Archivio | febbraio, 2013

Poesia satirica russa

23 Feb

Una poesia di Sasha Ciornyj  (1880-1932) tradotta da Paolo

Statuti

L’amore deve essere felice…

L’amore deve essere felice –

E’ il diritto dell’amore.

L’amore deve essere bello –

E’ la saggezza dell’amore.

Dove hai visto un simile amore?

Presso i signori scrivani dello Stato Maggiore?

Sulla scena, dove il tenore ben raso

Stringendo il guanto allo sparato,

Monta una dolce crema

Di amore, usignolo e luna?

Nelle liriche strofe dei poeti,

Dove amore fa rima con dolore

E quasi sempre è affamato?…

Ai piedi del Bellissimo Amore

Depongo questo pietoso serto di assenzio,

Nei suoi deserti giardini da me strappato…

 

 

(C) by Paolo Statuti

Poesia polacca

20 Feb
Juliusz Słowacki

Juliusz Słowacki

Juliusz Słowacki e il papa Slavo

  

   Il 1 giugno 1846 morì il papa Gregorio XVI, che era salito al soglio pontificio il 6 febbraio 1831, quando la Rivolta di Novembre in Polonia era al suo culmine. Ricordo qui che essa, conosciuta anche come Rivoluzione Cadetta, fu una ribellione armata contro il dominio dell’Impero russo in Polonia e Lituania. Essa fu sedata dall’esercito russo il 5 ottobre 1831. Gregorio XVI temeva soprattutto una rivoluzione, e il 15 febbraio 1831, pochi giorni dopo la sua elezione, inviò un primo cauto monito ai vescovi polacchi, sollecitato dal principe Grigorij Gagarin, ambasciatore russo a Roma, secondo il quale i fatti di Polonia si ispiravano alle idee del pensatore cattolico francese Lamennais (1782-1854), la cui difesa di una conciliazione tra cattolicesimo e liberalismo lo aveva portato a una rottura con la Chiesa. Poi, su esplicita richiesta dell’ambasciatore russo, il papa emanò l’enciclica Cum primum (9 giugno 1832), in cui condannava la Rivolta polacca, attribuendola tra l’altro a intrighi della massoneria. La morte di questo papa fu quindi accolta con gioia non solo in Polonia, ma anche in Italia (Mazzini, Garibaldi) e in altri paesi. Si sperava ora in un pontefice meno dispotico e più liberale.

   Dopo un conclave durato appena 48 ore, il più breve nella storia della Chiesa, il cardinale Mastai fu scelto in una rosa di 52 cardinali e prese il nome di Pio IX. In questo contesto storico Juliusz Słowacki (1809-1849), il più grande poeta romantico polacco accanto ad Adam Mickiewicz (1798-1855), tra il 1 e il 16 giugno 1846 scrisse la sua celebre e profetica poesia “Tra le discordie la grande campana…” Słowacki era guidato dall’idea del bene della Chiesa, ma anche delle nazioni e soprattutto della Polonia. Infatti, Pio IX fu molto benevolo verso quest’ultima, e non solo non condannò la Rivolta di Gennaio (1863), ma la sostenne. Słowacki, scrivendo sulla necessità di eleggere un papa slavo, aveva dunque in mente un papa favorevole agli Slavi, oppure sensu stricto pensava a un vero e proprio Slavo, ciò che allora non si verificò? Qualunque fosse il suo pensiero, oggi sappiamo con certezza che ciò avvenne più tardi, quando cioè 133 anni dopo, la profetica visione di Słowacki si avverò con l’elezione del papa polacco Giovanni Paolo II.

   Che anche oggi, nel prossimo nuovo conclave un altro papa slavo salirà al soglio pontificio?

   Per questo mio post mi sono avvalso parzialmente dell’articolo “Il papa slavo” del poeta e critico letterario Stanisław Stanik, pubblicato dal settimanale “Myśl Polska” (Il pensiero polacco) del 16 maggio 1999.

 

Pubblico qui la mia versione della profetica poesia di Juliusz Słowacki

 

Tra le discordie la grande campana…

 

Tra le discordie la grande campana –

        Iddio ha battuto,

Per il Papa Slavo è risonata,

        Il trono è dischiuso.

Dinanzi alle spade egli non fuggirà

        Come quell’Italiano,

Egli audace come Dio le affronterà;

        Per lui il mondo – è vano.

 

Il suo volto, raggiante come il sole,

         E’ fiaccola ai fedeli,

Dietro a lui accorreranno le folle

         Nella luce dei Cieli.

Alle sue preci i popoli e non solo –

         Al suo comandamento –

Anche il sole si fermerà con loro,

          Perché la forza – è portento.

 

Egli ormai è vicino – nuovo dispensatore

          Delle forze terrene,

Si ritrarrà il sangue alle sue parole –

          Nelle nostre vene;

E nei cuori sgorgherà la sorgente

          Della luce divina,

Creerà ciò che nasce nella sua mente,

          Perché la forza – è vita.

 

E occorre la forza per sostenere

          Del mondo il fardello…

Ecco dunque che il Papa Slavo viene,

          Dei popoli – fratello…

Ecco che già versa nei nostri cuori

          I balsami del mondo,

E una schiera d’angeli – coi fiori

          Gli prepara il soglio.

 

Dispenserà l’amore, come i potenti

          Dispensano le armi,

Mostrerà la forza dei Sacramenti,

          Con il mondo sui palmi.

La sua colomba-parola recherà

          La soave novella,

Che lo Spirito regna e risplende già

          Come fulgida stella;

Sopra di lui, dall’uno e l’altro lato,

           S’aprirà il cielo radioso,

Perché egli sul trono s’è mostrato

           E crea il mondo e il trono.

 

Affratellerà le genti del pianeta,

           E dato il comando,

Gli spiriti giungeranno alla meta

           Attraverso il pianto.

Di cento nazioni lo aiuterà così

           La sacramentale sorte,    

E il frutto degli spiriti  apparirà qui

           Davanti alla morte.

 

Torrà alle piaghe del mondo il marciume,

           I rettili – i vermi,

Apporterà l’amore e la salute

           E salverà gli inermi.

