Alcuni anni fa, in preda al fascino autunnale, ho scritto questa breve poesia:
Amo la primavera,
ma mi commuove l’autunno,
che nasce
dal caldo grembo dell’estate
e muore
nel freddo abbraccio dell’inverno.
Ma come me, quanti poeti sono stati ispirati da questa romantica, dolce e malinconica stagione! Guardo il mio tiglio che pian piano si spoglia, mostrandomi i mille bracci nudi e promettendomi che tornerà a vestirsi in primavera. Guardo la nebbia al mattino, squarciata dalle frecce del sole, non più spavaldo e aggressivo come d’estate, ma più modesto e tranquillo. Tra le citazioni lette sull’autunno, queste tre mi hanno colpito in modo particolare:
“Lascia che la vita sia bella come i fiori d’estate e la morte come le foglie d’autunno” (Rabindranath Tagore)
“In autunno non andate dai gioiellieri per ammirare l’oro, andate nei parchi”
(Mehmet Murat Ildan)
“Tutti dovrebbero trovare il tempo per sedersi e guardare le foglie che cadono” (Elizabeth Lawrence)
Ho deciso di riunire in un unico post tutte le poesie sull’autunno che ho tradotto e pubblicato nel mio blog nel corso degli anni. Ecco come questa stagione ha ispirato tanti poeti, fornendo loro spunti e impressioni diverse:
Poesie sull’autunno tradotte da Paolo Statuti
Anna Achmatova (1899-1966)
I tre autunni
I sorrisi dell’estate io vedo confusi
E d’inverno non troverò segreti,
Ma osservavo quasi senza errore
Tre autunni in ogni anno compresi.
Il primo come disordine festivo
Per dispetto all’estate di ieri,
Come pezzi di notes – di foglie un turbinio,
E l’odore del fumo come dolce incenso,
Intorno – umido e sgargiante, un luccichio.
E prime a danzare sono le betulle,
Indossata la veste trasparente,
Scosse le lacrime fugaci su una vicina
Oltre la siepe prontamente.
Ma ciò accade – appena iniziato il racconto.
Un solo minuto – ed ecco sornione
Giunge il secondo, incurante, come coscienza,
Fosco come aerea incursione.
Tutte sembrano più bianche e più anziane,
È devastata l’estiva intimità,
E la marcia lontana delle trombe dorate
Nella profumata nebbia scorre e va…
E nelle fredde onde del suo incenso
È racchiusa la volta arcana,
Ma il vento si leva, si spalanca –
E a tutti è chiaro: fine del dramma,
E non è il terzo autunno, ma la morte che chiama.
1943
Josif Brodskij (1940-1996)
Canto di ottobre
La quaglia impagliata sulla mensola del camino. Il vecchio orologio che batte preciso, rallegra di sera le membrane schiacciate. L’albero dietro la finestra – cupa candela.
Da quattro giorni il mare romba contro il molo. Metti da parte il libro, prendi l’ago; rammenda i miei panni, senza accendere il lume: la luce è nell’angolo dai tuoi capelli d’oro.
1971
Marija Furmanskaja
Storia di un’anima
“Un giardino in autunno…Una panchina bagnata.
E le foglie spazza via a fatica
Lo stanco custode nel suo giaccone liso,
E sotto la panchina c’è un’anima attrappita…
Sì, sì – un’anima come tante, solo che
E’ bagnata e il freddo la fa tremare,
E ricorda il proprietario che aspramente
Disse: «Anima, tu non mi fai campare…
Tu soffri per ogni zanzara uccisa,
Ti contrai per il pianto di un bambino,
Al primo gatto dai la mia colazione –
Vivere con te è un triste destino…
Da tempo sono stanco di piangere.
Ti prego, va’, senza te io felice sarei».
E se ne andò nel fango di settembre,
E la pioggia piangeva assieme a lei.
Vagava a lungo nei cortili bagnati,
Nelle finestre e negli occhi guardava.
L’autunno batteva su di lei coi rami,
E sonoro con la sorte il maltempo litigava.
Un giardino in autunno. Una panchina bagnata.
