Archivio | febbraio, 2022

Poesie di Grigorij Khubulava tradotte da Paolo Statuti

27 Feb

     Grigorij Khubulava – poeta, filosofo in medicina. È nato nel 1982 a San Pietroburgo. Nel 2005 ha terminato la facoltà di filosofia. Tre anni dopo ha discusso la tesi di laurea sul tema «Aspetti conoscibili della creazione poetica». Nel 2017 ha discusso la tesi di dottorato sul tema «Analisi filosofico-antropologica della comunicazione tra medico e paziente». Insegna filosofia. Oltre ad articoli filosofici, pubblica anche quelli di contenuto critico-letterario. È autore di cinque raccolte poetiche.

Nel cuore dorme una scheggia di ghiaccio

*  *  *

Nel cuore dorme una scheggia di ghiaccio,

La neve scricchiola rumorosa,

Al crepuscolo da un granello di gelo

Sul vetro è nato un cristallo-rosa.

Sulle labbra i respiri si fermano,

Come vapore nel silenzio dissolti.

Vedi? Il cristallo arde e non si consuma

Nel fuoco solare dai mille volti.

E per nome ti chiama con voce

Che l’essere ha trafitto,

Eterno, solo, onnipresente

Chiaramente nella sua fiamma sentito.

Attraverso lo spazio, inondato di luce,

Il riflesso dell’alba si nasconde,

Tu tremi, finché in questo splendore

In te ora qualcosa si fonde.

Senti nell’aria azzurra e fredda

Una forestiera piccante calura,

Il mondo è colmo di un’eco antica:

«Seguimi, tu che non hai paura!»

Non ci sono salde promesse

*  *  *

Non ci sono salde promesse,

Rifugio non potrai trovare:

Né solide rocce o eterni edifici,

Dalla barca sull’acqua avanzare –

Dov’è più sicuro. Troppo facile

Tradire se il cuore è ignorato…

Io sono Cefas – Tuo fedele Apostolo

Che Ti ha rinnegato.

Ascolta il frullio di lievi ali

*  *  *

Listen to the hummingbird

Don’t listen to me…

Leonard Cohen

Ascolta il frullio di lievi ali

Quando il tramonto appare,

Il sospiro che ho scordato –

Loro, non me devi ascoltare.

Ascolta il flauto della libellula

Sul tuo giardino-orto,

Basso blu scuro di temporale,

A lui presta ascolto.

Che raccontino l’amore,

Ascolta con attenzione.

A che ti servono le mie parole? –

Imponderabile confusione.

L’aroma della cannella e del chiodo di garofano

*  *  *

La cannella e il chiodo di garofano,

Come suono di nota melodia,

È la vita – alchimista e pasticcere

Offre una cattiva apatia.

La cioccolata dell’amore grattugerà,

Tutte le speranze peserà con cura,

La gioia diverrà un boccone amaro

In una magica preziosa mistura.

Al tuo pezzo aggiungi dubbio frullato,

Per esso un giorno la morte pagherà,

Mangi, ma non sarai mai sazio,

Tornerai e non dirai che basterà!

La sua cortina stesa nella nebbia

*  *  *

La sua cortina stesa nella nebbia,

Dalle nubi la mezzanotte sta a guardare,

Sonnecchia sul fiume la luna,

Appoggiata a un raggio stellare,

Nel vapore latteo l’aria densa

In fine mussola è trasformata

E fiocamente la mia leggera

Barca è illuminata.

Anch’io non capisco e non so

Da chi e dove navigo,

Accesomi, mi spengo, scompaio

Ad occhi aperti come sogno vago.

Quieta la corrente mormora

Dietro la poppa fremente:

“C’è in tutti la predestinazione,

La tua riva è vicina ed evidente…”

E intesi questi suoni

Nel cammino da fare,

La volontà risveglia le braccia,

Aiutandomi a remare.

La bici s’impolvera sul balcone

*  *  *

La bici s’impolvera sul balcone,

Gli sci spezzati, una sedia sfondata…

Fermati. Nessuno ti corre dietro,

Riposati e intorno dà un’occhiata.

Allora conoscerai tante cose

Che, morto te, vivranno ancora,

Non temere, non si udrà la voce:

«Fummo, siamo e saremo come ora».

Ma è così, non dubitare di questo,

La vita cessa, trattenerla non posso,

E presto anche il tuo corpo inerte

Diventerà un oggetto d’osso.

Il mondo ci guarda quieto e freddo,

Un nodo in gola si forma scivoloso,

E il focherello dell’anima libera

Arde sullo stoppino oleoso.

La vita lascia invisibili tracce

*  *  *

La vita lascia invisibili tracce,

Il tempo è immobile come un airone,

Tu apri il rubinetto e nel getto d’acqua

Conta le gocce il sole-stregone.

Senti com’è amara la tua libertà?

Ogni anno che passa ciò è più ordinario.

Regge la tazza di caffè la tua mano.