Netterà l’interno dei templi e il sagrato,

           E di grazia adorno,

Mostrerà Iddio nel Suo creato,

           Chiaro come il giorno.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Poesia ceca: Vilem Zavada

19 Feb

                                                                           Ad Antonio Sagredo

Vilém Závada

 

Vilem Zavada

Vilem Zavada

   Per il centesimo post del mio blog, che dedico all’amico poeta e slavista Antonio Sagredo, ho rispolverato con grande piacere la mia tesi di laurea dal titolo: Vilém Závada – Disfacimento e rigenerazione (Università degli Studi di Roma, Anno accademico 1974-75, relatore: prof. A.M. Ripellino).

   Conobbi personalmente il poeta a Praga nell’aprile del 1974 e l’impressione che ne riportai, unita a quella ricavata da quanto letto su di lui, mi suggerì l’immagine d’un vulcano perennemente attivo e al tempo stesso di una delicata distesa di fiori sotto un cielo sereno. Un animo in perenne tumulto che si esterna e si concretizza in una continua messe di poesie demolitrici e insieme rigeneratrici. Uno sguardo profondo e vigile, come dinanzi a un pericolo eternamente incombente.

   Vilém Závada, poeta, scrittore di libri per l’infanzia e traduttore da molte lingue, nacque il 22 maggio 1905 a Hrabová presso Ostrava – città di montacarichi e di ferriere eruttanti nembi di fumo di giorno, e vampate di fuoco di notte, città situata in una regione di verdi prati, di campi di patate e fulve distese di frumento. Entrambi questi mondi lasceranno profonde tracce nella personalità umana e poetica di Závada.

   Nel 1923 conseguì la maturità presso il liceo classico di Ostrava. Ebbe fortuna con il professore di ceco – lo scrittore Vojtěch Martínek, che con le sue lezioni destò in lui l’interesse per la letteratura ceca e il desiderio di dedicarsi allo studio delle lettere. Entrò alla facoltà di filosofia dell’Università di Carlo a Praga. Come studente di filosofia e di storia della letteratura, l’esordiente poeta si occupa in particolare dell’opera di Václav Šolc e di Otokar Březina. Sul primo scrive la sua tesi di laurea, il secondo lo entusiasma con i fuochi d’artificio delle metafore e con la vastità del cosmo poetico, come indica il suo studio “Sulle orme di O. Březina” (1929). Terminati gli studi, si iscrisse alla scuola statale per bibliotecari, conseguendo il diploma nel 1927. Nell’ottobre dello stesso anno, con l’aiuto di Seifert, ottenne il posto di segretario presso la casa editrice Aventinum.

   Grazie a Nezval, Závada entrò a far parte del Devětsil, associazione di artisti cechi di avanguardia fondata a Praga il 5 ottobre 1920, che ebbe all’inizio tendenze proletarie e successivamente poetistiche. Anima di questo gruppo era Karel Teige, uomo estremamente dotato e colto, che manteneva legami con le avanguardie in Francia e in Unione Sovietica, nonché in altre parti del mondo.

   Nel maggio del 1924 Teige scrisse il suo programma poetistico. In esso tra l’altro si affermava: “Il poetismo esclude dalla poesia sentimento e ragione, fa appello alla immaginazione creativa, alla fantasia: le restituisce tutto il suo diritto, ma per questo esige da essa prestazioni elevate…Il poetismo non vuole essere una corrente, e in nessun caso neanche un metodo estetico, ma un “modus vivendi”, “igiene spirituale e morale”, “stimolo di vita” e quindi, in fin dei conti – vita”.

   Ma al tempo in cui Závada entrava con Halas a far parte del Devětsil, il programma poetistico andava esaurendosi. Teige stesso cominciava a inclinare più verso i problemi dell’arte figurativa e verso l’architettura, benché amasse sempre di più la poesia.

   Alla fine del 1927 il ventiduenne poeta esordì con la raccolta “Panichida” (Requiem), apparsa contemporaneamente a “Sepie” (Seppie) di Halas. Nei due poeti, come anche in V. Holan che, dopo il gioco poetistico “Blouznivý vějíř” (Il ventaglio delirante, 1926), giunse poi a quella confessione della sua tragica generazione che è la raccolta “Triumf smrti” (Il trionfo della morte, 1930), tornano incessantemente le immagini allucinanti della morte bellica, ancora più cupe e spettrali, in quanto emerse dalle esperienze infantili.

   A differenza dalla spensieratezza verbale, dalla voglia di giocare poetistica, la poesia di Závada esige un maggior rigore, è spietata con se stessa laddove vuole esprimere tutta la tristezza del suo tempo. Essa è direttamente costruita sul conflitto, sull’antinomia di esistenza e coscienza; da un lato la materia è descritta in tutte le sue forme, ma specialmente nella sua deperibilità e distruzione, dall’altro si manifesta l’anima, prigioniera della materia stessa. Mediante l’analogia il poeta confronta, intreccia e collega nozioni e concetti del campo sociale e spirituale.

   Dal mondo delle miniere e degli stabilimenti siderurgici deriva la predominante sonorità dei suoi versi: sono intenzionalmente non melodici, ammassa disarmonici gruppi di consonanti, il ritmo è incerto, la rima è spesso sostituita da un’assonanza.

   La seconda raccolta di poesie – “Siréna” – esce nel dicembre del 1932. Ritornano in essa, con maggiore intensità, le stesse pessimistiche, cupe e strazianti allucinazioni di nullità già trovate in “Panichida”. Scrive A.M. Ripellino nella sua “Storia della poesia ceca contemporanea”: “Per Závada il mondo è la riproduzione concreta di un allegorico inferno, torbido e spettrale luogo di pena, angusto spazio profanato dagli spiriti della bruttezza e della volgarità…Colpisce in Závada, come in Halas, l’ampiezza del barocco: barocco nel senso della vanità e dell’inferno, nel materialismo e insieme nell’estasi dell’anima dinanzi al mistero, nel culto del disfacimento corporale e nel fanatismo della morte…Da questo cerchio di maledizione Závada non riesce a svincolarsi, nonostante la sua ansia di riscatto e la fede nella trascendenza divina”.

