Archivio | novembre, 2019

Yone Noguchi (1875-1947)

28 Nov

Il poeta

Fuori dal profondo e dal buio,

Un lucente mistero, una forma,

Una cosa perfetta,

Viene come la vivacità del giorno:

Uno il cui respiro è profumo,

I cui occhi mostrano la via delle stelle,

La brezza sul suo volto,

La gloria del cielo sul suo dorso.

Cammina come visione sospesa in aria,

Spargendo la passione dell’eternità;

La sua dimora è il sole del mattino,

La musica della vigilia la sua parola:

Nella sua vista,

Uno si toglierà dalla polvere della tomba

E volerà dove crescono i boschi.

(Versione di Paolo Statuti)

Paolo Statuti: Il bacio

18 Nov

 

                                                 

                                                                                                          A mia figlia

                 

     Il primo bacio era ancora lì, sospeso sopra le loro teste, nel limpido silenzio del tramonto, tra i riflessi ramati dell’acqua e il dolce tepore dei pensieri. Fra un attimo si sarebbe dileguato, raggiungendo l’immenso Mare dei Baci più belli e più desiderati: i primi. Ma il loro bacio…

     Tacevano, temendo di rompere l’incanto di quella sensazione così unica. Si guardavano, chiedendosi tacitamente conferma di quella loro felicità, poi impugnarono i remi e si accinsero a tornare a riva. Remavano già da qualche minuto, quando la barca ebbe uno scossone e si bloccò. I due giovani si interrogarono con gli occhi e impallidirono. «Forse abbiamo urtato contro qualcosa» – pensarono. Prima che riuscissero a capire cosa fosse successo, videro alla loro destra una mano verdognola con le dita palmate affiorare dall’acqua, seguita da un braccio esile e lungo tutto coperto di alghe. Un istante dopo uscì la testa, simile a una matassa arruffata di fili diversi, i cui colori dominanti erano il verde e il marrone. Sotto lo strato di fili s’intravedevano gli occhi sporgenti e rossi come il fuoco, le labbra sottili e slavate. Sul petto scintillavano le squame. Era un abitatore del fondo lacustre. Sul palmo di una mano era posata una scatolina di metallo.

     – Ho udito la musica del vostro bacio – disse ai due giovani stupefatti, che per la prima volta vedevano e sentivano una cosa del genere. – Mi è sembrata così soave e lieta, che ho deciso di rinchiudere il vostro bacio in questa scatolina d’argento, e di custodirlo assieme agli altri che ho scelto prima del vostro. Con me sarà al sicuro e se un giorno il vostro amore si troverà in pericolo, per un istante mettete da parte i rancori, tornate qui, forse il vostro primo bacio potrà aiutarvi.

     Finiti gli studi, entrambi cominciarono a lavorare e si sposarono. Si volevano un bene matto e quindi non facevano molta fatica ad andare d’accordo. Avevano cominciato bene, con una buona ricetta: tolleranza, comprensione, gentilezza, altruismo – pochi ingredienti, ma assai preziosi ed efficaci. Certo, come accade a tutte le coppie di questo mondo, anche nel loro cielo ogni tanto si affacciava una nuvola a turbare la serenità coniugale, ma era sempre una nuvola passeggera e dopo uno scroscione breve, e a volte anche salutare, essa lasciava nuovamente il posto al sole.

     Questo durò qualche anno, ma i casi della vita sono tanti e quasi mai prevedibili. A poco a poco le nuvole diventarono sempre più frequenti e minacciose e alla fine, purtroppo, anche per loro arrivò il momento della resa dei conti. Un giorno tra i due si svolse questo colloquio:

     Lei: – Non hai dimenticato qualcosa?

     Lui: – Mhm… vediamo un po’… oggi non è il tuo compleanno e nemmeno l’onomastico… non è neanche l’anniversario del matrimonio. A tua madre ho telefonato per farle gli auguri… Ho parlato con la maestra di Enrico… a proposito, sai cosa mi ha detto? Che secondo lei trascuriamo nostro figlio…

     – Su che si basa per dire una cosa simile?

     – Mah, non so, forse perché Enrico vede troppa televisione e perché alla sua età non sa ancora chi era Cenerentola… allora, vediamo, cosa posso aver dimenticato…

     – Hai dimenticato di darmi una risposta. Due ore fa ti ha fatto una domanda, ma tu hai abilmente cambiato discorso.

     – Ah, sì, hai ragione, beh, ci ho pensato e la risposta l’avrei, ma non mi sembra opportuna, lasciamo perdere.

     – Neanche per sogno! Su, coraggio: «mi hai mai tradito o desiderato tradirmi?».

     – Sei troppo intelligente per fare una domanda così banale che prima o poi tutte le donne fanno.

     – E invece non sono intelligente, sono una stupida e voglio una risposta!

     – Va bene, come vuoi, non ti ho tradito ma ho desiderato farlo.

     – Quante volte è successo?

     – Beh, adesso non essere pignola, non le ho mica segnate…

     – Più o meno…

     – Mah, diciamo abbastanza spesso in questi ultimi mesi.

     – Me lo sentivo, ne ero certa.

     – E tu?

     – Beh, se la cosa può farti sentire meno in colpa…

     Il bambino: – Mamma, chi era Cenerentola?

     – Lei: – Sono io!… Sì, insomma, era una ragazza buona e bella ma molto infelice… Guarda la televisione invece di ascoltare i nostri discorsi… No, aspetta, hai finito i compiti?

     – Sì, mamma.

     – Allora va’ a giocare con gli altri bambini.