E le foglie di nuovo frusciano cadendo…
Il custode nel giubbotto ha finito il lavoro,
E sotto la panchina l’anima sta morendo…”
Konstanty Ildefons Gałczyński (1905-1953)
Ecco vedi, di nuovo arriva l’autunno
Ecco vedi, di nuovo arriva l’autunno – si vorrebbe solo dormire beatamente… Metti il tuo anello di smeraldo: la luce verde brillerà piacevolmente.
L’estate come condannata si piega sotto la scure dell’autunno insanguinata – ma noi vediamo la primavera nella gemma, sul tuo dito, nell’anello incastonata.
1937
Ivan Gruzinov (1893-1942)
Autunno. Boscaglia. Vago senza meta…
Autunno. Boscaglia. Vago senza meta.
Si fa sera. Si spegnerà presto
L’arco giallo del tramonto.
Oltre il burrone si fredda il deserto.
Al di là – i campi arati. Il corpo della terra
Dondola col ventre arrossato.
Fruscia col cupo fogliame
Un vecchio ontano dimenticato.
Odore di resine. Batte ritmica la pala.
Stringendo il cappio cadrò.
Madre-terra! non spunterò come il grano.
Una stellina sul campo non accenderò.
Che m’importa di chi mi segue!
Per loro la pena di vivere non vale.
Ecco soltanto io col fardello terra
All’ultimo funesto cavezzale.
1925
Julia Hartwig (1921-2017)
Novembre
Le gambe immobili dei salici sull’acqua
mentre i rami immersi vorrebbero scorrere via
qualcuno invisibile suona il flauto
ma sul ponte non si vede nessuno
A che scopo tornare qui dopo anni
e come sopportare questo equilibrio di bellezza
questo vasto cielo che sulle spalle reggono
le distinte case dell’Isola di San Luigi
Sul fiume naviga un battello con lieve ronzio
un acrobata prova un difficile salto sulla riva
vibra la pelle toccata dal sole
e un blando respiro dell’aria ti accompagna
attraverso novembre e la sua scia di foglie
Non parlare di ciò che qui hai lasciato
non parlare di ciò che ricordi
in questo fiume sono annegati migliaia di cuori
con la nebbia dei ricordi si potrebbe spartire un continente
Milada Kowalewska (1918-2011)
Fuga nell’autunno
A Danka Wiśniewska
Là dove
ottobre
in società col vento
la sua moneta
conia senza tregua
per una carezza
– appena imbrunisce –
frusciando, sul fondo
della zecca scivolano
le anime degli animali
verso la dimora
— — — — — — —
(E’ piuttosto difficile
accogliere un’ombra
in modo che la gioia della visita
sia reciproca)
E così ogni sera
finché
invece delle foglie
comincerà a cadere la neve
(Delle segrete forze della neve
parlerò altrove)
Natal’ja Kugusheva (1899-1964)
* * *
Caro, mio caro, l’autunno
Il corno ha sonato forte.
Cielo e terra ha dipinto Vrubel’
E condannato a morte.
Caro, mio caro, già il sole-falco
La sua preda attende.
E la sera piume scarlatte
Per l’oracolo, solerte prende.
Caro, mio caro, il cui arco
A guardia di frecce roventi sta,
Verso quali paesi la via
L’altrui mira ci mostrerà?
Caro, mio caro, l’autunno
Ci suona un corno sventurato.
E il tamburello di rame del vento
Tra le strade ha indugiato.
Michail Lermontov (1814-1841)
Sole d’autunno
Io amo il sole d’autunno, quando Tra nuvole e nebbie si fa largo, E getta un pallido morto raggio Sull’albero cullato dal vento, E sull’umida steppa. Io amo il sole, C’è qualcosa nello sguardo d’addio Del grande astro simile all’occulta pena Dell’amore tradito; non più freddo Esso è in sé, ma la natura E tutto ciò che può sentire e vedere, Non provano il suo calore; così è Il cuore: in esso è ancora vivo il fuoco, Ma la gente un giorno non lo capì, E da allora negli occhi brillare non deve, E le guance non sfiorerà in eterno. Perché di nuovo il cuore sottoporre A parole di dubbio e allo scherno?
1831
Apollon Majkov (1821-1897)
* * *
Le foglie d’autunno volteggiano al vento,
Le foglie d’autunno urlano di spavento:
“Tutto muore, tutto muore! Sei nero e spogliato,
La tua fine è giunta, o bosco tanto amato!”
