Archivio | gennaio, 2017

Nikolaj Alekseevich Zabolockij

13 Gen

 

 

In un sito russo ho trovato e tradotto un interessante articolo anonimo sul poeta Nikolaj Zabolockij dal titolo «Coperta di baci, incantata…». Lo pubblico nel mio blog insieme con due poesie dello stesso poeta nella mia versione.

La nascita della poesia «Coperta di baci, incantata…» merita di essere conosciuta per la sua particolarità. Leggendola può sembrare che sia stata scritta da un giovane e ardente innamorato. In realtà la scrisse un serio pedante di 54 anni dai modi e dall’aspetto di un contabile. Inoltre fino al 1957, anno in cui Zabolockij pubblicò il suo ciclo «L’ultimo amore», la lirica intima gli era stata del tutto estranea. E a un tratto alla fine della vita ecco questo insolito ciclo lirico.

Nikolaj Alekseevič Zabolockij nacque il 24 aprile 1903 nei pressi di Kazan’. In gioventù studiò all’Istituto Pedagogico di San Pietroburgo ed entrò a far parte del gruppo di avanguardia oberiu. L’atteggiamento verso le donne e i membri del gruppo era puramente consumistico; Zabolockij era tra coloro che «sbraitavano furiosamente contro le donne». Švarc ricordava che Zabolockij e l’Achmatova non si sopportavano a vicenda. «Gallina – non uccello, donnetta – non poetessa» – amava ripetere il poeta. Egli conservò il suo atteggiamento sprezzante verso il sesso femminile per quasi tutta la vita. Ma ciò nonostante il suo matrimonio risultò riuscito e assai solido. Egli sposò una studentessa del suo stesso corso, una bella donna che fu moglie e madre affettuosa, nonché abile casalinga.

Pian piano si allontanò dagli oberiuti, i suoi esperimenti con la parola e l’immagine si ampliarono sostanzialmente e a metà degli anni ’30 egli era già un noto poeta. Ma una delazione contro la sua persona, avvenuta nel 1938, diede un duro colpo alla sua vita e alla sua creazione. Durante l’inchiesta lo torturarono, ma egli non firmò nulla. Forse per questo gli diedero la pena minima di 5 anni. Molti scrittori furono annientati dal gulag: Babel’, Charms, Mandel’stam. Zabolockij sopravvisse, grazie alla famiglia e alla consorte che fu il suo angelo custode. Lo destinarono a Karaganda e la moglie lo seguì con i figli.

Il poeta tornò libero soltanto nel 1946 grazie agli interventi di noti colleghi, in particolare di Fadiejev. Dopo la liberazione, Zabolockij decise di trasferirsi con la famiglia a Mosca. Lo ammisero nell’Unione degli scrittori e il collega Il’enkov gli offrì la sua casa a Peredelkino. In quel periodo tradusse molto. Gradualmente tutto si accomodò: pubblicazioni, notorietà, agiatezza, appartamento a Mosca.

Ma nel 1956 accadde ciò che Zabolockij non si sarebbe mai aspettato – la moglie lo lasciò. Ekaterina Vasil’evna aveva allora 48 anni. Dopo aver vissuto così a lungo al fianco del marito, non vedendo da parte sua né premure, né amorevolezza, si unì allo scrittore e noto rubacuori Vasilij Grossman. «Se lei avesse inghiottito un autobus, – scrisse il figlio di Korniej Čukovskij Nikolaj – Zabolockij si sarebbe meravigliato di meno!»

Passato lo stupore arrivò lo spavento. Il poeta era incapace di cavarsela da solo ed era profondamente afflitto. Il suo dolore lo avvicinò a Natal’ja Roskina, una donna di 28 anni nubile e intelligente. Nello smarrimento per ciò che era avvenuto, egli telefonò a una persona che amava le sue poesie. E’ tutto ciò che egli sapeva di lei. Telefonò a colei che conosceva tutti i suoi versi, anche quelli giovanili. In questo triangolo nessuno era felice. Sia Zabolockij che la moglie e anche Natal’ja Roskina soffrivano. Ma proprio la tragedia provata spinse il poeta a creare il ciclo di poesie liriche «L’ultimo amore», che è considerato uno dei più geniali e commoventi nella lirica russa. Fra tutte le poesie della raccolta spicca quella dal titolo «Confessione» – un vero capolavoro, una tempesta di sentimenti e di emozioni. In questa poesia le due donne del poeta si sono fuse in un’unica immagine.