Sul muro s’oscura della luce il contrario.

Culli il passato, serbandone il ricordo.

Un posto vuoto per esso più non si trova,

La gioia del deliquio all’inizio del giorno

È più dolce d’ogni melodia o parola.

Chi ha detto che la sorte è sempre crudele,

Il cuore lacerando in una vana caccia?

La felicità – piccolo petalo caduto

Trema sulla tua mano come rossa macchia.

Mormora come il mare d’inverno

*  *  *

Mormora come il mare d’inverno

La pioggia che dal tetto di ferro scende,

Si lamenta sottovoce: «Mio Dio!»,

Ma ora più nessuno la sente.

Dorme il fogliame bagnato, scuro,

Dormono sul bosco le nubi turchine,

Dorme nel giardino di notte la vita

Spogliata, col dorso sull’erba e le spine.

Della clavicola l’acqua incolore

Riempie la fonda fossetta,

Addormentati… e domani, come sempre,

Né disgrazia, né miracolo ti aspetta.

Amore, io non dirò: “Sono tuo”

*  *  *

Amore, io non dirò: “Sono tuo”,

Appartenere è l’arte di un oggetto,

Ma chi conobbe la tua voce,

Non avrà più pace nel petto.

Più vecchio del fuoco, più diafano del ghiaccio

Con la tenera mano hai chiamato,

E se diverrai un fiume: “Io sono l’acqua”,

Dirò sottovoce beato.

Vive nella dura gabbia l’uccello

*  *  *

… E la gabbia vuota dietro.

Mandel’štam

Vive nella dura gabbia l’uccello ,

Becca il grano e la polvere fiuta,

Grida, canta e impreca

In una lingua sconosciuta.

Dei suoi occhi è rimasto il bianco,

Di neve imponderabile ordito,

Ed è probabile che non ingannerete

Il suo inesperto udito.

Lui la perfidia detesta,

Io temo la sua libertà,

E che la gabbia è il mio petto,

Difficilmente qualcuno vedrà.

(C) by Paolo Statuti

Adam Mickiewicz: Tre ballate e due romanze tradotte da Paolo Statuti

19 Feb

   Pubblico nel mio blog tre ballate e due romanze da me tradotte successivamente all’uscita del mio volume “10 Ballate”, pubblicato nel 2020. In tal modo completo la prima edizione delle Ballate e Romanze di Adam Mickiewicz, stampata esattamente 200 anni fa nel 1822.

                  AGLI AMICI

Inviando loro la ballata “Mi piace”

Kowno, 27 dicembre

Uno, due, tre… è già mezzanotte,

Intorno un silenzio arcano,

Soffia il vento sui muri del convento

E i cani abbaiano lontano.

Il cero già finisce di bruciare,

A tratti la fiamma si attenua,

Poi si rafforza e di nuovo languisce,

Balena, si smorza e balena.

Non era così tremenda quest’ora,

Quando il cielo mi era clemente:

Quanti dolci ricordi mi riporta!

Ma a che serve ora? a niente!

Ora cerco la gioia in questo libro,

Ma il libro mi annoia, ahimé;

La mente a cari temi mi conduce,

Ora sogno, ora torno in me.

A volte quando l’estasi illude,

Chi amo e i fratelli vedo;

Salto su, guardo, ma sulla parete

Solo la mia ombra intravedo.

Prendo la penna allora e nel silenzio,

Nei miei pensieri mi smarrisco,

Scrivo qualcosa per gli amici,

Scrivo, ma non so se finisco.

Forse una poesia sulla primavera

O forse una invernale;

Scriverò di amore e di spavento,

Di Maryla e del mondo spettrale.

Se cerca la sua fama nel pennello,

Le faccia il ritratto, un pittore,

Il vate con la rima immortale

Decanti i pregi del cuore.

Benché il mio intelletto sia cosciente,

Non la gloria cerco, ma il sollievo;

Io vi dirò, purché lo rammenti,

Quali gioie con lei avevo.

Lei non pronunciava frasi amorose,

Maryla non ne era capace;

Pur dicendole cento volte ti amo,

Non diceva nemmeno mi piace.

E allora a Ruta a mezzanotte,

Quando tutti vanno a dormire,

Con questa ballata, come un addio,

Io l’ho voluta impaurire.

1819

            IL GUANTO

             (da Schiller)

Davanti all’arena di corte,

Dove le belve aspetta la morte,

Siede il re tra i grandi del regno.

Tutti aspettano un suo segno;

Sui balconi agghindate

Siedono le dame emozionate.

Il re fa un gesto con la mano,

Una gabbia si apre e pian piano

Un leone imponente

Avanza,

Alza la fronte fiera,

Lo sguardo intorno gira,

Scuote la criniera,

Sbadiglia annoiato,

A lungo si stira

E a terra è già sdraiato.

