spesse
Ciglia dei bulbi
Caldamente
Verdeggiano sugli zigomi!

5
La mia bocca
Di pietra,
Di canti
E’ gonfiata
Da est a ovest.

6
Le gambe
Con gli zoccoli
Lanciate verso il cielo,
E
L’unghia
Sulla mia zampa –
Pelosa –
Avvampa!

7
Sazio,
Pigro,
Come un bue,
In una lunga camicia
Di aurore –
Tarchiatamente mi sono seduto
E siedo,
Sdraiandomi,
Sul pingue colle dell’Universo.

8
Un bosco
Scuro cresce
Sul mio ventre peloso.
Nei pini
Di pietra
Grigi lupi
Con pianete e mitre,
Accesa una candela,
Celebrano la messa.

9
Eterno
Non di opera umana,
Pesantemente
Faccio roteare gli occhi,
Come le macine
Degli azzurri
Mulini del cielo!

10
Lentamente
Mastico le nuvole
E
Penso
Ai fratelli che periscono
Col mio saggio ventre
Spensierato!
11
Attraverso le palpebre chiuse
Vedo:
Nuovi fiumi
Tra le mie gambe
Cullano
Una nuova terra
Su creste dorate.

12
Ascoltando il Mondo,
Ho sputato
Attraverso il labbro inferiore
Sporgente,
Ed ecco:
Rovesci
Di pioggia,
Come lance,
E,
Tintinnando,
Si conficcano nel terreno!

13
Eterno,
Non di opera umana,
Lo spirito
Della vivifica Primavera
Io soffio sui campi arati
E
Sui
Nudi ginocchi dell’Universo
Io spargo
Il seme azzurro
Del mio eterno trionfo:
Osanna nell’alto dei cieli!

1918

Abitudine

Mi piace riconoscere gli uccelli dal grido.
Mi è caro nei villaggi il sonno festivo.
Mi piace ascoltare un triste canto d’amore
E il fischio che accompagna l’armonica.

I miei occhi sono avvezzi ai solchi,
Alla casa nella steppa, alle colline arate,
Dove una nuvoletta dorata pernottava
E un verde fruscio percorreva la campagna.

Sono avvezzi i piedi a pestare l’erba e la neve,
A trascinarsi nel fango della strada!
O terra natia, o mia nera amica,
In te io giacerò, ridendo!

Le mie mani accarezzano le criniere,
Tintinnano con la falce e premono sull’aratro.
E dolce è ad esse arrossarsi con l’ortica,
E riposare nei momenti d’ozio inatteso.

Non mi fermerò in questo mondo a lungo,
Sono giunto come ospite in questa casa radiosa.
Ma come smetterò di ammirare il Volga
E come non rimpiangerò il villaggio natio?!

E che sarà, se un giorno io cesserò di amare
La tristezza della betulla della steppa,
E dietro la finestra il sorbo in autunno
E il cigolio e il dialogo delle ruote!

1924

Il sonno delle betulle

Sonno delle betulle, sereno e pensoso,
L’azzurro, un sorriso e la quiete.
Cammino nel grano rosato,
Toccando con gli occhi e con la mano.

E’ come se dicessi a me stesso
Che vivo in un paradiso sognato.
Ma scorrono piume di nuvole
Sulla mia testa insensata.

Dietro il villaggio i meli e i peri
Cadono come petalo vermiglio.
E mi canta il vento negli orecchi
Con un sonoro verso campestre.

Io cerco l’inizio di quel canto,
Ma esso non c’era e non c’è.
Non chiedere ciò che sembra una fiaba,
Ciò che non può trovare risposta!

Questi boschetti e questi villaggi
Non parlano forse per se stessi?
Sopra i boschi un vapore di aloe,
Un nostalgico tramonto dorato.

Parlano forse poco senza parole
Queste biade e siepi intrecciate?
Meglio nell’anima del paese azzurro
Nel silenzio più profondamente guardare.

Là distese di sole e di grano,
Risuona la falce e un canto si sente.
Sonno delle betulle, sereno e pensoso,
La nebbia, un sorriso e la quiete!

