
Jalu Kurek
Jalu Kurek
Jalu Kurek, romanziere, poeta, traduttore e saggista, nacque a Cracovia il 27 febbraio 1904 e morì a Rabka il 10 novembre 1983. Laureato in filologia polacca e romanza all’Università Jagellonica di Cracovia, approfondì i suoi studi di romanistica presso l’Università di Napoli. Fu uno dei rappresentanti dell’Avanguardia Cracoviana, un gruppo creato dal poeta e teorico della poesia Tadeusz Peiper e attivo negli anni 1922-1927, il cui motto era “un minimo di parole e un massimo di contenuto”. I membri dell’Avanguardia, di cui facevano parte anche i poeti Julian Przyboś e Adam Ważyk (v. nel mio blog), pubblicavano i loro scritti sulla rivista “Zwrotnica” (Il deviatoio). Fu amico di Marinetti e tradusse in polacco le opere dei futuristi italiani. Tra le sue traduzioni della poesia italiana troviamo tra l’altro anche i “Sonetti” del Petrarca. I suoi romanzi più famosi sono “L’influenza infuria a Naprawa” del 1934 e “L’alluvione” del 1935: una prosa realistica con elementi di naturalismo e espressionismo. Fu fortemente legato ai monti Tatra. Di essi diceva: “Per me i Tatra non sono un terreno di esplorazione tangibile, ma una regione della fantasia. Io li vedo meglio di notte e li percorro senza sosta 24 ore su 24”. Si occupò anche di teatro e di cinema. La sua vasta produzione letteraria comprende: liriche, romanzi, racconti, saggi, traduzioni, reportàge e feuilleton.
Poesie di Jalu Kurek tradotte da Paolo Statuti
Questionario personale
Cosa facevi? Dov’eri? Cosa professavi?
Chi ti ha generato?
Stato civile? Impiego? Anni? Famiglia? Relazioni?
Mi vedevo ieri nel volo di una mosca.
Un anno fa ero in una foglia.
Per poco non sono scoppiato come un fulmine,
mi mancava un quarto di atomo di respiro.
La voce del liuto infranta in me
non è risonata ancora, impigliata nell’eco.
Impiegato
che non credi agli spiriti,
guarda,
dove si solleva sulla fronte del diluvio
l’uccello di fuoco,
e scrivi.
Professione – scheggia pensante.
Altezza – dall’orizzonte alla non conoscenza.
Origine – polvere caduta dal sole.
Domicilio – sotto una rosa,
ovvero tra un viaggio e l’altro.
Segni particolari – un cuore che lo accorcia,
una bocca che lo allunga.
Ha subìto condanne?
Sì,
all’esilio a vita sulla terra.
Amore
La colonna verticale dello spazio su di me immobile perdura.
Cancello da essa il silenzio bello come una vittoria.
Ti vedo: un arco che tra poco salterà
sull’edificio.
Ti penso troppo spesso.
Conficca le tue estasi insanguinate nelle ferite –
nella più fresca ferita del cuore: negli occhi.
Ecco così
per sommi capi
si costruiscono le storie dei mondi.
Amore mio,
avvicinati.
Con gli occhi avvolgimi.
Con gli occhi salvami.
Epigramma
O cuore, muori a poco a poco.
Il mio fiume non è il fiume dei suicidi,
si posa in esso la melma portata dai falsi secoli.
Accorda il liuto sulla nota dell’uragano,
o fratello in astrazione, o spillo che riluce.
Si allontana da me un drammatico regno,
si frantuma l’ultima stella di speranza,
errore filosofico. Inizio là
dove finisce l’illusorio tempo delle attese,
passo nei sottosuoli dell’archeologia.
Benedico l’inquieta ala dell’aurora,
sperimentale proiettile di salvezza.
Dove striscia il verme tra le rovine?
Là, dove non arriva la metafisica:
nell’abisso del becco di un uccello che lo ingoia.
La vita è pericolosa, ma quanto è felice.
Mi stringe a sé la notte, flusso di otto ore di silenzio.
Tra l’ampiezza della mano sinistra e la chiusura della destra
c’è una possibilità di salvezza su un milione.
Dirigo il cervello nel vuoto. Non sopporto la tangibilità.
Benedico il flusso e il riflusso, benedico
ciò che si trova tra il flusso e il riflusso.
Pensando a mia madre
Canta la notte,
quasi avesse in gola mille uccelli,
notte dai lunghi capelli,
nuda.
