Archivio | aprile, 2018

Bella Achmadulina (1937-2010)

23 Apr

 

Bella Achmadulina

Mi risulta che della nota poetessa russa Bella Achmadulina siano uscite in italiano le seguenti raccolte:

Tenerezza e altri addii, a cura di Serena Vitale, Ed. Guanda, 1971

Poesie scelte (1956 – 1984), a cura di Donata di Bartolomeo, Ed. Fondazione Piazzolla, 1993

Poesia, a cura di Daniela Gatti, Ed. Spirali, 1998

Lo giuro. Antologia poetica, a cura di Serena Vitale, Ed. Interlinea, 2008

Il poema Avventura in un negozio d’antiquariato che presento nella mia versione, se non è inserito anche nell’antologia Lo giuro, compare solo nella raccolta curata da Daniela Gatti. E’ una traduzione encomiabile, ma non rimata come il testo originale.

Il poema Avventura in un negozio d’antiquariato tradotto da Paolo Statuti

 

Perché? – come in un bosco per riparo,

o per la quiete o solo per oziare, –

senza aver niente da desiderare,

entrai in un negozio d’antiquario.

Il proprietario mi guardò di traverso.

Non fosse stato stanco da secoli già

Di curare i fiori della tarda età,

egli non mi avrebbe mai aperto.

Lo spaventava una perdita seria

dei calici e del cristallo malato.

La viva infamia di un tempo mutato

gli era insieme nemica e straniera.

Mi scelse tra le restanti persone,

e mite preparò un brutto tiro,

e l’odio, mescolandosi al respiro,

sorse in lui come attimo di amore.

La gente intanto faceva affari,

e uno straniero, solo lui fra tanti,

toccando il coro di gocce vacillanti,

esaminava vecchi lampadari.

– Mancano le vocine, – egli notò, –

di gocce perse in remoti festini, –

e allora si offese come i bambini

e già stufo alla sua casa ritornò.

Una vecchia da una fonda sofferenza

tirò fuori un mesto argenteo granello,

per le sue mani era un fardello

l’arcano del bene e dell’esistenza.

Che tristezza – tra serre oscurate

guardare l’agonia autunnale

di cose altrui alla luce finale

di fuochi spenti e di facce passate.

Ed ecco che nella quiete spogliata,

risonò un richiamo di fragranza:

attendeva risposta nella stanza

il vago gesto di un’anima ignorata.

Il trombettiere di un noto dolore

sonò come alla vigilia di un sonetto, –

così esige di una scena l’oggetto,

e corri, come il cane chiamato corre.

Queste voci di nessuno mi son note.

O pianto che vuole essere cantato!

Una muta preghiera ha risonato

come grido: – Aiuto! – nella notte.

Disperandosi senza più vigore

la muta gola udivo singhiozzare.

Corsi a quel richiamo e per cominciare

dissi: – Non piangere, bimbo del cuore.

– Che cercate? – l’antiquario domandava. –

Qui tutto è morto e non adatto al pianto. –

E sperando nel successo, intanto,

Con la spalla premeva e si strusciava.

Uniti dall’ostilità, stavamo

spalla a spalla. Risposi in tono secco:

– Con la ferita aperta dell’orecchio,

desidero sentire ciò che amo.

Disse adirato: – Andate via in fretta!

E a un tratto tra i dubbi della demenza,

brillò il genio nella mia coscienza

ed esclamai: – Quella scatoletta!

– Borsetta? – Scatoletta! – Spinetta?

– Quella scatoletta di legno nero. –

Egli impallidì e gridò severo:

– Tutto potete, ma non la scatoletta.

Io vi supplico, io vi scongiuro!

Siete giovane, di benzina odorate!

Se in qualche magazzino voi andate,

troverete plastica di sicuro.

– Siete gentile, ma io vi dico:

– La plastica la odio cordialmente. –

E mi adulava: – Siete saggia e attraente.

Amate la fragilità dell’antico.

Anche io amo il suo calendario.

Ecco qui il ritratto di un bambino.

Ha un secolo. Lavoro sopraffino.

Ecco, prendetelo, ve lo regalo.

Un angelo triste col viso malato.

Ha i ricci e una sguardo celestiale.

Polmonite dopo un temporale.