   In “Siréna” si avverte Baudelaire. Sentiamo la sua influenza non solo nel culto così esuberante della putrescenza, della ripugnanza. Questo poeta che considera l’immaginazione “regina di tutte le facoltà”, riesce parimenti ad imbrigliarla, si ribella al gusto classicheggiante, ma ne accetta le forme. Anche in Závada, allo sbrigliato andamento di “Panichida”, segue in “Siréna” una rigorosa disciplina metrica e strofica. Il poeta sottoporrà questa raccolta a una redazione molto critica e la pubblicò di nuovo nel 1950. Sotto molti aspetti è un’opera nuova. Egli non solo toglierà una serie di poesie, ma modificherà anche stilisticamente molti altri versi, privandoli soprattutto della loro descrittività, illuminandoli semanticamente.

   Nel 1937 uscì la terza raccolta di Vilém Závada – “Cesta pěšky” (Strada a piedi). In essa le immagini apocalittiche delle prime due raccolte assumono il volto concreto del mondo colpito dalla crisi economica. Si avverte la sensazione angosciosa delle prossime scosse e catastrofi sociali. Ma la stessa consapevolezza del pericolo gravante sul mondo e sulla patria, stimola in lui uno slancio lirico di fiducia nella vita. Egli si libera dal senso di eterna maledizione, dai fantasmi della disperazione, rifugiandosi nell’amore e nella natura. Qui egli supera il profondo scetticismo delle prime due raccolte e trova una nuova missione per la sua poesia, e ciò gli consente di terminare la raccolta con i versi: “Suono il corno della fiducia/sulla terra nelle serate nuvolose”.

   Per il volume “Hradní věž” (La torre del castello), uscita nel 1940, e considerata da molti il libro della maturazione poetica, fu assegnato a Závada un premio nazionale. In questa poesia nata durante l’occupazione nazista, il poeta per eludere più facilmente la censura, si esprime con allusioni, con parabole. Egli cerca sostegno nei valori più essenziali della vita umana, nell’amore della madre, nella salda coesione della famiglia. Tipico in questa raccolta è il simbolo dello scalpellino, che dal più duro materiale roccioso deve faticosamente ricavare i blocchi per il corale d’una cattedrale gotica. La bellezza deve essere innalzata, scolpita nella solida pietra.

   Nella seconda metà degli anni di guerra il poeta compone una raccolta in cui con tutte le forze vuole uscire dalle tenebre dell’occupazione. Lo indica già il titolo simbolico “Povstání z mrtvých” (La risurrezione dei morti). Questo libro significò al momento della sua pubblicazione, nella primavera del 1946, il primo passo nell’epoca socialista, “l’ora grave” della rigenerazione nello sviluppo poetico di Závada. La risurrezione della vita e dell’umanità dalle rovine della distruzione – è il patos di questa raccolta.

   Nel 1950 Závada pubblica la raccolta “Město světla” (La città della luce). Qui il poeta caratterizza così il suo metodo creativo: “Io direi che non scrivo. Per me l’arte poetica non consiste nello scrivere. In me la poesia nasce da alcune impressioni a lungo maturate. Devo partorire la poesia come una madre il bambino. Le singole impressioni si sviluppano gradatamente come una fotografia, e solo a sviluppo ultimato si traducono in versi. Per me non si tratta di sedersi al tavolo e iniziare da qualche idea fugace a fare poesia”. La poesia per Závada è più il frutto di un lungo, paziente lavoro, che il risultato d’una ispirazione improvvisa. Ora il poeta brama un mondo in cui l’uomo, reso infermo dalla guerra, guarisca quanto prima con l’ozono dell’amore e della fratellanza, in cui la gente cominci finalmente a sfruttare “i suoi pozzi solari”. Il lirico scopre l’incanto della realtà quotidiana e le sue note si fanno più limpide, più melodiche, soprattutto nella lirica intima e della natura, e nel suo canto, un tempo così amaramente malinconico, brilla anche un estro scherzoso.

   La raccolta “Polní kvítí” (Fiori di campo), pubblicata nel 1955, formalmente e artisticamente è una decisa reazione al passato. In armonia col titolo, il poeta ama ora le note semplici, assai familiari, che appaiono sature di fervido accento umano. L’amore per la vita e per l’uomo è la fonte stessa e il senso di queste strofe di Závada. Anche se, a detta di alcuni critici, nonostante tutta la loro concretezza e attrattiva, i versi di “Polní kvítí” sono eccessivamente semplificati e alquanto compiacevolmente soggetti alle ricette in voga della poesia socialista, essi tuttavia, almeno in diverse parti della raccolta, ci appaiono come l’espressione sincera e appassionata di un poeta che crede fermamente nella capacità dell’uomo di elevarsi e perfezionarsi, ed è una chiara dimostrazione di “affetto” poetico.

   In “Jeden život” (Una vita), raccolta uscita nel 1962, Závada tenta, sfruttando pienamente le sue capacità d’immergersi a fondo nell’intimo umano, di creare una parabola, il cui senso sia il quadro più completo dell’uomo del ventesino secolo. L’intera raccolta conferma la grande importanza della terra natia e delle esperienze infantili per il poeta. Ritroviamo l’antica bipolarità della poesia zavadiana. Da un lato la terra carbonifera, la nera regione sulla quale è eternamente nuvolo, dall’altro la terra ubertosa, con le distese di grano, coi boschi silenziosi e le serate tranquille. Si può dire che “Jeden život”, più che l’apertura d’una nuova strada, rappresenta la sintesi e la chiusura di una particolare fase evolutiva del poeta – quella che conduce a una più profonda comprensione della vita.

   Nel tessuto della penultima raccolta di Závada – “Na prahu” (Sulla soglia, 1970) risaltano particolarmente due immagini, che sotto forme diverse si richiamano ai suoi inizi poetici: lacrime e sole. “E sono rimasto per sempre un corpo fatto pianto”, confessa l’autore nella poesia introduttiva. Il sole sorge invece come principio ristoratore e vivificante. Ciò che più colpisce in questa raccolta di Závada è il suo non sminuito coraggio di guardare in faccia l’inesorabile destino. La vicinanza della morte elimina le illusioni, ma accresce allo stesso tempo l’amore per la vita. Il poeta sottolinea che “il mondo non è luogo di feste né di sagre…” Ma alla transitorietà umana sopravvive il moto dell’eterno rinnovamento della vita: “Cade foglia dietro foglia – l’albero è lì e non si cruccia/Lui stesso in autunno le spargerà per il fogliame della nuova primavera/Scorre via lo sconforto delle acque e le rive non si dolgono/di perdere nel mare il volto e il nome/Se ne andranno gli uomini – ma le strade resteranno/Passa l’acqua dei fiumi – ma la fonte continua a sgorgare”.

