In un sito russo ho trovato e tradotto un interessante articolo anonimo sul poeta Nikolaj Zabolockij dal titolo «Coperta di baci, incantata…». Lo pubblico nel mio blog insieme con due poesie dello stesso poeta nella mia versione.
La nascita della poesia «Coperta di baci, incantata…» merita di essere conosciuta per la sua particolarità. Leggendola può sembrare che sia stata scritta da un giovane e ardente innamorato. In realtà la scrisse un serio pedante di 54 anni dai modi e dall’aspetto di un contabile. Inoltre fino al 1957, anno in cui Zabolockij pubblicò il suo ciclo «L’ultimo amore», la lirica intima gli era stata del tutto estranea. E a un tratto alla fine della vita ecco questo insolito ciclo lirico.
Nikolaj Alekseevič Zabolockij nacque il 24 aprile 1903 nei pressi di Kazan’. In gioventù studiò all’Istituto Pedagogico di San Pietroburgo ed entrò a far parte del gruppo di avanguardia oberiu. L’atteggiamento verso le donne e i membri del gruppo era puramente consumistico; Zabolockij era tra coloro che «sbraitavano furiosamente contro le donne». Švarc ricordava che Zabolockij e l’Achmatova non si sopportavano a vicenda. «Gallina – non uccello, donnetta – non poetessa» – amava ripetere il poeta. Egli conservò il suo atteggiamento sprezzante verso il sesso femminile per quasi tutta la vita. Ma ciò nonostante il suo matrimonio risultò riuscito e assai solido. Egli sposò una studentessa del suo stesso corso, una bella donna che fu moglie e madre affettuosa, nonché abile casalinga.
Pian piano si allontanò dagli oberiuti, i suoi esperimenti con la parola e l’immagine si ampliarono sostanzialmente e a metà degli anni ’30 egli era già un noto poeta. Ma una delazione contro la sua persona, avvenuta nel 1938, diede un duro colpo alla sua vita e alla sua creazione. Durante l’inchiesta lo torturarono, ma egli non firmò nulla. Forse per questo gli diedero la pena minima di 5 anni. Molti scrittori furono annientati dal gulag: Babel’, Charms, Mandel’stam. Zabolockij sopravvisse, grazie alla famiglia e alla consorte che fu il suo angelo custode. Lo destinarono a Karaganda e la moglie lo seguì con i figli.
Il poeta tornò libero soltanto nel 1946 grazie agli interventi di noti colleghi, in particolare di Fadiejev. Dopo la liberazione, Zabolockij decise di trasferirsi con la famiglia a Mosca. Lo ammisero nell’Unione degli scrittori e il collega Il’enkov gli offrì la sua casa a Peredelkino. In quel periodo tradusse molto. Gradualmente tutto si accomodò: pubblicazioni, notorietà, agiatezza, appartamento a Mosca.
Ma nel 1956 accadde ciò che Zabolockij non si sarebbe mai aspettato – la moglie lo lasciò. Ekaterina Vasil’evna aveva allora 48 anni. Dopo aver vissuto così a lungo al fianco del marito, non vedendo da parte sua né premure, né amorevolezza, si unì allo scrittore e noto rubacuori Vasilij Grossman. «Se lei avesse inghiottito un autobus, – scrisse il figlio di Korniej Čukovskij Nikolaj – Zabolockij si sarebbe meravigliato di meno!»
Passato lo stupore arrivò lo spavento. Il poeta era incapace di cavarsela da solo ed era profondamente afflitto. Il suo dolore lo avvicinò a Natal’ja Roskina, una donna di 28 anni nubile e intelligente. Nello smarrimento per ciò che era avvenuto, egli telefonò a una persona che amava le sue poesie. E’ tutto ciò che egli sapeva di lei. Telefonò a colei che conosceva tutti i suoi versi, anche quelli giovanili. In questo triangolo nessuno era felice. Sia Zabolockij che la moglie e anche Natal’ja Roskina soffrivano. Ma proprio la tragedia provata spinse il poeta a creare il ciclo di poesie liriche «L’ultimo amore», che è considerato uno dei più geniali e commoventi nella lirica russa. Fra tutte le poesie della raccolta spicca quella dal titolo «Confessione» – un vero capolavoro, una tempesta di sentimenti e di emozioni. In questa poesia le due donne del poeta si sono fuse in un’unica immagine.
