Nel sito Notagram.ru ho trovato il post 10 poesie che ognuno dovrebbe conoscere. Ignoro l’autore della scelta, che certamente ha seguito il proprio gusto poetico. Io senza discuterlo l’ho condiviso e ho tradotto fedelmente l’intero post. Spero piaccia anche a voi, poiché si tratta indubbiamente di poesie che “toccano le corde dell’anima”:
“Non amano e non capiscono la poesia solo coloro che a dire il vero non hanno amato, non hanno vissuto, non hanno gioito e non si sono afflitti in questo mondo mortale.
La vera poesia non è semplicemente una rima ben messa e la scelta felice di una parola. È qualcos’altro. È ciò che l’anima estrae da te, comprime tutti i sentimenti in un gomitolo, ti mette al rovescio. È ciò che ti capisce meglio delle persone a te più vicine e più care. Per questo tu senti rizzarsi tutti i peli sulla pelle e avverti un formicolio. Sono parole che addolorano e placano al tempo stesso.
Nella poesia ognuno di noi trova qualcosa di proprio, di personale e recondito. Ciò che fugge via dalla nostra anima o, viceversa, ciò che cerca di celarsi nei suoi recessi. Inesprimibili emozioni che toccano le corde della nostra anima – ecco cos’è la vera poesia. Oggi Notagram.ru ci ricorda dieci belle poesie, che non ci dice di imparare a memoria, ma ci invita semplicemente a conoscere”.
Anna Achmatova (1889-1966)
Io vivo in modo semplice e saggio…
Io vivo in modo semplice e saggio,
Guardo in alto il Cielo pregando,
Vago a lungo prima di sera,
L’inutile angoscia spossando.
Quando fruscia nel borro la lappa
E il grappolo del sorbo appassisce,
Io compongo versi gioiosi
Sulla vita stupenda ma che finisce.
Io torno. Mi lecca la mano
Il gatto, mormora e alletta,
E si accende d’un fuoco sgargiante,
Sul lago, della segheria la torretta.
Solo a volte il grido della cicogna
Che tronca il silenzio si sente.
E se alla mia porta tu busserai,
Penso che non sentirò niente.
1912
Vladimir Majakowskij (1893-1930)
Sentite un po’!
Sentite un po’!
Ma se le stelle si accendono –
significa – servono a qualcuno?
Significa – qualcuno le vuole?
Significa – quegli sputacchi per qualcuno sono perle?
E, soffocato
nelle bufere di polvere meridiana,
si precipita da dio,
teme d’essere in ritardo,
piange,
gli bacia la mano nerboruta,
prega –
che ad ogni costo in cielo ci sia una stella! –
giura –
che non sopporterà quel tormento senza stelle!
E dopo
cammina inquieto,
ma tranquillo in apparenza.
Dice a qualcuno:
“Allora adesso non c’è male?
E’ passata la paura?
Sì?!
Sentite un po’!
Ma se le stelle
si accendono –
significa – servono a qualcuno?
Significa – è necessario
che ogni sera
sopra i tetti
ci sia almeno una stella?!
1914
Bella Achmadulina (1937-2010)
* * *
Tuona sulle coffe e piove
sulle clavicole e sulla testa.
Tu mi sei capitato,
come al vascello la tempesta.
Se sarà qualcos’altro…
Io non voglio sapere –
se volerò nella gioia
o mi abbatterà il dispiacere.
Come quel vascello ,
sono divertita e spaventata…
Non mi pento del nostro incontro.
Non temo d’essere innamorata.
1955
Gennadij Shpalikov (1937-1974)
Per fortuna o per sfortuna…
Per fortuna o per sfortuna,
Semplice è la verità:
Non tornare mai
Dove sei stato già.
Anche se il nido
Sembra immutato,
Non troveremo, tu ed io,
Ciò che abbiamo lasciato.
Un viaggio di ritorno
Io vorrei negare,
Io ti prego, come fratello,
L’anima non tormentare,
O mi getterò sulle tracce –
A ridarmi come faranno? –
E in stivali di feltro andrò
Nel quarantacinquesimo anno.
Nell’anno ’45 suppongo
Là, dove – mio Dio,
La mamma sarà giovane
E vivo il padre mio.*
*Il padre del poeta, ingegnere militare, morì in combattimento il 29 gennaio 1945.
Aleksandr Pushkin (1799-1837)
All’amore ogni età è sottomessa…*
All’amore ogni età è sottomessa;
Ma ai cuori vergini e leggiadri
I suoi slanci sono salutari,
Come le bufere ai campi arati:
Nella pioggia di passioni s’infrescano,
Maturano, si rinforzano –
E la forte vita darà anzitutto
Sontuoso fiore e dolce frutto.
Ma alla svolta dei nostri anni,
Nel tempo tardo e ingrato,
Triste è l’orma morta della passione:
Come la bufera d’autunno inoltrato
Il prato intero impaluda
E il bosco intorno denuda.
1829-1830
*Da: Evgenij Onegin
Osip Mandelstam (1891-1938)
* * *
Insonnia. Omero. Le vele spiegate.
L’elenco delle navi io lessi fino a metà:
Quella lunga nidiata, quella fila di gru,
Che sopra l’Ellade un giorno si alzò.
Come un cuneo di gru verso altrui frontiere –
Sulle teste dei re la spuma divina –
Dove navigate voi? Senza Elena
Che sarebbe Troia per voi, uomini Achei?
E il mare, e Omero – tutto è mosso dall’amore.
Che dovrei ascoltare io? Adesso Omero tace,
E il Mar Nero, con eloquenza, rumoreggia,
E con greve fracasso si accosta al capezzale.
1915
Marina Cvetaeva (1892-1941)
Mi piace…
Mi piace che di me non siete malato,
Mi piace che di Voi non sono malata,
Che sempre la greve sfera terrestre
Sotto i nostri piedi è ancorata.
Mi piace che si può essere divertenti –
Dissoluti – con le parole non giocando,
E non arrossire con un’onda soffocante,
Le maniche leggermente sfiorando.
Mi piace che Voi stando con me
Tranquillo un’altra abbracciate,
E poiché io non bacio Voi,
Nel fuoco infernale non mi gettate.
Che il mio caro nome, o mio caro,
Non pronunciate mai vanamente…
Che nel silenzio della chiesa
Un alleluia per noi mai si sente!
Vi ringrazio col cuore e con la mano
Perché Voi – senza rendervi conto! –
Mi amate tanto: per la mia notte quieta,
Per i rari incontri al tramonto,
Per le non-passeggiate lunari,
Per il sole che non è su di noi, –
Perché siete malato – ahimé! – non di me,
Perché sono malata – ahimé! – non di Voi.
1915
Sergej Esenin (1895-1925)
In questo mondo sono solo un passante…
In questo mondo sono solo un passante,
Tu mi saluti con la mano lieta.
Anche un mese autunnale
Ha una luce-carezza, così quieta.
La prima volta mi scaldo da un mese,
La prima volta sono ristorato,
E di nuovo vivo e spero
Nell’amore che è già passato.
Ciò ha fatto la nostra piattezza,
Salata come la sabbia e amara,
E l’innocenza sgualcita di qualcuno,
E l’angoscia nativa a lui cara.
Per questo io per sempre ripeterò
Di non amare separatamente –
Lo stesso amore di entrambi
La nostra patria attende.
1925
Evgenij Evtushenko (1933-2017)
Tu sei grande in amore…
Tu sei grande in amore.
Hai coraggio.
Io sono timido a ogni passo.
Io non ti farò del male,
ma del bene non credo potrò.
Tutto mi dice
che mi porti in un bosco
senza sentiero.
Siamo in folti fiori fino al collo.
Non capisco –
quali fiori.
Non serve la passata esperienza.
Io non so
che fare e come.
Tu sei stanca.
Tu chiedi le mie mani.
Tu sei già nelle mie braccia.
Vedi,
il cielo com’è azzurro?
Senti,
quali uccelli nel bosco?
Allora, cosa sei?
Ebbene?