   L’ultima raccolta pubblicata da Vilém Závada è “Živote, díky” (Grazie, vita, 1977). Soffusa di moderato ottimismo, è un sereno bilancio esistenziale, un lirico addio, con un sincero ringraziamento alla vita e al lavoro creativo dell’uomo.

   Concludo lasciando la parola al poeta stesso: “Non vorrei mai restarmene in disparte. Non vorrei nemmeno sedere su una panchina a beffeggiare. E nemmeno vorrei essere in un tempio di adepti del demonio. So che nella nostra vita c’è anche molta assurdità, ma c’è in essa anche un senso preciso, c’è in essa anche molto desiderio di ordine. Forse questo desiderio a taluni sembrerà ingenuo, ma io vorrei più volentieri passare il tempo con le persone ingenue, che essere furbo e per di più glacialmente indifferente. L’arte può avere un effetto benefico o non averlo affatto. Sarei felice se i miei versi aiutassero anche solo di un’inezia le forze sane della vita”.

   Vilém Závada è morto a Praga il 30 novembre 1982.

 

                                                                                                   Paolo Statuti

 

Poesie di Vilém Závada tradotte da Paolo Statuti

 

 

Pastello

 

L’autunno

scuote via le foglie

per l’offerta funebre.

 

Il cielo è aperto come un ombrello.

Sotto di esso mi rannicchio e sento

la grande migrazione dell’amore

dai boulevard,

dai lidi della carnagione illuminata

verso il focolare fiammeggiante,

fino al cuore.

 

Solo le zanzare fievolmente ancora ronzano,

come se lontano in qualche luogo

nella nebbia piangessero bambini per il freddo.

 

(Panichida)

 

Notturno rinascimentale

 

O cielo maligno come il sorriso di Monna Lisa

inarca un argine sul purgatorio umano

Sotto le pieghe classiche della toga azzurrina

l’Olimpiano nella polvere come un serpe si contorce

 

Sazio ormai del dolce incanto della linfa faunesca

adora il vitello d’oro l’autore delle bellezze

commosso dal paradiso di uccelli nei boschetti presso Assisi

Per contagio dei cieli gli si intenerisce la voce adulatoria

 

La malvasia di denso sangue lo aizza come un’arpia

a lungo fino all’alba dopo le orge delle glandole

Potesse annientarlo il serafico tallone di Maria!

 

O poeta che peschi il cielo negli specchi

non temere le sfere dove sfavilla il gelo

In basso i limpidi vetri ti appanna il fiato umano

 

(Siréna)

 

I funerali del poeta

(In memoriam di Otokar Březina)

 

Il Giovedì santo

da chiese di campagna e cattedrali

volano gli scampanii fino a Roma

La quieta marcia funebre

del funereo corteo

che si avvia

nella terra del poeta

al cimitero

comincia a risonare

come il gracidio di raganelle

la settimana santa

perché l’anima del campanaro

è volata via fino all’eterna Roma

 

Il cielo

indossato il crinito mantello della pioggia

piange

Jakub Deml in paramenti neri e dorati

celebra la solenne messa da morto

e piange

Un luttuoso corteo di poeti

accompagna il suo ammiraglio all’estrema dimora

e piange

 

E le lacrime scorrono

sui volti cinerei

e le lacrime fluiscono

sulla terra raggrinzita

così lentamente

così lentamente

come aprendosi la strada tra le rughe delle vecchie

che piangono così sottovoce

perché sanno

che ormai col pianto non otterranno nulla

perché sanno

che col pianto non cambieranno nulla

 

Ma nel fulgore

del sorriso spirituale del poeta

il pianto si muta in arcobaleno

che insegna di pace

sventola sul bastione del cielo

 

E il poeta

avvolto nel vessillo dell’iride

che è il tricolore nazionale

della sua patria celeste

sommessamente dice:

 

V’ho portato la mia staffetta

ed ora me ne vado

Perché piangete?

 

E la brezza

che incensa la sua bara

pian piano sussurra:

 

Dio lo invidiava agli uomini

per questo lo ha chiamato a sé

riservandogli un aureo seggio

nello stato maggiore degli angeli

 

E la Terra

che dietro di lui per sempre si chiude

i superstiti afflitti consola:

 

Increduli perché piangete?

Non è morto

ma dorme

e nel mio cupo palazzo

avrà pace eterna

 

Ogniqualvolta vi sentirete morire

il vostro cavaliere vi verrà in aiuto

con il cuore e con lo spirito

 

Ma come credere ai consolatori

se essi stessi piangono?

 

(Siréna)

 

 

 

 

 

Le rose

 

E’ per legge o per celia

che le rose han sempre un così bel profumo?

Le rose sono forse una splendida rima

alla fine d’un misterioso poema,

 

oppure un prodigio occulto

materializzato d’un altro mondo.

Così poco si sa di esso,

e fioriscono ogni estate.

 

(Cesta pěšky)

 

Il lettore di poesia

 

Cielo azzurrino per le campànule pratensi

 

Verso sera siedi sull’erba

e vorresti leggere

quando il vento volta la pagina

e sui ginocchi

hai il libro aperto del cielo

 

Là le poesie delle nubi scorrono

nell’azzurro infinito

In esse il balenio delle stelle

Da esse una lacrima cade sulla terra

Al di sopra vedi avvampare

la maestà celeste

Vorresti leggere oltre

quando il vento volta la pagina

e sui ginocchi

hai il libro aperto della terra

 

Nella brughiera tra le pinete

si elevano al cielo dallo zolfo

di massi erranti i menhiri

misteriose metafore

di dolore pietrificato

nella poesia del paesaggio turchinamente inscurito

 

Tutto da capo vorresti leggere

quando il vento volta la pagina

e sui ginocchi

hai il libro aperto della poesia

 

Dietro la luce delle frasi melodiose

senti il singulto del buio vibrare

e negli spazi bianchi tra le righe

nei versi che indietreggiano

dinanzi alla gloria del cielo e al servaggio della terra

le pause di fronte al mistero

 

(Hradní věž)

 

La caduta

 

Volano nel buio sfavillanti meteore

staccatesi da stelle languenti.