Non ascolta lo spavento loro il bosco maestoso.
Sotto l’azzurro cupo del cielo rigoroso
Egli viene avvolto da sogni così grandi
Che per la nuova primavera avrà forze bastanti.
1863
Peretz Markish (1895-1952)
Autunno
Là le foglie non frusciano in segreta angustia,
E, arricciate, giacciono e sonnecchiano al vento,
Ma ecco una dal sonno si è mossa sulla strada,
Come un topo dorato – a cercare la sua tana.
E il giardino non vigila – entri pure chi vuole,
Là bufere, freddo, pioggia sghemba e sferzante,
E – nessuno. Solo la tristezza qui le lacrime sparge,
Ma ecco esitante mi giunge un ronzio.
Un’ape cammina in fretta sulla soffice rena.
Dal pesante cerchio il ventre è stretto,
E striscia tra un monticello e un ceppo
E con spasimo a un tratto si rizza sulla testa,
E le alucce a un tratto solleva di traverso,
Come ombrello rotto, esse si protendono,
E la morte già si sente nel ronzio affrettato…
Per l’autunno il silenzio passa nel giardino.
1948 (Dalla versione di A. Achmatova)
Nikolaj Ogarjov (1813-1877)
In autunno
Com’erano cari nella delizia primaverile –
La soffice freschezza delle erbe verdeggianti
E i profumati germogli delle giovani foglie
Dei querceti destati sulle fronde oscillanti,
E del giorno i caldi e soavi splendori,
E il dolce intreccio di accesi colori!
Ma siete voi tinte d’autunno le più amate,
Quando il bosco stanco le foglie dorate
Con un sussurro spazza via dal campo falciato,
E il sole più tardi dall’altezza abbandonata,
Guarda, pieno di luminoso sconforto…
Così tace e illumina un placido ricordo
I sogni passati e la felicità passata.
1857
Boris Pasternak (1890-1960)
Bosco autunnale
Il bosco autunnale s’è chiomato.
In esso ombra, sonno e quiete.
Scoiattolo, picchio e civetta,
Dal suo sonno non lo desterete.
E il sole per i viottoli autunnali
Entrando in esso a fine giornata,
Intorno sbircia con apprensione,
Se non ci sia una tagliola celata.
In esso pantani, tremule e gibbosità,
E muschi e macchie d’ontano,
E là, oltre il terreno fangoso,
Cantano i galli da lontano.
Un gallo il suo grido strombazzerà,
Poi di nuovo una lunga interruzione,
Come fosse intento a meditare
Che senso abbia quella intonazione.
Ma in un cantuccio remoto
Un vicino prenderà a chicchiriare.
Come sentinella nella garitta,
Il gallo la sua risposta vuole dare.
Essa risonerà come un’eco,
Ed ecco che insieme tutti i galli,
Segneranno con la gola come biffa,
I quattro punti cardinali.
Dopo l’appello del gallo
Si aprirà il bosco alle estremità,
E i campi, la distanza e il blu dei cieli
Come fossero cosa nuova esso rivedrà.
1956
Maria Pawlikowska-Jasnorzewska (1891-1945)
Autunno
Va con uno scialle rosso e splendente.
Si specchia nell’ovale dello stagno.
Ma è malato. E non sa minimamente
che in quello scialle lo seppelliranno.
1924
Wacław Rolicz-Lieder (1866-1912)
Quando le campane svizzere eseguono una sinfonia: Oremus!
A Grindelwald-Lauterbrunnen, sulle radure delle Alpi Bernesi gli uccelli di neve,
in uno stormo grande come il mondo intero, si appigliano ai cigli delle rocce
scheggiate, e si sciolgono nelle cascate e nelle rapide montane.
I sentimenti di mia Sorella sono bianchi come gli uccelli di neve.
I pastori scendono a valle dietro gli armenti, e le mucche avanzano facendo
risonare la musica di vetro delle campanelle appese ai loro colli.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Da ogni parte scendono i pastori riunendosi tra loro, la mandria s’ingrossa sempre più, cresce di unità, di decine, di centinaia, come valanga che cade
dalla vetta della Jungfrau.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Mille mucche procedono sulla larga strada; la strada che percorrono odora
di stalla; ad esse si aggiungono altre mille e ancora mille.
Le facce degli alberi sono chiazzate di rosso.