Portami!
Ma io dove porterò te?..
1953
Iosif Brodskij (1940-1996)
Io vi ho amato…
Io vi ho amato. L’amore ancora (forse
è solo dolore) mi trapana il cervello.
Tutto è andato in pezzi accidenti.
Ho provato a spararmi, ma non è facile
con l’arma. E poi: il whisky:
quale centrare? Non il tremito m’ha fermato,
ma la riflessione. Diavolo! Tutto è disumano!
Io vi ho amato a tal punto, disperatamente,
che Dio vi conceda altri – ma non lo farà!
Egli, essendo assai di più,
non creerà due volte – come dice Parmenide –
questo fuoco nel sangue e scricchiolio di ossa,
affinché i piombi nelle fauci si fondano dalla brama
Poetessa, scrittrice e traduttrice di prosa. Nacque a San Pietroburgo il 3 novembre 1895. Iniziò a pubblicare poesie nel 1915. Nel 1922 fu accusata di spionaggio ed esiliata ad Anchangel’sk. Tornò a Leningrado alla fine del 1927. Nel 1929 uscì la sua raccolta di racconti Lido d’inverno, seguita da altri libri di prosa. Fece parte del gruppo Il valico (1929-1932).
Nel marzo del 1938 fu nuovamente arrestata in una vicenda che vedeva coinvolti N. Tichonov e N. Zabolockij. Molti altri scrittori di Leningrado furono messi sotto il torchio e uno di loro – Benedikt Livshic fu fucilato. Sotto tortura Elena Tager testimoniò contro Zabolockij (testimonianza poi ritirata nel 1951). Fu condannata a 10 anni di lavoro rieducativo a Kolyma e liberata nel 1948. Nel 1951 venne arrestata per la terza volta e inviata in una località del Kazakistan. Nel 1956 tornò a Leningrado. Fu riabilitata e riammessa nell’Unione degli Scrittori. Tuttavia diversi manoscritti confiscati durante gli arresti, non sono stati ancora ritrovati.
Le sue poesie, comprese quelle dedicate ad A. Achmatova e O. Mandelstam furono diffuse nel samizdat. Nel 1965 uscirono a New York i suoi ricordi di Mandelstam. Sue poesie furono pubblicate anche all’estero e nel 1984 sono apparse anche nella “Giornata della Poesia” di Leningrado.
Morì a Leningrado l’11 luglio 1964 e fu sepolta nel Cimitero delle Vittime del 9 gennaio 1905.
Poeta, critico letterario e traduttore. Nacque a Mosca il 7 aprile 1892, dove trascorse i primi nove anni della sua vita, frequentando il Secondo Ginnasio. Suo padre, di origine polacca, col grado di maggiore generale era direttore dell’ospedale militare di Mosca. Il poeta ricorderà: «C’erano troppi militari in famiglia, i miei due fratelli maggiori prestavano servizio nell’esercito. Di me, mio padre disse: “Non c’è niente di militare in lui, quindi lasciamolo ai civili”, e così sono rimasto civile».
Dopo la morte del padre la famiglia si trasferì a San Pietroburgo, dove il poeta entrò nel Primo Ginnasio della città. Nel 1910 si iscrisse alla Facoltà di Storia e Filologia della locale Università. Mentre era ancora studente si avvicinò agli Acmeisti. I suoi primi lavori appartengono interamente all’età d’argento. Nel 1916 uscì la sua prima raccolta di poesie Nuvole. Gumiljov, pur avendo notato una evidente dipendenza da I. Annenskij e A. Achmatova, la giudicò così: «Buona scuola e gusto controllato…Non gli piace il freddo sfarzo delle immagini epiche, cerca un atteggiamento lirico nei loro confronti e per questo tende a vederle illuminate dalla sofferenza… Questo suono di una corda tintinnante è ciò che c’è di meglio e di più originale nelle poesie di Adamovič». La seconda raccolta Purgatorio, sotto forma di diario lirico, uscì nel 1922 con una dedica a Gumiljov, che allora non era più in vita e che Adamovič considerava il suo mentore. La riflessione e l’introspezione aumentarono notevolmente, apparvero motivi legati all’epopea greca antica, medievale e dell’Europa occidentale.
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre tradusse Baudelaire e Voltaire, poesie di T. Moore e J.G. Byron, e poi in esilio J. Cocteau e A. Camus.
Nel paese in cui divampava la guerra civile, temendo di restare vittima del terrore rosso, il poeta nel 1923 decise di emigrare. Non fu difficile, perché a Nizza, in una villa di proprietà della zia, vivevano la madre e la sorella. Pensava di restarci qualche mese e poi tornare in Russia, ma non tornò più. Anziché per San Pietroburgo, partì per Parigi.
Adamovič, ritenuto un letterato “estremamente esigente con se stesso”, in tutta la sua vita ha pubblicato meno di centoquaranta poesie. All’estero la sua creazione è cambiata: per lui la poesia è diventata, in primo luogo, un “documento umano” – sulla solitudine, mancanza di radici nel mondo, ansia esistenziale, come principale caratteristica dell’autocoscienza dei contemporanei. Nell’emigrazione pubblicò due raccolte, con la mente rivolta al passato, alla Russia ricoperta di neve che è una “terra ghiacciata”, ma anche un “paradiso ghiacciato”, alla sua amata San Pietroburgo, i cui ricordi “annegano in una gelida foschia”. Scrive di essa: «C’è una sola capitale sulla terra, il resto sono solo città”.
A Parigi divenne il custode della letteratura russa in esilio e pian piano si guadagnò la fama di “primo critico dell’emigrazione”. Dal 1928 scrisse regolarmente numerosi articoli, saggi e recensioni per le riviste Ultime notizie e Legami, e fu uno dei principali collaboratori della rivista Numeri. Non si occupava solo di letteratura, ma anche di teatro, balletto e cinema, divenuto sonoro negli anni ’30.
La vita letteraria ribolliva a Parigi negli anni ’20 e ’30, e i due critici principali, Adamovič e Chodasevič discutevano su come la letteratura dovrebbe svilupparsi in futuro, quale percorso dovrebbe scegliere e come dovrebbe essere la poesia. Chodasevič predicava la massima aderenza ai canoni, in sostanza il neoclassicismo con precisione e rigore. Secondo Adamovič invece, a prescindere dalla perfezione formale richiesta da Chodasevič, nei versi doveva riflettersi in primo luogo la personalità dell’autore, che non trova più sostegno nelle tradizioni spirituali e artistiche del passato, e contrappone la “chiarezza” di Puškin all’”inquietudine” di Lermontov, che è più in sintonia con lo stato d’animo dell’uomo moderno.
In esilio Adamovič ebbe una forte influenza soprattutto sui poeti novizi. Grazie a lui si formò il gruppo cosiddetto della “nota parigina”, caratterizzato dall’ascetismo nella scelta dei mezzi espressivi e dalla ricerca della ”verità senza abbellimenti”. Lo storico e filosofo G. P. Fedotov definì questa “ricerca” di Adamovič – “peregrinazione ascetica”.
Nel settembre 1939 si arruolò come volontario nell’esercito francese e dopo la sconfitta della Francia fu internato. Nel 1951 partì per Manchester, dove per dieci anni insegnò letteratura russa all’Università.
Nel 1967 fu pubblicata l’ultima raccolta poetica di Adamovič Unità. Al tempo stesso uscì l’ultimo volume dei suoi articoli critici Commenti – saggi letterari pubblicati regolarmente dalla metà degli anni ’20.
Morì a Nizza il 21 febbraio 1972.
Poesie di Georgij Adamovič tradotte da Paolo Statuti
Conosco il prezzo delle mie poesie…
Conosco il prezzo delle mie poesie.
Ahimé, per esse è tutto ciò che sento.
Ma il trionfo di altre poesie
Io considero come un tradimento.
Attraverso digressioni, ripetizioni,
Senza tinte, senza quasi parola alcuna,
Una sola, un’unica visione,
Come dietro le nuvole – la luna.