Ekaterina Vasil’evna tornò dal marito nel 1958. Di questo stesso anno è anche la poesia «Non lasciare l’anima alla pigrizia». La scrisse un uomo già gravemente malato. Un mese e mezzo dopo il ritorno della moglie, Nikolaj Zabolockij non sopravvisse al secondo infarto.
Poesie di Nikolaj Alekseevič Zabolockij tradotte da Paolo Statuti
Acquaforte
E risonò nella sala assordante:
“Dalla casa dello zar un defunto è fuggito!”
Il defunto per le strade fiero cammina,
Gli inquilini lo tirano per le briglie,
Con voce di tromba egli canta una prece
E le sue braccia al cielo solleva.
Occhiali ramati, montati su membrana,
Pieno fino al collo di acqua sotterranea.
Su di lui uccelli di legno con fragore
Chiudono le ali sui battenti.
E intorno fulmini, cigolio di cilindri
E il cielo arricciato – e qui
La scatola della città con la porta sbottonata
E dietro una lamina di vetro – il rosmarino.
1927
Movimento
Il vetturino siede come in trono,
La sua corazza è di bambagia,
E la barba è come in un’icona,
Giace, le monete tintinnano.
E il povero cavallo agita le braccia,
Ora si allunga come bottola,
Ora di nuovo otto gambe brillano
Nella sua pancia risplendente.
1927
Al mercato
Ornato di vasi e di fiori
Il vecchio mercato apre i battenti.
Qui le donne sono grasse come botti,
Coi loro scialli di bellezza mai vista,
E i cetrioli sembrano colossi,
Che zelanti nuotano nell’acqua.
Brillano come sciabole le aringhe,
Coi loro occhietti mansueti,
Ed ecco, sotto la lama del coltello
Si contorcono come serpi.
E la carne, dominio dell’ascia,
Giace come rosso buco,
E il salame come sanguigno intestino
Nuota nello sghembo braciere,
E gli va dietro un cane ricciuto,
Annusa l’aria col naso a digiuno.
La bocca come una porta aperta
E la testa come una scodella,
E le gambe vanno con precisione,
Incurvandosi lentamente a metà.
E adesso? Con aria addolorata
S’è fermato per caso, alla cieca,
E le lacrime come chicchi d’uva
Dagli occhi volano nell’aria.
Gli storpi se ne stanno in fila.
Uno suona la chitarra.
Il moncone di gamba, fratello di perdite,
Lo mantiene al bazar.
E sul moncone la stampella
Sembra un fiasco di legno.
Un altro mostra un germoglio di mano,
Egli se ne vanta, lo agita,
Ha un dito slogato, un invalido,
E squittò il dito, come una talpa,
E scricchiolò l’incrocio dell’osso.
E il viso si trasformò in un ditale.
E un terzo, arricciati i baffi,
Guarda come eroe bellicoso.
Su di lui nell’orologio del bazar
Sciamano le mosche della carne.
In un bidone siede sulle ruote,
Nella bocca è celato il forte volante,
In una tomba le braccia si seccano,
In un torrente dormono le gambe.
Per destino a questo eroe
E’ rimasta la pancia con la testa,
E la bocca, grande come un manico,
Per guidare l’allegro volante.
Là una vecchietta con l’occhio fisso
E’ seduta su una sedia tutta sola,
E un libro in magici buchetti
(Per le dita cara sorella)
Canta gli impiegati di servizio,
E la vecchietta con le dita è lesta.
Intorno – bilance come mappamondi,
Brandelli di burro, grasso d’amore,
Esseri deformi come idoli pagani,
Nel denso sangue interessato,
E lo stridìo-preghiera di una chitarra,
E berretti pieni come tiare.