     Il figlio corse via  e lei restò per un attimo a pensare. Cos’altro poteva voler sapere? Nella testa i pensieri turbinavano come foglie in balia del vento. Il vento del burrascoso presente o del sereno passato? Forse entrambi… Avvertiva una vaga sensazione di pericolo, come la presenza di una belva in agguato, pronta a ghermirla. E lui era lì, seduto in poltrona, fumando una sigaretta, sforzandosi di immaginare le prossime parole della moglie e preparandosi a rispondere, come un giocatore di scacchi. Ma lei ormai aveva esaurito la voglia d’indagare e di proseguire quella schermaglia penosa e, tutto sommato, inutile. Provò un desiderio improvviso di uscire di casa, di fuggire a quel senso di oppressione. Aprì la porta, corse giù per le scale e poco dopo era in strada. Si diresse a passo spedito verso la macchina.

     Dopo un attimo di esitazione lui aprì la finestra e chiamò la moglie, ma quasi controvoglia, meccanicamente. Lei guardò su e di colpo si augurò con tutte le forze che lui la seguisse, che corresse da lei e abbracciandola le sussurrasse come un tempo: «Tu sei la mia vita!».

     Prima di accendere il motore volse di nuovo lo sguardo alla finestra. Attese ancora a mettere in moto, guardò di nuovo, poi scese dalla macchina e si mosse verso la cabina telefonica. Il marito pensò: «Ecco, ora telefona a sua madre», ma sentì squillare il telefono:

     – E’ un momento difficile, lo so, ma cerchiamo di essere ragionevoli… esaminiamo la situazione con calma. Scendi giù… lasceremo Enrico da mia madre. Dobbiamo parlare e decidere una volta per sempre… – s’interruppe e poi concluse: – Ti va?

  • Va bene, adesso scendiamo.

     Percorsero un buon tratto di strada in silenzio. Erano ammutoliti dal turbamento o dall’orgoglio? Oppure ciascuno dei due cercava le parole più idonee a iniziare il colloquio, per non provocare subito una reazione negativa nell’altro? Continuavano a fissare muti l’asfalto che scivolava via monotono e indifferente sulla scia dei loro pensieri.

     Guidava già da un’ora e finalmente fermò la vettura in un viottolo sulla riva del lago. Fu lei a parlare per prima:

     – Ricordi quando venivamo qui prima di sposarci? Questo lago mi è sempre piaciuto… nelle sue acque c’è come una forza sana e buona… sento che dobbiamo ricominciare da qui, da questo luogo dove ci siamo scambiati il nostro primo bacio… vieni, noleggiamo una barca.

     Appena staccatisi dalla riva provarono un senso di sollievo, una liberazione improvvisa e un bisogno di remare sempre più in fretta, come per scaricare nello sforzo fisico tutta la loro inquietudine, tutto il loro rammarico. Tacevano e l’amaro silenzio era rotto soltanto dal respiro affannoso che si confondeva col tonfo cadenzato dei remi. Trascorso circa un quarto d’ora smisero di remare. Ansimando posarono i remi sul bordo della barca e si concessero un po’ di riposo. Si guardarono intorno. In un raggio di almeno cinquecento metri non c’era nessuno.

     – Che pace! – esclamò lei – e com’è bello ricordare… Sai, non te l’ho mai detto… quando eravamo ancora fidanzati ho fatto uno strano sogno. Ascolta… Eravamo in barca, proprio come adesso e forse proprio su questo stesso lago…

     E gli raccontò ciò che aveva sognato.

     – E’ una bella favola e a te le favole piacciono molto, vero? – commentò lui.

     – E’ vero e sono convinta che esse aiutino a vivere.

     – Hai ragione, evviva la poesia, evviva la fantasia!… Ho caldo e farei volentieri una nuotata… e tu, non hai voglia di tuffarti?

     – Ma non abbiamo i costumi e poi siamo venuti qui per parlare…

     – A me il costume non serve, per parlare c’è sempre tempo e adesso ho voglia di nuotare.

     – D’accordo… se proprio non resisti spogliati e tuffati, io ti aspetterò qui.

     In pochi istanti l’uomo era già pronto e con una esclamazione di gioia si gettò e scomparve sott’acqua.

     Era piuttosto irritata. Il comportamento del marito le sembrava superficiale e irresponsabile. Non era così che aveva immaginato quella gita in barca, no, si aspettava da lui un contegno più serio e più adeguato alle circostanze.

     Trascorso qualche istante l’uomo riemerse a pochi metri di distanza. Rideva di cuore e gridò:

     – Guarda cosa ho trovato sul fondo… sembra proprio la scatolina del tuo sogno! E’ un po’ arrugginita… Chissà se contiene ancora il nostro primo bacio… Vediamo un po’… ha il coperchio incastrato… non riesco ad aprirla…

     – Fermo, non farlo! – gridò la donna. – Vieni qui, fammela vedere.

     Con quattro bracciate l’uomo raggiunse la barca e sempre ridendo porse la scatolina alla moglie. Lei l’osservò a lungo, rigirandola sul palmo della mano, poi prese a fissare intensamente lo specchio del lago. Il suo sguardo si posava ora sull’acqua, ora sul piccolo oggetto ripescato dal marito. Non sembrava affatto turbata, anzi col trascorrere dei secondi il suo volto s’illuminava, si rasserenava e il sorriso le brillava negli occhi.

     – Lasciamola chiusa – sussurrò. – Immaginiamo che contenga veramente il nostro primo bacio… se l’aprissimo esso svanirebbe per sempre, teniamola con noi così, come un portafortuna.