E il buio dei cieli su lui è calato…

Io non mi curo della mia triste vita,

e voi volete assegnarmi la sorte

di piangere per sempre la sua morte

e la madre dal dolore impazzita?

– O un servizio per ventisei persone! –

esclamò con la speranza nel cuore. –

Cento pezzi di enorme valore.

Ve li regalo e chiusa è la questione.

Che sorpresa e che generosità!

Ma i miei ospiti sono sempre impegnati,

vanno sempre di corsa, sconsiderati.

Con me sola il servizio si annoierà.

Come posso cento pezzi divertire?

Ma no, non è per me, ve l’ho gia detto.

No, io apprezzo quell’unico oggetto,

Voi sapete che cosa voglio dire.

Come sono stanco! – disse l’antiquario. –

Ho duecent’anni. L’anima è decomposta.

Prendete tutto! La bottega è vostra.

Da tutto questo io mi separo!

Ed egli aprì la scatola. Sul terrazzino

dal buio dell’atrio, con mia meraviglia,

apparve una luce e scottò le ciglia,

ed era un femminile visino.

Non dai suoi tratti, ma dall’oscurità

che mi annebbiava, dall’afa spaziale

io valutai quanto fosse celestiale,

ancora non visto, nella cecità.

Con quel sorriso e quel suo guardare

il viso ispirava un semplice pensiero:

perdere la testa nel buio più nero,

chiedere la sua mano e il Caucaso visitare.

E là con lo scintillio della testa

tentare un annoiato tiratore,

tace lo sparo, andare al Creatore,

e in cielo solo Dio o una nube resta.

Quando già non ero più bambino, –

confessò l’antiquario con tristezza, –

tra i verdi tigli e la sabbiosa giallezza

io ogni giorno andavo in quel giardino.

Oh, dal suo amore più di un anno fui preso,

i sassi del giardino e l’aria baciando,

allorché, dall’inferno venendo o andando,

a un tratto apparve un ospite inatteso.

Voi ricordate Annibale certamente,

colui che compì gesta così famose.

Ebbene degli Annibali un pronipote

era chi ci visitò casualmente.

Respirando l’oscurità nativa,

egli saltò alla porta. E tutto cambiò.

La domestica spaventata si segnò.

E l’anima mia s’impietriva.

Per uno soffio estraneo il cristallo batté.

La credenza rispose coi piatti infranti.

Puzza di bruciato e gelidi istanti.

La candela si spense. Egli si sedé.

Quando di nuovo il fuoco fu tornato,

chino su di lei, diverso e strano,

era simile a un schiavo africano,

gli occhi bassi, come cavallo domato.

Le sussurrai: – Mi sembra un mostro,

anche se piccolo, lo eviterei.

– Voi credete? – così rispose lei. –

A me non sembra e non è affare vostro.

Restò da noi tre giorni, – buono e fraterno, –

ogni consiglio per ordine prendeva.

Ma quando se ne andò il suo sguardo ardeva

e dalla bocca rise il rosso inferno.

Da allora una dolorosa allusione

si leggeva sul volto e nel pensiero.

Si aggrottava la fronte a quel mistero,

senza poter dare una spiegazione.

Quando dal sonno, dal fondo del calore

affiorava in lei un cieco sorriso,

lei aveva paura che dal suo viso

fosse stato ammesso un errore.

No, nel Caucaso io non andai.

Chiesi la sua mano.Udii il suo rifiuto.

Non mi scoraggiai ma risoluto

per la sua mano tre volte io pregai.

Nell’anno trentasette improvvisamente,

credo fosse in un mese invernale,

lei morì, senza mandarmi a chiamare,

nel delirio, senza un motivo apparente.

Immortale per il dolore e l’amore mio,

conduco questa bottega da fame ,

tratto coi villani, vendo ciarpame

smarrito tra gli uomini e Dio.

Ma per me è un sollievo e una fortuna

che egli in un duello sia morto.

– Non è stato ucciso, e io non vi sopporto, –

gli dissi, ma non avete colpa alcuna.

Perdonate la voglia delle mani

di possedere. Facciamo un patto:

A me l’oggetto, a voi il ritratto:

come premio, vendetta, piaceri vari.

Il vecchio chiese: – Non vi ho turbata

con queste sventure remote?