Nel solenne irradiamento delle città

il polverio di luce prima del temporale.

 

E un vento nero spazza via dalle strade

con la sabbia i manifesti strappati

e il fogliame degli uomini turbinanti

e in cartocci contorto,

con un vermetto nel cuore.

 

Cadono i regni,

cadono i governi,

non volano in silenzio,

tuonano le cannonate.

 

E intanto dalle tane e dai sotterranei

dei bianchi,

neri

e bruni continenti

una nuova umanità si accalca

ed occhi febbrili cercano.

 

E qui dal buio materno,

dalle nebulose dei pallidi volti

in cielo nuove stelle salgono

e splendono.

 

(Město světla)

 

Senza nome

 

Il mio nome non è sui manifesti,

e neppure salgo sulla scena.

In abiti comuni cammino,

vivo come la gente comune

 

che ha costruito in tempi remoti

castelli e poderosi baluardi,

sepolcri per le salme degli eroi,

acquedotti e cattedrali,

 

in guerra avanzava con le sue armi

e negli scontri era salda come roccia.

I suoi nemici uccideva in battaglia

finché la terra intera sussultava.

 

Lacerata tornava alla sua casa,

e come a un mutamento ne segue un altro,

spaccava di nuovo pietre nella cava

per le città distrutte dalla guerra.

 

Ad essa nessuno ha eretto una statua,

un monumento di bronzo colato.

Benché sprezzasse del tutto la fama,

un monumento si creò con le sue mani.

 

Quel monumento – montagne rimboscate,

barricate intrise di sangue,

nei verdi campi bianchi casolari

e la terra coltivata come un giardino.

 

Il mio nome non è sui manifesti,

e neppure salgo sulla scena.

In abiti comuni cammino,

vivo come la gente comune,

 

ma fieramente traspare dal mio volto,

nei miei occhi risplende immutata

quella forza di migliaia d’ignoti,

la fama della gente senza nome.

 

(Polní kvítí)

 

                                                                                                                                                             Miosotidi

 

Così m’hai bruciato con gli occhi,

che sono come terra nei ruderi.

Vedi come ciò da me fuma

e come il fuoco verso di te s’impenna?

 

Nuovamente di te sono tutta incantata.

Sei giunto come un grande fiume.

L’acqua mi ha corroso le ginocchia

e mi porta chissà dove lontano.

 

Il fiume scorre sempre più oltre

e l’acqua si rigira e gira,

ma sulla riva dietro di essa son rimaste

miosotidi azzurre di occhi infantili.

 

(Polní kvítí)

 

 

Autunnale

 

L’autunno è quasi senza soldi.

Già ottobre attinge dagli ultimi.

Alla fine organizza un ballo

e di nuovo sarà un tripudio.                                                                                                                                                                                                  

 

Foglia con foglia giunge truccata

e volteggia come sul parquet.

Vedi le spalle nude di donne

nel chiassoso abito da ballo?

 

I capelli arruffati sul capo,

dall’alto cadono, ma cadono

e scompaiono nel buio sull’erba,

prima che termini la mascherata.

 

Come cadono le foglie autunnali

sempre chissà dove qualcosa cade.

Come pietrine sonore risuona

anche quella serenata per piano.

 

Di folle musica geme il bosco.

Come metallo tintinnano le foglie.

Dall’alto percuote i tasti

la mano focosa del pianista.

 

(Jeden život)

 

 

Erba nei ruderi

 

Cadono gli dei gli angeli i titani

Cadono i re i principi i tiranni

Cadono le stelle cade la fuliggine cade la neve

La terra è una nuvola caduta di polvere pietrificata

E il mare un cielo precipitato liquefatto

Non c’è altra fine che la decomposizione e la caduta

 

Ma nei ruderi verdeggia eternamente l’erba

Su di essa all’alba scintillano goccioline

limpide come rugiada pure come lacrime

Gli uomini si amano nelle guerre e nei terremoti

e la fonte della vita scaturisce anche dal fondo dell’inferno

Nessuno arresterà ciò che è maturo per la caduta

Nessuno fermerà ciò che si fa strada a fatica verso il sole

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

Racconti polacchi

17 Feb

Tre racconti brevi polacchi 

(tratti dalla mia antologia di racconti polacchi „Viaggio sulla cima della notte”, Editori Riuniti, Roma 1988)

 

Kazimierz Brandys (1916-2000)

La controfigura

   La controfigura è una persona il cui mestiere è soprattutto quello di cadere. La controfigura cade da un balcone o da cavallo, ci sono controfigure specializzate nel lanciarsi in un fiume da un ponte, a bordo di una moto; ho sentito anche di una controfigura ben pagata che sapeva cadere da grandi, vecchi alberi.

   La controfigura si paga non soltanto perché decide di cadere, ma anzitutto perché poi continua a vivere. Oggi che la disparità delle retribuzioni non è stata ancora eliminata, si troverebbero molti candidati alle cadute dietro adeguato compenso, a prescindere dai risultati conseguibili. Tuttavia non sarebbero delle controfigure. La vera controfigura cade senza rischiare e nella posizione prevista: a braccia distese o con la faccia a terra, a seconda delle esigenze. Poi si rialza, si scuote la polvere di dosso e si mette a tavola. Per questo viene pagata.

   Le cadute dipendono dalla vita. Si cade da cavallo perché c’è una battaglia e una freccia ha trafitto un cavaliere; allora la controfigura scivola lentamente dalla sella e il cavallo la trascina sul terreno. Si rotola giù per la scarpata della ferrovia durante una fuga sui tetti di un treno in corsa, oppure da un pendio roccioso direttamente in bocca al lupo. Sono situazioni apprezzate dagli spettatori: quando la controfigura esegue sullo schermo il suo salto, la platea urla sempre. Oggi questo è molto importante. La platea urla incantata. Un buon jazz: la platea urla; un bel tocco di ragazza: la platea urla; un bel tiro: la platea urla. La platea urla anche per un buon colpo nella pancia.