     Lui aveva smesso di ridere. Ora guardava la moglie e la vedeva diversa, cambiata come per incanto. La vedeva esattamente come anni prima e per un attimo pensò che quella scatolina avesse davvero un potere magico. Sentì una forza irresistibile che lo attirava verso la donna e la baciò con tutta la tenerezza che poteva.

     Da quel giorno il loro amore non corse più alcun serio pericolo, e a poco a poco la scatolina finì nel dimenticatoio, come del resto succede con tutte le cose delle quali alla fine non si ha più bisogno.

(Paolo Statuti)    

Marek Baterowicz

18 Nov

Marek Baterowicz

DON  CHISCIOTTE

Tutto ad ogni modo è relativo

– non è vero bella Dulcinea?

A volte odori di aglio, a volte di tuberosa,

ora indossi una rozza gonna, ora sei frusciante di merletti

– sia che  porti un diadema, o un cappello di paglia,

sia che cavalchi un mulo, o inforchi un destriero

in ogni caso io ti adoro, o signora dei sogni miei,

a te rendo omaggio, vassallo delle tue sembianze,

io – Don Chisciotte, errante cavaliere della Mancia,

dolendomi che non fui io l’artefice delle tue bianche ginocchia,

né delle tonde braccia, della cornice leggiadra del volto bruno.

E la pena porto nel cuore, Cavaliere dalla Trista Figura.

I mulini son forse giganti con cento braccia?

Le taverne – castelli con alte torri?

Le contadine – principesse travestite?

Le bacinelle – elmi ammaccati negli scontri?

Un branco di pecore – un drappello a cavallo?

– cos’è illusione, e cosa – verità?

Il calpestio dei montoni è forse un rullo di tamburi?

I monaci in viaggio – soldati di Mambrino?

Le dame chiuse nella carrozza – vittime dell’empio mago?

Sancio Panza vaneggia,

tutto vede al contrario!

E’ un semplicione, nei libri non frequente,

un nonnulla può confondergli il cerebrum.

Perdonatelo, rispettabili signori e dame,

non gli è facile capire la bella teoria della relatività!

(Versione di Paolo Statuti)

Paolo Statuti: Le lettere di Teodoro

17 Nov

     Ogni mattina, alle undici in punto, in un grazioso paesino circondato dai monti, immerso nel verde e attraversato da un piccolo e chiassoso fiumicello, il postino iniziava il suo lavoro sonando di porta in porta. Era un uomo gentile, coscienzioso e diligente, stimato da tutti, pronto a congratularsi se i compaesani ricevevano notizie liete, o a spendere una parola di conforto, se il contenuto delle lettere si rivelava spiacevole o triste. Soprattutto i bambini avevano un debole per lui, perché egli pescando nelle tasche della divisa trovava sempre una caramella o un cioccolatino che porgeva ai piccoli ghiottoni, dopo aver chiesto loro con voce profonda e fintamente severa:

     – Te lo meriti davvero?

     È chiaro che i bambini ogni volta rispondevano di sì, e quindi egli non poteva far altro che sorridere, pensando al tempo stesso: «Bisogna essere proprio ingenui per fare simili domande». Si chiamava Franco, ma data la sua professione e la familiarità con cui lo trattavano, i bambini lo avevano ribattezzato Francobollo, soprannome che egli aveva accettato senza protestare e senza offendersi, considerandolo anzi come un segno di simpatia e di affetto.

     Aveva un carattere tranquillo e bonario, e solo una volta gli era capitato di arrabbiarsi e di alzare la voce. Fu quando alcuni ragazzacci venuti dalla città, approfittando di un suo momento di distrazione, gli avevano sottratto la borsa piena di corrispondenza, e soltanto verso sera lo avevano informato che essa si trovava sull’albero che cresceva accanto a una casetta abbandonata, in un vicolo del paese. Sì, quella volta era andato su tutte le furie – e ne aveva tutte le ragioni, ma la cosa non s’era più ripetuta, perché i monelli erano stati scoperti e severamente puniti e avevano capito la lezione.

     Durante le ore di servizio Francobollo aveva dunque l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere e di scherzare un po’ con la gente. Ma quando finiva il lavoro o tornava a casa, o nei giorni di festa, diventava di colpo malinconico e pensieroso, perché viveva solo. Infatti non si era sposato, e spiegava la cosa dicendo:

     – Purtroppo ho perso l’occasione buona al momento giusto.

     Inoltre in quel paese non aveva neanche un parente o un amico che gli dedicasse un po’ di tempo. Anche i parenti che vivevano lontano lo avevano dimenticato, e così non riceveva mai né una lettera, né una cartolina. A poco a poco questa privazione era diventata un’idea fissa, e più ci pensava, più si rammaricava che il destino gli negasse quel gran piacere della vita che è appunto la corrispondenza. Si sentiva come defraudato di un sacrosanto diritto, e si paragonava ora a un orologiaio che non possieda nemmeno un orologio, ora a un calzolaio senza scarpe o a un cuoco costretto a mangiare patate e soltanto patate…

     Una sera il postino era particolarmente giù di corda. Anche quel giorno aveva consegnato numerose lettere, rendendo felici tante persone, e come al solito non aveva trovato nulla per sé, neanche una cartolina con i soli saluti. All’improvviso ebbe come un lampo di genio e si disse: «Da domani comincerò a scrivermi da solo». Si ricordò che da piccolo era molto affezionato a un cugino che si chiamava Teodoro, e quindi decise che sarebbe stato proprio lui il mittente delle lettere e cartoline che avrebbe ricevuto. Si sentì di colpo leggero e sereno, come se si fosse tolto una grossa pietra dal cuore e se ne andò a dormire, pensando al contenuto della prima lettera da imbucare il giorno dopo.

