Archivio | gennaio, 2023

Nikolaj Platonovich Ogarjòv

30 Gen

     Poeta, pubblicista, prosatore e attivista politico russo. Nacque a San Pietroburgo il 6 dicembre 1813 da una nobile famiglia di ricchi proprietari terrieri. Il padre era consigliere di stato. Quando Nikolaj aveva due anni la madre morì a Beloomut, la proprietà che lei aveva ereditato da uno zio.  Il padre allora si trasferì col figlio nella tenuta di famiglia in provincia di Penza, dove il futuro poeta trascorse l’infanzia. La triste esperienza della perdita della madre fu aggravata da un freddo rapporto col padre, il cui dispotismo influì negativamente sul carattere malinconico del giovane. Egli in seguito chiamò la casa paterna una prigione. Crescendo maturava sempre più in lui il bisogno di una trasformazione morale e sociale. La rivolta dei Decabristi del 1825 lo aveva fortemente influenzato.

     Nel 1826 incontrò Aleksandr Herzen e tra i due nacque un’amicizia che durò tutta la vita. I giovani condivisero subito due cose: l’avversione per la monarchia e le idee dei Decabristi. Nell’estate del 1827, durante una passeggiata, i due amici giurarono di dedicare la loro esistenza alla lotta per la libertà del popolo russo.

     Nel 1829 entrò all’Università di Mosca, frequentando le lezioni di fisica, matematica, filologia, etica e politica. Tre anni dopo passò alla sezione etico-politica, dove si diplomò. Fu uno degli organizzatori del circolo politico studentesco dell’Università di Mosca, sorto in risposta ai disordini politici nel paese. Nel 1833, per le sue idee di libero pensatore, fu messo sotto sorveglianza della polizia e un anno dopo fu arrestato per avere diffuso poesie “calunniose” che screditavano la famiglia imperiale. Grazie all’intervento di famigliari influenti fu rimesso in libertà su cauzione. Nello stesso anno però, fu arrestato di nuovo, a causa di lettere scritte “in stile costituzionale”. Il 31 marzo 1835 fu condannato all’esilio nella provincia di Penza.

     Dal 1840 al 1846 visse all’estero: Svizzera, Italia, Francia e Germania, dove frequentò l’Università di Berlino. Nel 1846 si stabilì nella sua tenuta di Penza. Nello stesso anno realizzò ciò che sognava dall’età di 15 anni, e cioè liberò i contadini di Beloomut (1800 anime) dalla servitù. Inoltre condonò i loro debiti e diede loro la terra. Intraprese anche alcune attività economiche che tuttavia non ebbero successo.

     Nel 1850 il governatore di Penza accusò il poeta di partecipazione a una “setta comunista” e per questo fu di nuovo arrestato per un breve periodo. Nel 1856 emigrò in Gran Bretagna. Viveva a Londra, dove insieme a Herzen dirigeva una libera tipografia russa. Era anche condirettore con Herzen del settimanale La campana. Negli anni 1860-1861 partecipò alla creazione dell’organizzazione rivoluzionaria Terra e Libertà.

     Nel 1865, in connessione col trasferimento della tipografia da Londra, Ogarjòv e Herzen si stabilirono a Ginevra, che in quel tempo era diventata il centro dell’emigrazione russa. Espulso dal governo svizzero, nel 1873 tornò a Londra.

     Il poeta si sposò due volte, ma nessuno dei matrimoni può essere considerato felice. Qualche consolazione, negli ultimi anni, la ebbe da Mary Sutherland, una prostituta londinese che non lo lasciò mai fino alla morte, avvenuta il 12 giugno 1877 in seguito a un attacco epilettico. Aveva 63 anni. Le sue ceneri furono trasferite da Londra a Mosca il 1 marzo 1966 e ora riposano nel cimitero di Novodevičy.