Ora scompare, ora balena,
Ora si offusca leggermente,
Ora rischiara con luce serena,
E immutabile si concilia
Con la lingua impotente.
1915
L’unica cosa che amo è il sonno…
L’unica cosa che amo è il sonno.
Che piacere, che pace ogni giorno!
Le campane si sentono appena,
La nebbia blu immobile intorno…
Oh, poter sapere di sicuro,
Che la vita è una e un’altra non avrai,
Che nell’eternità dormiremo per sempre,
Che nessuno ci sveglierà mai.
1915
* * *
Per la parola che un tempo ricordavi
E poi per sempre hai dimenticato,
Per tutto ciò che nei fuochi del tramonto
Tu cercavi e non hai trovato.
E per la disperazione del sogno,
E il gelo che cresce nei petti,
E il morire lentamente,
Quando più nulla ti aspetti,
Per il bianco suono della salvezza,
E dell’amore l’oscuro suono,
Per tutte le colpe e i reati
Tu riceverai il perdono.
1917
Non è te che amavo, ma il sole, la luce…
Non è te amavo, ma il sole, la luce,
Lo stridìo delle cicale, l’azzurro mare.
Io amavo ciò, di cui in te non c’è traccia.
Io in un spazio che non si può immaginare
Amavo. Io la delizia solare
Amavo. Tu cosa puoi sapere?
Cosa puoi raccontare
Ai venti, ai lampi, alle comete, alle bufere?
Sì, a me girava la testa
Per il cielo, l’amore, per questo uliveto…
Ebbene sì, sono parole.
Ebbene sì, è letteratura…Più concreto? –
C’era un giardino al buio e la brezza dall’alto,
Due o tre stelle, – cosa non è facile in questo?
C’era una voce lontana : “No, solo
Chi ha conosciuto…”* – in risposta a me stesso.
“No, solo chi…” Capisci, io non posso essere
Più chiaro, facendo degli ultimi sogni a meno,
Io sto salpando, io sto sulla riva
Di un altro mare, non un mare terreno.
Io non te amavo. Ma se là
Dove tutto nasce e decede,
Tu a nuove pene, a nuovi cieli
Umile, pian piano…no, non succede…
Ma se tuttavia…non sarà, menzogna…
Da una incarnazione all’altra tu tornerai,
Ombra tremenda, irriconoscibile,
E davanti a me un giorno passerai,
Dal profondo dei secoli io griderò: sì!
Da milioni di anni, come questo momento,
Come sole dell’eternità, oh, per sempre,
Con tutta la vita e tutta la morte: rammento!
1931
*Sono parole di una celebre romanza di Čajkovskij su testo del poeta e drammaturgo Lev Mej (1822-1862). Questa è la prima strofa della poesia in questione, tratta da Goethe:
Solo chi la sete dell’incontro
Ha conosciuto,
Capirà come io soffro
E come soffrire ho dovuto.
O vita! Che mi aspetto da te, – non so
O vita! Che mi aspetto da te, – non so.
Si è placata la tristezza della prima età.
Ma di tediarsi così, come ora io mi tedio,
Dio alla gente giammai ingiungerà.
E se da qualche parte vive e respira
Qualcuno datomi per sempre dalla sorte,
Perché non viene da me, perché non sente
La mia voce che risuona ancora forte?
Due enormi occhi neri e offuscati
E due enormi funebri ali soltanto,
Hanno steso un’ombra dall’azzurro Caucaso
Sulla mia vita e su ciò che io canto.
* * *
Ascolta – e in vaghe congetture non mentire.
La notte è vicina, quale non puoi presagire!
Bisogna incontrarla con rispetto,
Per quanto il tuo cuore si sia stretto.
Ascolta te stesso, non ascoltare la gente.
La musica del mondo sempre meno si sente.
Cosmo, voli, entusiasmi, guerre da fare, –
La vita, dicono, deve cambiare.
(Sì, è così…Ma voi non avete capito:
“Non essere notato, non essere sentito”).*
*Letteralmente in russo: “Più quieto dell’acqua, più basso dell’erba”.
Di tutto, di tutto grazie. Per la guerra…
Di tutto, di tutto grazie. Per la guerra,
Per la rivoluzione e per essere esiliato.
Per un paese indifferente e luminoso,
Dove ora “vivacchiare” ci è dato.
Non c’è destino più dolce che perdere tutto.
Non c’è sorte più lieta che vagabondare,
E al paradiso questo è il posto più vicino esistente,
Stanco di annoiarmi, stanco di respirare
Senza forze, né soldi, né amore,
A Parigi…senza niente.
1931
Quando in Russia torneremo, quando…o Amleto d’oriente? –
* * *
Quando in Russia torneremo, quando…o Amleto d’oriente? –
A piedi, con centigradi di gelo, per strade divelte,
Senza cavalli, né trionfi, senza osanna, appiedati,
Solo per sapere che ancora in tempo ci saremo trascinati…
Quando in Russia…ondeggia la gioia nel delirio…in ospedale…,
Come se “Quanto glorioso”* sonassero in un giardino del litorale,
Come se attraverso le bianche pareti, nella nebbia del mattino,
Vacillassero esili candele nel gelido e assopito Cremlino.
Quando… basta, basta. Lui infermo, esausto e spogliato.
Su di noi sventola il tricolore – vessillo spiantato,
Qui c’è troppo odore di etere, si soffoca, è troppo caldo.
Quando in Russia torneremo…ingombra di neve… quando?
È ora di prepararci. Albeggia. È ora di metterci in marcia.
Due monete di rame sugli occhi. Sul petto incrociate le braccia.
1936
*Inno scritto nella primavera del 1794 dal compositore Dmitrij Bortnjanskij
su versi di Michail Cheraskov, ampiamente eseguito come inno non ufficiale dell’impero russo. Musica meravigliosa e toccante che consiglio di ascoltare in YouTube.
Il proprietario dietro il banco guarda come sempre, assonnato
Il proprietario dietro il banco guarda come sempre, assonnato,
Il cameriere presso un tavolino sta scrivendo il conto.
Incessanti, importuni, turbolenti
L’uno con l’altro – fuoco e fumo – un continuo scontro.
Non per amore amare, non di vino essere ubriachi.
Cosa sa un uomo che se stesso non resta?
Egli ride sul bicchiere svuotato,
Egli dice qualcosa, dondolando la testa.
Per ciò che non è avvenuto, per trent’anni solo,
Per la sera che presso il fuoco stava,
Ancora per l’angelo… e quegli altri suoni…
A mezzanotte…oltre il cielo volava!
Egli ha perso la partita, di essa ha risposto,
E’ ora di tornare a casa. Nessuna speranza.
– Spietatamente bianco e luminoso
In una striscia di ghiaccio il giorno avanza.
* * *
E perfino la notte insieme con Čajkovskij
Nel suo silenzio cantava tristemente
Che tutto è condannato,
Che non c’è un limite per niente.
Alla memoria di Marina Cvetaeva*
Parliamoci almeno adesso, Marina!
In vita non ci fu dato. Tu non ci sei ora.
Ma sento chiara la voce di un cigno,
Messaggero di sventure e di gloria.
In vita non ci fu dato. Non per colpa mia.
La letteratura è come all’inferno entrare,
E io con gioia entravo, non lo nascondo,
Là da dove nessuno può tornare.
Non per colpa mia. Quanta pena nel mondo.
Ma sai, neanche io ti incolpo di qualcosa.
Tutto è solo per caso, tutto è involontario.
Vivere è bello. Vivere è una cattiva cosa.
*In vita i due poeti furono in disaccordo e si criticarono reciprocamente. Questa poesia, scritta dal poeta poco prima della sua morte, è un toccante ricordo e un sincero omaggio alla grande poetessa russa.
Alcuni anni fa, in preda al fascino autunnale, ho scritto questa breve poesia:
Amo la primavera,
ma mi commuove l’autunno,
che nasce
dal caldo grembo dell’estate
e muore
nel freddo abbraccio dell’inverno.