     E così cominciò quella strana, immaginaria corrispondenza, con cui Francobollo cacciava via la solitudine, riempiendo il vuoto che sentiva nell’animo. Erano lettere dal contenuto più svariato, nelle quali il postino esprimeva i suoi desideri, le sue gioie e contrarietà, ma soprattutto il bisogno di compagnia che provava quando era libero dal lavoro. Erano lettere brevi e semplici, ma piene di calore umano, di quel calore che in fondo ogni uomo, anche il più indurito e insensibile, segretamente desidera. Ecco alcuni esempi presi a caso:

     Caro Franco,

     mi congratulo molto per l’aumento di stipendio che hai avuto. Finalmente potrai comprarti quel vestito che sognavi. Cosa fai domenica? Con questo bel tempo è un peccato restarsene in casa. Perché non vieni a trovarmi? Faremo una bella gita insieme e festeggeremo l’aumento ricevuto con un goccetto di quel vino rosso di cui vai matto…

     Allora ti aspetto. A presto, ti abbraccio,

                                                                                                                        tuo Teodoro

     Carissimo Teodoro,

     oggi ho avuto una giornata piena di piacevoli sorprese, ma la più bella è stata naturalmente la tua lettera. Sei sempre molto gentile e le tue parole non solo mi fanno tanta compagnia, ma sono anche un grande conforto. Sei riuscito poi a trovarmi quel cuccioletto che ti avevo chiesto?…

     Dammi presto tue notizie, ti abbraccio,

                                                                                                                           tuo Franco

     Mio caro cugino,

     ho appreso con grande dispiacere che sei stato molto male, ma sono contento che che tu ti sia ristabilito. Purtroppo non ho potuto farti visita, perché ho dovuto terminare un lavoro assai importante e urgente. Ti occorre qualcosa? Posso esserti utile in qualche modo?… Ti penso spesso,

                                                                                                                        tuo Teodoro

     Il tempo passava e Francobollo aveva già riempito cinque cassetti, e una cassapanca di lettere e cartoline. Da qualche anno non sapeva più cosa fossero malinconia e solitudine, e viveva contento e soddisfatto. Inaspettatamente però, qualcosa venne a turbare quel suo mondo placido, stravagante e fantastico. Fu nel giorno del suo sessantesimo compleanno, che coincideva con l’inizio della pensione. Francobollo era ormai libero dagli obblighi professionali e avrebbe avuto tutte le giornate a disposizione per riposarsi, leggere, fare lunghe passeggiate e, naturalmente, continuare ad occuparsi della sua corrispondenza. Ma stranamente, anziché rallegrarsene, si sentì di colpo smarrito e abbattuto, scontento e deluso. «Perché?» – si chiese. E cercò di rispondersi facendo un bilancio della sua vita. «Cosa ho fatto in fondo? – si disse – ho percorso a piedi centinaia e centinaia di chilometri, consumando tante paia di scarpe. Sempre e soltanto le stesse cose, consegnando migliaia e migliaia di lettere e cartoline, come una macchina a gettoni… Quante vere gioie ho avuto? Ben poche. Se non avessi escogitato questa stupida…» – voleva aggiungere: «corrispondenza con Teodoro», ma si morse le labbra e scoppiò a piangere.

     Quella sera andò a dormire con la bocca amara e col profondo rammarico di non aver fatto nella vita qualcosa di diverso, di più importante, qualcosa d’infinitamente più grande. E con questi pensieri si addormentò e fece un sogno.

     Sarebbe troppo lungo raccontarvelo tutto, ma posso assicurarvi che fu esattamente ciò che quella notte Francobollo sognava di vivere – un’avventura meravigliosa, piena d’imprevisti, di pericoli e di atti di coraggio per recapitare una lettera a un famoso alchimista che viveva in un castello lontano e inaccessibile, e che era l’unico al mondo a conoscere la formula della medicina che avrebbe salvato l’intero paese da una terribile epidemia. Francobollo era tornato sano e salvo con la ricetta dell’alchimista, e per questa sua eccezionale impresa era stato sommerso di medaglie e diplomi e proclamato eroe nazionale. In suo onore avevano sparato anche una salva di ventun colpi di cannone, ma tutto quel frastuono improvviso finì con lo svegliare l’eroe. Aprì gli occhi, ancora sotto l’impressione del trionfo, e capì subito che purtroppo si era trattato solo di un sogno. Si alzò di malavoglia, s’infilò le pantofole e si accinse a prepararsi un tè. Per recarsi in cucina doveva passare per il soggiorno, e così facendo notò sul tavolo al centro della stanza un vaso con un gran mazzo di fiori. Si avvicinò e allora vide che accanto al vaso c’era una lettera. «Che strano –  pensò – non ricordo di averla scritta…» L’aprì e cominciò a leggere, sgranando gli occhi e impallidendo:

     Caro Franco,

     tanti sinceri auguri per il tuo compleanno e complimenti per il tuo eroismo! Hai fatto davvero un bel sogno di gloria, ma a cosa ti è servito? Cosa ne hai ricavato? Niente! – sei ancora più avvilito di prima. E senza alcun motivo. Non ti basta la riconoscenza e la stima che ti sei guadagnato con la tua vita semplice, ma onesta e utile a tutti i tuoi compaesani? Credimi, non hai nulla da invidiare al valoroso protagonista del sogno, perché ciò di cui oggi tu puoi vantarti è la cosa più difficile e preziosa che un uomo possa desiderare: la coscienza di aver fatto sempre il proprio dovere. Continuerò a scriverti, per tenerti compagnia e per toglierti dalla testa pensieri strani, inutili e nocivi. Ti stimo e ti abbraccio,