Un sordo scampanellio riempie l’aria; gli abitanti dei villaggi adiacenti gremiscono le facciate, attirati dall’orchestrina delle mucche.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Sui beni terreni regna la libertà.
Interlaken.
Robusti odori profumano l’aria.
Una fiera passione divora i nati in Autunno.
Bagliori rossodorati, cadendo dagli alberi, emettono un suono metallico.
I nomi delle pensioni non hanno l’anima.
Le rovine dei ricordi sono piene d’impiccati!
I pastori della comunità religiosa favellano nella valle, canuti vescovi sono
in mezzo a loro.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Il cielo è malcoperto di rame.
Una donna statuaria mi bacia sulle labbra.
Ville abbandonate e chiuse fanno pensare a un cuore dopo l’ultimo Amore.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Un numero enorme di armenti inonda i dintorni.
La luce pomeridiana è come il sorriso di una moglie adultera che muore.
Bambini rubizzi raccolgono castagne color mogano.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Passo per i giardini marocchini dell’infanzia.
Chi dipingerà il paesaggio? Colui che dirà una parola che riassume tutto.
Il patriarca dei pastori, poggiate le mani su un bastone, racconta la morte
di suo figlio.
Bagliori rossodorati, cadendo dagli alberi, emettono un suono metallico.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
Tappeti di magnati ricoprono i prati.
Le narici delle donne, che hanno nervi, fremono al ricordo del petto peloso
di un uomo.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
E’ triste per un pastore morire nello scampanellio delle mucche svizzere.
Nei bazar di Bagdad sono distesi i tappeti davanti ai clienti.
Le mucche con sguardo filosofico osservano le valli.
Le giarrettiere delle mie amate si sono inebriate di amore dell’Autunno.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
E chi non s’inginocchia davanti alla sincerità, stia lontano dalla Poesia.
Il vento arruffa il nero boa di una dama che passa.
I pastori prendono il formaggio dai cestelli, coi coltellini tagliano tonde fette
di pane.
La gente in momenti diversi professa fedi diverse: Io ho la fede del Silenzio.
Mille Zingari battono piatti d’argento.
La famiglia si mette a tavola alla luce di una lampada.
E chi nell’anima artificiale dell’Autunno con violenza i propri sensi non introduce – non toccherà l’epico petto dell’amante.
Gli obelischi di Memnone salutano il sorgente Faraone della luce.
Sento il profumo del vapore che si diffonde da un piatto di patate schiacciate.
Bacerei l’Autunno attraverso le labbra di una donna, che in questo istante
volesse essere mia.
Mille calici di cristallo suonano in omaggio ai profumi dell’Autunno.
Magnifico è il poeta nel paganesimo dei propri sentimenti.
La più grande preghiera dell’Autunno è vezzeggiare una donna avvolta nella
pelliccia.
Nell’Universo un’enorme musica di accompagnamento:
Primo violino – un lungo soffio di vento.
Contrabbassi – il corso di torrenti impetuosi.
Violoncelli – la mia mente e il mio cuore.
Flauto e clarinetti – la voce lontana di bambini.
Tamburello – le campanelle delle mucche svizzere.
Tromba cromatica – il jodler dei pastori.
Organo – il rombo di lontane cascate.
Viole d’amour – il metallico fruscio degli alberi.
Vox humana – sento la voce della mia amata…
Vox humana – la Natura intera, la Natura!
– Osanna!
Boris Ryžij (1974-2001)
Autunno
Le rape dal campo erano già raccolte,
bietole, patate, tutto era già ammassato.
Sullo sfondo del cielo che si distendeva
cadeva la prima neve e il cuore era turbato.
Seguivo la neve, pensando a
chissà cosa, le betulle mi seguivano.
Con l’azzurro si mescolava l’argento,
argento e azzurro si mescolavano.
1999
Fjodor Tjutčev (1803-1873)
Sera d’autunno
Nel chiarore delle sere autunnali C’è un dolce misterioso incanto: Il tetro brillìo degli alberi screziati, Il mesto fruscìo delle foglie amaranto. L’azzurro offuscato e silenzioso, Sulla terra che orfana diventa, E, come presagio di vicine bufere, A volte un freddo impetuoso vento. Stanchezza, sfinimento – e su tutto Il mite sorriso dell’appassire, Che in un essere ragionevole si chiama Il nobile pudore del soffrire.