Il re fa un gesto di nuovo,

Di nuovo si alza una grata,

A rapidi passi, avida di caccia

Una tigre si affaccia,

Guarda da lontano

E lampeggiano i denti bianchi,

Allunga la lingua,

Batte la coda sui fianchi

E gira intorno al leone,

Grugnisce irritata

E mugolando

Al suo fianco è già sdraiata.

Il re di nuovo fa un gesto,

Di nuovo una grata si alza

E una coppia di leopardi

All’infuori balza;

Di lotta ansiosa,

Sulla tigre si avventa rabbiosa,

Si avvinghiano con furia

Ma la lotta non dura –

Il leone solleva la testa,

Ruggisce e il silenzio ritorna.

La tigre ansima e gira intorno

E ansimando si arresta,

Poi al suolo si sdraia di nuovo.

La leggiadra Marta a un tratto,

Da un balcone leziosa

Un suo guanto getta e il guanto

Tra le belve si posa.

Marta ad Emrod si rivolge:

“Chi mi ama davvero tanto,

E me l’ha detto mille volte,

Ora mi riporti il mio guanto”.

Emrod senza temere

Si avvicinò alle fiere,

Guardato con orrore

Da cavalieri e signore.

Il guanto prese

E tornò sul balcone.

Sul viso di Marta sorridente

Gettò il guanto dicendo:

“Al vostro incanto sono indifferente”.

Poi si voltò e andò via per sempre.

aprile 1820

                   TUKAJ

 ovvero  PROVE DI AMICIZIA

      Ballata in quattro parti

                         I

«Io sto morendo.  –  Io non piango.

Sia questo il vostro conforto:

Prima o poi la morte ci aspetta,

Non soffre più colui che è morto.

Possedevo terre e castelli,

Ero celebre e potente,

La mia porta era sempre aperta

Per ogni amico e conoscente.

O forza! o creatura umana!

Grande nome, ricche dimore,

Grande nulla! semplice fumo!

Muoio quando la vita è in fiore!

Quando cercando il sapere

In capo al mondo mi spingevo

E gli occhi sui libri stancavo,

Un tesoro di scienza avevo.

O scienza! o creatura umana!

Grande nome, grande onore,

Grande nulla! semplice fumo!

Muoio quando la vita è in fiore!

Sincero e con l’anima pura

La santa fede rispettavo,

Prodigo premiavo la virtù,

La mia offerta in chiesa portavo!

O fede! o creatura umana!

Santo nome, santa devozione!

Santo nulla! semplice fumo!

Muoio quando la vita è in fiore!

O Creatore! così severo,

Se mi dai questa breve età,

A che pro ho servi fedeli?

A che pro premio la fedeltà?

Tu doni l’amante all’amante,

Ma la morte non li vuole insieme.

E ho così tanti amici !

Statemi bene, statemi bene!»

Circondato dai suoi cari,

Tukaj, tra gemiti e lamenti,

Salutato il mondo per sempre,

Ha chiuso gli occhi ormai spenti.

A un tratto un fulmine sul tetto,

Tremano i muri della stanza,

Un vecchio a tutti sconosciuto

Vola dentro con arroganza.

La testa bianca come neve,

Le guance da rughe solcate,

La barba che arriva ai ginocchi,

Le mani a un bastone poggiate.

«Tukaj!» – e lo toglie dal letto.

«Vieni con me» – gli ordina – «vieni!»

Attraversano molte stanze

E superano i terrapieni.

Vanno. Cade una fitta pioggia.

A tratti l’argento lunare

Dissolve la nebbia addensata,

A tratti in essa scompare.

Superano i boschi fangosi,

Paludi e gole profonde

Di Hnilice la buia foresta,

Del lago le livide onde.

Là dove la selva è più folta,

Nero in basso, la cresta d’oro,

La fronte coperta di pietre,

Si erge il monte Zarnowo.

In ginocchio su una tomba,

Le braccia al cielo rivolte,

Il vecchio spalancò la bocca,

Gridò e fischiò ben tre volte.

«Tukaj, guarda, ecco il sentiero!

Oltre il sentiero, non lontano,

C’è l’eremo del saggio Polel *,

Il saggio al saggio tende la mano.

Nota è la tua scienza e la virtù,

Dio alla terra ti ha legato

Con tant amabili vincoli,

Ma una breve vita ti ha dato.

Non temere inutilmente,

Scopri le mie possibilità,

Vivi per la moglie e gli amici,

Per sempre, per l’immortalità.

Io per primo a un occhio mortale

La strada oso indicare,

Ma come la legge dispone,

Solo per due lo posso fare.

Scegli dunque un’altra persona

Che stimi e di cui diresti

Che in ogni difficile prova

Come di te ti fideresti.

______________________________________

* Divinità degli antichi slavi  (N.d.T.)

Scegli bene – sarai immortale!

Scegli male – avrai la tomba».

«O vecchio! queste tue visioni

Un velo oscuro adombra.

Dimmi… » – «L’ho detto e lo ripeto:

Scegli qualcuno e sii accorto.