  Per rendere possibile quest’urlo, a volte occorre lavorare molti mesi. La finzione si prepara con grande impiego di energie; sono necessari apparecchiature, cavi e riflettori, elettrotecnici e costumisti, persone che imitano il verso degli animali e macchinari per produrre la neve. Sono necessarie anche le controfigure. Tutto ciò non fa l’effetto del risultato finale. Per l’urlo dei contemporanei lavorano persone stanche, affannandosi tra gli attrezzi e le luci. Ma forse dentro di loro si cela un bisogno impellente di provocare quell’urlo, di estrarlo dalla sostanza grigia della vita. Non ho mai visto un assassino che uccide la vittima, ma so che ciò succede, che ciò è una realtà e che il mondo tollera questo stato di cose con un genere di consenso umilmente canzonatorio. Alla vista del sangue che sgorga o di un corpo preso a calci anch’io lancio un grido verso lo schermo. Amiamo gli scandali. Un colpo mortale, un nudo o il chiasso assordante di una batteria sono estremamente scandalosi perché rivelano la natura scandalosa della vita.

   Alcuni cineasti greci giravano un film sui contrabbandieri, in cui la scena culminante doveva essere un inseguimento a cavallo e la morte del capo (che cade, appunto, da cavallo). La parte del capo era interpretata da un noto attore che si intendeva di equitazione quanto bastava per reggersi in sella, ma non tanto da saper cadere da essa. Una caduta davvero emozionante richiede capacità che non tutti hanno. Saltare bene gli ostacoli è alla portata di ogni cavaliere mediocre, ruzzolare in modo perfetto sanno farlo soltanto pochi. Si misero alla ricerca di una controfigura.

   Si presentarono cinque giovani. Quattro, dopo le prove, furono ricoverati in ospedale, il quinto fu risparmiato. Oltre alle varie ammaccature e lesioni riportate, era una pena constatare che i malcapitati cadevano pure male. Cadevano veramente, cioè senza effetto e senza stile; mentre il pubblico esige l’arte del cadere, cioè una caduta che sia al tempo stesso fortuita e necessaria, e inoltre consapevolmente scelta da colui che cade. Soltanto allora il pubblico lancia un grido di gioia. La situazione ideale richiederebbe una certa consapevolezza anche da parte del cavallo. Ad esempio, ci sono cavalli che nell’attimo in cui il cavaliere cade sanno nitrire in modo impressionante. Lo spettatore allora può stare tranquillo che è successo tutto ciò che doveva succedere, e tutti hanno avuto la giusta consapevolezza. Vorrei osservare, infatti, che la consapevolezza è il massimo della pena richiesto dal pubblico. Non gli basta mai il solo dramma, desidera che i personaggi del dramma abbiano piena coscienza di esso. Nelle narrazioni ingenue e didascaliche lo scopo è raggiunto non quando il cattivo muore, ma quando ha capito di essere cattivo. Il pubblico esce soddisfatto: non si può soccombere meglio.

   Il regista interruppe le riprese, fu deciso di cercare una controfigura all’estero. Due settimane dopo arrivò un uomo tarchiato e taciturno di cerca sessant’anni, un vecchio cosacco del Don, di una famiglia di emigrati bianchi. I cineasti pensarono a un malinteso.

   La controfigura rivolse al regista alcune domande sulle circostanze in cui doveva svolgersi la caduta: in quale punto battere la testa in terra, fin dove lasciarsi trascinare con un piede nella staffa e come distendere le braccia. Le domande sonavano alquanto insolite, – alle controfigure non era mai richiesta una tale precisione, – mentre in questo caso l’augurio generale era soprattutto che il vecchietto non ci rimettesse l’osso del collo.

   Il regista suggerì di provare, ma la controfigura dichiarò che non ce n’era bisogno; pregò di accendere le luci, montò in sella e cominciò a cantare qualcosa al cavallo. Si lanciarono al galoppo.

   Non fu necessario ripetere la scena, perché la caduta si svolse precisamente come richiesto: il vecchietto batté la testa nel punto stabilito. Con lo stivale destro lasciò un solco nel terreno, e con la mano sinistra sfiorò i cespugli esattamente entro l’inquadratura della macchina da presa. Quando la polvere si fu posata, lo videro che conduceva il cavallo al box. Il giorno dopo tornò in aereo a Parigi.

   Era un’eccellente controfigura, con una storia interessante. Non ho in mente la biografia, ma proprio la «storia», il turbamento interiore e il suo risultato finale. Le biografie attestano le possibilità della vita, mentre le possibilità di un uomo sono attestate dalle conclusioni che egli ha tratto dalla sua biografia. Non mi fido dei curriculum troppo fantasiosi, ho il sospetto che un gran numero di fatti attenui l’efficacia del commento. Un vero curriculum è la storia del rapporto di un uomo con se stesso, non del rapporto dei fatti con l’uomo. I fatti sono inevitabili come materiale necessario a creare quel rapporto, ma non sono a sé stanti. Nella massa di eventi che hanno coinvolto la nostra generazione vedo una delle cause dell’ostruzione spirituale di cui in fin dei conti soffriamo tutti, nessuno escluso. Troppo è successo, troppo succede, l’azione trabocca sui margini  destinati alle postille.

   Prendeva 500 dollari a caduta. Ma questo dice poco. Ciò che meglio testimonia chi fosse quell’uomo è il non aver mai eseguito più di due cadute al mese. Raggiunto questo obiettivo, egli respingeva ogni proposta ed è rimasto celebre il suo rifiuto di gettarsi dalla quadriga lanciata a tutta velocità in Ben Hur per un compenso triplo; eppure era già la fine del mese.