Ekaterina Vasil’evna tornò dal marito nel 1958. Di questo stesso anno è anche la poesia «Non lasciare l’anima alla pigrizia». La scrisse un uomo già gravemente malato. Un mese e mezzo dopo il ritorno della moglie, Nikolaj Zabolockij non sopravvisse al secondo infarto.

 

 

 

Poesie di Nikolaj Alekseevič Zabolockij tradotte da Paolo Statuti

 

Acquaforte

E risonò nella sala assordante:

“Dalla casa dello zar un defunto è fuggito!”

 

Il defunto per le strade fiero cammina,

Gli inquilini lo tirano per le briglie,

Con voce di tromba egli canta una prece

E le sue braccia al cielo solleva.

Occhiali ramati, montati su membrana,

Pieno fino al collo di acqua sotterranea.

Su di lui uccelli di legno con fragore

Chiudono le ali sui battenti.

E intorno fulmini, cigolio di cilindri

E il cielo arricciato – e qui

La scatola della città con la porta sbottonata

E dietro una lamina di vetro – il rosmarino.

 

1927

 

Movimento

 

Il vetturino siede come in trono,

La sua corazza è di bambagia,

E la barba è come in un’icona,

Giace, le monete tintinnano.

E il povero cavallo agita le braccia,

Ora si allunga come bottola,

Ora di nuovo otto gambe brillano

Nella sua pancia risplendente.

 

1927

 

Al mercato

Ornato di vasi e di fiori

Il vecchio mercato apre i battenti.

 

Qui le donne sono grasse come botti,

Coi loro scialli di bellezza mai vista,

E i cetrioli sembrano colossi,

Che zelanti nuotano nell’acqua.

Brillano come sciabole le aringhe,

Coi loro occhietti mansueti,

Ed ecco, sotto la lama del coltello

Si contorcono come serpi.

E la carne, dominio dell’ascia,

Giace come rosso buco,

E il salame come sanguigno intestino

Nuota nello sghembo braciere,

E gli va dietro un cane ricciuto,

Annusa l’aria col naso a digiuno.

La bocca come una porta aperta

E la testa come una scodella,

E le gambe vanno con precisione,

Incurvandosi lentamente a metà.

E adesso? Con aria addolorata

S’è fermato per caso, alla cieca,

E le lacrime come chicchi d’uva

Dagli occhi volano nell’aria.

 

Gli storpi se ne stanno in fila.

Uno suona la chitarra.

Il moncone di gamba, fratello di perdite,

Lo mantiene al bazar.

E sul moncone la stampella

Sembra un fiasco di legno.

 

Un altro mostra un germoglio di mano,

Egli se ne vanta, lo agita,

Ha un dito slogato, un invalido,

E squittò il dito, come una talpa,

E scricchiolò l’incrocio dell’osso.

E il viso si trasformò in un ditale.

 

E un terzo, arricciati i baffi,

Guarda come eroe bellicoso.

Su di lui nell’orologio del bazar

Sciamano le mosche della carne.

In un bidone siede sulle ruote,

Nella bocca è celato il forte volante,

In una tomba le braccia si seccano,

In un torrente dormono le gambe.

Per destino a questo eroe

E’ rimasta la pancia con la testa,

E la bocca, grande come un manico,

Per guidare l’allegro volante.

 

Là una vecchietta con l’occhio fisso

E’ seduta su una sedia tutta sola,

E un libro in magici buchetti

(Per le dita cara sorella)

Canta gli impiegati di servizio,

E la vecchietta con le dita è lesta.

 

Intorno – bilance come mappamondi,

Brandelli di burro, grasso d’amore,

Esseri deformi come idoli pagani,

Nel denso sangue interessato,

E lo stridìo-preghiera di una chitarra,

E berretti pieni come tiare.