     L’opera poetica e pubblicistica di Ogarjòv è una parte essenziale della letteratura russa del XIX secolo. La sua opera completa, poesia e prosa, occupa ben 4 volumi. I versi romantici del primo periodo della sua creazione sono diversi nel loro orientamento filosofico, e spesso saturi di motivi religiosi e mistici, ispirati alla ricerca della verità e della giustizia. Nei suoi anni maturi egli si dichiarò più apertamente attraverso testi di ampia portata sociale, spesso agitati e patetici, a volte filosofici e meditativi e a volte sinceramente nostalgici.

     Nikolaj Ogarjòv ha trascorso tutta la sua vita in una dolorosa ricerca spirituale, sognando con passione di cambiare la vita della gente.

Poesie di Nikolaj Ogarjov (1813-1877) tradotte da Paolo Statuti

Addio al paese che non ho lasciato

Addio, addio, Russia mia!

Molto tempo non passerà,

Prima che un radioso paese

Straniero mi ospiterà.

Ti ringrazio per il compleanno,

Per gli attimi cari al cuore,

Per le steppe e gli inverni,

Per la prigione e il dolore,

Per l’indifferenza della gente,

Per i desideri eletti,

Per la tristezza e la sete di sapere

E per gli amici diletti, –

Per ogni gioia e sofferenza;

Ti amo e sacri mi saranno

Tutti i miei ricordi

Nel paese lontano.

E spesso sospirerò per te,

Tornerò – e con pianto accorato

Guarderò la steppa innevata

E il cielo di grigio velato.

1840

Per la morte di Lermontov

Ancora un duello! Ancora un poeta

Col piombo nel petto lascia la scena.

Le labbra ha serrato, niente più canti,

Tutto tace… Quale quieta pena!

Qui è vano il saluto di un amico…

Tutto tace – la tristezza, l’ostilità,

L’amore, – ciò che nutriva l’anima…

E l’anima dov’è? ora dove sarà?

Ma l’eterna domanda

Ora io non scomoderò;

Da tempo ho piegato il capo,

Da tempo il penoso dubbio che ho

Il mio cuore ha ferito, – e un grido

Vi si cela… Ma una fredda mente

Non permette di vivere all’inganno,

Lo sguardo è cupo e la fede è assente.

E una segreta paura mi prende

Quando vedo, mio Dio,

Come gli occhi pieni di fuoco,

Si chiudevano nell’addio,

Come egli cadeva, piegando il capo,

E il verso afflitto taceva

Con un mesto sorriso sulle labbra,

E come polvere senz’anima giaceva.

Ma più senz’anima davanti a lui

La sciocca nullità con la pistola

Era ancora sana e illesa,

Non tremando, senza una parola,

Non turbato da un segreto rimorso,

E forse contento di poter vantare

A volte che la sua mano e l’occhio

Non potevano sbagliare.

E nel frattempo sul morto

Il cielo splendeva, e muta restava

Intorno la steppa intera,

E in lontananza sonnecchiava

La catena blu dei monti – e tutto

In tale quiete era immerso,

Come se per il mondo la sua vita

Fosse stata solo tempo perso.

Ma la sua vita era stata grandiosa,

Vita di splendide emozioni,

Piena di fuoco spirituale,

Piena di pace e di passioni;

Tutto, tutto essa conosceva,

Gli istanti del suo universo

Egli coglieva con trepido udito

E riversava nella musica del verso.

Ma l’eroe del suo tempo, triste

Intorno a sé guardava spesso,

E a volte un rimprovero

Colpiva sia il tempo che se stesso,

E il verso iracondo e ostile

Sonava come impietosa invettiva…

Sia amando che desiderando,

O anche odiando – egli soffriva.

Ascolta, o fato il mio giudizio!

Perché sempre solo sofferenza

I poeti provano penosamente?

Ecco il mio giudizio, o provvidenza!

Il tempo nei tormenti scorre,

Oppure provvidenza e fato

Sono solo parole vuote

Senza alcun significato?

Con quale beatitudine

Avrebbe potuto gioire!

La sua anima prometteva felicità:

Il calore di un saluto sentire,

E l’estasi poetica,

E di dolci visioni il diletto,

Il mondo visto con amore,

La vita come eterno banchetto…

Povero fratello! dammi la mano,

Dammi la gelida mano

E dormi nel silenzio tombale,

Ora il mio saluto è vano,

Nel tuo sonno non lo sentirai,

E tutto il mio sconforto

Non ti risveglierà mai…

Ora tu sei sordo, tu sei morto!