Ma come me, quanti poeti sono stati ispirati da questa romantica, dolce e malinconica stagione! Guardo il mio tiglio che pian piano si spoglia, mostrandomi i mille bracci nudi e promettendomi che tornerà a vestirsi in primavera. Guardo la nebbia al mattino, squarciata dalle frecce del sole, non più spavaldo e aggressivo come d’estate, ma più modesto e tranquillo. Tra le citazioni lette sull’autunno, queste tre mi hanno colpito in modo particolare:
“Lascia che la vita sia bella come i fiori d’estate e la morte come le foglie d’autunno” (Rabindranath Tagore)
“In autunno non andate dai gioiellieri per ammirare l’oro, andate nei parchi”
(Mehmet Murat Ildan)
“Tutti dovrebbero trovare il tempo per sedersi e guardare le foglie che cadono” (Elizabeth Lawrence)
Ho deciso di riunire in un unico post tutte le poesie sull’autunno che ho tradotto e pubblicato nel mio blog nel corso degli anni. Ecco come questa stagione ha ispirato tanti poeti, fornendo loro spunti e impressioni diverse:
Poesie sull’autunno tradotte da Paolo Statuti
Anna Achmatova (1899-1966)
I tre autunni
I sorrisi dell’estate io vedo confusi
E d’inverno non troverò segreti,
Ma osservavo quasi senza errore
Tre autunni in ogni anno compresi.
Il primo come disordine festivo
Per dispetto all’estate di ieri,
Come pezzi di notes – di foglie un turbinio,
E l’odore del fumo come dolce incenso,
Intorno – umido e sgargiante, un luccichio.
E prime a danzare sono le betulle,
Indossata la veste trasparente,
Scosse le lacrime fugaci su una vicina
Oltre la siepe prontamente.
Ma ciò accade – appena iniziato il racconto.
Un solo minuto – ed ecco sornione
Giunge il secondo, incurante, come coscienza,
Fosco come aerea incursione.
Tutte sembrano più bianche e più anziane,
È devastata l’estiva intimità,
E la marcia lontana delle trombe dorate
Nella profumata nebbia scorre e va…
E nelle fredde onde del suo incenso
È racchiusa la volta arcana,
Ma il vento si leva, si spalanca –
E a tutti è chiaro: fine del dramma,
E non è il terzo autunno, ma la morte che chiama.
1943
Josif Brodskij (1940-1996)
Canto di ottobre
La quaglia impagliata sulla mensola del camino. Il vecchio orologio che batte preciso, rallegra di sera le membrane schiacciate. L’albero dietro la finestra – cupa candela.
Da quattro giorni il mare romba contro il molo. Metti da parte il libro, prendi l’ago; rammenda i miei panni, senza accendere il lume: la luce è nell’angolo dai tuoi capelli d’oro.
1971
Marija Furmanskaja
Storia di un’anima
“Un giardino in autunno…Una panchina bagnata.
E le foglie spazza via a fatica
Lo stanco custode nel suo giaccone liso,
E sotto la panchina c’è un’anima attrappita…
Sì, sì – un’anima come tante, solo che
E’ bagnata e il freddo la fa tremare,
E ricorda il proprietario che aspramente
Disse: «Anima, tu non mi fai campare…
Tu soffri per ogni zanzara uccisa,
Ti contrai per il pianto di un bambino,
Al primo gatto dai la mia colazione –
Vivere con te è un triste destino…
Da tempo sono stanco di piangere.
Ti prego, va’, senza te io felice sarei».
E se ne andò nel fango di settembre,
E la pioggia piangeva assieme a lei.
Vagava a lungo nei cortili bagnati,
Nelle finestre e negli occhi guardava.
L’autunno batteva su di lei coi rami,
E sonoro con la sorte il maltempo litigava.
Un giardino in autunno. Una panchina bagnata.
E le foglie di nuovo frusciano cadendo…
Il custode nel giubbotto ha finito il lavoro,
E sotto la panchina l’anima sta morendo…”
Konstanty Ildefons Gałczyński (1905-1953)
Ecco vedi, di nuovo arriva l’autunno
Ecco vedi, di nuovo arriva l’autunno – si vorrebbe solo dormire beatamente… Metti il tuo anello di smeraldo: la luce verde brillerà piacevolmente.
L’estate come condannata si piega sotto la scure dell’autunno insanguinata – ma noi vediamo la primavera nella gemma, sul tuo dito, nell’anello incastonata.
1937
Ivan Gruzinov (1893-1942)
Autunno. Boscaglia. Vago senza meta…
Autunno. Boscaglia. Vago senza meta.
Si fa sera. Si spegnerà presto
L’arco giallo del tramonto.
Oltre il burrone si fredda il deserto.
Al di là – i campi arati. Il corpo della terra
Dondola col ventre arrossato.
Fruscia col cupo fogliame
Un vecchio ontano dimenticato.
Odore di resine. Batte ritmica la pala.
Stringendo il cappio cadrò.
Madre-terra! non spunterò come il grano.
Una stellina sul campo non accenderò.
Che m’importa di chi mi segue!
Per loro la pena di vivere non vale.
Ecco soltanto io col fardello terra
All’ultimo funesto cavezzale.
1925
Julia Hartwig (1921-2017)
Novembre
Le gambe immobili dei salici sull’acqua
mentre i rami immersi vorrebbero scorrere via
qualcuno invisibile suona il flauto
ma sul ponte non si vede nessuno
A che scopo tornare qui dopo anni
e come sopportare questo equilibrio di bellezza
questo vasto cielo che sulle spalle reggono
le distinte case dell’Isola di San Luigi
Sul fiume naviga un battello con lieve ronzio
un acrobata prova un difficile salto sulla riva
vibra la pelle toccata dal sole
e un blando respiro dell’aria ti accompagna
attraverso novembre e la sua scia di foglie
Non parlare di ciò che qui hai lasciato
non parlare di ciò che ricordi
in questo fiume sono annegati migliaia di cuori
con la nebbia dei ricordi si potrebbe spartire un continente
Milada Kowalewska (1918-2011)
Fuga nell’autunno
A Danka Wiśniewska
Là dove
ottobre
in società col vento
la sua moneta
conia senza tregua
per una carezza
– appena imbrunisce –
frusciando, sul fondo
della zecca scivolano
le anime degli animali
verso la dimora
— — — — — — —
(E’ piuttosto difficile
accogliere un’ombra
in modo che la gioia della visita
sia reciproca)
E così ogni sera
finché
invece delle foglie
comincerà a cadere la neve
(Delle segrete forze della neve
parlerò altrove)
Natal’ja Kugusheva (1899-1964)
* * *
Caro, mio caro, l’autunno
Il corno ha sonato forte.
Cielo e terra ha dipinto Vrubel’
E condannato a morte.
Caro, mio caro, già il sole-falco
La sua preda attende.
E la sera piume scarlatte
Per l’oracolo, solerte prende.
Caro, mio caro, il cui arco
A guardia di frecce roventi sta,
Verso quali paesi la via
L’altrui mira ci mostrerà?
Caro, mio caro, l’autunno
Ci suona un corno sventurato.
E il tamburello di rame del vento
Tra le strade ha indugiato.
Michail Lermontov (1814-1841)
Sole d’autunno
Io amo il sole d’autunno, quando Tra nuvole e nebbie si fa largo, E getta un pallido morto raggio Sull’albero cullato dal vento, E sull’umida steppa. Io amo il sole, C’è qualcosa nello sguardo d’addio Del grande astro simile all’occulta pena Dell’amore tradito; non più freddo Esso è in sé, ma la natura E tutto ciò che può sentire e vedere, Non provano il suo calore; così è Il cuore: in esso è ancora vivo il fuoco, Ma la gente un giorno non lo capì, E da allora negli occhi brillare non deve, E le guance non sfiorerà in eterno. Perché di nuovo il cuore sottoporre A parole di dubbio e allo scherno?