   A tale proposito, vorrei attirare l’attenzione del lettore su un certo particolare. Dopo aver ascoltato il breve racconto su questa controfigura, tra dieci possibili ascoltatori probabilmente otto o nove vorrebbero vedere una sua acrobatica prestazione, e forse uno o due avrebbero voglia di conversare un po’ con lui. Già, la maggior parte dei contemporanei si interessa più alle qualifiche specialistiche e professionali di un uomo, che non alle sue qualità psichiche. Importa loro non come è, ma ciò che fa. Alla base di questo rapporto c’è forse la convinzione, nel subconscio, che le persone si differenzino poco tra loro, e che la loro psicologia e moralità individuale siano scarsamente identificabili nella psicologia e moralità media della società, e che ciò che davvero le differenzia siano le funzioni svolte, ovvero i gradini della gerarchia professionale.

   Ma nel caso di questa controfigura a me interessa assai più la sua capacità di autocontrollo, che la perfezione tecnica della caduta. Dirò di più: a me interessa poco in qual modo egli sia arrivato alla sua incredibile destrezza, mentre sarebbe appassionante poter rispondere alla domanda: come e a quale prezzo ha raggiunto la sua saggezza filosofica, che nel secolo della corsa al successo gli consentiva di rifiutare tutto ciò che non fosse realmente indispensabile? Questo semplicissimo modo di difendere la propria libertà è – purtroppo, come la maggior parte delle cose semplici – incredibilmente difficile a mettere in pratica.

  Suppongo che questa controfigura fosse un rappresentante di quella categoria di eletti che vengono al mondo con la sensazione di non doversi aspettare molto dalla vita. Sono mosche bianche nel campo della psicologia. Non appartengono né alla specie dei «debitori» (come ad esempio gli eroi della grande letteratura russa), né a quella dei «creditori», ovvero delle persone convinte che il mondo debba loro qualcosa. Ebbene no. Questa terza specie nasce in parità con il mondo, e non solo non esige niente, ma nemmeno si aspetta molto da esso.

   Non solo sapeva cadere da cavallo, ma riusciva anche a precipitare in un fiume dal ponte, a bordo di una moto. Per fare questo prendeva lo stesso compenso, ma esigeva un’ulteriore garanzia: dopo la caduta una barca a motore doveva soccorrerlo subito. Infatti, appena toccava l’acqua, egli andava immediatamente a fondo. Insomma: non sapeva nuotare.

 

Stanisław Dygat (1914-1978)

L’onomastico

   Il signor Kazimierz Druciany, persona importante e stimata, era di natura molto progressista. Detestava e disprezzava tutto ciò che è arretrato, superato, superstizioso.

   Qualunque cosa si possa pensare o dire in proposito, è certo che questo suo bernoccolo era assolutamente disinteressato e non era legato a nessun calcolo di opportunità esistenziale. Era un progressista e detestava l’arretratezza, questo è tutto.

   Si sforzava anche, come poteva, di combattere ogni manifestazione di regresso e di oscurantismo; a viso aperto e senza transigere si dichiarava contro gli anacronismi di qualunque tipo. Nell’ultimo anno si era convinto che l’onomastico è appunto un esempio particolarmente idiota di anacronismo, una specie di insulso e meschino culto della personalità e, quel che è peggio, legato alle superstizioni del misticismo cristiano.

   Aveva smesso di fare gli auguri agli amici e ai conoscenti nel giorno del loro santo; non accettava gli inviti, si rifiutò perfino, con grande coraggio, di mettere la sua firma sul biglietto di auguri per l’onomastico del suo direttore.

   Il 4 marzo, giorno dell’onomastico del signor Druciany, era una domenica e, come al solito, egli fece una passeggiatina, bevve il caffè al Club Internazionale e dette un’occhiata alla stampa, quindi mangiò un normalissimo pranzo al ristorante. Con un sorriso di commiserazione si disse anche: «E pensare che abitualmente in questo giorno c’erano certi pranzetti solenni, fiori, regalini, baci sulle guance e analoghe scemenze che avviliscono la dignità dell’uomo». Assai soddisfatto di sé tornò a casa con l’intenzione di passare il pomeriggio a leggere un libro. Pensò tuttavia che forse qualcuno, senza telefonare, sarebbe potuto passare a fargli gli auguri. In fin dei conti non c’era motivo di chiudere la porta in faccia a persone cortesi. Dirà: «Io per principio non riconosco alcun onomastico e vi prego molto di non farmi gli auguri. Ma un ospite lo accolgo sempre con piacere». E se capita un ospite non si può non offrirgli qualcosa. Era dell’avviso che le sue regole di vita dovessero essere seguite rigidamente e drasticamente, senza tuttavia comportarsi da villani verso il proprio ambiente. Decise quindi di passare al supermercato e comprare per ogni evenienza un quarto di vodka e qualcosa per uno spuntino. Entrando però si rese conto che, grosso modo, sarebbero dovute venire  circa sei, sette persone, e pensò fosse meglio prenderne mezzo litro.

   Tornato a casa, travasò la vodka in una caraffa e cominciò a preparare le tartine. Mise sul tavolo una bella tovaglia e vi sistemò ogni cosa, quindi si sdraiò sul letto e cominciò a leggere. Un’ora dopo si meravigliò alquanto che nessuno gli avesse ancora telefonato. Allora pensò che molto probabilmente il telefono era guasto, ma il telefono non era guasto. Era sceso il crepuscolo. Alla radio l’orchestra Costelanetz suonava Meditation dall’opera Thaïs di Massenet. Posò il libro e si mise a riflettere. Qualcuno stava salendo le scale, ma non si fermò al suo piano, andò oltre. Il signor Kazimierz senza sapere perché si sentiva triste e malinconico. Guardò per un po’ il telefono e concluse che non suonava per qualche particolare e maligno puntiglio. Alzò il ricevitore e fece un numero.

   «Mietek, sei tu? Non faresti un salto da me? Ci facciamo un bicchierino… Sono un po’ giù e non troppo… Ah, vai a giocare a bridge? Beh, sarà per un’altra volta…»

   «Non si è ricordato nemmeno» – pensò il signor Kazimierz e sorrise amaramente.

   Si mise a camminare per la stanza, si fermò vicino al tavolo, si versò una vodka e svuotò il bicchiere. Si sentì rianimato, ma anche più avvilito. D’un tratto si ricordò dei suoi onomastici quando era bambino. Era pieno di ragazzine e ragazzini, cacao con la panna, giocattoli, lui, il più importante, al primo posto. Di continuo arrivavano zii e zie coi regali, e su tutti emergeva lo zio Stefan Otwinowski, rispettabile e spiritoso (famoso per le sue facezie).