Come rame splendente. Non è lontano
Il momento in cui in una tana rischiosa
Lui e lei – lui ebbro, rosso
Di gelo, di canto e di vino,
Senza mani, paffuto, e lei –
Cieca megera, ballano affabilmente
Una stupenda danza-capricorno,
Tanto che crepitano le capriate
E sprizzano scintille da sotto i piedi!
E la lampada strilla come una marmotta.
1927
La bottega del pesce
Ed ecco, scordata l’astuzia della gente,
entriamo in un altro regno…
Qui il corpo rosato d’uno storione,
del più bello di tutti gli storioni,
pendeva a braccia distese,
con la coda infilata in un gancio.
Sotto di lui un salmone ardeva di carne,
le anguille simili a salami,
con affumicato sfarzo e pigramente
fumavano, piegati i ginocchi,
e tra loro come una gialla zanna
sedeva su un piatto il re-balyk.
O sontuoso monarca della pancia,
dio e sovrano dell’intestino,
capo segreto dello spirito
e architriclino di riflessioni, –
io ti voglio! Concediti a me,
lasciami divorarti fino alla gola!
La mia bocca freme – tutta nel fuoco,
gli intestini tremano come ottentotti,
lo stomaco, teso nella passione,
a rivoli il succo della fame secerne –
ora si stende come un drago,
ora di nuovo si comprime quanto può,
la saliva turbina e nella bocca borbotta
e le mandibole sono doppiamente serrate, –
io ti voglio! Concediti a me!
Dappertutto rimbombano le conserve,
mugghiano la marene saltate in una secchia,
i coltelli, sporgendosi dalle piccole ferite,
oscillano e tintinnano;
il vivaio arde di luce subacquea,
dove dietro la parete di vetro
nuotano le scàrdove deliranti
per l’abbaglio, la tristezza,
il dubbio, e forse per l’angoscia?
E la morte su di loro , come mercante,
muove una fiocina di bronzo.
La bilancia recita il «Padre nostro»,
due pesi, tranquilli sul piatto,
determinano il corso della vita,
e la porta tintinna. i pesci si azzuffano,
e la branchie respirano al contrario!
1928
Arte
L’albero cresce, facendo ricordare
Una naturale colonna di legno.
Da essa si diramano le membra
Vestite di foglie rotonde.
L’unione di tali alberi
Forma un bosco, un querceto.
Ma la definizione di bosco è imprecisa
Se mostriamo solo la struttura formale.
Il grosso corpo di una vacca
Disposto su quattro estremità,
Coronato dalla testa come cattedrale
E da due corna (come luna al primo quarto),
Sarà anch’esso incomprensibile,
Sarà anch’esso inconcepibile,
Se dimentichiamo la sua importanza
Sulla mappa dei viventi di tutto il mondo.
Una casa, una costruzione di legno,
Eretta come cimitero di alberi,
Composta come capanno di cadaveri,
Come pergola di morti, –
Per chi dei mortali è comprensibile,
Per chi dei viventi è accessibile,
Se dimentichiamo l’uomo,
Che l’ha sgrossata e costruita?
L’uomo, sovrano del pianeta,
Signore del bosco di legno,
Imperatore della carne di vacca,
Geova di una casa a due piani, –
Egli anche il pianeta governa,
Egli anche i boschi abbatte,
Egli anche la vacca sgozzerà,
E pronunciare una parola non può.
Ma io sono uniforme,
Ho messo in bocca un lucente zufolo,
Ho soffiato e, docili al respiro, le parole
Volate nel mondo, sono diventate oggetti.
La vacca mi ha cucinato la polenta,
L’albero ha letto una favola,
E le morte casette del mondo
Saltavano come fossero vive.
1930
Metamorfosi
Come cambia il mondo! E come cambio anch’io!
Con un solo nome io mi chiamo,
In realtà quello che chiamano me, –
Non sono io solo. Siamo molti. Io sono vivo,
Affinché il mio sangue non arrivi a freddarsi,
Io sono morto più volte. Oh, quanti corpi morti
Ho separato dal mio corpo!