1831
Apollon Majkov (1821-1897)
* * *
Le foglie d’autunno volteggiano al vento,
Le foglie d’autunno urlano di spavento:
“Tutto muore, tutto muore! Sei nero e spogliato,
La tua fine è giunta, o bosco tanto amato!”
Non ascolta lo spavento loro il bosco maestoso.
Sotto l’azzurro cupo del cielo rigoroso
Egli viene avvolto da sogni così grandi
Che per la nuova primavera avrà forze bastanti.
1863
Peretz Markish (1895-1952)
Autunno
Là le foglie non frusciano in segreta angustia,
E, arricciate, giacciono e sonnecchiano al vento,
Ma ecco una dal sonno si è mossa sulla strada,
Come un topo dorato – a cercare la sua tana.
E il giardino non vigila – entri pure chi vuole,
Là bufere, freddo, pioggia sghemba e sferzante,
E – nessuno. Solo la tristezza qui le lacrime sparge,
Ma ecco esitante mi giunge un ronzio.
Un’ape cammina in fretta sulla soffice rena.
Dal pesante cerchio il ventre è stretto,
E striscia tra un monticello e un ceppo
E con spasimo a un tratto si rizza sulla testa,
E le alucce a un tratto solleva di traverso,
Come ombrello rotto, esse si protendono,
E la morte già si sente nel ronzio affrettato…
Per l’autunno il silenzio passa nel giardino.
1948 (Dalla versione di A. Achmatova)
Nikolaj Ogarjov (1813-1877)
In autunno
Com’erano cari nella delizia primaverile –
La soffice freschezza delle erbe verdeggianti
E i profumati germogli delle giovani foglie
Dei querceti destati sulle fronde oscillanti,
E del giorno i caldi e soavi splendori,
E il dolce intreccio di accesi colori!
Ma siete voi tinte d’autunno le più amate,
Quando il bosco stanco le foglie dorate
Con un sussurro spazza via dal campo falciato,
E il sole più tardi dall’altezza abbandonata,
Guarda, pieno di luminoso sconforto…
Così tace e illumina un placido ricordo
I sogni passati e la felicità passata.
1857
Boris Pasternak (1890-1960)
Bosco autunnale
Il bosco autunnale s’è chiomato.
In esso ombra, sonno e quiete.
Scoiattolo, picchio e civetta,
Dal suo sonno non lo desterete.
E il sole per i viottoli autunnali
Entrando in esso a fine giornata,
Intorno sbircia con apprensione,
Se non ci sia una tagliola celata.
In esso pantani, tremule e gibbosità,
E muschi e macchie d’ontano,
E là, oltre il terreno fangoso,
Cantano i galli da lontano.
Un gallo il suo grido strombazzerà,
Poi di nuovo una lunga interruzione,
Come fosse intento a meditare
Che senso abbia quella intonazione.
Ma in un cantuccio remoto
Un vicino prenderà a chicchiriare.
Come sentinella nella garitta,
Il gallo la sua risposta vuole dare.
Essa risonerà come un’eco,
Ed ecco che insieme tutti i galli,
Segneranno con la gola come biffa,
I quattro punti cardinali.
Dopo l’appello del gallo
Si aprirà il bosco alle estremità,
E i campi, la distanza e il blu dei cieli
Come fossero cosa nuova esso rivedrà.
1956
Maria Pawlikowska-Jasnorzewska (1891-1945)
Autunno
Va con uno scialle rosso e splendente.
Si specchia nell’ovale dello stagno.
Ma è malato. E non sa minimamente
che in quello scialle lo seppelliranno.
1924
Wacław Rolicz-Lieder (1866-1912)
Quando le campane svizzere eseguono una sinfonia: Oremus!
A Grindelwald-Lauterbrunnen, sulle radure delle Alpi Bernesi gli uccelli di neve,
in uno stormo grande come il mondo intero, si appigliano ai cigli delle rocce
scheggiate, e si sciolgono nelle cascate e nelle rapide montane.
I sentimenti di mia Sorella sono bianchi come gli uccelli di neve.
I pastori scendono a valle dietro gli armenti, e le mucche avanzano facendo
risonare la musica di vetro delle campanelle appese ai loro colli.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Da ogni parte scendono i pastori riunendosi tra loro, la mandria s’ingrossa sempre più, cresce di unità, di decine, di centinaia, come valanga che cade
dalla vetta della Jungfrau.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Mille mucche procedono sulla larga strada; la strada che percorrono odora
di stalla; ad esse si aggiungono altre mille e ancora mille.
Le facce degli alberi sono chiazzate di rosso.
Un sordo scampanellio riempie l’aria; gli abitanti dei villaggi adiacenti gremiscono le facciate, attirati dall’orchestrina delle mucche.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Sui beni terreni regna la libertà.
Interlaken.
Robusti odori profumano l’aria.
Una fiera passione divora i nati in Autunno.
Bagliori rossodorati, cadendo dagli alberi, emettono un suono metallico.
I nomi delle pensioni non hanno l’anima.
Le rovine dei ricordi sono piene d’impiccati!
I pastori della comunità religiosa favellano nella valle, canuti vescovi sono
in mezzo a loro.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Il cielo è malcoperto di rame.
Una donna statuaria mi bacia sulle labbra.
Ville abbandonate e chiuse fanno pensare a un cuore dopo l’ultimo Amore.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Un numero enorme di armenti inonda i dintorni.
La luce pomeridiana è come il sorriso di una moglie adultera che muore.
Bambini rubizzi raccolgono castagne color mogano.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Passo per i giardini marocchini dell’infanzia.
Chi dipingerà il paesaggio? Colui che dirà una parola che riassume tutto.
Il patriarca dei pastori, poggiate le mani su un bastone, racconta la morte
di suo figlio.
Bagliori rossodorati, cadendo dagli alberi, emettono un suono metallico.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Tappeti di magnati ricoprono i prati.
Le narici delle donne, che hanno nervi, fremono al ricordo del petto peloso
di un uomo.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
E’ triste per un pastore morire nello scampanellio delle mucche svizzere.
Nei bazar di Bagdad sono distesi i tappeti davanti ai clienti.
Le mucche con sguardo filosofico osservano le valli.
Le giarrettiere delle mie amate si sono inebriate di amore dell’Autunno.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
E chi non s’inginocchia davanti alla sincerità, stia lontano dalla Poesia.
Il vento arruffa il nero boa di una dama che passa.
I pastori prendono il formaggio dai cestelli, coi coltellini tagliano tonde fette
di pane.
La gente in momenti diversi professa fedi diverse: Io ho la fede del Silenzio.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
La famiglia si mette a tavola alla luce di una lampada.
E chi nell’anima artificiale dell’Autunno con violenza i propri sensi non introduce – non toccherà l’epico petto dell’amante.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Sento il profumo del vapore che si diffonde da un piatto di patate schiacciate.
Bacerei l’Autunno attraverso le labbra di una donna, che in questo istante
volesse essere mia.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Magnifico è il poeta nel paganesimo dei propri sentimenti.
La più grande preghiera dell’Autunno è vezzeggiare una donna avvolta nella
pelliccia.
Nell’Universo un’enorme musica di accompagnamento:
Primo violino – un lungo soffio di vento.
Contrabbassi – il corso di torrenti impetuosi.
Violoncelli – la mia mente e il mio cuore.
Flauto e clarinetti – la voce lontana di bambini.
Tamburello – le campanelle delle mucche svizzere.
Tromba cromatica – il jodler dei pastori.
Organo – il rombo di lontane cascate.
Viole d’amour – il metallico fruscio degli alberi.
Vox humana – sento la voce della mia amata…
Vox humana – la Natura intera, la Natura!
– Osanna!
Boris Ryžij (1974-2001)
Autunno
Le rape dal campo erano già raccolte,
bietole, patate, tutto era già ammassato.
Sullo sfondo del cielo che si distendeva
cadeva la prima neve e il cuore era turbato.
Seguivo la neve, pensando a
chissà cosa, le betulle mi seguivano.
Con l’azzurro si mescolava l’argento,
argento e azzurro si mescolavano.