Ascolta la tua testa e il cuore.

Ciò riguarda l’anima e il corpo!

Uno fedele o non fedele,

Immortalità o per sempre morto!…

Di chi fidarti veramente?… »

Tukaj al vecchio non risponde,

Chi può leggere nella mente?

Come puoi fidarti dei servi?…

«Forse la consorte o l’amante?»

«Sì…» – però tace rattristato;

«Sì… » – ma non ha continuato.

I pensieri si accavallano,

«Certo, la moglie… sì, l’amante!»

Ma la paura lo confonde

E arrossisce dubitante;

I pensieri si accavallano,

Ecco, forse ora risponde,

Ora… ma nient’altro egli aggiunge.

«Muori allora! osavi chiedere?

Tu osavi desiderare?

Tu di nessuno hai fiducia,

Perché al mondo voler restare?»

Lui pensa. – «Nessuno fra tanti?

La moglie, un amico, un’amante?» –

Lui pensa. – Ma all’improvviso

La volta del cielo si annera,

Tuona, trema la terra intera,

Brucia e ribolle la palude,

Si fonde nel fuoco la rupe,

Spariscono le valli e il lago.

Tra fulmini, fischi e stridori,

Grazie a forze superiori,

Tukaj nel suo letto ritornò,

Circondato dai famigliari.

Una voce da lontano tuonò:

«Non hai nessuno, l’hai ammesso,

Di cui potresti in ogni prova

Fidarti come di te stesso!»

                      II

«Io ce l’ho un amico, ce l’ho!»

Grida a un tratto Tukaj morente.

Scompare il pallore dal viso

E l’occhio di nuovo si accende.

Tukaj è strappato alla tomba,

Da sé solo lascia il suo letto

E cammina con le sue forze,

Come da nulla fosse affetto.

E camminando egli vede

Sul cuscino una pergamena,

Dove un segreto accordo

Un diavolo ha scritto appena.

Tukaj , curioso, lo prende,

Si siede, si accomoda e legge:

«Il giorno in cui la luna nuova

Sul piccolo bosco vedrai,

Cerca una pietra sotto la quale

C’è una radice che strapperai.

Quando verrà da te la morte,

Ordina di tagliarti in quarti,

Di far bollire la radice,

Per ungere bene i tuoi arti:

Rinascerà l’anima e il corpo,

Ti alzerai nell’età fiorente

E, grazie al balsamo, potrai

Morire e nascere per sempre».

Poi istruzioni da osservare:

Come testa e gambe tagliare,

Che acqua usare per bollire,

Quali erbe per l’unguento.

E nel poscritto, per finire,

C’era questo avvertimento:

«Se è usata un’altra persona

Per compiere questa unzione,

Dai nostri inganni sviata,

A un altro l’erbe mostrerà,

O nel momento stabilito

Il tuo corpo egli non unge:

Allora il balsamo non servirà

E tu fra i demoni finirai.

Se tu sei d’accordo, adesso,

A conferma di quanto detto,

Mefistofele, nostro messo,

Ti darà una copia del patto.

Sta’ attento ai nostri inganni,

Farci causa non ti servirà.

Scritto nell’Erebo, sabato.

Firmato di suo proprio pugno:

Nihil obstat: Lucifero,

Copia conforme: Hadramelach».

Tukaj, scontento, ora pensava,

Il poscritto non si aspettava.

Poggia il mento sulla mano,

Contrariato il naso corruga,

Più volte la fronte si asciuga,

Prende il tabacco e l’annusa,

Ora abbassa lo sguardo a terra,

Oro lo rivolge al soffiitto.

Prende il foglio, lo soppesa,

Lo guarda e riguarda stizzito,

Lo rilegge ancora una volta,

Di nuovo incerto lo soppesa,

Poi sul tavolo un pugno sferra,

Sospira, bofonchia, protesta,

Mette le mani sulla testa,

A un tratto salta su irruente,

Agita la mano: «E sia!»

Poi tace e siede nuovamente,

Si rialza e di nuovo pensa,

Cammina, si siede di nuovo.

Con lui bisogna aver pazienza,

Perché coi diavoli non si scherza.

Pensa: o la vita eterna,

O eternamente dannato.

Non dice niente, pensa tra sé,

E solo un suo labbro ha tremato.

È il momento della risposta.

Tukaj dalla folla si scosta

E tutto solo si rinchiude

Nello studio della ragione.

E là il contratto di nuovo,

Prima di accettarlo e firmarlo,

Nelle pinze dell’ attenzione

Mette stringendole ben bene.

I vari pensieri colano

Nel crogiolo della somiglianza;

Taglia con cura le differenze,

La stessa idea frantuma in grani,

La fonde come fosse cera,

Finché arriva alla conclusione.

Dopo averla esaminata,

Dice dopo lunga riflessione:

«Quali che siano gli inganni

Di cui ho sentito parlare,

Se sono pochi oppure tanti,

Avranno triplice natura.