– No, ho ricordato quel pronipote, –

dissi, – solo per lui sono rattristata.

E se a un tratto, in scienze erudito,

il nuovo lettore noterà a sua volta:

– E’ tutta una menzogna a lungo svolta, –

risponderò: – E’ vero, caro amico.

La vita sobria sarebbe complicata,

se gli antiquari così agissero

e gli oggetti tutti si animassero,

e se la morte quello avesse incontrata.

Ma no, in casa mia il ritratto è al sicuro!

E il fruscio degli  scarpini da ballo!

E le candele! E il suono del cristallo!

E in questo c’entra il pronipote, lo giuro.

1964

Addio

E alla fine io dirò:

addio, non è un obbligo amare.

Impazzisco. O all’apice

della follia posso arrivare.

Come amavi? Hai brindato

alla rovina. Il punto non è questo.

Come amavi? Hai distrutto,

ma l’hai fatto in modo così grezzo.

Crudeltà di un fallimento…Oh no,

non ti perdono. Il corpo è in moto,

vede la luce bianca,

ma il mio corpo è vuoto.

La tempia un piccolo lavoro

produce ancora. Ma son cadute le mani,

e come stormo, di sbieco,

suoni e odori sono già lontani.

1960

 

 

 

 

 

Aleksandr Semjonovich Kushner

17 Apr

 

 

Aleksandr Kushner

    

 

Aleksandr Semjonovič Kušner, che Josif Brodskij considerava uno dei migliori poeti lirici russi del XX secolo, è nato il 14 settembre 1936 a Leningrado. Nel 1959 ha terminato la facoltà di filologia presso l’Istituto Pedagogico Statale “Herzen” e per dieci anni ha insegnato lingua e letteratura russa. Membro dell’Unione degli Scrittori dal 1965 e del Pen Club dal 1987. Sposato con Elena Nevzgljadova, filologo e poetessa che pubblica con lo pseudonimo Elena Ušakova. Kušner ha ricevuto diversi prestigiosi premi, tra i quali ricordiamo in particolare, nel 2005, la prima edizione del “Poeta” – premio nazionale russo assegnato per i migliori risultati conseguiti nella poesia contemporanea. Nel 2011 il suo libro “Da questa parte del misterioso confine” alla Fiera del Libro di Mosca è stato dichiarato “Poesia dell’anno”.

Di Aleksander Kušner il linguista Dmitrij Lichaciov ha detto: “Kušner è il poeta della vita in tutte le sue manifestazioni. E’ questo uno dei tratti più salienti della sua poesia”. Secondo il critico e storico della letteratura Lidija Ginsburg, nei suoi versi si realizza il “connubio tra l’esaltazione della vita e la sua tragicità”. Il critico letterario e scrittore Andrej Ar’ev ha scritto: “Nel XX secolo quanti sono stati definiti “l’ultimo”: “l’ultimo della campagna”, “l’ultimo pietroburghese”, “l’ultimo disperato”, “l’ultimo romantico”, “l’ultimo metafisico”. A questo, soltanto Kušner ha sorriso e ha fatto un gesto di noncuranza con la mano, dicendo: “Ogni poeta è l’ultimo. Salvo poi scoprire all’improvviso che è il penultimo”.

Quando nel 2013 uscì la sua raccolta Luce serale, il poeta la commentò così: “E’ un libro di nuove poesie che costituiscono un certo rabesco, si tengono per mano, trovano per sé il necessario vicino. Necessario per una qualche affinità interiore o, al contrario, a causa di un chiaro contrasto. Inoltre in un libro di versi, in questa cooperazione c’è una non premeditata comunanza: in essi si trovano quei pensieri, sentimenti, osservazioni della mente e percezioni del cuore di cui sei vissuto. E si può dire anche: in essi sono fissati i momenti non soltanto felici, ma anche quelli tristi, di malumore. Ma chi li scrive, nel processo di creazione della poesia, si libera dall’angoscia, vince le tenebre. E questa energia, questo impeto di liberazione dal “peso gravoso”, forse sarà utile al lettore.