1927

(C) by Paolo Statuti

Igor’ Severjanin

9 Lug
Igor' Severjanin

Igor’ Severjanin

Igor’ Severjanin, pseudonimo di Igor’ Vasil’evič Lotarëv, nacque a San Pietroburgo il 16 maggio 1887. A causa dei difficili rapporti tra i genitori, trascorse l’adolescenza a Sojvol, nei pressi di Čerepoviec, nella tenuta di uno zio. Nelle sue prime poesie si avverte l’influenza dei poeti K. Fofanov e M. Lochvizkaja (v. nel mio blog). A differenza di molti poeti dell’Età d’argento, Severjanin evitò i simbolisti. Nel 1911 creò a Pietroburgo il gruppo letterario degli “egofuturisti”. Il programma formulato dallo stesso fondatore prevedeva la valorizzazione del proprio io, la ricerca del nuovo senza rinnegare il vecchio, immagini audaci, epiteti, assonanze e dissonanze, sensati neologismi, ecc. Severjanin stesso creò moltissimi neologismi poetici. In seguito Majakovskij ammetterà di aver imparato molto da lui nel campo della creazione delle parole. Ben presto Severjanin si separò dagli egofuturisti e per un breve periodo aderì al cubofuturismo. Nel 1913 pubblicò il primo volume di versi La coppa ribollente di tuoni, con una prefazione di F. Sologub. Il titolo era preso da un verso di F. Tjutčev. In questi versi Severjanin sosteneva che il mondo si salverà grazie alla bellezza e alla poesia. Il libro ebbe molto successo e in due anni fu ripubblicato ben 7 volte.
Severjanin coltivava consapevolmente la propria immagine di raffinato poeta-idolo. Appariva nelle serate di poesia con un’orchidea all’occhiello, declamava con un ritmo melodioso che sottolineava la musicalità dei versi. Era noto per la sua eleganza, per i suoi capelli impomatati con la scriminatura al centro, gli occhi scuri e malinconici e un lillà sempre nelle mani. “Il poeta e la sua fama” è il tema che occupa un posto importante nella creazione di Severjanin, che si autodefinì “il genio”. Tuttavia l’eroe lirico della sua poesia differiva sostanzialmente dal poeta stesso. Il suo amico intimo G. Šengel’ ricordava: «Igor’ possedeva una mente demoniaca…la sua capacità introspettiva e intuitiva aveva dell’incredibile, con un piglio tolstoiano penetrava nell’animo, e sempre si sentiva più intelligente del suo interlocutore…». Severjanin affermò il diritto del poeta di essere apolitico e di scrivere come più gli è congeniale, senza alcuna dipendenza dagli eventi sociali. Nel mezzo della prima guerra mondiale apparve la sua raccolta Ananassi nello champagne (1915).
Il 14 febbraio 1918 al Museo Politecnico di Mosca, nel corso di una serata controversa, negli umori del pubblico e nei ricordi dei presenti, Igor’ Severjanin – malgrado la sua fama di “borghese” – venne eletto “Re dei Poeti”, precedendo Majakovskij che arrivò secondo. Quest’ultimo salì sul palco gridando: «Abbasso i re – ora non sono più di moda!». «I miei ammiratori – ricorda Severjanin – protestavano…Irritato, mi allontanai». Allora Majakovskij gli disse: «Non te la prendere, io ce l’ho con loro, non ho insultato te. Non è questo il momento di occuparsi di piccolezze!» E’ nota tuttavia la reciproca antipatia tra i due poeti, che del resto era inevitabile, considerando la loro natura e la loro poetica.
Dopo la Rivoluzione del 1917, Severjanin fu uno dei primi poeti a lasciare la Russia e nel 1918 si trasferì in Estonia. Qui nel 1921 sposò Felissa Kruut e continuò la sua attività letteraria. In Estonia uscì la raccolta Verbena (1920), a Berlino Menestrello (1922), L’usignolo e La tragedia del Titano (1923), a Bucarest Il pianoforte di Leandro (1935). Nel 1925 pubblicò il romanzo autobiografico in versi Le campane della cattedrale dei sentimenti. Tradusse tra gli altri Baudelaire, Verlaine, A. Mickiewicz e i poeti estoni.
Severjanin ha scritto molto, ma la sua creazione è estremamente varia e contraddittoria. Le sue poesie migliori sono quelle in cui predominano il lirismo, la musicalità e la satira. Nei suoi versi che esprimono, talora con un compiaciuto esibizionismo, i temi del singolo individuo come unica realtà e del culto dell’istante, è molto ben tratteggiata la noncuranza e la frivolezza della borghesia russa, incurante della rivoluzione incombente.