Se tu vuoi sviare qualcuno,

Devi costringerlo o consigliarlo;

O convincerlo con un dono,

O spaventarlo, o costringerlo.

Ciò detto in poche parole

Sarà dunque un sillogismo:

È destinato alla rovina

Chi è curioso, avido o pauroso.

Ma chi in questo triplice caso

Non cederà in un cimento,

Di costui, come di te stesso,

Puoi fidarti in ogni momento».

Tukaj, ora contento di sé,

Cerca la sabbia e l’atramento,

Va a firmare il patto infame,

Ma senza fretta, a passo lento.

È già buio per la srittura,

Nell’inchiostro una muffa scura;

Due candele doveva usare

E due calamai colmare.

Il gomito ora gli doleva;

Nella penna un pelo vedeva

E il becco era molto usato.

La scosse, lo prese sull’unghia.

Dopo una lunga riflessione,

Finalmente scrive: E SIA.

Voleva mettere il suo nome,

Ma prima di scrivere la T,

Di nuovo pensa una mezz’ora.

La testa e la penna scuoteva

E niente di più ha aggiunto;

Solo dopo la lettera T

Ha messo ancora qualche punto….

Quando già vede tutto scritto,

Di nuovo vuol verificare;

Non ridete di lui, va capito –

Coi diavoli non puoi scherzare.

Ma con suo grande stupore

A un tratto la «S» di SIA

Comincia a ronzare e frusciare

E a gonfiare tutti i bordi.

Gira, bela e aumenta il gonfiore,

Come fa la pasta lievitata.

La metà inferiore in quel mentre

Si tramuta in costole e ventre,

E nella metà superiore

Sembra un pentolone la testa.

Il collo come di una vespa,

Naso a uncino, barba caprina,

Una zampa è di cavallo,

Una zampa è di gallina,

Guarda con gli occhi di bovino,

Ha le ali come un mulino…

Insomma ve lo garantisco –

Era il messaggero Mefisto.

Tukaj non poteva sapere

Se doveva farlo sedere,

Ma quello gli salta addosso,

Spavaldo gli afferra un dito,

Fa un taglio con un coltellino

E bagna nel sangue il pennino;

Gli ficca la penna nella mano,

Guida la mano lentamente,

Quando UKAJ è già tracciato,

Si forma TUKAJ interamente.

Il diavolo sogghigna e scompare…

Bravo chi lo potrà trovare!

Aprile 1820

  IL TUMULO DI MARYLA

             ROMANZA

    (da un canto lituano)

lo Straniero, la Fanciulla,

Janek, la Madre, l’Amica

             Straniero

Là presso un ramo del Niemen,

Là dove il terreno è più verde,

Di chi è quel tumulo ben curato?

In basso è tutto adornato

Di biancospino e ribes nero;

I lati sono coperti d’erba,

La testa è ornata di fiori

E vicino a sè ha un pado.

Là portano tre sentieri:

Uno viene da destra,

Un altro dalla casa di fronte,

Il terzo da sinistra.

Di qui passava la mia chiatta

E a una fanciulla ho domandato:

Di chi è quel tumulo ben curato?

              Fanciulla

Se a tutto il villaggio chiederai,

Una sola risposta avrai:

Maryla viveva in quella casa

Ed ora in questa tomba riposa.

Le tracce che vedi a destra

Sono di un giovane amante;

Questo è il sentiero della madre,

E di qua la sua amica viene.

Ma ormai l’alba è vicina,

Verranno anche stamattina;

Nasconditi dietro questo rovo,

Ascolterai il loro dolore,

Coi tuoi occhi vedrai.

Guarda a destra… ecco il giovane.

Guarda, anche la madre si avvicina,

E da sinistra ecco l’amica.

Camminano lentamente,

Portano i fiori

E piangono.

                 Janek

Maryla! a quest’ora!

Ancora non ci siamo incontrati,

Ancora non ci siamo abbracciati,

Maryla! è già sorta l’aurora!

Ti aspetto sospirando,

Stai ancora dormendo?

O con me sei adirata?

Ah, Maryla, mia adorata!

Perché e dove ti nascondi?

No, non sai che l’alba è sorta,

Con Janek non sei adirata,

Ma sei morta, tu sei morta!

Del tumulo sei prigioniera,

Non sarà più com’era,

Non ci vedremo più!

Prima, quando mi coricavo,

Mi dicevo: al risveglio la rivedrò

E nel sonno ti sognavo!

Ora dormirò lontano dalla gente,

Non desidero più niente.

Oh, chiudere gli occhi per sempre!

Ero giudizioso, quand’ero felice;

Mi lodavano i vicini, anche loro,

Mi lodava mio padre,

Ora io l’addoloro,

Nè con la gente, né con Dio!

Che il grano vada pure perso,

Che il fieno sia rovinato,

Che il vicino ci sia avverso,

Che i lupi sbranino il bestiame!

Maryla non c’è, non c’è!