Poeta, traduttore e saggista russo. È nato a Kiev il 23 agosto 1914 ed è morto a Mosca il 18 marzo 1996. Suo padre – Adol’f Gol’dberg (vero cognome del poeta) era farmacista. A Kiev terminò la scuola settennale e il primo corso di Filologia presso la locale Università. Poi tentò diverse occupazioni: allievo di un disegnatore, decoratore, corrispondente e perfino violinista in un’orchestra. Egli ricordava così le difficoltà di quel periodo: «Nato nel 1914, sono sopravvissuto a tutti gli anni di guerra e a tre carestie. Particolarmente sofferta fu quella in Ucraina negli anni 1930-1933. Eravamo appesi a un filo. Come siamo rimasti vivi è un mistero. A quel tempo avevo terminato la scuola di violino e di direttore d’orchestra, disegnavo, avevo già cominciato a scrivere, stavo ottenendo i primi consensi, ma a causa della fame ho dovuto rinunciare a tutto e mettermi a lavorare come manovale nell’Arsenale di Kiev. Trasportavo i materiali dalla catena di montaggio al magazzino, la forza c’era e spingevo il carrello. A casa erano contenti, perché portavo un pugno di polenta e una coda di pesce…
Nel 1934, a 20 anni, il futuro poeta si trasferì a Mosca, dove si iscrisse all’Istituto di Filosofia, Storia e Letteratura. Si laureò nel 1939. Partecipò alla Grande Guerra Patriottica come giornalista corrispondente. Dal 1943 fino alla morte ha diretto il seminario di poesia e traduzione artistica presso l’Istituto Letterario “A.M. Gor’kij”.
Le sue prime poesie pubblicate risalgono al 1932. Ha scritto 20 raccolte poetiche, la prima delle quali – Sulle rive del Dnepr – uscì nel 1940, mentre l’ultimo suo libro – Ritratti senza cornici – fu pubblicato postumo nel 1999. Le sue poesie sono state tradotte in più di 20 lingue. A lui si devono anche molte traduzioni poetiche, principalmente dall’ucraino, lituano, yiddish e altre lingue dei popoli dell’URSS. Inoltre è autore di numerosi libri e appassionati articoli sulla poesia e sui poeti, tra i quali: P. Tycina, A.A. Fet, F. Tjutčev, B. Pasternak, N. Zabolockij, A. Achmatova. L’articolo Le poesie di Anna Achmatova, pubblicato il 23 giugno 1959 nella Gazzetta Letteraria, fu la prima recensione, dopo molti anni di silenzio. Anna lo definì “rottura di un blocco”. Lev Ozerov ha fatto molto anche per preservare e pubblicare il patrimonio creativo di poeti della sua generazione morti in guerra o durante gli anni della repressione staliniana. Inoltre aiutò diversi giovani promettenti poeti, dando consigli o scrivendo la recensione delle loro prime raccolte.
Molte espressioni poetiche di Oserov sono entrate nel linguaggio quotidiano, si sono trasformate in detti. Uno dei suoi aforismi più famosi é: “I talenti hanno bisogno di aiuto, la mediocrità sfonda da sé”.
Ozerov fu anche un geniale caricaturista e i suoi schizzi-ritratti di noti letterati suoi colleghi affascinano tuttora per la foga, la concisione lineare e al tempo stesso perché riproducono perfettamente i tratti dei modelli.
Per Ozerov comporre versi era un fatto naturale, come respirare e camminare. Essi scaturivano da tutto ciò che vedevano i suoi occhi sorprendenti, che sentiva la sua anima sorprendente. Quasi ogni sua poesia è una sorpresa.
Nel suo libro Lexicon der russischen Literatur ab 1917 il critico, traduttore e slavista tedesco Wolfgang Kasack scrive: «La poesia di Ozerov è un tentativo di abbracciare l’essere nel suo insieme, attraverso la descrizione di fenomeni individuali spesso legati alla natura. I. Sel’vinskij vede in lui un “disegnatore eccezionale”, G. Zobin – “il poeta della vista”. L’osservazione di fenomeni apparentemente insignificanti diventano il punto di partenza, entrano nell’analisi dei fondamenti semantici della vita».