1999
Fjodor Tjutčev (1803-1873)
Sera d’autunno
Nel chiarore delle sere autunnali C’è un dolce misterioso incanto: Il tetro brillìo degli alberi screziati, Il mesto fruscìo delle foglie amaranto. L’azzurro offuscato e silenzioso, Sulla terra che orfana diventa, E, come presagio di vicine bufere, A volte un freddo impetuoso vento. Stanchezza, sfinimento – e su tutto Il mite sorriso dell’appassire, Che in un essere ragionevole si chiama Il nobile pudore del soffrire.
Poeta, traduttore e saggista russo. È nato a Kiev il 23 agosto 1914 ed è morto a Mosca il 18 marzo 1996. Suo padre – Adol’f Gol’dberg (vero cognome del poeta) era farmacista. A Kiev terminò la scuola settennale e il primo corso di Filologia presso la locale Università. Poi tentò diverse occupazioni: allievo di un disegnatore, decoratore, corrispondente e perfino violinista in un’orchestra. Egli ricordava così le difficoltà di quel periodo: «Nato nel 1914, sono sopravvissuto a tutti gli anni di guerra e a tre carestie. Particolarmente sofferta fu quella in Ucraina negli anni 1930-1933. Eravamo appesi a un filo. Come siamo rimasti vivi è un mistero. A quel tempo avevo terminato la scuola di violino e di direttore d’orchestra, disegnavo, avevo già cominciato a scrivere, stavo ottenendo i primi consensi, ma a causa della fame ho dovuto rinunciare a tutto e mettermi a lavorare come manovale nell’Arsenale di Kiev. Trasportavo i materiali dalla catena di montaggio al magazzino, la forza c’era e spingevo il carrello. A casa erano contenti, perché portavo un pugno di polenta e una coda di pesce…
Nel 1934, a 20 anni, il futuro poeta si trasferì a Mosca, dove si iscrisse all’Istituto di Filosofia, Storia e Letteratura. Si laureò nel 1939. Partecipò alla Grande Guerra Patriottica come giornalista corrispondente. Dal 1943 fino alla morte ha diretto il seminario di poesia e traduzione artistica presso l’Istituto Letterario “A.M. Gor’kij”.
Le sue prime poesie pubblicate risalgono al 1932. Ha scritto 20 raccolte poetiche, la prima delle quali – Sulle rive del Dnepr – uscì nel 1940, mentre l’ultimo suo libro – Ritratti senza cornici – fu pubblicato postumo nel 1999. Le sue poesie sono state tradotte in più di 20 lingue. A lui si devono anche molte traduzioni poetiche, principalmente dall’ucraino, lituano, yiddish e altre lingue dei popoli dell’URSS. Inoltre è autore di numerosi libri e appassionati articoli sulla poesia e sui poeti, tra i quali: P. Tycina, A.A. Fet, F. Tjutčev, B. Pasternak, N. Zabolockij, A. Achmatova. L’articolo Le poesie di Anna Achmatova, pubblicato il 23 giugno 1959 nella Gazzetta Letteraria, fu la prima recensione, dopo molti anni di silenzio. Anna lo definì “rottura di un blocco”. Lev Ozerov ha fatto molto anche per preservare e pubblicare il patrimonio creativo di poeti della sua generazione morti in guerra o durante gli anni della repressione staliniana. Inoltre aiutò diversi giovani promettenti poeti, dando consigli o scrivendo la recensione delle loro prime raccolte.
Molte espressioni poetiche di Oserov sono entrate nel linguaggio quotidiano, si sono trasformate in detti. Uno dei suoi aforismi più famosi é: “I talenti hanno bisogno di aiuto, la mediocrità sfonda da sé”.
Ozerov fu anche un geniale caricaturista e i suoi schizzi-ritratti di noti letterati suoi colleghi affascinano tuttora per la foga, la concisione lineare e al tempo stesso perché riproducono perfettamente i tratti dei modelli.
Per Ozerov comporre versi era un fatto naturale, come respirare e camminare. Essi scaturivano da tutto ciò che vedevano i suoi occhi sorprendenti, che sentiva la sua anima sorprendente. Quasi ogni sua poesia è una sorpresa.
Nel suo libro Lexicon der russischen Literatur ab 1917 il critico, traduttore e slavista tedesco Wolfgang Kasack scrive: «La poesia di Ozerov è un tentativo di abbracciare l’essere nel suo insieme, attraverso la descrizione di fenomeni individuali spesso legati alla natura. I. Sel’vinskij vede in lui un “disegnatore eccezionale”, G. Zobin – “il poeta della vista”. L’osservazione di fenomeni apparentemente insignificanti diventano il punto di partenza, entrano nell’analisi dei fondamenti semantici della vita».
Il critico letterario e scrittore Vladimir Ognjov dice: «Lev Ozerov è forse uno di quei pochi poeti che non fondono, ma incidono, coniano una parola che ha avuto a malapena il tempo di raffreddarsi dalle emozioni immediate. Il verso di Ozerov è conciso, tende alla compiutezza lineare».
Molti si sorprenderanno che attalmente questo poeta sia noto solo a rari intenditori e ai fortunati come me che lo hanno incontrato per caso o per un celato volere del destino. Spero che questo mio modesto lavoro contribuisca a dissipare almeno un po’ della nebbia che ingiustamente lo avvolge.
Poesie di Lev Ozerov tradotte da Paolo Statuti
Quando negli ultimi giorni di maggio…
Quando negli ultimi giorni di maggio
Il Dnepr le isole lascia,
Con un cinguettio, ancora cieco,
Dal guscio il fogliame si affaccia,
Quando fa oscillare i fili
Il corvo balbuziente,
L’acqua scorre con la Tarasowskaja*,
Cessa la pioggia, fresco e pace si sente,
Quando tutto si muove, tutto è vivo,
E l’azzurro ha suoni illimitati, –
Nel momento della piena primaverile, –
Il tono e il semitono mi sono grati,
E un capello che vola al vento,
E questi ponti risonanti,
E il bisbiglìo, e una voce forte.
E l’intero universo, e tu – davanti.
*La via di Kiev dove abitava il poeta.
1932
Vista sul Dnepr
Anche prima di morire ricorderò questa rupe,
E tutta in fiamme adagiata Podol,
E la gioia che qui ho provato
Vedendo le stelle e un’azzurra nube
Che scorreva da sud. Io guardavo là,
Dove senza posa l’acqua scura
I fuochi di Podol e la luna frangeva,
Dove un motoscafo a carbone avanzava,
Là, dove chiara la sabbia si stagliava.
Sapevo: tale forza questa notte aveva,
Era così convincente che restai
Muto e a casa non tornai.
E tanto più ero lì, tanto più capivo
Che non c’era alcuna pena in me;
Che giorno per giorno andrà tutto bene
In casa; che c’era la rupe e su di sé
Gli alberi scuri, bisbiglianti tra loro;
Che la notte era più quieta e premurosa.
E mi sembrava allora di sentire
Il futuro più di ogni cosa.
1935
Concerto d’organo
Sonava un timido vecchio,
Tarchiato, testa dura.
Io capii: la sincerità non è un grido,
La poesia non è solo scrittura.
Ascolto: nel mio petto frusciano
E chinano le spighe le creste,
Borbottano i pini e romba
L’organo polifonico terrestre.
E come la terra, l’organo ruggisce,
Come se camminassi con Bach
Di vulcano in vulcano
Smarriti in questa sonorità.
Vibra la cattedrale aghiforme,
Cantano i prati e le radure con loro,
E la vocina vetrosa di un fanciullo
Fende l’armonioso coro.
E nella sonante cupola azzurra
Fluiscono dell’organo i sospiri.
Ecco esso ci ha chiamati,
E noi accorriamo dai nostri ritiri.
Il cupo gemito del fondo terrestre,
E dei secoli il fragore risvegliato,
E una luce uguale da ogni parte,
E in essa il pensiero purificato.
Qui tutto è – ruggito della natura
E del tuono i nuclei rotolati.