                                                                                                                        tuo Teodoro

     Francobollo si sedette sentendosi tremare le gambe, prese un foglio di carta e scrisse a caratteri traballanti:

     Caro Teodoro,

     grazie… hai ragione tu… verrò presto a trovarti e parleremo di questa e di altre cose… a proposito, hai ancora un goccio di quel rosso che tu sai? Ne ho proprio bisogno… A presto,

                                                                                             tuo affezionatissimo cugino

     Poi Francobollo imbustò la lettera e scrisse l’indirizzo:

     Al carissimo cugino Teodoro

e sorridendo la mise in un cassetto assieme alle altre.

Paolo Statuti: Il labirinto

16 Nov

Vorrei che i bambini leggessero questa mia fiaba

    

In una parte di questo mondo viveva un bambino di nome Rinaldo, che frequentava la quinta elementare. Anche lui, al pari di ogni essere umano, aveva il suo lato cattivo e il suo lato buono: un po’ presuntuoso, testardello, irrequieto – difetti questi che non lo aiutavano certo nel difficile mestiere della vita, ma in compenso era intelligente, sincero e a volte anche altruista. Non era comunque uno di quelli che si ammazzano sui libri, anzi a dire il vero la sua maestra, la giovane, brava e saggia signora Teresa, non era molto soddisfatta del suo rendimento e gli ripeteva spesso:

     – Tu e la scuola siete come il diavolo e la croce ed è un vero peccato, perché potresti fare assai di più.

     Una mattina Rinaldo si era alzato di cattivo umore e, tanto per cominciare bene la giornata, aveva fatto involontariamente cadere un prezioso vaso di cristallo, mandandolo in frantumi e causando un grosso dispiacere ai genitori. Dopo essersi preso una bella sgridata, era corso in camera sua e si era avvicinato alla finestra… guardava accigliato e scontento il paesaggio e pensava… erano pensieri un po’ arruffati, ma più o meno si trattava di questo: secondo il calendario è già primavera, ma gli alberi non si sono ancora vestiti di foglie… inoltre fa freddo e il sole non ha la forza di bucare le nuvole… la primavera ha un sorriso triste, di sicuro si è avvicinata all’inverno sussurrandogli come sempre sorridente e gentile: «Ora fatti da parte, perché è arrivato il mio turno», ma il vecchio inverno a quanto pare non ha alcuna voglia di cedere il passo alla bella e delicata primavera e – come dice sempre papà – «mena il can per l’aia»… comunque molti uccelli sono già tornati…

     Mentre Rinaldo era immerso in questi pensieri, un tordo – che doveva essere un po’ scapestrato – si posò sul davanzale della finestra, cinguettando allegramente e a squarciagola, e Rinaldo interpretò subito quel canto a modo suo:

     – Sono felice perché sono libero mentre tu hai quella faccia da funerale perché devi sottostare a tanti obblighi… ubbidire studiare fare i compiti… per un giorno pensa a divertirti non andare a scuola oggi… – e con un sonoro zirlo volò via.

     Rinaldo lo seguì con lo sguardo e vide che si posava su un ramo, dove lo attendeva impaziente la compagna, e senza un attimo di indugio i due cominciarono a sfiorarsi coi becchi. Il suo posto  sul davanzale fu preso da una cornacchia:

     – Cra cra cra… buongiorno Rinaldo cra cra cra ha ragione il tordo non andare a scuola oggi… sai… cra cra cra a Collestorto è arrivato il lunapark ci sono tanti giochi divertenti va’ a dare un’occhiata su con la vita cra cra cra muoviti ci vediamo là io ti precedo perché ho un appuntamento con un’amica cra cra cra  – e così gracchiando spiccò il volo in direzione di Collostorto.

     Rinaldo restò un attimo a meditare, valutò la situazione e quindi decise di marinare la scuola. Finì di vestirsi, fece colazione, prese la cartella, chiese alla madre i soldi per comprarsi la merenda e uscì. Giunto alla piazza del paese, anziché andare a destra verso la scuola, voltò a sinistra prendendo la strada per Collestorto, che distava quasi cinque chilomentri.

     Quando arrivò nei pressi del villaggio, la cornacchia lo vide e gli andò incontro, poi gli si mise al fianco, un po’ volando e un po’ saltellando, per indicargli dove si trovava il lunapark. Tra l’ultima fila di case e il bosco c’era un vasto terreno pianeggiante e proprio lì gli Zingari avevano sistemato le giostre. A quell’ora del mattino però, era pressoché deserto e molti giochi erano chiusi. Rinaldo girò per qualche minuto, sempre accompagnato dalla cornacchia, finché giunse davanti a un enorme tendone, sul quale faceva spicco una vistosa scritta: LABIRINTO. Sembrava che non ci fosse nessuno. Rinaldo stava per andarsene, quando chissà da dove sbucò fuori un uomo robusto coi capelli neri e ricci e due anellini d’oro agli orecchi. La sua voce risonava come da una caverna senza fondo e parlando i suoi occhi lampeggiavano:

     – Veramente sarebbe chiuso, ma se vuoi fare un giretto accomodati pure, in via del tutto eccezionale ti faccio entrare gratis, prego, il labirinto è a tua disposizione, vediamo se sei capace di uscirne…