Si disperderà tra le steppe

La prece per te rivolta,

E si asciugheranno le lacrime

Sulla fredda pietra… E talvolta,

Già sceso nell’ombra eterna,

Anche per me il pianto risonerà,

Ed esso mi resterà ignoto… Dormi,

Amico mio, il silenzio ti cullerà!

1841

Quando di notte siedo da solo…

Quando di notte siedo da solo

E immagini sacre nella quiete,

Dal fondo dell’anima io traggo

E il suono del verso in me si ripete, –

Sono felice! di nessuno ho bisogno.

Ciò che l’anima crea e io leggo,

Per  l’anima stessa è un diletto,

E nel silenzio io lo vezzeggio…

E a volte vedo Prometeo,

Che, pieno di pensiero, audacemente,

Ha preso agli dei il fuoco sacro

E in silenzio crea la sua gente…

1841

Un racconto come tanti

Quella stupenda primavera

Erano seduti sulla riva –

Il fiume era calmo e chiaro,

Il sole sorgeva, un tordo garriva.

La valle si stendeva oltre il fiume,

Tranquilla d’un verde brillante.

Vicino fioriva la rosa canina,

Un viale di tigli era poco distante.

Quella stupenda primavera

Erano seduti sulla sponda –

I suoi baffi non ancora neri,

Lei – una giovane bionda.

Oh, se nei loro incontri al mattino

Qualcuno li avesse scorti,

E avesse esaminato i loro visi

E ascoltati i loro discorsi –

Come avrebbe amato la lingua,

La lingua del primordiale amore!

Nel suo animo in quell’istante,

Sarebbe scomparso il dolore!..

Poi io li ho incontrati di nuovo:

Lei un altro aveva sposato,

Lui aveva un’altra per moglie,

E non una parola sul passato.

La pace aleggiava sui volti,

La loro vita scorreva regolare,

Se per caso s’incontravano,

Potevano ridere e freddi restare…

E dove fioriva la rosa canina,

Là sulla riva del fiume,

Alcuni semplici pescatori

Si appressavano a una barca-marciume

E cantavano canzoni – e oscuro

Alla gente ignara restava

Ciò che là un tempo si diceva,

E quanto già si dimenticava.

1842

Addio all’Italia

Sul mare quieto si stende il buio notturno,

E il cielo blu di stelle è adornato.

Rombano le ruote e mùlina la schiuma

Del piroscafo dove sono imbarcato.

Dietro, l’onda come due redini corre

E il fumo nero serpeggia come fascia spessa,

E un gabbiano intorno all’albero volteggia,

E il mare risuona, scroscia e si riversa.

Sul ponte tacciono le chiacchiere tediose,

Nelle cabine il sonno i miei compagni chiama.

Ora sono solo. Tristemente lo sguardo cerca

Un luogo familiare sulla riva lontana.

Ma i canti del pescatore io più non sento.

La catena dei monti comincia a nereggiare,

Come una vaga linea essa presto sparirà,

E resterà soltanto il cielo e con esso il mare.

O Italia, rimpiango le tue splendide città!

Ora le tue immagini lontane, tacendo

Il ricordo mi disegna. Ora nella nebbia notturna

Mi giunge l’aroma dei giardini di Sorrento,

Ora vedo la mesta campagna romana

E dei boriosi paesani i volti severi,

Ora lo sciabordio dei remi e la casa dei dogi

Portano all’anima mia misteriosi pensieri.

Ma io fuggo da voi, incantevoli città!

Nelle orecchie i canti del sud ancora aspetto,

Ma la vita della tua gente, o Italia, è vuota!

Il suo spirito è vecchio e il tuo mondo è stretto.

Dappertutto muta rovina, morte e muffa!

Balbettano sul passato le bocche assurdamente,

E le teste a un greve sonno sono appese…

Ora fuggo cercando il moto d’una nuova mente.