Qui tutto è – né grida, né parole,
Né solitudine, né caseggiati.
Qui regna Bach, qui egli calpesta
Delle passioncelle umane l’inezia,
Egli allarga l’orizzonte
E guarda il futuro con fierezza.
Oh, se solo avessi un tale slancio,
Un potere così spavaldo,
Affinché, generato nei versi,
Nei cuori avesse il suo traguardo,
Affinché la gente sentisse in loro
Non solo la forza delle cantate,
Ma la voce del futuro, dei viventi,
Delle generazioni non ancora nate!..
1937
Ma che ti sei inventata! Ma che previsioni!..
Ma che ti sei inventata! Ma che previsioni!
Incomprensione, ignorare, litigare,
Sull’ignoto gli occhi fissati,
Ciò che era calmo vuoi di nuovo agitare.
Tu sei stanca! Stiamo zitti per un po’.
Il tempo, come un granello di sabbia, si fa granito.
La morte di Isotta ovvero l’abbraccio della Morte con l’Amore
Questa mattina ho pianto riascoltando la morte di Isotta diretta da Arturo Toscanini. Toscanini e Wagner – binomio indimenticabile! Musica di una struggente assoluta bellezza. Si sente l’ombra della Morte che cresce…cresce e in un travolgente crescendo abbraccia l’Amore ed insieme escono dalla scena, accompagnati dai sospiri della musica. Ascoltatelo anche voi. Concedetevi un attimo di commozione e di gioia interiore!
Ho incontrato Nina Kossman (in Russian Kosman) in Facebook, grazie a un “Mi piace” da lei messo a un mio testo. Incuriosito, ho voluto sapere chi fosse e ho scoperto un “mondo nuovo”, un talento multiforme con una straordinaria creatività. Scrive poesie, romanzi, racconti, drammi, dipinge e scolpisce, traduce poesie russe in inglese. E’ nata a Mosca. Durante la guerra molti membri della famiglia del padre morirono nell’Olocausto a Riga (Lettonia), mentre molti famigliari della madre morirono nell’Olocausto in Ucraina, dove allora vivevano. Nel 1972 con la famiglia emigrò dall’Unione Sovietica. Dopo un anno trascorso tra Israele e Roma, si stabilì prima a Cleveland e poi a New York, dove tuttora vive.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie in russo e in inglese, due raccolte di racconti e un romanzo in inglese. I suoi quadri sono stati esposti in Canada e in America. La sua prima raccolta di poesie fu stampata dalla casa editrice “Belle Lettere” nel 1990. Racconti e poesie in inglese sono apparsi in riviste americane e canadesi. La sua prosa e i suoi versi sono stati tradotti dall’inglese in francese, spagnolo, giapponese, olandese, persiano, greco, ebraico, cinese, e adesso pubblicate per la prima volta le mie in italiano. Il suo romanzo di successo La regina degli ebrei (2019) è uscito prima in Inghilterra e successivamente anche in russo. Nel 1995 ha ricevuto il premio del Pen Club inglese e dell’Unesco per la prosa in inglese, e una donazione dalla National Endowment of Arts per la sua traduzione delle poesie di Marina Cvetaeva. Riguardo ad essa il noto poeta e scrittore V.S. Mervin (1927-2019) ha scritto: «Sono versioni chiare, forti, udibili, sento in esse la voce di Cvetaeva in misura maggiore e in un tono nuovo che svela nei suoi versi qualcosa che prima avevo appena intuito».
Nina Kossman è dunque bilingue e a tale proposito dice: «L’ inglese è la lingua che dovevo usare nel mondo esterno – a scuola, in città, ecc., mentre la mia poesia scritta in russo è emersa dal mio mondo interiore, tutto mio».
Il critico letterario Pjotr Tartakovskij (1926-2015) in un suo articolo sulla poesia di Nina Kossman scrive: «La parola di questa poetessa è duttile, pungente e soprattutto attuale ed eterna, non perché ambisca a una qualche immortalità, ma perché sceglie per la personificazione artistica non ciò che è temporaneo, ma ciò che è eterno, trasmessoci dalla Natura e dal Tempo».
Il poeta, critico e giornalista Daniil Čkonja nella sua prefazione alle poesie di Nina Kossman, pubblicate nella più importante rivista di poesia russa La Lira dell’emigrazione afferma: «Le poesie di Nina Kossman abbinano i miti dell’antica Grecia alla sensualità contemporanea…Questa poetessa intreccia abilmente strati storico-culturali con gli avvenimenti del nostro tempo, creando un suo proprio quadro della vita nella sua continuità e unità».
Ed ecco infine il commento del mio amico poeta e slavista Antonio Sagredo, al quale ho fatto leggere le poesie di Nina Kossman da me tradotte: « Ciò che più colpisce in questa poetessa è la forte personalità che possiede e che dimostra come ha ingerito al massimo grado la lezione e la vita della poetessa russa Marina Cvetaeva, della quale è stata fine traduttrice di tanti suoi versi. Questa sua personalità mi richiama un’altra grandissima figura femminile: Anna Politkoskaja (uccisa sotto casa dagli uomini del Cremlino) che fu pure lei affascinata dalla Cvetaeva tanto da scriverne la sua tesi di laurea; questa grande giornalista soltanto lei poté affrontare con coraggio il potere, come ai suoi tempi spietati la poetessa.
Donne dunque di carattere inflessibile, e questi versi della Kossman – così attuali in questi nostri tempi odierni – ne testimoniano il piglio irremovibile di fronte ad eventi tragici che si ripetono crudelmente, tanto da marchiarli ancora di più:
Sono nata nel paese Dei morti a milioni, Nel silenzio soffocante Di guardinghe passioni,
Dove il cielo di notte Era detto assolato, Coi teschi così a lungo Sotto il suolo ghiacciato.
Non verranno sepolti, I nomi scorderanno; I nomi degli uccisi Le lapidi non sapranno,
Delle anime riconosciute Per il sangue loro: Io sono della stessa valle, Ma non dello stesso coro.
E’ certo che ci vuole grande talento a tradurre la Cvetaeva!, e la Kossman lo ha di certo perché le stato riconosciuto in primis dal celebre critico americano Harold Bloom e dal poeta W.S. Merwin, e da tanti altri notevoli critici e poeti di varia estrazione culturale.
Dalla foto della Kossman noi miriamo il suo bel viso che tradisce un carattere determinato e pochissimo incline a giudizi lusinghieri e confortanti. Il suo verso è chiaro in forma e contenuto e di questo dobbiamo ringraziare la bravura del traduttore Paolo Statuti; questo verso non lascia al critico di dubitare affatto della sua missione, poiché è diretto e non ha tempo per fronzoli e ricami che possano rigenerare una speranza nuova e diversa:
Non più immune dagli eventi della sua anima,
egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.
Nina Kossman ha scritto tanto e la sua bibliografia giustifica il suo impegno là dove la poesia, la sua anche, ha diritto di abbarbicarsi su qualsiasi cosa che richieda un supporto, un aiuto, un richiamo all’umanesimo. Poesia dunque combattiva per la verità che svela i crimini impuniti, come appunto quella della poetessa Cvetaeva, e come i reportages coraggiosi – io scrivo quello che vedo! – della Politkovskaja.
E allora di nuovo i miei ringraziamenti, che mai finiscono, a Paolo Statuti vera talpa che scova la poesia dei poeti di ogni latitudine… un lavoro di scavo prezioso con cui le generazioni che verranno dovranno confrontarsi.
Ma ecco la poesia della Nina:
Eccola, vedi, scorre, l’acqua viva del torrente, l’acqua viva delle fiabe, per tutti e per niente».
Poesie di Nina Kossman tradotte da Paolo Statuti
Babi Yar
La madre diceva tua sorella mi fa impazzire,
Ma dov’è, oggi andiamo tutti a morire.
I fritzi* bussano alla porta, dobbiamo uscire.
Presto, svelto, perché quei libri, che te ne fai,
Là dove andremo a stare non li userai mai.