Poesie di Igor’ Severjanin tradotte da Paolo Statuti

Quando di notte…

Quando di notte tutto tace,
Voglio i fuochi, voglio l’allegria,
Voglio il chiasso, la gaiezza,
Che il lampadario l’ombre cacci via!

Il palazzo è silenzioso, il palazzo è deserto,
Senza suono sussurra una serie di leggende…
Il senso è doloroso, il tema è lungo
Come serpi di neri nastri rasenti…

E il cuore piange, e il cuore soffre,
Sta per spezzarsi, e tu aspetterai…
Vuoi il vino, allegria, melodie,
Ma la notte è chiusa – dove li troverai?

Brillate, o pensieri! Ridete, o sogni!
Lanciati, o musa, in un’estatica danza!
E per noi – un miraggio? Minacce?
L’arte è con noi – e Dio è la speranza!…
1909

Ouverture

Ananassi e champagne! Ananassi e champagne!
Gustoso e frizzante fermento!
Ho qualcosa di Norvegia, ho qualcosa di Spagna!
L’ispirazione mi assale! Sto già scrivendo!

Stridono gli aerei! Corrono le vetture!
Fischiano i treni! Volano le slitte alate!
Là chi è percosso! Qui chi è baciato!
Ananassi e champagne – polso delle serate!

Tra ragazze nervose, tra donne mordaci
La tragedia della vita cambio in sogni e farse…
Ananassi e champagne! Ananassi e champagne!
Da Mosca – a Nagasaki! Da New York – a Marte!
Gennaio 1915

Poesia della stranezza della vita

Si incontrano per separarsi…
S’innamorano per disamorarsi…
Mi va di scoppiare a ridere,
E di scoppiare a piangere – e non vivere!

Giurano per violare il giuramento…
Sognano per maledire i sogni…
Oh, triste colui che comprende
Quanto i piaceri siano vani!…

In campagna si vuole la città…
In città – un luogo appartato…
E ovunque volti di uomini
Senza l’anima umana…

Come spesso la bellezza è deforme
E nella deformità la bellezza è presente…
Come spesso la pochezza è nobile
E iniqua la bocca innocente.

Come non scoppiare a ridere,
Non scoppiare a piangere, come vivere,
Quando è possibile lasciarsi,
Quando è possibile cessare d’amarsi?!

Febbraio 1916

Classiche rose

Come fresche e belle eran le rose
Del mio giardino! Che fascino arcano!
Come pregavo: o gelide notti,
Non toccatele con la fredda mano!

Ivan Mjatlev, 1843

Nei tempi in cui sciamavano i sogni
Nei cuori della gente, chiari e trasparenti,
Come fresche e belle erano le rose
Del mio amore, dei miei lieti momenti!

Son trascorsi gli anni e scorron le lacrime…
Non c’è il paese, né chi viveva in esso…
Dei ricordi del tempo passato
Come fresche e belle son le rose adesso!

Ma i giorni vanno – già cessa la tempesta.
La Russia cerca la strada di casa…
Come fresche e belle saranno le rose
Gettate dal mio paese sulla mia bara!

1925

Tutti dicono la stessa cosa

A S. V. Rachmaninov

Gli usignoli del giardino claustrale,
Come tutti gli usignoli del Signore,
Dicono che una sola è la gioia –
Ed essa è nell’amore…

Anche i fiori del prato claustrale,
Con la grazia nei fiori innata,
Dicono che l’unico merito –
E’ sfiorare la bocca amata…

Il lago del bosco claustrale,
Tutto di azzurro colmato,
Dice: non c’è sguardo più azzurro
Di quello di chi ama ed è amato…

1927

 

Giorno di primavera

 

Giorno di primavera dorato e caldo,

Tutto il paese dal sole è abbagliato.

Io di nuovo io, io di nuovo giovane,

Io di nuovo felice e innamorato.

L’anima canta e gioisce nel campo,

Io do del tu ai forestieri.

Che distesa! Che libertà!

Che canti e fioriti pensieri!

Presto, nel calesse attraverso i borri,

Presto, nei prati scorrazzare!

Guardare le donne rubiconde,

Il nemico come amico baciare.

Stormite querceti di primavera,

Cresci erba, fiorisci lillà diletto!

Colpevoli non ci sono – tutti sono giusti

In questo giorno benedetto.

 

 

(C) by Paolo Statuti