E sarà accolto il pellegrino da un altro paese,

Dove ferve la vita e la forza respira nelle genti,

E il lavoro porta i frutti, e il campo è opulento,

E la scienza ha illuminato le menti,

E desidera ognuno che per tutti sia meglio.

Là, o mio piroscafo! Ed ecco la luna intanto

Afflitta sull’umido deserto è già sorta –

Addio, Italia! già lontano è il tuo incanto…

Eppure io ti rimpiango! Amavo contemplarti

Come amante d’un trascorso fasto:

E lo sguardo è già spento, il colore è scomparso,

Ma il diletto nel sorriso è rimasto,

Quasi non fosse morte, ma pace sonnolenta,

E delizia, che con dolcezza e ansietà,

Sembra gli abbracci possono dare,

E provàti un istante, si può morire già.

Italia! più d’una volta vorrò di nuovo

Vedere il giorno lucente e l’ombra della notte blu,

Stordirmi e dimenticare in un diafano silenzio

L’infantile vecchiaia della gente che fu,

E il dolore della mia anima, stanca di fermento.

Addio! siano lieti i sogni che tu avrai,

Mentre io proseguirò l’incessante cammino

Tra onde e pensieri erranti, che non dormono mai!

1843 (?)

Monologhi

I

Notte e buio! Come tutto è spossante e vuoto!

La pioggia insonne batte alla mia finestra,

Il raggio della candela si alterna a un’ombra lunga,

E nel cuore – solo oscurità e tempesta.

Sogni passati! all’anima duole separarsi da voi;

Io lontani miraggi ancora ravviso,

Non volendo, ancora in petto il desiderio freme;

Ma la vita e il pensiero i miei sogni hanno ucciso.

O pensiero, pensiero! Com’è orrido ora il tuo moto,

E orrida è la tua lotta continua!

Implacabile come la stessa sorte,

Più delle celesti tempeste tu porti rovina.

Da tempo in me l’innocenza hai infranto,

Per sempre mi hai trascinato nell’ansietà,

Per la fede la fede nella mia anima hai perduto,

La luce di ieri mi hai chiamato oscurità.

Per la verità ho ripudiato le verità passate,

Ai sogni radiosi la porta ho sbarrato,

Strappavo i fogli degli amati quaderni,

E tutto, tutto adesso è lacerato.

Dovrei ridere della mia impotenza,

E vedere intorno l’impotenza della gente,

E difficile è ammettere in me la verità,

E ancora più difficile è dirla apertamente.

Davanti alla nuda verità è scomparso anche Dio,

E l’orgoglio personale, e i sogni d’amore,

E dinanzi c’è una strada deserta,

E nel sangue ancora arde un vano ardore.

II

Presto, annega nei gorghi della depravazione

Il pensiero e il cuore, sentimenti e riflessioni;

Deridi tutto ciò che sembrava così sacro,

E spreca la vita in chiasso e libagioni!

Qui, qui un calice di umidità giocosa!

Qui, o baccante! le mie orecchie con un sonoro

Canto, pieno di audacia dissoluta, incanta!

Per un tuo bacio, prendi quest’oro…

Il vino ribolle in me e il bacio mi brucia…

Tu sei buona! oh, sei buona davvero!..

Perché di nuovo in petto la pena s’è destata

E l’anima sussulta come fiamma d’un cero?

Perché sei buona? il sentimento da me scordato,

Perché, o mia bellezza, a turbare hai ripreso?

L’arte vergognosa delle tue languide carezze

Davvero in me l’amore inquieto ha appreso?

Amore, amore!.. oh, no, io solo dispiacere,

Provo per te, delizia perduta…

Vattene, sei ripugnante! io ti disprezzo,

Venale schiava venduta!

Tu piangi? no, non piangere. Ti ho offesa?

Perdonami – sono i fumi del vino;

Se io non amassi, non odierei.

Aspetta, l’anima mia ti è vicino –

Dalle mie labbra rimprovero più non udrai.