E se solo la mia ragione riuscisse a vedere
E alla terra volgesse l’occhio penetrante,
Essa vedrebbe là, tra le tombe, me
Sepolto in profondità. Essa mi mostrerebbe
Me, cullato dall’onda del mare,
Me, in volo nel vento verso un paese invisibile,
La mia povera spoglia, un tempo così amata.
Ma io sono sempre vivo! Sempre più chiaro e pieno
Lo spirito abbraccia masse di prodigiose creature.
La natura è viva. E’ viva tra le pietre
Anche l’erba viva e il mio morto erbario.
Anello nell’anello e forma nella forma. Il mondo
In tutta la sua viva architettura –
Organo che canta, mare di trombe, pianoforte
Che non muore né nella gioia né nella tempesta.
Come tutto cambia! Ciò che prima era uccello,
Adesso è una pagina scritta;
Il pensiero una volta era un semplice fiore,
Il poema procedeva come lento toro;
E ciò che era me, forse cresce di nuovo
E accresce il mondo delle piante.
E così, cercando a fatica di svolgermi
Come un gomitolo di complesso filo,
A un tratto vedrò ciò che si dovrebbe chiamare
Immortalità. Oh, miseria dei nostri pregiudizi!
1937
Beethoven
Nel giorno stesso in cui le tue armonie
Vinsero il mondo della fatica umana,
La luce superò la luce, la nube – la nube,
Il tuono entrò nel tuono, la stella nella stella.
E preso da una furiosa ispirazione,
In orchestre-tempeste, in fremito di tuoni,
Tu salisti le scale annuvolate
E trovasti la musica dei mondi.
Come querceto di trombe e lago di melodie
Tu superasti un uragano stonato,
E gridasti in faccia alla natura stessa,
Il tuo volto leonino penetrò in un organo.
E di fronte allo spazio mondiale
Un tal pensiero mettesti in quel grido,
Che la parola con l’urlo sfuggì alla parola
E diventò musica, l’eterno volto leonino.
Nelle corna del toro di nuovo cantò la lira,
Un osso d’aquila diventò flauto del pastore,
E tu capisti il vero incanto del mondo
E separasti il suo bene dal suo male.
E attraverso la quiete dello spazio mondiale
Fino alle stelle arrivò la nona onda…
Apriti, o pensiero! Diventa musica, o parola,
Colpisci i cuori, perché il mondo trionfi!
1946
Io non cerco l’armonia della natura
Io non cerco l’armonia della natura.
Una razionale armonia del creato
Né in seno alla rocce, né nel cielo sereno
Io finora, ahimé, non ho rilevato.
Il suo mondo indocile è impenetrabile!
Nell’accanito canto del vento
Non coglie il cuore le giuste consonanze,
Nell’anima voci concordi non sento.
Ma nel placido tramonto d’autunno,
Quando lontano il vento già tace,
Quando preda di un debole chiarore,
La notte cieca sul fiume giace,
Quando, stanca del moto impetuoso,
Dell’inutile fatica provata,
Nel trepido dormiveglia dello sfinimento
Già si acquieta l’acqua oscurata,
Quando l’immenso mondo dei contrasti
Si sazia di un gioco infecondo, –
Come prototipo dell’umana sofferenza
Mi appare dal mare più profondo.
E in quest’ora la triste natura
Giace intorno e a fatica respira,
E non l’è cara la selvaggia libertà,
Dove dalla pace è inseparabile l’ira.
E si sogna l’asse di una turbina,
E il suono ritmico di un lavoro sensato,
E un canto di trombe, e un bagliore di diga,
E il cavo elettrico di corrente colmato.
Così, assopendosi nel suo giaciglio,
Una madre folle ma di grande affetto,
Nasconde in sé l’alto mondo del bimbo,
Per scorgere il sole col suo figlio diletto.
1947
Io toccavo le foglie di eucalipto
Io toccavo le foglie di eucalipto
E le dure penne dell’agave.
Mi cantava un canto serale
Di Adžaria l’erba soave.
La magnolia nel bianco vestito
Piegava il suo corpo trasparente,
E il mare, il mare così azzurro,
Sulla riva cantava furente.