Il critico letterario e scrittore Vladimir Ognjov dice: «Lev Ozerov è forse uno di quei pochi poeti che non fondono, ma incidono, coniano una parola che ha avuto a malapena il tempo di raffreddarsi dalle emozioni immediate. Il verso di Ozerov è conciso, tende alla compiutezza lineare».
Molti si sorprenderanno che attalmente questo poeta sia noto solo a rari intenditori e ai fortunati come me che lo hanno incontrato per caso o per un celato volere del destino. Spero che questo mio modesto lavoro contribuisca a dissipare almeno un po’ della nebbia che ingiustamente lo avvolge.
Poesie di Lev Ozerov tradotte da Paolo Statuti
Quando negli ultimi giorni di maggio…
Quando negli ultimi giorni di maggio
Il Dnepr le isole lascia,
Con un cinguettio, ancora cieco,
Dal guscio il fogliame si affaccia,
Quando fa oscillare i fili
Il corvo balbuziente,
L’acqua scorre con la Tarasowskaja*,
Cessa la pioggia, fresco e pace si sente,
Quando tutto si muove, tutto è vivo,
E l’azzurro ha suoni illimitati, –
Nel momento della piena primaverile, –
Il tono e il semitono mi sono grati,
E un capello che vola al vento,
E questi ponti risonanti,
E il bisbiglìo, e una voce forte.
E l’intero universo, e tu – davanti.
*La via di Kiev dove abitava il poeta.
1932
Vista sul Dnepr
Anche prima di morire ricorderò questa rupe,
E tutta in fiamme adagiata Podol,
E la gioia che qui ho provato
Vedendo le stelle e un’azzurra nube
Che scorreva da sud. Io guardavo là,
Dove senza posa l’acqua scura
I fuochi di Podol e la luna frangeva,
Dove un motoscafo a carbone avanzava,
Là, dove chiara la sabbia si stagliava.
Sapevo: tale forza questa notte aveva,
Era così convincente che restai
Muto e a casa non tornai.
E tanto più ero lì, tanto più capivo
Che non c’era alcuna pena in me;
Che giorno per giorno andrà tutto bene
In casa; che c’era la rupe e su di sé
Gli alberi scuri, bisbiglianti tra loro;
Che la notte era più quieta e premurosa.
E mi sembrava allora di sentire
Il futuro più di ogni cosa.
1935
Concerto d’organo
Sonava un timido vecchio,
Tarchiato, testa dura.
Io capii: la sincerità non è un grido,
La poesia non è solo scrittura.
Ascolto: nel mio petto frusciano
E chinano le spighe le creste,
Borbottano i pini e romba
L’organo polifonico terrestre.
E come la terra, l’organo ruggisce,
Come se camminassi con Bach
Di vulcano in vulcano
Smarriti in questa sonorità.
Vibra la cattedrale aghiforme,
Cantano i prati e le radure con loro,
E la vocina vetrosa di un fanciullo
Fende l’armonioso coro.
E nella sonante cupola azzurra
Fluiscono dell’organo i sospiri.
Ecco esso ci ha chiamati,
E noi accorriamo dai nostri ritiri.
Il cupo gemito del fondo terrestre,
E dei secoli il fragore risvegliato,
E una luce uguale da ogni parte,
E in essa il pensiero purificato.
Qui tutto è – ruggito della natura
E del tuono i nuclei rotolati.
Qui tutto è – né grida, né parole,
Né solitudine, né caseggiati.
Qui regna Bach, qui egli calpesta
Delle passioncelle umane l’inezia,
Egli allarga l’orizzonte
E guarda il futuro con fierezza.
Oh, se solo avessi un tale slancio,
Un potere così spavaldo,
Affinché, generato nei versi,
Nei cuori avesse il suo traguardo,
Affinché la gente sentisse in loro
Non solo la forza delle cantate,
Ma la voce del futuro, dei viventi,
Delle generazioni non ancora nate!..
1937
Ma che ti sei inventata! Ma che previsioni!..
Ma che ti sei inventata! Ma che previsioni!
Incomprensione, ignorare, litigare,
Sull’ignoto gli occhi fissati,
Ciò che era calmo vuoi di nuovo agitare.
Tu sei stanca! Stiamo zitti per un po’.
Il tempo, come un granello di sabbia, si fa granito.