Mio padre tutto mi procura,

La casa e l’attrezzatura,

A patto che io mi sposi;

M’invogliano i mezzani,

Non c’è Maryla, non c’è!

Ma non mi hanno convinto.

Non posso, no, non posso;

Padre mio, lo so che farò:

Lontano me ne andrò,

Cercatemi pure,

Nessuno mi troverà,

Ormai ho deciso,

L’esercito russo mi avrà

E in guerra sarò ucciso.

Non c’è Maryla, non c’è!

                Madre

Perché non mi sveglio presto?

Nel campo dovrei già lavorare.

Tu non ci sei, mia cara,

E non mi puoi svegliare!

Tutta la notte ho patito,

Ben poco ho dormito.

Il mio Simon è andato

Prima dell’alba, per compassione

Non mi ha svegliato,

È uscito senza colazione:

Falcia, falcia tutto il giorno,

Da qui a casa io non torno.

Perché dovrei tornare?

Chi dirà che il pranzo è pronto?

Chi con noi si siederà?

Ah, nessuno ora lo farà!

Finché te avevamo,

Come in cielo ci sentivamo.

Quanti ragazzi e ragazze,

Com’era lieta la festa del grano,

E la semina così chiassosa.

Senza di te la casa è vuota!

Chi passa non si ferma.

I cardini arrugginiscono,

Il cortile s’infesta, ahimé!

Lasciati da Dio e dalla gente,

Non c’è Maryla, non c’è!

              Amica

Qui, ricordo, al mattino

Sulla riva ci fermavamo

A parlare a lungo

Di chi amavamo.

Ciò non accadrà mai più.

Dove sei Maryla, dimmi, orsù!

Chi con me si confiderà,

Con chi io mi confiderò?

Ah, se con te, amica mia,

Gioia e tristezza non spartisco,

La tristezza resta tristezza,

L’allegria non è allegria.

             Straniero

Questo sente lo straniero,

Sul viso una lacrima s’è versata,

Lui la lacrima asciuga

E prosegue la sua strada.

novembre 1820

      IL SUONATORE DI LIRA

              ROMANZA

      (da un canto popolare)

Un vecchio come un colombo bianco,

Con la barba fino alla vita,

E due giovani che lo sorreggono

Passano accanto al nostro campo.

Egli canta e la sua lira suona

Accompagnata dai pifferi.

Lo chiamo e lo invito a sedersi

E onorarci con la sua persona.

«Vieni, festeggiamo la semina,

O vecchio, divertiti con noi!

Ciò che Dio ci manda dividiamo,

Dormirai nel villaggio, se vuoi».

Ha sorriso e, inchinatosi,

Si è seduto ringraziando,

Vicino si siedono i ragazzi

E guardano chi sta ballando.

Pifferi e tamburelli echeggiano,

Mucchi di ramaglia bruciano;

Saltano le giovani e le vecchie

Bevono: la semina festeggiano.

All’improvviso cessa il clamore,

Tutti abbandonano il fuoco,

Corrono sia giovani che anziani

A salutare il vecchio cantore.

«Salve, o cantore, sii il benvenuto,

Sei giunto in un bel momento!

Sei stanco, vieni da lontano?

Riposa e buon divertimento!».

Lo portano a un tavolo di zolle

E al centro lo fanno sedere.

«Su, prendi qualcosa da mangiare,

O una tazza di miele vuoi bere?

Vediamo i pifferi e la lira,

Di udirvi saremo contenti,

Ti riempiremo la sacca e un cesto

E ti saremo riconoscenti».

Batté le mani: «Silenzio, prego,

Silenzio! – ripeté – sedete,

Sonerò qualcosa volentieri,

Ma che sonarvi?» – «Ciò che volete!».

Prese la lira e con un bicchiere

Di miele il petto si scaldò.

I ragazzi presero i pifferi,

Toccò le corde e così cantò:

«Lungo il Niemen io vado vagando,

Passo da un villaggio all’altro,

Attraverso campi e boscaglie

Le mie canzoni cantando.

Tutti mi venivano vicino,

Ma nessuno, ahimé, mi capiva.

Asciugo le lacrime, sospiro

E mi rimetto in cammino.

Chi mi comprenderà avrà pietà,

Si torcerà le bianche dita,

Verseremo una lacrima insieme

E là il mio viaggio finirà».

Ma a un tratto smise di sonare

Guardando la gente sul prato,

I suoi occhi egli fissa in un punto:

Qualcuno se ne stava appartato.

Là una pastorella intrecciava

E disfaceva una corona,

E un giovane in piedi accanto a lei

Con i fiori giocherellava.

Calmo era il viso della fanciulla,

Lo sguardo era mansueto e fiero.

Non sembrava né triste né allegra,

Ma profondo era il pensiero.

E come vibra un filo d’erba

Anche in assenza di vento,

Sul suo petto vibrava la veste,

Pur nessun sospiro udendo.