Come rame splendente. Non è lontano

Il momento in cui in una tana rischiosa

Lui e lei – lui ebbro, rosso

Di gelo, di canto e di vino,

Senza mani, paffuto, e lei –

Cieca megera, ballano affabilmente

Una stupenda danza-capricorno,

Tanto che crepitano le capriate

E sprizzano scintille da sotto i piedi!

 

E la lampada strilla come una marmotta.

 

1927

 

La bottega del pesce

 

Ed ecco, scordata l’astuzia della gente,

entriamo in un altro regno…

Qui il corpo rosato d’uno storione,

del più bello di tutti gli storioni,

pendeva a braccia distese,

con la coda infilata in un gancio.

Sotto di lui un salmone ardeva di carne,

le anguille simili a salami,

con affumicato sfarzo e pigramente

fumavano, piegati i ginocchi,

e tra loro come una gialla zanna

sedeva su un piatto il re-balyk.

 

O sontuoso monarca della pancia,

dio e sovrano dell’intestino,

capo segreto dello spirito

e architriclino di riflessioni, –

io ti voglio! Concediti a me,

lasciami divorarti fino alla gola!

La mia bocca freme – tutta nel fuoco,

gli intestini tremano come ottentotti,

lo stomaco, teso nella passione,

a rivoli il succo della fame secerne –

ora si stende come un drago,

ora di nuovo si comprime quanto può,

la saliva turbina e nella bocca borbotta

e le mandibole sono doppiamente serrate, –

io ti voglio! Concediti a me!

 

Dappertutto rimbombano le conserve,

mugghiano la marene saltate in una secchia,

i coltelli, sporgendosi dalle piccole ferite,

oscillano e tintinnano;

il vivaio arde di luce subacquea,

dove dietro la parete di vetro

nuotano le scàrdove deliranti

per l’abbaglio, la tristezza,

il dubbio, e forse per l’angoscia?

E la morte su di loro , come mercante,

muove una fiocina di bronzo.

 

La bilancia recita il «Padre nostro»,

due pesi, tranquilli sul piatto,

determinano il corso della vita,

e la porta tintinna. i pesci si azzuffano,

e la branchie respirano al contrario!

 

1928

 

Arte

L’albero cresce, facendo ricordare

Una naturale colonna di legno.

Da essa si diramano le membra

Vestite di foglie rotonde.

L’unione di tali alberi

Forma un bosco, un querceto.

Ma la definizione di bosco è imprecisa

Se mostriamo solo la struttura formale.

 

Il grosso corpo di una vacca

Disposto su quattro estremità,

Coronato dalla testa come cattedrale

E da due corna (come luna al primo quarto),

Sarà anch’esso incomprensibile,

Sarà anch’esso inconcepibile,

Se dimentichiamo la sua importanza

Sulla mappa dei viventi di tutto il mondo.

 

Una casa, una costruzione di legno,

Eretta come cimitero di alberi,

Composta come capanno di cadaveri,

Come pergola di morti, –

Per chi dei mortali è comprensibile,

Per chi dei viventi è accessibile,

Se dimentichiamo l’uomo,

Che l’ha sgrossata e costruita?

 

L’uomo, sovrano del pianeta,

Signore del bosco di legno,

Imperatore della carne di vacca,

Geova di una casa a due piani, –

 

Egli anche il pianeta governa,

Egli anche i boschi abbatte,

Egli anche la vacca sgozzerà,

E pronunciare una parola non può.

 

Ma io sono uniforme,

Ho messo in bocca un lucente zufolo,

Ho soffiato e, docili al respiro, le parole

Volate nel mondo, sono diventate oggetti.

 

La vacca mi ha cucinato la polenta,

L’albero ha letto una favola,

E le morte casette del mondo

Saltavano come fossero vive.

 

1930

 

Metamorfosi

 

Come cambia il mondo! E come cambio anch’io!

Con un solo nome io mi chiamo,

In realtà quello che chiamano me, –

Non sono io solo. Siamo molti. Io sono vivo,

Affinché il mio sangue non arrivi a freddarsi,

Io sono morto più volte. Oh, quanti corpi morti

Ho separato dal mio corpo!