Dimentica tutta la vita passata,

Dimentica la lorda via del vizio e del disonore,

China verso di me la tua testa aggraziata, –

Tu martire delle passioni e del desiderio,

Alla tua anima i sogni ispirerò,

Come il respiro di primavera ravviva la farfalla,

Col respiro del mio amore io la ravviverò.

Perché taci, bambina, e guardi sorpresa,

E io non bevo il mio calice versato?

Maledizione! di nuovo un inutile tormento

Nell’anima da qualche parte ho trovato!

Ma poggiata alla mia spalla lei sonnecchia,

E ciò che è in me lei non comprende;

Immobile guardo come il sonno le alza il petto,

E scioccamente spreco il mio cuore per niente!

III

Cosa voglio?.. Cosa?.. Oh! ho così tanti desideri,

La loro forza ha così bisogno di comparire,

A volte sembra che la loro intima angoscia

Il petto farà scoppiare e la mente impazzire.

Cosa voglio? Tutto in tutta pienezza!

Ho sete di sapere, io voglio gloriose azioni,

Voglio ancora amare con folle angoscia,

Della vita voglio tutte le emozioni!

E in segreto sento che i desideri sono tutti vani,

E la vita è avara, e nell’intimo sono malsano,

Le mie aspirazioni resteranno mute,

Nei tentativi la riserva di forze userò invano.

Io stesso, schiacciato dal dolore,

Un povero, piccolo sciocco mi sento,

E nell’immensità – una creatura smarrita

Che languisce in un vuoto fermento…

Lo spirito dell’eternità non si coglie in una volta,

E a sorsi dal calice della vita noi beviamo,

Sempre più ci dispiace di aver bevuto

E il fondo vuoto sempre più vediamo;

E ogni giorno l’antiquato all’anima è più greve,

Duole di più ricordare e desiderare è più orrendo,

E sembra che vivere sia un’audacia disperata:

Ma devo sentire sempre che il polso sta battendo,

E a vivere continuo in una triste aspirazione,

E su di me la croce della vita prendo,

E tutto l’ardore dell’anima sento in avido moto,

Per un istante l’istante afferrando e perdendo.

E tutto voglio!.. Cosa?.. Oh! ho così tanti desideri,

La loro forza ha così bisogno di comparire,

A volte sembra che la loro intima angoscia

Il petto farà scoppiare e la mente impazzire.

IV

Come scolaro nel banco, di nuovo sono a scuola

E avidamente ascolto, taccio e vedo;

Lunga è la via del sapere, ma io sono volitivo,

La fatica non mi spaventa – io voglio e credo.

Intorno solo adolescenti, la parola del maestro,

Come me, tutti ascoltano in silenzio;

Per loro tutto è vero, tutto è ancora nuovo,

L’ardore dell’anima inesperta è il loro assenso.

Ma io sono giunto qui col pensiero maturo,

Dal dubbio messo alla prova, combattente,

Ma non ucciso da esso… Io coi miraggi,

Audace e sincero, ho fatto i conti finalmente;

Mi sono difeso dall’angoscia interiore,

Con pazienza un nuovo cammino ho scelto,

Ed ora non perderò la strada intrapresa –

Il pensiero è libero e con forza respira il petto.

E allora, mio Mefistofele, invidioso ostinato?

Da oggi ho distrutto la tua prepotenza,

La malsana prepotenza della beffa antiquata;

Mi sono riscattato con grande sofferenza.

Ora mi è compagno un altro spirito di negazione –

Non quel gelido beffatore retrivo,

Ma l’onnipotente spirito del moto e della creazione,

Quello eternamente giovane, nuovo e vivo.

Nella lotta non ha paura, distruggendo gioisce,

Dalla polvere tutto ricrea con vigore,

E il suo odio per ciò che va abbattuto,

All’anima è sacro, come sacro è l’amore.

1844-1847

Ti rammarichi che dopo tanti anni…

Ti rammarichi che dopo tanti anni

Hai incontrato un tuo vecchio amico

E non avete più niente in comune…

Non affliggerti puerilmente – ti dico!