Dal seno con la mano lei toglie

Una fogliolina seccata,

Sussurra qualcosa e la getta

Con una stizza malcelata.

Gira la testa, poi si allontana

Con lo sguardo al cielo rivolto,

Dagli occhi una lacrima è sgorgata

E un rossore ha coperto il volto.

Il vecchio tace e tocca le corde,

La fissava ora con dolore,

Il suo sguardo di falco sembrava

Voler scrutare a fondo il suo cuore.

Di nuovo prende la lira e il caldo

Miele nel suo petto scende;

I ragazzi prendono i pifferi

E di nuovo il canto si distende:

«Per chi intrecci la corona

Di rose, di gigli e timo?

Felice sarà la persona

Che in dono la riceverà.

Essa è per colui che ami?

Le tue lacrime e il rossore

Svelano per chi intrecci

Quella nuziale corona.

Uno avrà la corona

Di rose, di gigli e timo;

Ti ama un’altra persona,

Ma l’avrà uno soltanto,

Lascia il tuo rossore e il pianto

A colui che rendi triste,

E il fortunato abbia

La tua leggiadra corona!

Si levò allora un brusio,

I presenti sussurravano:

«La cantava uno del villaggio»,

Ma chi era non ricordavano.

Il vecchio triste alza una mano:

«Ascoltate! – egli dice – è così,

Me la cantava un infelice,

Forse uno che viveva qui.

Una volta viaggiando visitai

Królewiec e proprio allora

Da Litwa con una imbarcazione

Giunse un giovane pastore.

Era assai triste ma i motivi

Della tristezza mi ha celato.

Era fuggito dai suoi compagni

E la casa aveva lasciato.

Io spesso lo vedevo – all’aurora

O quando la luna brillava –

Nei campi o in riva al mare

Sempre tutto solo vagava.

Tra le rocce come una roccia,

Nella pioggia, al gelo, nel vento.

All’acqua affidava il suo pianto,

E ai venti il suo lamento.

Era triste e un giorno l’incontrai,

Da allora con me sempre restò.

Senza parlare accordai la lira

E a cantare cominciai.

Movendo la testa accennava

Che il mio canto gli piaceva.

Mi strinse la mano, l’abbracciai

E il pianto di entrambi scendeva.

Ci conoscevamo meglio adesso,

Eravamo amici sinceri.

Come al solito egli taceva,

Ma neanch’io parlavo spesso.

Poi, dal dolore logorato,

Perse del tutto le sue forze;

Io gli ero compagno e servitore,

Nella malattia l’ho curato.

Egli si spegneva lentamente,

Un giorno mi chiamò al capezzale

E mi disse: «La fine è vicina,

Niente potrà salvarmi, niente.

Inutilmente gli anni ho trascorso:

Questo è il mio unico torto,

Senza rammarico lascio il mondo,

Ma da tempo ero già morto.

Da quando queste rocce selvagge

Nascosto mi hanno tenuto,

Il mondo per me era nulla,

Solo di ricordi ho vissuto.

Ma tu mi sei rimasto fedele!

Non so come ricompensarti,

Sono povero e tu lo sai bene,

Ma ciò che ho voglio lasciarti.

Voglio che resti a te la canzone

Che spesso cantavo nel pianto;

Tu conosci bene le parole

E il tono di voce altrettanto.

Ho una ciocca di capelli biondi

E una foglia di cipresso;

Conserva ogni cosa con amore,

È tutto ciò in mio possesso.

Se lungo il Niemen incontrerai

Colei che non ho più riveduto,

Canta per lei la mia canzone,

E saprà di avermi perduto.

Ti ringrazierà, ti inviterà.

Dimmi… » – Ma gli occhi si spensero

E il nome della Santa Vergine

Sulle sue labbra restò a metà.

Morendo voleva dire ancora

Qualcosa, ma riuscì solamente

A indicare il cuore, volgendo

All’amata terra la sua mente».

Il vecchio tacque. Stringendo la foglia

A lungo ancora guardava,

Ma dalla folla era già lontana

La pastorella che cercava.

Solo la veste riconosceva,

Lo scialle il viso le copriva,

Prima che sparisse vide ancora

Che un giovane per mano la teneva.

Chiese al vecchio la folla turbata:

«Dicci, che cosa è accaduto?»

Egli taceva, eppure sapeva,

Ma per la folla restò muto.

1820-1821

             I TRE FRATELLI BUDRYS

                  (ballata lituana)

Il vecchio Budrys ha tre figli forti come i Lituani,

Un giorno dice loro: «Ascoltate,

Tenete pronti i vostri cavalli e le selle,

Le spade e le lance affilate.

Perché mi hanno detto a Vilna che preparano

Tre spedizioni in tre direzioni:

Olgierd contro la Rus’, Skirgiełł contro Lachy,

E il principe Kiejstut contro i Teutoni.

Siete sani e forti, andate a servire il paese,

Gli dei lituani vi aiuteranno;

Quest’anno io non vado, benché ancora potrei,

Siete tre e quali siete sapranno.