E se solo la mia ragione riuscisse a vedere

E alla terra volgesse l’occhio penetrante,

Essa vedrebbe là, tra le tombe, me

Sepolto in profondità. Essa mi mostrerebbe

Me, cullato dall’onda del mare,

Me, in volo nel vento verso un paese invisibile,

La mia povera spoglia, un tempo così amata.

 

Ma io sono sempre vivo! Sempre più chiaro e pieno

Lo spirito abbraccia masse di prodigiose creature.

La natura è viva. E’ viva tra le pietre

Anche l’erba viva e il mio morto erbario.

Anello nell’anello e forma nella forma. Il mondo

In tutta la sua viva architettura –

Organo che canta, mare di trombe, pianoforte

Che non muore né nella gioia né nella tempesta.

 

Come tutto cambia! Ciò che prima era uccello,

Adesso è una pagina scritta;

Il pensiero una volta era un semplice fiore,

Il poema procedeva come lento toro;

E ciò che era me, forse cresce di nuovo

E accresce il mondo delle piante.

 

E così, cercando a fatica di svolgermi

Come un gomitolo di complesso filo,

A un tratto vedrò ciò che si dovrebbe chiamare

Immortalità. Oh, miseria dei nostri pregiudizi!

 

1937

 

Beethoven

Nel giorno stesso in cui le tue armonie

Vinsero il mondo della fatica umana,

La luce superò la luce, la nube – la nube,

Il tuono entrò nel tuono, la stella nella stella.

 

E preso da una furiosa ispirazione,

In orchestre-tempeste, in fremito di tuoni,

Tu salisti le scale annuvolate

E trovasti la musica dei mondi.

 

Come querceto di trombe e lago di melodie

Tu superasti un uragano stonato,

E gridasti in faccia alla natura stessa,

Il tuo volto leonino penetrò in un organo.

 

E di fronte allo spazio mondiale

Un tal pensiero mettesti in quel grido,

Che la parola con l’urlo sfuggì alla parola

E diventò musica, l’eterno volto leonino.

 

Nelle corna del toro di nuovo cantò la lira,

Un osso d’aquila diventò flauto del pastore,

E tu capisti il vero incanto del mondo

E separasti il suo bene dal suo male.

 

E attraverso la quiete dello spazio mondiale

Fino alle stelle arrivò la nona onda…

Apriti, o pensiero! Diventa musica, o parola,

Colpisci i cuori, perché il mondo trionfi!

 

1946

 

Io non cerco l’armonia della natura

 

Io non cerco l’armonia della natura.

Una razionale armonia del creato

Né in seno alla rocce, né nel cielo sereno

Io finora, ahimé, non ho rilevato.

 

Il suo mondo indocile è impenetrabile!

Nell’accanito canto del vento

Non coglie il cuore le giuste consonanze,

Nell’anima voci concordi non sento.

 

 

Ma nel placido tramonto d’autunno,

Quando lontano il vento già tace,

Quando preda di un debole chiarore,

La notte cieca sul fiume giace,

 

Quando, stanca del moto impetuoso,

Dell’inutile fatica provata,

Nel trepido dormiveglia dello sfinimento

Già si acquieta l’acqua oscurata,

 

Quando l’immenso mondo dei contrasti

Si sazia di un gioco infecondo, –

Come prototipo dell’umana sofferenza

Mi appare dal mare più profondo.

 

E in quest’ora la triste natura

Giace intorno e a fatica respira,

E non l’è cara la selvaggia libertà,

Dove dalla pace è inseparabile l’ira.

 

E si sogna l’asse di una turbina,

E il suono ritmico di un lavoro sensato,

E un canto di trombe, e un bagliore di diga,

E il  cavo elettrico di corrente colmato.

 

Così, assopendosi nel suo giaciglio,

Una madre folle ma di grande affetto,

Nasconde in sé l’alto mondo del bimbo,

Per scorgere il sole col suo figlio diletto.

 

1947

 

Io toccavo le foglie di eucalipto

 

Io toccavo le foglie di eucalipto

E le dure penne dell’agave.

Mi cantava un canto serale

Di Adžaria l’erba soave.