Cieli afosi.
Afosi e tinnanti.
Il firmamento arde di stelle.
La notte scende nei varchi,
nello scuro orizzonte,
nei gelsomini fragranti.
Penso a te,
morta, ma sempre viva,
quando la notte si protrae e non si ferma.
Da te, o madre, volo
come foglia d’autunno verso la terra.
La vita come abito si logora.
Un ramo che cade.
Che l’abito si laceri, si strappi,
purché ti abbia fino all’ultimo
sulle labbra.
Salpare
Non sono morto da giovane.
Mi sollevo in modo armonico verso la morte
come il fumo dalla propria fiamma.
Buon giorno, buon giorno, fanciullo,
o scintilla che ascende.
Tutti i miei pensieri come i rami di un albero
sono rivolti dal tronco alla chioma.
Fino all’apice dello sfinimento.
Buon giorno, buon giorno, fanciulla,
la rosa è sbocciata in una goccia rossa.
Conosco il mondo, io stesso ero un torrente impetuoso.
Come un fiume in piena verso il vicino mare
mi avvicino acquistando un profondo passo dopo passo.
Buon giorno a voi, buon giorno, miei cari,
rivoli della vita che scorrete da vicino e da lontano.
L’uomo come il fuoco, come un albero,come un fiume
passa in una volatile incessante trasformazione
rituffandosi in profondità come nel seno della madre.
Arrivederci, o carissimi.
Avvivederci nell’oceano.
Vedere in modo chiaro
Non c’è ritorno, ma c’è la speranza,
madre degli stupidi, diamante di saggezza.
Sto sulla soglia dello stupore, la mia nave salpa.
Esegeti! Non s’è avverato ancora
ciò che deve avvenire. Alzo il pugno all’altezza dei sogni,
alzo il canto all’altezza del patimento,
io – imbattuto, io – non convinto,
uomo di stanca fantasia dispensato dal tacere.
Mi dicono: ecco la svolta, là il dolore cessa.
Nell’aspra lotta giunge la felicità in ritardo.
L’amore è una fortuita collocazione di atomi.
Mi dicono: né l’ordine matematico,
né il battito del cuore sarebbero possibili,
se Dio non esistesse. Dunque posso dormire come un tempo.
Macina instancabile l’abbagliante albero della conoscenza,
pensate per me, sono di nuovo tranquillo.
Che io bruci soltanto i versi, che io nasconda
il pudico marchio della passione, il velo della Veronica.
Non penso, dunque non sono. Scendiamo in fondo al pozzo.
Che si sente nel silenzio? Gli assassini ci accusano.
Che si vede? L’altalena della luna, le chiavi smarrite del tempo.
Difficile è il mondo, più difficile per il poeta
che per il filosofo. Quale premio per noi?
Tutti gli averi dalle ceneri sollevati nel cranio.
Alla Madonna
Non pregare nelle chiese tese e semplici come una frase,
le più tristi sono le strade diritte e non fiaccate dalle attese.
Ti ho visto, sotto la pioggia, che scrivevi con gli occhi sui cieli,
purtroppo sono un poeta e vorrei abitare nei Tuoi capelli.
Nella strada, ove si sono immesse estranee, rozze finestre,
stai, dischiusa porta dei cieli, e gli occhi Ti si bagnano.
La pioggia è figlia del sole, beata musica delle nuvole,
quante volte nei capelli Ti è sbocciata e ha frusciato la corte
della primavera!
Quante riflessioni stellari in Te immergo, torre di sogni sublimi,
eterno segnale che sfiora le nostre teste!
Se Ti amo come sole, Ti amo come pioggia,
quanto mi è più cara quella che è la più cara!
Una notte soltanto dobbiamo aspettare il sole,
per la pioggia invece bisogna aspettare anche due mesi.
Inviolata santa erba in una nube di verdi ruminazioni,
evapori pioggia d’amore in cui bramo annegare.
Sei la campana che dà l’allarme e che nessuno sente,
pastora che pasce le cerve alla cavezza del silenzio.
L’odore delle Tue radure nella mia bocca si riversa,
sto nella chiesa aperta, cervo che prega nelle strade.
Lodati i Tuoi occhi, lavati nelle piogge sbocciate,
dove sciacquo i miei versi forti e duri come alberi.
Benedetti i Tuoi piedi, grondanti bocche di madri,
dai quali cresco verso di Te come aspro, sgargiante fiore.
(C) by Paolo Statuti
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