In più di cinquanta anni ho scritto molti libri. Il primo – Prima impressione uscì nel 1962. Questo è diciottesimo. Forse è un po’ troppo? Oggi si usa limitare la quantità. Un poeta ha stampato due poesie in un anno e la critica lo elogia, lo elogia, io penso, perché leggere due poesie è più facile e si fatica meno che a leggerne dieci. Leggere le poesie è difficile e inoltre manca il tempo. Ma Puškin ha scritto molto. In trentasette anni ha creato tanto, quanto noi a quell’età neanche ce lo sognavamo! E Lermontov, e Blok…Bisogna prendere esempio da loro. Ed ecco ancora cosa è venuto alla luce con gli anni: l’età non è un ostacolo alla creazione di versi. Forse essa aiuta perfino a scriverli, non come in gioventù, ma in modo diverso. Migliori, peggiori – non sta a me giudicare. Il poeta non va in pensione…I versi aiutano a resistere al male della vita e alle sue miserie, i versi ci consolano, restituiscono il desiderio di vivere, “per ragionare e soffrire”.

 

Poesie di Aleksandr Kušner tradotte da Paolo Statuti

 

Là dove sul fondo c’è una chiocciola…

 

Là dove sul fondo c’è una chiocciola

Come tromba d’orchestra,

Dove i chiozzi guizzano veloci

E li aspetta una tragica sorte

 

Nelle fauci dell’implacabile luccio, –

Là le soavi ninfe dimorano,

E ci tendono le mani

E ci chiamano con fievole voce.

 

Esse hanno alcune sottospecie:

Nei ruscelli appaiono le naiadi,

Nel folto dei boschi le driadi,

E nell’azzurro mare le nereidi.

 

Confoderle è sconveniente,

Com’è per il ranuncolo d’acqua,

Quello africano, quello non comune,

E quello velenoso dei prati.

 

La saccenteria non è una cosa oziosa!

Poeta, non risparmiare gli sforzi,

Non trascurare il tuo podere

E sii minuzioso, come Linneo.

 

Sorveglio le nuvole notturne dietro la finestra…

 

Sorveglio le nuvole notturne dietro la finestra,

Scostata la pesante tenda.

Ero felice – e temevo la morte. La temo

Anche adesso, ma non come allora.

 

Morire – significa stormire al vento

Insieme con l’acero, che guarda triste.

Morire – significa entrare alla corte

Di Riccardo o di Arturo.

 

Morire – è schiacciare la noce più dura,

Apprendere tutte le cause e i motivi.

Morire – è diventare contemporaneo di tutti,

Tranne di quelli che sono ancora vivi.

 

E’ una canzone di Schubert…

 

E’ una canzone di Schubert, hai detto.

Io la cantavo sempre, non sapendo di chi fosse.

Con essa, sembra, si può iniziare da capo

La vita, già molto simile a un prodigio!

 

Qualcosa come un usignolo e un triste suono

In un boschetto tedesco – e un suono triste.

La canzone ci è più cara se ha parole semplici,

E senza parole anche meglio, – con forza terrena!

 

Io la cantavo sempre, così senza motivo

E confondendo le parole malamente.

La notturna tenebra tedesca vi incombe,

E la tristezza in essa è così celestiale.

 

E poi per anni la dimenticavo.

E poi di nuovo a un tratto ritornava,

Come coprendomi con l’ombra di una quercia,

Tentandomi a ricominciare da capo.

 

Claude Monet diceva più o meno così…

 

Claude Monet diceva più o meno così:

Recandoti a un plein-air, dimentica il burrone,

Se è un burrone, la quercia, se è una quercia,

E un ripiano sul monte, se è un ripiano.

Pensa semplicemente: ecco un ovale giallastro,

E sotto un triangolino piccolo e rosato,

E vedi strisce, nient’altro che strisce,

Se ti dirai: sono rami, – mentirai.

E non pensare a una somiglianza; non guardare

Né un’onda, né un campo, né un fiume, né un prato, –

Di sé si prenderanno cura loro stessi,

A un tratto appariranno da un beato nonsenso!

 

Fryderyk, voi dovreste immortalare voi stesso…

 

Fryderyk, voi dovreste immortalare voi stesso,

Il pianoforte per questo non basta,

E amando così tanto la vostra musica,

Io vorrei augurarvi anche il canto,

E la sinfonia, l’opera,

Senza soggetto né protagonista non si può!

Bisogna essere simili a Mozart e a Rossini,

Chiedo i timpani e l’oboe.