La magnolia nel bianco vestito

Piegava il suo corpo trasparente,

E il mare, il mare così azzurro,

Sulla riva cantava furente.

 

Ma nell’aspra luce della natura

Io di Mosca sognavo un boschetto,

Dove il cielo azzurro è più bianco,

Il verde più modesto e più schietto,

Dove il tenero rigogolo geme

Sulla chiara vista del prato,

Dove la mia cara compagna

Lo sguardo triste ha posato.

 

E tremò il cuore dal dolore,

E lacrime pure e lucenti

Caddero nei calici delle piante,

Dove gridavano bianchi uccelli.

E in cielo, grigi di polvere,

Spiccavano i lauri canforati,

E sonavano pallide trombe,

E battevano timpani ramati.

 

1947

 

Mia moglie

Scostati i capelli dalla fronte,

Egli accigliato siede alla finestra.

In un bicchierino verde una mistura

La moglie gli versa.

 

Come timoroso, come attento, soave

E doloroso brilla lo sguardo,

Come questi buffi riccioli

Sulla magra testolina pendono!

 

Dalla mattina lui scrive senza sosta,

Immerso nell’ignoto lavoro.

Lei a stento cammina e respira,

Purché lui stia bene a dovere.

 

E cigolerà sotto di lei il pavimento,

Lui aggrotterà le ciglia, – e subito

Lei è pronta a sprofondare

Al suo sguardo penetrante.

 

Chi sei mai, il genio dell’universo?

Pensa: né Goethe, né Dante

Conoscevano un amore così umile,

Così palpitante di fede nel talento.

 

Che cosa gratti sulla carta?

Perché sei eternamente irato?

Cosa cerchi frugando nel buio

Dei tuoi insuccessi e dei tuoi torti?

 

Ma se ti sta a cuore

Il bene e la felicità della gente,

Come hai potuto ignorare finora

Della tua vita questo tesoro vivente?

 

1948

 

Addio agli amici

Con larghi cappelli, lunghe giacche,

Coi quaderni delle vostre poesie,

Da tempo siete finiti in polvere,

Come rametti caduti di lillà.

 

Siete là dove non ci sono forme pronte,

Dove tutto è diviso, confuso, spezzato,

Dove al posto del cielo – solo un tumulo

E l’immobile orbita lunare.

 

Là, in un’altra indistinta lingua

Canta un coro di silenziosi insetti,

Là con una lanternina in mano

Lo scarabeo-uomo accoglie i conoscenti.

 

State in pace, compagni miei?

Avete sollievo? Tutto avete obliato?

Ora per fratelli avete steli, sospiri,

Mucchietti di polvere, garofani.

 

Ora per sorelle avete radici, formiche,

Schegge di legno, piante di lillà…

E non siete più in grado di ricordare

La lingua del fratello rimasto in alto.

 

Per lui ancora non c’è posto là,

Dove siete scomparsi lievi come ombre,

Con larghi cappelli, lunghe giacche,

Coi quaderni delle vostre poesie.

 

1952

 

La pioggia

Nella nebbia di nebulose rovine

Incontrando l’alba mattutina,

Essa era quasi immateriale

E svestita di forme di vita.

 

L’embrione, nutrito da una nube,

Si agitava, ribolliva,

E a un tratto, allegro e potente,

Toccò le corde e prese a cantare.

 

E brillò l’intero querceto

Di un fulmineo bagliore di pianto,

E le foglie di ogni giuntura

Vibrarono nelle betulle.

 

Tirata da migliaia di fili

Tra il cielo cupo e la terra,

Irruppe nel torrente degli eventi,

Con la testa rivolta all’ingiù.

 

Cadeva da lontano, inclinata,

Sul canuto stuolo dei boschi.

E tutta la terra col possente grembo

La beveva, dopo tanti fremiti.

 

1953

 

L’opposizione di Marte

Simile a un animale

Tu guardi la mia terra,

Ma io in te non credo affatto

E le tue lodi non canto.

 

Stella funesta! Nei foschi

Tristi anni del mio paese

Tu nei cieli tracciavi segni

Di sofferenza, sangue e guerra,

 

Quando sui tetti dei villaggi

Tu posavi lo sguardo assonnato,

Quali penose congetture

Immancabili ci assalivano!