     A quelle parole una strana inquietudine e una vaga sensazione di pericolo s’impadronirono di Rinaldo, ma in quell’attimo d’indecisione la cornacchia gli si posò accanto e lo incoraggiò:

     – Cra cra cra entra non aver paura non ti succederà niente di male cra cra cra vediamo se sei così bravo…

     Punto sul vivo e convinto anche dalla pioggia che cominciò a scrosciare improvvisa, Rinaldo si diresse verso l’entrata del tendone. Era piuttosto innervosito dalle parole dell’uomo e della cornacchia, che sembravano non credere molto nelle sue capacità, e stringendo i pugni dalla rabbia entrò nel labirinto. In quel preciso istante sentì cigolare la porta alle sue spalle, si voltò e fece appena in tempo a intravedere il ghigno dell’uomo dietro la porta, che si chiuse con un secco scatto. Era turbato e incuriosito al tempo stesso. Lì dentro era buio pesto, fece due o tre passi a tastoni e si fermò di colpo, inchiodato da una voce aspra e cupa proveniente da un altoparlante – riconobbe la voce dell’uomo:

     – Attento Rinaldo, voglio dirti la verità, questo non è un labirinto qualsiasi. Esso è come una miniatura del mondo, con i suoi sentieri facili e difficili, con le sue persone amiche e nemiche. È una prova di tenacia e di pazienza. Riuscire o fallire dipende solo da te e, naturalmente, anche dalla fortuna. Bada però, se non ce la farai, resterai per sempre con me, ho appunto bisogno di un aiutante…

     – Va’ al diavolo e fammi uscire subito di qui! – gridò Rinaldo. Ma l’uomo per tutta risposta si fece una risata e aggiunse:

     – Ormai è troppo tardi, nessuno – neanche io – potrà farti uscire da dove sei entrato, puoi solo andare avanti, camminare, cambiare direzione, eventualmente tornare indietro, provare di nuovo, senza avere mai la certezza di riuscire a farcela. Ci rivedremo solo se fallirai, perciò, nel caso in cui tu riuscissi a venirne fuori, ti dico addio fin da ora – e con quel saluto accompagnato da una gelida risata la voce tacque e Rinaldo si sentì accapponare la pelle.

     Davanti a lui, come se si fosse alzato un sipario, apparve una scena inattesa e incredibile. Lunghe file di persone di tutte le età andavano e venivano percorrendo vicoli stretti simili a budelli, camminavano a testa bassa, urtandosi a vicenda come file di formiche che vanno in direzioni opposte. Ogni tanto qualcuno si staccava dalla fila e proseguiva per conto suo, ma sbatteva contro un ostacolo invisibile – probabilmente una parete di vetro – come fanno le mosche imprigionate in una stanza con la finestra chiusa. Rinaldo fermò un ragazzo a caso e gli disse:

      – A quanto pare, state cercando tutti di uscire da questo labirinto, è dunque così difficile?

      – Ogni tanto qualcuno riesce perché ha fortuna o perché riceve un aiuto insperato. Il guaio è che la maggior parte di noi, anziché aiutarsi l’un l’altro e unire le forze, pensa solo a se stesso… purtroppo siamo diventati tutti egoisti – rispose il giovane con un profondo respiro.

     – Grazie e buona fortuna, cercherò di cavarmela da solo – disse Rinaldo, e si diresse lentamente verso uno dei vicoli meno affollati.

     Per non urtare la testa camminava con le braccia tese in avanti. Sbatté contro una parete di vetro, tornò indietro, riprovò in un altro punto, di nuovo un ostacolo… Come abbiamo detto, Rinaldo era ostinato e non si dava facilmente per vinto, ma dopo un’ora di vani tentativi anche la sua testardaggine si era affievolita, lasciando il posto allo sconforto e alla paura. Si sedette su uno scalino e si prese la testa tra le mani, non sapendo più che pesci prendere. A un tratto gli vennero in mente la sua casa e i suoi genitori. Come un film gli scorrevano davanti agli occhi immagini consuete e familiari, ma la sua attenzione si concentrò sulla figura della mamma… ora la vedeva chiaramente, seduta lì accanto a lui, era triste e preoccupata e lo fissava con aria di rimprovero. Rinaldo le prese le mani e sussurrò:

     – Mamma, di te posso fidarmi, aiutami tu…

     La mamma allora lo invitò ad alzarsi e a seguirla, Rinaldo le andò dietro, fino a una stretta apertura in un muro, seminascosta da un pergolato.

     – Ecco, puoi passare di qui – disse la mamma indicandogli il varco – fa’ attenzione, figlio mio, purtroppo io non potrò starti sempre vicino, le leggi della vita non me lo permettono, devi imparare ad andare avanti con le tue forze e, quando ti sentirai in pericolo, ascolta la voce del cuore – essa t’indicherà le persone che ti vogliono veramente bene, pensa intensamente a loro ed esse accorreranno in tuo aiuto, devi avere coraggio, pazienza e fiducia.

     – Sì, mamma, grazie – sussurrò Rinaldo e proseguì oltre.