   Mandò giù un altro bicchierino, poi un terzo, un quarto, un quinto…

   Alle dieci di sera gli abitanti del quartiere Mokotów videro con meraviglia il signor Kazimierz Druciany, da tutti così stimato, che se ne andava barcollando per la strada. Offendeva anche i passanti chiamandoli ragazzacci e ladroni, e minacciava di picchiare chiunque avesse osato oltraggiare il suo patrono, san Kazimierz. La guardia che gli aveva chiesto i documenti sorrise con indulgenza:

   – Ah – disse – Kazimierz. Sì, sì. Capisco l’onomastico, ma lei ne ha un po’ abusato. Anch’io del resto mi chiamo Kazimierz…

   – Ah – gridò il signor Kazimierz e piangendo si gettò tra le braccia della guardia – tanti auguri. Ah, forse lei, come fratello nel patrono comune rispetterà in me l’uomo e l’individuo e mi farà gli auguri? L’infanzia non c’è più e nemmeno lo zio Stefan.

   – Tanti auguri – disse la guardia. Lo accompagnò a casa e lo mise a letto.

 

 

 Kazimierz Orłoś (1935 – …….)

 

Il maestro di musica

 

   A quel tempo vivevo in una misera abitazione. Le finestre della mia stanzetta in un palazzo alla periferia davano su un cortile a forma di pozzo. Ogni voce dal basso, dalle finestre socchiuse – un grido o il pianto di un bambino, lo schiamazzo di donne litigiose, una radio accesa, perfino una conversazione a bassa voce – si sentiva chiaramente, come se mi trovassi alle spalle delle persone nei loro appartamenti e ascoltassi senza sosta. Il tintinnio delle bottiglie del latte, trasportate su un carrettino di lamiera da uno sciancato, mi svegliava alle cinque di mattina. Il canto del carbonaio ubriaco, che occupava l’appartamento al pianterreno, mi strappava al sonno a mezzanotte. Le risatine del figlio deficiente del portiere – un ragazzo grasso che se ne stava tutto il giorno in cortile – le sentivo a mezzogiorno e la sera. Ero tormentato da tutti quei rumori. Ero al limite della sopportazione.

   Il vecchio abitava accanto. Adesso lo so, ma allora, quando già studente avevo preso in affitto quel buco di stanza con le finestre che davano sul cortile, non gli avevo prestato attenzione. Soltanto quella soffocante domenica, mentre sgobbavo su un grosso manuale di fisica, rompendomi il cervello con la teoria dei quanti, e quello cominciò a suonare dietro la parete (mi sembrava di essere in una sala vuota in cui qualcuno tagliasse un vetro col diamante), pensai che molto probabilmente doveva essere quell’uomo incurvato che a volte incontravo sulle scale, quando, ansimante, si fermava per un attimo al mezzanino.

   Da dietro la parete sentivo chiaramente il concerto per violino. Dovevo ascoltare ininterrottamente e fino all’ultima nota tutti i fraseggi della Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria di Ogiński? Suonava motivi sentimentali, noiosi da ascoltare come un lungo discorso o una poesia imparata a memoria. I miei quanti erano già andati a farsi benedire, per giunta dietro la finestra i bambini facevano chiasso, le donne schiamazzavano nelle cucine, il carbonaio ubriaco cantava una canzone da ubriaconi.

   Non resistetti e battei più volte il pugno sulla parete. Ma servì a ben poco. Era forse un po’ sordo? Il tenue suono fluiva incessantemente da dietro la parete, come una voce lamentevole, come il canto del muezzin che invita alla preghiera.

   Aspettai mezz’ora, poi uscii sul pianerottolo e bussai alla porta del vicino. Ricordo che il pianto dello strumento cessò di colpo, come troncato. Sentii lo strascichio delle pantofole, poi quel vecchio chiese sottovoce: – Chi è?

   – Il suo vicino – risposi seccamente.

   La porta fermata con la catena si aprì di uno spiraglio. Fiutai un odore di umido, di appartamento non arieggiato, di muffa mista a un odore di naftalina. Il vecchio, la cui faccia pallida e non rasata scorsi nello spiraglio, mi fissava incuriosito con gli occhi piantati a un palmo dal mio naso. Le sue dita sottili stringevano il battente della porta socchiusa. Notai delle macchie brune sulla pella chiara.

   – Signore – dissi bruscamente – la smetta di grattare! Mi scoppia la testa!

   Mi guardò per un istante, e poi disse con un filo di voce:

   – Sì, certo. Mi scusi. – E chiuse la porta.

   E non suonò più, né in quella soffocante domenica, né in nessun’altra. Molto probabilmente mi sarei dimenticato di lui, se un giorno d’autunno non avessi deciso di fare una passeggiata fuori città. Dalla strada asfaltata girai verso i campi e presi un sentiero che portava a un bosco lontano. Là lo vidi. Dapprima mi sembrò un altro (un’apparizione, un uomo non di questo mondo). Ma era lui di sicuro: la stessa figura incurvata, la faccia pallida e non rasata, gli occhi scuri. Stava seduto su una seggiolina pieghevole di fronte a un improvvisato leggio di rametti, sul quale aveva posato il foglio di musica. Suonava al violino quella stessa Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria? Mi fermai a cento passi da lui, poi andai più vicino. Ascoltavo come suonava e come la voce lamentevole del violino si levava sul campo deserto. Guardavo il margine del bosco, l’azzurro del cielo, gli uccelli neri (di sicuro una stormo di cornacchie) che volteggiavano sulle stoppie. Quell’uomo suonava piegato sul leggio di rametti, con accanimento, assente, come se vedesse il mondo intero nei punti neri delle note. Il violino piangeva sconsolato. Non c’era nessuno.

   Restai lì per un po’, quindi lentamente, senza voltarmi, ripresi a camminare in direzione della strada asfaltata e della nostra casa, nella quale lo schiamazzo delle donne, le grida dei bambini e il canto del carbonaio ubriaco era tutto ciò che potevo sempre sentire.

 

(Versione di Paolo Statuti) 

(C) by Paolo Statuti