 

Ed era profetico il sogno funesto:

La guerra col fucile caricato

Nei villaggi bruciava case e beni

E cacciava le famiglie nei boschi.

 

C’erano scontri e tuoni, pioggia e fango,

Dolore di raminghi e di distacchi,

E si stancava il cuore a piangere

Per questi insopportabili tormenti.

 

E sul deserto privo di vita

Sollevate le ciglia a tarda notte,

Il sanguigno Marte dall’azzurro abisso

Ci guardava ostinato.

 

E l’ombra della cattiva coscienza

Deformava i confusi tratti,

Come se uno spirito bestiale

Guardasse la terra dall’alto.

 

 

 

Quello spirito che costruì canali

Per navi a noi sconosciute,

E stazioni di vetro

Tra le città marziane.

 

Spirito pieno di sapere e di volere,

Privo di anima e di cuore,

Che non soffre per il dolore altrui,

E al quale tutti i mezzi sono buoni.

 

Ma io so che c’è nell’universo

Un piccolo pianeta smarrito,

Dove di secolo in secolo

Altre stirpi riescono a vivere.

 

Anche là ci sono tormenti,

Anche là c’è cibo per le passioni,

Ma la gente là non ha perduto

Il diritto di avere un’anima.

 

Là onde dorate di luce scorrono

Attraverso il buio dell’essere,

E questo piccolo pianeta

E’ la mia Terra risorta.

 

1956

 

Confessione

Coperta di baci, incantata,

Portata nel campo dal vento,

Tutta come incatenata,

Tu prezioso mio portento!

 

Né allegra, né afflitta,

Come da un cupo cielo discesa,

Tu mio canto di nozze,

Tu mia stella pazzesca.

 

Mi chinerò sui tuoi ginocchi,

Li stringerò con frenesia,

E con le lacrime e con i versi

Ti farò ardere, o amata mia.

 

Aprimi il tuo nordico volto,

Lasciami entrare negli occhi gravi,

Nelle tue braccia seminude,

Nelle tue nere ciglia orientali.

 

Ciò che si aggiungerà – non calerà,

Ciò che si avvererà – non si scorderà…

Perché piangi, mio dolce incanto?

O forse a me sembra soltanto?

 

1957

 

Il  bucato

 

Distante dalla strada maestra

In un borgo di case e di tigli,

E’ bello restare sulla soglia

E ascoltare il cigolio del pozzo.

Qui, tra colombi e colombe,

Tra i granai e i mucchi di concime,

Il vento scuote turbe di sottane,

Brache, camicie e pezze da piedi.

Riposando dal corpo sudato,

Fatti di tela casalinga,

Qui fin dal giogo mongolo pende

La tavolozza degli abiti russi.

E si vedono su di essi le forme

Sporgenti dei corpi umani,

Copiando in un vivo disordine

Chi e come in essi giaceva e sedeva.

Oggi faccio compagnia alle lavandaie,

Benefattrici degli uomini del posto.

Questa gente non opprime chi giace

E non scaccia gli affamati.

Qui il lavoro ingrossa i calli

Imbiancati dall’acqua saponata,

Non si vantano d’essere ospitali,

Ma nel bisogno ti tendono la mano.

Beato chi l’anima turbata

Laverà qui fino in fondo,

Perché dalla schiuma del bucato

Come Afrodite esca imbiancata!

 

1957

 

 Non lasciare l’anima alla pigrizia

 

Non lasciare l’anima alla pigrizia!

Per non fare buchi nell’acqua,

Sia di giorno che di notte

Ad essa non si addice la fiacca!

 

Inseguila nella bufera,

Tra gli alberi schiantati,

Trascinala di tappa in tappa

Tra campi e borri innevati!

 

Non fare che dorma nel letto

Alla luce dell’aurora,

Tratta male la fannullona

E tienila a freno ognora!

 

Se per essere indulgente,

Dai disagi la vuoi liberare,

Essa anche l’ultima camicia

Ti toglierà senza esitare.

 

Tienila sempre ben stretta,

Tormentala continuamente,

Perché essa impari di nuovo

A vivere con te umanamente.