Ma nell’aspra luce della natura
Io di Mosca sognavo un boschetto,
Dove il cielo azzurro è più bianco,
Il verde più modesto e più schietto,
Dove il tenero rigogolo geme
Sulla chiara vista del prato,
Dove la mia cara compagna
Lo sguardo triste ha posato.
E tremò il cuore dal dolore,
E lacrime pure e lucenti
Caddero nei calici delle piante,
Dove gridavano bianchi uccelli.
E in cielo, grigi di polvere,
Spiccavano i lauri canforati,
E sonavano pallide trombe,
E battevano timpani ramati.
1947
Mia moglie
Scostati i capelli dalla fronte,
Egli accigliato siede alla finestra.
In un bicchierino verde una mistura
La moglie gli versa.
Come timoroso, come attento, soave
E doloroso brilla lo sguardo,
Come questi buffi riccioli
Sulla magra testolina pendono!
Dalla mattina lui scrive senza sosta,
Immerso nell’ignoto lavoro.
Lei a stento cammina e respira,
Purché lui stia bene a dovere.
E cigolerà sotto di lei il pavimento,
Lui aggrotterà le ciglia, – e subito
Lei è pronta a sprofondare
Al suo sguardo penetrante.
Chi sei mai, il genio dell’universo?
Pensa: né Goethe, né Dante
Conoscevano un amore così umile,
Così palpitante di fede nel talento.
Che cosa gratti sulla carta?
Perché sei eternamente irato?
Cosa cerchi frugando nel buio
Dei tuoi insuccessi e dei tuoi torti?
Ma se ti sta a cuore
Il bene e la felicità della gente,
Come hai potuto ignorare finora
Della tua vita questo tesoro vivente?
1948
Addio agli amici
Con larghi cappelli, lunghe giacche,
Coi quaderni delle vostre poesie,
Da tempo siete finiti in polvere,
Come rametti caduti di lillà.
Siete là dove non ci sono forme pronte,
Dove tutto è diviso, confuso, spezzato,
Dove al posto del cielo – solo un tumulo
E l’immobile orbita lunare.
Là, in un’altra indistinta lingua
Canta un coro di silenziosi insetti,
Là con una lanternina in mano
Lo scarabeo-uomo accoglie i conoscenti.
State in pace, compagni miei?
Avete sollievo? Tutto avete obliato?
Ora per fratelli avete steli, sospiri,
Mucchietti di polvere, garofani.
Ora per sorelle avete radici, formiche,
Schegge di legno, piante di lillà…
E non siete più in grado di ricordare
La lingua del fratello rimasto in alto.
Per lui ancora non c’è posto là,
Dove siete scomparsi lievi come ombre,
Con larghi cappelli, lunghe giacche,
Coi quaderni delle vostre poesie.
1952
La pioggia
Nella nebbia di nebulose rovine
Incontrando l’alba mattutina,
Essa era quasi immateriale
E svestita di forme di vita.
L’embrione, nutrito da una nube,
Si agitava, ribolliva,
E a un tratto, allegro e potente,
Toccò le corde e prese a cantare.
E brillò l’intero querceto
Di un fulmineo bagliore di pianto,
E le foglie di ogni giuntura
Vibrarono nelle betulle.
Tirata da migliaia di fili
Tra il cielo cupo e la terra,
Irruppe nel torrente degli eventi,
Con la testa rivolta all’ingiù.
Cadeva da lontano, inclinata,
Sul canuto stuolo dei boschi.
E tutta la terra col possente grembo
La beveva, dopo tanti fremiti.
1953
L’opposizione di Marte
Simile a un animale
Tu guardi la mia terra,
Ma io in te non credo affatto
E le tue lodi non canto.
Stella funesta! Nei foschi
Tristi anni del mio paese
Tu nei cieli tracciavi segni
Di sofferenza, sangue e guerra,
Quando sui tetti dei villaggi
Tu posavi lo sguardo assonnato,
Quali penose congetture
Immancabili ci assalivano!