     Ora la scena era cambiata. Si trovava in una piccola radura circondata da alti alberi e folti cespugli. Il disco del sole stava pian piano scomparendo sotto l’orizzonte, l’aria si era fatta umida e fresca, tutto intorno era sonno e silenzio, si udiva solo il ticchettio della fitta pioggia che cadeva insistente sulle foglie da una nuvola passeggera: cap cap tuc tuc… cap cap tuc tuc… Rinaldo si mosse con l’intenzione di attraversare la radura, ma all’improvviso sentì il vuoto sotto i suoi piedi e si ritrovò in una fossa. Era caduto in una trappola profonda almeno tre metri e con le pareti lisce come il marmo. Non c’era alcuna possibilità di uscirne fuori. Pensa e ripensa, Rinaldo si ricordò delle parole della mamma e la prima persona che gli venne in mente fu il suo compagno di classe Luigi, al quale era particolarmente attaccato e che ammirava molto per la sua spavalderia. Sentì un fruscio provenire dalla bocca della fossa e scorse una testa bionda e ricciuta – era proprio Luigi!

     – Luigi, amico mio! Aiutami ad uscire di qui, buttami uno di quei grossi rami che trovi lì intorno! – gridò Rinaldo.

     Ma il compagno lo guardò maliziosamente e gli rispose soltanto:

     – Prova a farcela da solo, in fin dei conti, come dici sempre tu: «È facile come bere un bicchier d’acqua» – e scomparve.

     Rinaldo restò di nuovo solo e capì di essersi sbagliato sul conto di Luigi. Gli vennero in mente le parole della maestra: «Guardatevi dalle persone finte e dagli amici interessati». La seconda persona alla quale pensò, chissà come e  perché, fu la sua compagna di classe Luisa, che lui si divertiva spesso a offendere e a maltrattare, perché era convinto che «un maschio vale più di dieci femmine». di nuovo sentì un fruscio e questa volta vide affacciarsi una testolina con due lunghe trecce nere. Era proprio lei! Rinaldo provò un senso di vergogna e non ebbe il coraggio di chiederle aiuto. Ma la bambina non aveva bisogno di essere pregata e gli disse:

     – Veramente non te lo meriti, ma io non sono capace di negare il mio aiuto a chi ne ha bisogno – e così dicendo gettò nella buca un grosso ramo.

     Rinaldo si arrampicò lesto come un gatto, raggiungendo in un batter d’occhio il ciglio della fossa. Si guardò intorno, Luisa era scomparsa e ne provò dispiacere. Riprese a camminare con cautela, facendo attenzione a dove metteva i piedi, e tutto a un tratto udì un ruggito, si voltò e a qualche metro di distanza vide un leone con una testa spaventosa. Rinaldo si sentì gelare il sangue e scappò a gambe levate. Correva correva e dietro di sé sentiva sempre più vicino il respiro focoso e famelico della belva. Quando ormai era allo stremo delle forze, inaspettatamente si trovò davanti un alto muro e si sentì perso, ma con un ultimo sforzo disperato accelerò la corsa e, un attimo prima di urtare contro l’ostacolo, si gettò a terra da un lato. Il leone non fece in tempo a frenare il suo slancio e batté violentemente la testa contro il muro, finendo al suolo tramortito. «Questa volta – pensò Rinaldo – mi ha aiutato la fortuna» e la ringraziò con tutto il cuore.

     Da un pezzo era già scesa la notte ma la luna, che sembrava una grossa frittata, spargeva generosamente la sua luce argentea. Cammina e cammina arrivò a un bivio. Non sapendo da che parte andare si disse: «Lasciamo fare di nuovo alla fortuna» – quindi prese una moneta e la lanciò in aria: uscì il sentiero di destra. Proseguì per un po’, tutto sembrava filare liscio come l’olio, nessun ostacolo, e Rinaldo già si rallegrava di aver avuto quella bella idea; ma la sua soddisfazione durò poco, perché di punto in bianco si ritrovò in una fitta inestricabile boscaglia, si voltò per tornare indietro, ma la strada era misteriosamente finita. In quello stesso momento finì impigliato in grandi ragnatele che lo immobilizzavano e stavano per soffocarlo… allora pensò al padre, ed egli gli apparve con un grosso paio di forbici in mano e cominciò a tagliare furiosamente i fili che avvolgevano il figlio, finché Rinaldo fu di nuovo libero. Stava per ringraziare il padre, che però lo precedette dicendogli in tono severo:

     – Hai sbagliato ad affidarti alla fortuna, perché essa è capricciosa, avresti fatto meglio a pensarmi subito. Cerca di non ripetere l’errore, non serve a niente invocare la fortuna, perché essa è sorda e arriva quando le fa comodo e quando meno te l’aspetti, come è successo con il leone. Adesso seguimi.

     Rinaldo gli andò dietro per un breve tratto, poi il padre aggiunse:

     – Va’ sempre dritto. Arrivato alla sorgente volta a sinistra e presegui per circa cento metri, di più non posso dirti. Arrivederci, figlio mio, e sii prudente!

     Rinaldo seguì le indicazioni del padre e giunse sulla riva di un torrente. Stava già pensando di attraversarlo, allorché da dietro un albero sbucò un giovane che lo fissava con lo sguardo allucinato. Fece cenno a Rinaldo di avvicinarsi e gli sibilò in un orecchio:

     – Se non vuoi restare per sempre in questo labirinto, mangia un po’ di quest’erba. È buonissima e ti farà sentire forte e sicuro di te.

     Rinaldo la guardava come ipnotizzato e gli sembrava che bisbigliasse: «Mangiami, mangiami». Si sentiva sempre più attratto da quell’erba misteriosa e stava quasi per cedere alla tentazione… proprio in quel momento però gli venne in mente ciò che tante volte aveva sentito ripetere dai genitori, dalla maestra e alla televisione: «… è una sostanza che rende schiavi e inganna chi la prova, promette una grande felicità ma si rivela una trappola mortale. Se l’assaggi non ne puoi più farne a meno, la vita diventa un inferno e vivi solo per mangiarne ancora, sempre di più, finché maledici il momento che sei nato, fino al giorno in cui il cuore si ferma…» Sì, ricordava bene queste parole ed anche il nome di quell’erba: droga.