 

Essa è schiava e anche regina,

Essa è figlia e lavoratrice,

Sia di giorno che di notte

La fatica a lei si addice!

 

1958

 

 

(C) by Paolo Statuti

Mirka Szychowiak

10 Gen

 

 

    Scrutando il cielo della poesia polacca ho scoperto un’altra stella. Si chiama Mirka Szychowiak. Ha debuttato nel 2005 ed ha al suo attivo 5 raccolte di poesie e una di racconti. Ha già vinto diversi premi letterari. Il poeta, prosatore e critico Karol Maliszewski scrive: «Questo genere di versi è atteso con nostalgia, con essi si tira un sospiro di sollievo». Il poeta Bohdan Zadura a sua volta afferma: «La lingua di queste poesie esprime ciò che pensa la testa e ciò che sente il cuore…Mirka Szychowiak comunica con il mondo. Ha nei confronti di esso tanta sensibilità, quanta ne occorre per non cadere nel sentimentalismo, tanto distacco quanto basta per manifestargli qualcosa di più della comprensione». Ecco invece cosa dice la poetessa: «La poesia è dappertutto, ma io non la cerco, è lei che mi trova, perché io la partorisca. La gravidanza poetica si sviluppa nella mia testa, finché la poesia non assume una forma precisa. Allora la scrivo, fino all’ultima parola».

In una sua recente e-mail Mirka Szychowiak mi ha confessato: «Oggi posso dire che fuggendo da Wrocław ho trovato nella campagna di Księżyce la mia vera casa, dove posso avere tutti gli animali che voglio e dove tutto è mio. Ho sempre scritto qualcosa, ma soltanto in questa campagna è nata la poetessa Mirka Szychowiak. Ho debuttato relativamente tardi e mi chiedono perché. Penso che non si possa mettere fretta. Ognuno ha il suo momento. Il mio è giunto quando doveva giungere. Se avessi dovuto debuttare prima, l’avrei fatto. In una intervista ho detto che la scrittura consiste nell’attesa (anche). Le gestazioni letterarie non sono uguali per tutti – il parto avviene in tempi diversi. I parti prematuri sono pericolosi…Non ho intenzione di essere del tutto adulta o di sentirmi come una matrona impettita; non voglio perdere le occasioni di entrare in contatto con ciò che è apparentemente futile, brutto, emarginato. Perché Mirka Szychowiak cerca la bellezza proprio dove essa non è in prima fila, ma è profondamente nascosta da qualche parte».

 

 

Poesie di Mirka Szychowiak tradotte da Paolo Statuti

 

Non c’è male

Non c’ero là, ma sento un dolce

odore. Così dovrebbe profumare

il veleno. Si può prendere di gusto,

ben bene sparire ai propri occhi,

anziché fingere che si vuole qualcosa.

Com’è imbarazzante questa vita.

Pigolio

 Cala l’acqua, i giorni sempre più mortali,

i paesaggi piangono soli. Chi innesterà e spargerà

questa forza, raccoglierà le gocce, perché non io?

Niente si può dividere a metà, niente ormai vuole essere

intero e vivo. Ciò che era mio l’hanno preso senza chiedere.

Cose trovate per caso, solo questo ora ho. Un paesaggio

arido, fiumi vuoti e qualche uccello impaurito

coi sintomi della malattia dell’orfano. Siamo così

diversi da tutto ciò che amo.

Suolo

 La sera la gente torna a casa e si spopola

la riva del fiume – il nostro preferito

locale notturno. E’ bello immergersi

nell’acqua fino al collo e sgranocchare le stelle

che galleggiano come ciccioli dorati.

Veniamo qui, quando non abbiamo più niente

da riparare. Gli strati protettivi

stesi sulla riva, aderiamo morbidamente.

Sotto di noi la parte assonnata del cielo.

Riflesso

 Il pesce di cristallo, solo e morto

riposa sul ripiano deserto.

Verso in esso un frammento di oceano;

la sabbia si posa sul fondo del ventre

e si ammassa, partorendo nel dolore una duna.

Non mi rallegra questa frode,

dovrei liberarlo e lasciarlo

in pace. Tutto solo, come me.