Sei sempre l’ultimo, figlio mio, continuava a dire.
Ecco, sono pronti, ma ora lui vuole dormire!
Dormirai là dove ci porta la nostra stella.
Lascia i libri e cerca piuttosto tua sorella.
Sei uno sciocco, davvero, ma quale stazione?
Ora c’è anche la sorella e vanno in processione.
Chi guidava la colonna loro al macello
Aveva nipoti e pronipoti e prendeva la pensione,
I nipoti hanno un animo gentile, non serve
Traumatizzarli parlando loro di un certo bosco,
Dicendo che nel mondo non c’è un solo posto,
Che è una radura, e nessuno è risuscitato;
Ma che il nonno alla loro madre ha mirato,
Che il giovane era mezzo addormentato,
E cadendo sulla madre gli è sfuggito il sacchetto,
Tra i libri sparsi sul corpo c’era anche un gessetto…
Taci, al nipote non serve il tuo boschetto.
*Soprannome peggiorativo per i tedeschi (N.d.T.)
* * *
Vedi come il nero stormo
di uccelli caduti senza chiasso
guarda, ingoiando l’aria,
l’aria che fissa in basso;
e la loro mente, diventata ali
e il loro sogno sorpreso
della volta celeste, perfidamente segata
fino all’azzurro stesso –
dal nero stormo, senza un grido,
nelle mute lame dell’erba:
della ferrosa terra centocchi
e del vedente cielo sono una lega.
* * *
Vedi come il sole nasconde
abilmente con le mani d’oro
il ricordo degli avi bruni
in lunghi vasi pagani;
sottili mani del sole,
agili gialle dita –
perché non si sappia nulla
dei visi sereni degli Etruschi,
delle lievi etrusche ceneri,
e del secolare specchio tra noi e la morte.
* * *
Sono nata nel paese Dei morti a milioni, Nel silenzio soffocante Di guardinghe passioni,
Dove il cielo di notte Era detto assolato, Coi teschi così a lungo Sotto il suolo ghiacciato.
Non verranno sepolti, I nomi scorderanno; I nomi degli uccisi Le lapidi non sapranno,
Delle anime riconosciute Per il sangue loro: Io sono della stessa valle, Ma non dello stesso coro.
Là dove mamma piangeva Per l’uccisione del padre, Dio di Abramo – Ozem nell’ade.
Nuovi paesi e l’amore Io non trovo, Se sotto la neve i resti Giacciono di nuovo.
* * * Eccola, vedi, scorre, l’acqua viva del torrente, l’acqua viva delle fiabe, per tutti e per niente. Nessuno vestirà d’oro, nessuno dall’insonnia salverà, l’acqua viva delle fiabe, limpida e lenta sarà.
Vedi come dolcemente scorre, si aggrappa alle mie fredde mani, l’acqua viva delle fiabe – via da me!* Cura prima i tuoi mali.
*L’espressione russa “Czur menjà”, da me tradotta “Via da me”, è usata per scongiurare una minaccia, un pericolo da parte di uno spirito maligno derivato dalla mitologia slava.
* * *
Vedi come i gabbiani assonnati, lentamente sonnolenti si aggirano, muovono le ali sulla rossa argilla presso il lago, l’argilla con cui i greci plasmavano stretti vasi con un accenno alla vita degli dei (custodi del segreto della morte, rivelatisi soggetti ad essa) – gli dei di argilla rossa presso il lago degli uccelli assonnati.
* * *
Se la morte non c’è,
allora puoi campare,
con una parola puoi la terra evocare,
con ogni parola la vita prolungare,
con ogni lettera gli uccelli invitare
a un convito di briciole di pensiero,
di scorza di sogno; il loro chiasso mattiniero
è un segno che la vita non è un inganno,
lascia che muovano la coda come fanno,
lascia che sia un indizio
che la morte non ha né fine né inizio.
* * *
Non più immune dagli eventi della sua anima,
egli era di nuovo incantato dal piano del mondo.
Egli ora percepiva in esso non un ruggente nulla,
ma gli anelli e le crespe lasciate nell’aria
da un suono, un gesto, un commosso addio.
Pronto per l’età adulta, il mondo farà germogliare
viticci e petali in luogo di un sospiro
inudito dalle forze avvolte nelle nubi
o sotto il primevo suolo dove dormono gli amanti.
O scintillio di una vita faccia a faccia con un miracolo!
L’apparenza respinta per amore dei sentimenti!
Spruzzato di felicità come di dolce acqua,
egli si gettò a capofitto nel ridente grembo di lei
il cui viso egli poteva uguagliare al nulla,
la cui mano – ah, la più vera mano umana!
Pronto ad ammirare la purezza nella stagionale lite
di lei col vuoto, egli – come tutti i candidi amanti,
vedeva anziché il viso di lei, il suo proprio capriccio.
Quando il seme del miracolo generò lo stelo del dubbio,
egli udì una dolce melodia – la sua;
egli udì un ruggente vuoto – del mondo.
* * *
Irruppe a un tratto e come un cieco, Inciampando, il vagone attraversò. «Ehi, dove vai?! Fermati!» – Dalla banchina qualcuno gridò.
Ma egli parla con se stesso, Il bastone qua e là puntato, Proprio come un cieco, Alle tenebre abituato.
Ma chi è? Come si chiama? Come può l’angoscia superare? Si irrigidì al finestrino, Cercava di ricordare.
Chi è? Da dove è venuto? Alla luce come si strugge! Eppure ognuno, sempre Al nulla sfugge.
* * *
Ogni giorno più libere,
le parole che la morte ha preso:
cosa possono dire
che non è stato già chiarito,
più libere nella pioggia
ogni anno finito
parole che la morte ha preso,
cosa possono dire
che non è stato ancora detto
in ogni lingua, ogni libro;
se il silenzio è d’oro
allora le parole che la morte ha preso
sono oro in una rete da pesca,
io le aspetto in silenzio,
ogni giorno più libere.
* * *
Parole nella mia mano come ciottoli,
siete tonde e pacifiche.
Ma il frastuono della guerra
è giunto da lontano,
e il mare ha portato via i ciottoli,
ed è vuota di parole la mia mano.
* * *
Tra la spuma d’autunno
E la scorsa primavera,
Come libero uccello – un falco
Nello studio sulla tela,
Tra l’ombra e la forma
Di un’ombra in terra
Come di viventi al di fuori
Un’ombra che ricorre,
Tra la misura e l’immagine
Di mondi ripetuti uguali
Come orchestrazione di narcosi –
In preghiere di messali…
Scegli, se
Il soffitto blu posato
Sopra il tuo studio
Pace non ti avrà dato.
La lettera che Giordano Bruno non scrisse
17 febbraio 1600. Freddo gelido in Campo de’ Fiori.
La folla è accorsa per vedere l’eretico arso vivo.
È nudo e appeso a testa in giù,
reo di aver negato i dogmi della Chiesa Cattolica,
e mentre la turba urla e fischia,
Giordano Bruno, la cui mente è ancora lucida,
malgrado settimane di atroci torture
(neanche con lo stivale* ha ripudiato),
scrive una lettera nella sua testa a chi
si troverà in quella piazza secoli dopo,
quando anche un bambino saprà che è vero
ciò per cui oggi lo condannano al rogo:
che la terra gira intorno al sole
e non viceversa;
che Dio è dentro di noi, non ha la barba
e da una nuvola non prende spunti
da vecchi con la tonaca;
che per la libertà di pensiero è giusto lottare
e perfino morire, bruciato sul rogo.
Ma non fa in tempo a terminare la lettera
che sta scrivendo nella sua testa,
perché le fiamme già avvolgono il corpo
e la mente, non più forte come prima.
“Verrà il giorno” – cerca di continuare –
“In cui tutto ciò che ho scritto sarà provato…”
È l’ultima riga della sua lettera non scritta.
Qualche ora dopo il sacco con la sue ceneri
viene portato al Tevere. Aperto. Svuotato.
*Lo „stivale spagnolo”, orribile strumento di tortura. (N.d.T.)