     Rinaldo trovò la forza di fuggire via. Correva come se avesse le ali ai piedi. Le gambe gli tremavano e aveva il cuore in gola, e alla fine fu costretto a fermarsi: non ce la faceva più! Si sdraiò sull’erba per riprendere fiato e nel silenzio della notte, rotto solo dal suo respiro affannoso, udì un sommesso e confuso coro di lamenti provenire dalla sua sinistra. Rinaldo aguzzò gli occhi e tese le orecchie. Doveva scoprire di chi erano quelle voci soffocate… si alzò a fatica e cominciò ad avanzare in direzione di quel brusio… si trascinava in avanti e alla fine si rese conto e si sentì rabbrividire: era tornato al punto di partenza! Allora Rinaldo fu preso dallo spavento e dalla disperazione e cadde al suolo privo di sensi. Prima di svenire però, aveva fatto in tempo a rivolgere il suo pensiero alla maestra.

     Quando rinvenne, ancora stordito, tremante di paura e bianco come un cencio lavato, si guardò intorno e restò stupefatto, non credeva ai propri occhi: i raggi del sole rimbalzavano sullo specchio di uno stagno e il vento cantava tra le fronde. Sulla riva era seduta una giovane donna coi capelli che sembravano oro filato. La giovane era immersa in una nuvola di fiori e il sole le baciava il viso. Guardava Rinaldo con gli occhi ridenti e luminosi – somigliava tanto alla sua maestra… Si alzò, si avvicinò a Rinaldo leggera come una piuma, lo prese per mano e lo condusse dritto all’uscita del labirinto. Quando furono all’aperto disse a Rinaldo:

     – Sono molto contenta di averti aiutato… non ti dico addio, perché ci rivedremo presto… – e dopo averlo accarezzato sulla testa, scomparve come per incanto.

     Prima di tornarsene al suo paese, Rinaldo notò che l’uomo del labirinto che aveva incontrato non c’era più, e al suo posto c’era uno completamente diverso e con una faccia allegra e gioviale.

     Il giorno dopo Rinaldo andò a scuola come al solito, entrò nell’aula e salutò i compagni, poi si avvicinò a Luisa e le diede un bacio. Lei gli sorrise e non sembrò affatto sorpresa da quel gesto così inconsueto per Rinaldo. I compagni invece, e soprattutto Luigi, restarono di stucco e la loro meraviglia aumentò col passare del tempo, perché Rinaldo era molto cambiato – naturalmente in meglio.

(Paolo Statuti)

Federico Garcìa Lorca

1 Nov

Federico Garcìa Lorca

Romanza sonnambula

                                            A Gloria Giner

                                                   e a Fernando de los Rìos

Verde come ti voglio o verde.

Verde vento. Verdi rami.

La barca sul mare

e il cavallo sulla montagna.

Con l’ombra alla vita

lei sogna al davanzale,

verde carne, verde chioma.

con occhi di freddo argento.

Verde come ti voglio o verde.

Sotto la luna gitana,

le cose la guardano

e lei non le può guardare.

Verde come ti voglio o verde.

Grandi stelle di brina

vengono con la pece d’ombra

che apre la via dell’alba.

Il fico leviga il suo vento

con lo smeriglio dei rami,

e il monte, gatto randagio,

rizza le sue agave amare.

Ma chi verrà? E da dove…?

Lei è sempre al davanzale,

verde carne, verde chioma,

sognando nell’aspro mare.

– Amico, voglio barattare

il mio cavallo con questa casa,

la mia sella con questo specchio,

il mio coltello con questa coltre.

Amico, vengo sanguinante

dai monti di Cabra.

– Se potessi, ragazzo mio,

questo affare concluderei.

Ma io non sono più io,

né la casa è più la mia.

– Amico, voglio morire

decentemente nel mio letto.

Di ferro, se possibile,

con lenzuola olandesi.

Non vedi la ferita che ho

dal petto alla gola?

– Ci sono trecento rose brune

sulla sua camicia bianca.

Il tuo sangue gocciola

intorno alla tua cintura.

Ma io non sono più io,

né la casa è più la mia.

– Lasciami almeno salire

fino agli alti davanzali;

lasciami salire!, lasciami,

fino ai verdi davanzali.

I parapetti della luna

da dove l’acqua scroscia.

Già salgono i due amici

verso gli alti davanzali.

Lasciando tracce di sangue.

Lasciando tracce di pianto.

Sui tetti vibravano

le campanelle di latta.

Mille tamburini di cristallo

laceravano l’alba.

Verde come ti voglio o verde,

verde vento, verdi rami.

I due amici salivano.

Il vento lasciava

in bocca uno strano gusto

di fiele, di menta e basilico.

Amico! Dov’è, dimmi,

dov’è la tua amara ragazza?

Quante volte ti aspettò!

Quante volte ti aspetterebbe?,

fresco viso, nera chioma,

in questo verde davanzale!

Sopra il cielo della cisterna

si dondola la gitana.

Verde carne, verde chioma,

con occhi di freddo argento.

Un ghiacciolo di luna

la sostiene sull’acqua.

La notte si fa intima

come una piccola piazza.

Le guardie civili ubriache

battevano alla porta.

Verde come ti voglio o verde.

Verde vento, verdi rami.

La barca sul mare

e il cavallo sulla montagna.

2 agosto 1924

(Traduzione di Paolo Statuti)