Uno di voi seguirà Olgierd contro i Russi.

Oltre l’Ilmen, fin sotto Novogród;

Là troverà code di zibellino e arazzi,

Là i mercanti hanno soldi e assai di più.

Un altro di voi si unisca alle schiere di Kiejstut,

Di una strage di Teutoni si vanti;

Lì sono ricchi d’ambra, hanno stoffe pregiate

E pianete ornate di brillanti.

Il terzo di voi segua Skirgiełł oltre il Niemen.

Là invano buoni attrezzi cercherà,

Ma in compenso può trovare buone spade e scudi,

E da lì una nuora mi porterà.

Perché là vivono le amanti più avvenenti,

Tanto allegre come gattine,

Il viso più bianco del latte e le ciglia nere,

Gli occhi brillano come stelline.

Da lì, mezzo secolo fa, quand’ero giovane,

Una di loro ho preso per moglie;

E anche se è morta, ancora oggi io la ricordo

E il mio sguardo dovunque la coglie».

Ciò detto, benedì i tre figli e li abbracciò;

Saltarono in sella, giovani e forti.

Dopo l’autunno e l’inverno non tornano ancora,

Budrys già pensa che sono morti.

Nella bufera di neve un uomo armato vola

E sotto il manto cela qualcosa.

«Ehi, porti un sacco pieno di rubli di Novogród?»

 – «No, padre, è la mia futura sposa».

Nella bufera di neve un uomo armato vola

E sotto il manto cela qualcosa.

«Figlio mio, tu mi porti un sacco pieno d’ambra!».

– «No, padre, è la mia futura sposa».

Nella bufera di neve un terzo uomo vola.

Il manto è gonfio di ricchezza altrui,

Ma prima di vederla, il vecchio Budrys ordina:

«Preparate le nozze anche per lui».

1827-1828

Paolo Statuti: Questa notte ho sognato

18 Feb

* * *

Questa notte ho sognato

tre stupende fanciulle.

Si sono così presentate:

– Siamo le tre “S”

di un altro pianeta:

la Saggezza, la Solidarietà

e la Soddisfazione,

sulla Terra ci hanno portate

la vostra ottusità,

il vostro egoismo

e la vostra scontentezza.

L’Universale Saggezza

ha perso la Pazienza,

per voi l’Eterno Amore

è già esaurito,

aspettatevi ora

un tremendo castigo.

Sorpreso e spaventato

ho replicato:

– Benvenute tra noi,

allora che intendete fare?

– Sarà difficile per noi guarirvi,

più facile sarebbe

nera la neve far diventare,

ma poiché la Speranza

è sempre l’ultima a morire,

riunitevi per fare penitenza,

distruggete tutti gli armamenti,

sciogliete i Patti militari,

portate in Africa vagoni di alimenti,

rispettate le piante e gli animali,

riportate la Natura

a come un tempo era,

la sua forza non provocate,

siate finalmente

una comunità umana

che ragiona, che ama,

ecco lo scopo della nostra missione

nella vostra triste situazione.

Così dicendo sono scomparse.

Da lontano giungeva

un cupo suono

e la pioggia scrosciava

incessante, ho provato un brivido

e ho pensato: “Mio Dio,

anch’io qui sono!”

Una poesia di Michael Drayton tradotta da Paolo Statuti

14 Feb
by Unknown artist,painting,1599

Michael Drayton (1563-1631)

Since there’s no help, come let us kiss and part…

    Since there’s no help, come let us kiss and part. 

    Nay, I have done, you get no more of me; 

    And I am glad, yea glad with all my heart, 

    That thus so cleanly I myself can free. 

    Shake hands for ever, cancel all our vows, 

    And when we meet at any time again, 

    Be it not seen in either of our brows 

    That we one jot of former love retain. 

    Now at the last gasp of Love’s latest breath, 

    When, his pulse failing, Passion speechless lies; 

    When Faith is kneeling by his bed of death, 

    And Innocence is closing up his eyes— 

    Now, if thou wouldst, when all have given him over, 

    From death to life thou might’st him yet recover!

Se così dev’essere, baciamoci e lasciamoci…

Se così dev’essere, baciamoci e lasciamoci.

Di me che ti ho dato non avrai più niente;

E sono felice con tutto il mio cuore,

Perché torno libero onestamente.

Stringiamoci la mano, senza più voti,

E se ci incontreremo prima della tomba,

Dell’amore che un tempo tra noi c’è stato

Non rimanga più nulla, nemmeno l’ombra.

Ora che l’Amore esala l’ultimo fiato

E la Passione ormai giace tacendo,

Con la Fede inginocchiata al suo capezzale,

E l’Innocenza che gli occhi sta chiudendo –

Ora, se tu volessi, anche se è una storia finita,

Tu potresti farlo ritornare dalla morte alla vita!

(C) by Paolo Statuti