Ama il passato! I suoi incanti

Non  biasimare! Da vecchi ogni triste ora

Bisogna vivere in fondo all’anima

Con la frescura primaverile della memoria.

1850

A pochi

Vi ho lasciati, ma senza pianto –

Gli anni mi hanno gelato,

E il segreto della bufera del cuore

Non chiede più d’essere svelato.

E il cuore si stringeva in silenzio

Nell’ora dell’addio, d’infelicità,

E muti dolori si celavano

Nella triste intimità.

Così sotto la crosta di ghiaccio

D’inverno nascosta – attenzione,

Che nessuno senta – la fonte viva

Palpita compressa e con agitazione.-

1856

Libertà

Quando ero un giovinetto quieto e delicato,

Quando ero un ragazzo terribile e ribelle,

E in età matura, e già un po’ invecchiato,

Tutta la vita risonava sempre una sola

Continua e immutabile parola:

Libertà! Libertà!

Stremato dalla schiavitù e di spirito triste

Ho lasciato il mio caro paese natale,

Perché possa, finché la forza esiste,

Da un paese straniero alla terra amata,

Gridare ad alta voce la parola sospirata:

Libertà! Libertà!

Ed ecco nel paese straniero una voce potente

Nella quiete notturna ho udito da lontano…

Attraverso l’umida bufera e il buio impotente,

Attraverso gli ululati del notturno vento,

Dalla patria la giovane parola io sento:

Libertà! Libertà!

E il cuore, al dubbio amaro così unito,

Come uccello dalla gabbia, lasciando la prigione,

È balzato la prima volta con battito gradito,

E in qualche modo solenne, lieta, nuova,

Risuona adesso, fin dall’infanzia nota, la parola:

Libertà! Libertà!

Eppure io sogno –  la neve e il vasto piano,

Vedo il volto noto di un contadino,

Volto barbuto, la forza di un titano,

E lui si toglie le catene contento,

L’eterna, immutabile parola ripetendo:

Libertà! Libertà!

E se incombessero avversità e distruzione,

E la libertà volesse mani per lottare –

Correrò subito in difesa della nazione!

E se cadrò in una battaglia cruenta,

Morendo, griderò forte perché si senta:

Libertà! Libertà!

E se dovessi morire in terra straniera,

Morirò con la speranza e la fede nel cuore;

Ma un istante prima, se ciò si avvera,

Finché in questo mondo io ancora sono,

Compagno, sussurrami l’ultimo sacro suono:

Libertà! Libertà!

1858

Mozart

La folla in strada ascolta con entusiasmo

I sonatori ambulanti. Il clarinetto ha lo spasmo;

Chi lo suona, scotendo la testa, con precisione

Batte il tempo in terra col suo piedone;

Crepita e stride la tromba; il trombone soddisfatto

Romba spietato e come indipendente,

E con forza tutti suonano in disaccordo,

Tanto che l’orecchio fugge sofferente.

Che dire? Tutta la nostra vita trascorre così!

In famiglia, tra i popoli – in tutti gli stati,

Tutti questi sonatori ambulanti

Suonano in disaccordo come fossero esaltati…

Quasi ognuno crede che il coro così formato,

Sia ben composto, quasi fosse selezionato,

E il barbaro suono soddisfatto ascolta,

E si stupisce quando soffre a sua volta.

E quei pochi il cui udito sopraffino

Non può sopportare una sola stonatura,

Addolorati si affrettano, insegnando lo spirito

A proteggersi dallo sbadiglio e dalla tortura,

Il loro insulto premia chi suona e i suoi maestri

Di cappella, sia terreni che celesti.

Io amo Mozart, si sapeva divertire

Ad ascoltare un cattivo violinista e schernire;

Ha composto perfino uno stupendo quartetto,

Dove tutto è dissonanza e l’accordo è imperfetto;

Su di esso, come un bambino, rideva a iosa,

Artista e saggio! Oh, incomparabile Mozart!

Dimmi,  dove trovare quelle bonarie risate,

Che nel caos incontrano conforti a manciate,

Affinché – per una libera strada – il cuore

Sia sempre allegro e senza intimo dolore!

1860