Ed era profetico il sogno funesto:
La guerra col fucile caricato
Nei villaggi bruciava case e beni
E cacciava le famiglie nei boschi.
C’erano scontri e tuoni, pioggia e fango,
Dolore di raminghi e di distacchi,
E si stancava il cuore a piangere
Per questi insopportabili tormenti.
E sul deserto privo di vita
Sollevate le ciglia a tarda notte,
Il sanguigno Marte dall’azzurro abisso
Ci guardava ostinato.
E l’ombra della cattiva coscienza
Deformava i confusi tratti,
Come se uno spirito bestiale
Guardasse la terra dall’alto.
Quello spirito che costruì canali
Per navi a noi sconosciute,
E stazioni di vetro
Tra le città marziane.
Spirito pieno di sapere e di volere,
Privo di anima e di cuore,
Che non soffre per il dolore altrui,
E al quale tutti i mezzi sono buoni.
Ma io so che c’è nell’universo
Un piccolo pianeta smarrito,
Dove di secolo in secolo
Altre stirpi riescono a vivere.
Anche là ci sono tormenti,
Anche là c’è cibo per le passioni,
Ma la gente là non ha perduto
Il diritto di avere un’anima.
Là onde dorate di luce scorrono
Attraverso il buio dell’essere,
E questo piccolo pianeta
E’ la mia Terra risorta.
1956
Confessione
Coperta di baci, incantata,
Portata nel campo dal vento,
Tutta come incatenata,
Tu prezioso mio portento!
Né allegra, né afflitta,
Come da un cupo cielo discesa,
Tu mio canto di nozze,
Tu mia stella pazzesca.
Mi chinerò sui tuoi ginocchi,
Li stringerò con frenesia,
E con le lacrime e con i versi
Ti farò ardere, o amata mia.
Aprimi il tuo nordico volto,
Lasciami entrare negli occhi gravi,
Nelle tue braccia seminude,
Nelle tue nere ciglia orientali.
Ciò che si aggiungerà – non calerà,
Ciò che si avvererà – non si scorderà…
Perché piangi, mio dolce incanto?
O forse a me sembra soltanto?
1957
Il bucato
Distante dalla strada maestra
In un borgo di case e di tigli,
E’ bello restare sulla soglia
E ascoltare il cigolio del pozzo.
Qui, tra colombi e colombe,
Tra i granai e i mucchi di concime,
Il vento scuote turbe di sottane,
Brache, camicie e pezze da piedi.
Riposando dal corpo sudato,
Fatti di tela casalinga,
Qui fin dal giogo mongolo pende
La tavolozza degli abiti russi.
E si vedono su di essi le forme
Sporgenti dei corpi umani,
Copiando in un vivo disordine
Chi e come in essi giaceva e sedeva.
Oggi faccio compagnia alle lavandaie,
Benefattrici degli uomini del posto.
Questa gente non opprime chi giace
E non scaccia gli affamati.
Qui il lavoro ingrossa i calli
Imbiancati dall’acqua saponata,
Non si vantano d’essere ospitali,
Ma nel bisogno ti tendono la mano.
Beato chi l’anima turbata
Laverà qui fino in fondo,
Perché dalla schiuma del bucato
Come Afrodite esca imbiancata!
1957
Non lasciare l’anima alla pigrizia
Non lasciare l’anima alla pigrizia!
Per non fare buchi nell’acqua,
Sia di giorno che di notte
Ad essa non si addice la fiacca!
Inseguila nella bufera,
Tra gli alberi schiantati,
Trascinala di tappa in tappa
Tra campi e borri innevati!
Non fare che dorma nel letto
Alla luce dell’aurora,
Tratta male la fannullona
E tienila a freno ognora!
Se per essere indulgente,
Dai disagi la vuoi liberare,
Essa anche l’ultima camicia
Ti toglierà senza esitare.
Tienila sempre ben stretta,
Tormentala continuamente,
Perché essa impari di nuovo
A vivere con te umanamente.
Essa è schiava e anche regina,
Essa è figlia e lavoratrice,
Sia di giorno che di notte
La fatica a lei si addice!
1958
(C) by Paolo Statuti