Sul fondo del deserto due pesci

– uno piange, l’altro vuole.

Né, né

 Il cielo annerito sputa le note

– un requiem da tempo promesso alle stelle.

Bruciano così in fretta, che la notte si acceca.

Il fuoco irrompe dalla finestra aperta,

distribuisce biglietti per il concerto di ieri.

Ciò che l’ha rapita non pretende un riscatto

– il prezzo della paura è incalcolabile.

Là in alto duole molto, vuole soffocare.

Né dormire né cadere né niente.

 

Circostanze

 Mi sono trasferita nel mondo macchiata

di sangue, con la cintura di sicurezza recisa.

Pioveva in quel momento? Di notte, o forse

all’alba, il mio corpo si costruiva dall’inizio.

Loro sapevano più di me, ma ora non si sa

a chi chiedere. Da quando sento che esso non

mi appartiene, voglio modificare il curriculum.

Oltre il corpo deve esserci una qualche storia.

I testimoni se ne sono andati, prendendo il ricordo di me,

l’hanno lasciato nella polvere, alla rinfusa, adulto.

E da quando non cresco più, ricordo sempre meno.

Accanto

 Rumore nei corridoi delle vene, intorno le piantagioni

dei tendini; il corpo vestito di tutto punto

non permette di vedere ciò che avviene in se stesso.

Si vive con questo corpo insieme e separati,

con lo stesso nome, per lo più tacendo.

Quali sono le abitudini di ciò che hai dentro,

dormite insieme, o uno di voi veglia,

controlla il polso, la temperatura e il respiro?

Ciò è vivo nel vivo, vicino e sconosciuto;

qualcuno a volte deve entrarci e governare,

guarda da vicino, tocca e spezza, e tu

nemmeno sai a chi duole di più.

Solo la testa sembra essere comune

e il sangue è lo stesso, versato come fiume.

Il resto è lontano, benché proprio sotto la pelle

– una cassaforte con la serratura arrugginita.

Allora

 E’ certo che quel giorno arriverà.

Lo chiamo un lungo sogno, allora è più facile

mescolarlo con la paura in agguato.

I timori camminano al centro, costringono

allo scontro frontale. Io partecipo, ma nessuno

m’ incontrerà col decesso scritto in faccia.

Per ora penso a cosa prendere e a cosa lasciare,

a chi affidare gli apparecchi del linguaggio,

a cosa distruggere, o considerare come prova

che qui c’ero anch’io. E chi conserverà questo?

Quando qualcuno farà segno di voler ricordare,

si tornerà sull’argomento.

Ho per te un piccolo nobel

 Finalmente hai la pace.

Ti giungono soltanto i suoni

che accrescono il sapore del silenzio.

La febbre non ha minato i tessuti

e ciascuno può rigenerarsi.

Lo so, è stata dura.

Per l’acuto catarro delle vie vitali

non s’è ancora trovata la giusta diagnosi.

Ma tu non hai sofferto oziosamente.

Da ciò che scavava un tunnel

nella tua testa – hai ricavato un antidoto;

per esso ti do un piccolo nobel.

Posso portare qui altri?

Di quelli non contorti, frastornati,

che sgranocchiano pillole come caramelle.

Racconta loro di te – di quella più recente,

che ha sconfitto il drago. Questo basta.

Trasbordo

 La rabbia è un carburante, per il quale

ho uno sconto – occhi chiusi e piede sul gas.

Non vede dove corre, chi va, non

sente se si staccherà un pezzo, neanche

si fermerà, non cercherà di rimettere a posto

ciò che è caduto. La testa si riempie come

un pallone si riempie di aria – sei sempre più grande,

ma come più leggera, meno sensibile al fuoco

che da sotto con insistenza cerca

di staccarti da terra. C’è una scelta,

un’altra strada e un altro luogo, per scaricare

l’eccesso di carburante, togliere il piede dal gas,

lasciare il bagaglio e andare a piedi?

Entrare in qualche modo in una gita

a piedi, consumare le suole e aprire

gli occhi, vedere tutto questo e tutto

guardare e reggere la testa, affinché

non scappi, affinché non rimanga sola

in questo bordello.