Fryderyk, amerete il fagotto e la tromba,

Non vi annoiate senza flauto e senza violino?

Io sono pronto a cambiare l’augurio in supplica:

Cercate di evitare errori,

La polonaise è eccellente, l’étude è incantevole,

Senza dubbio la mazurca è stupenda,

Ma da voi anche in Francia si aspettano di più,

E anche tra le opprimenti nevi di Pietroburgo.

Fryderyk sorride. Egli non è adirato,

turbato, irritato, confuso.

In queste esortazioni c’è una ragione,

Il suo vecchio maestro merita

Rispetto. Ecco che anche Mickiewicz

Gli si avvicina con lo stesso consiglio.

Egli allegherà alla lettera un notturno –

E il notturno sarà la migliore risposta.

 

*  *  *

 

Perché il vorticoso Van Gogh

Mi tormenta con un punto oscuro?

Com’è giallo il suo autoritratto!

Bendato l’orecchio ferito,

Con una giubba verde, come una vecchia,

Perché mi segue con lo sguardo?

Perché nel suo caffè a mezzanotte

C’è quel cameriere con la faccia di vizioso?

Brilla un biliardo senza giocatori?

Perché una pesante sedia è messa

Lì per avvelenare la tranquillità,

E aspetti le lacrime o un suono di scarpe?

Perché egli soffia col vento sulla corona?

Perchè dipinge il dottore

Con un assurdo rametto in mano?

In quel suo paesaggio sghembo

Dove va quel carretto leggero

Senza passeggero e senza bagaglio?

 

Ciò che noi chiamiamo anima…

 

Ciò che noi chiamiamo anima,

Che, come nuvola, è di  aria

E splende nell’oscurità notturna

Capricciosa, indocile

O a un tratto, come aeroplano,

Più sottile di una spillo pungente,

Corregge dall’alto

La nostra vita, migliorandola;

 

Ciò che al pari di un uccello

Balena nell’aria azzurra,

Che non brucia nel fuoco,

Che sotto la pioggia non si bagna,

Senza cui non si può respirare,

Né scusare uno sciocco nell’offesa;

Ciò che dovremmo restituire,

Morendo, in un aspetto migliore, –

 

Ed è forse anche ciò

Per cui non dispiace sforzarsi,

Che ci fa anche onore,

A ben considerare.

Veramente è buona,

Di una moda assai vecchia,

Nuvoletta, rondine, anima!

Io sono legato, tu sei libera.

 

Ecco io sto nell’ombra notturna…

 

Ecco io sto nell’ombra notturna

Solo nel giardino deserto.

Ora cigolerà una porta in paradiso,

Ora sbatterà una porta nell’inferno.

 

E a sinistra una musica risuona

E una voce armoniosa canta.

E a destra qualcuno grida e grida

E maledice questa vita.

 

Dalla mattina girando per la stanza…

 

Dalla mattina girando per la stanza,

Con che premura l’anima

Si prepara l’afflizione!

(Così la rondine fa il nido.)

Niente la distoglie

Né dietro la finestra, né nella conversazione.

 

Invano il giorno è splendido e sereno, –

Non l’attira un foglio viscoso,

Né il tavolo, né la pagina di un libro.

Quale mediocre esperto di persone

Ha detto che la felicità le serve?

Soltanto con l’afflizione ci si può elevare.

 

Come il san Sebastiano del Bellini nel giardino…

 

Come il san Sebastiano del Bellini nel giardino

Con una freccia nel petto e nell’anca passeggia

E non prova dolore, e il cespuglio in fiore

Fruscia di amore celestiale e di bontà,

Così anche tu vorresti lasciar fuori dalla bara

Non proprio i tormenti, ma i simboli di essi.

Ma prova a liberare il martire dalle frecce –

Si stupirà, e a un tratto si offenderà anche.

 

Questa polvere, queste barre di vacillanti ringhiere…

La prola “tormenti”, lo ammetto, mi turba:

Non ho mai amato le frasi altosonanti,

Meglio sporchi colombi, i loro brontolii,

Meglio un misero, comune, prosaico piano

E il disteso fruscio dei pioppi urbani.

Non renderò né piaghe, né punture, né ferite –

Divertirò con esse un passante nel regno delle ombre.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti