Archivio | luglio, 2022

Susanna Alfonsovna Ukshe

24 Lug

    

La poetessa e traduttrice russa Susanna Alfonsovna Ukshe, nata da genitori tedeschi di confessione luterana, quando era in vita e anche per molti anni dopo la morte, è stata del tutto ignorata, se si escludono solo 9 poesie apparse in varie raccolte e antologie soprattutto negli anni ’20. Finalmente nel 2007 è uscito per la prima volta il volume di centoventi sue poesie selezionate, intitolato Legami d’argento della poesia, con una prefazione della scrittrice Elena Viktorovna Aljokhina. Lo ha stampato la Casa-museo di Marina Cvetaeva di Mosca, purtroppo in sole mille copie, e anche per questo ora sembra essere introvabile. Sono felice di questa scoperta, sia da parte dei Russi che da parte mia, e cercherò di spiegare perché nel testo che segue e nelle dieci poesie che ho tradotto per il mio blog musashop.wordpress.com.

La famiglia Ukshe, Susanna è la prima a sinistra con la mano sulla spalla del padre

     Nacque il 1 luglio 1885 nel villaggio di Grabovo, provincia di Penza. Nel 1905 si diplomò al liceo classico femminile di Murom, dove la famiglia si era trasferita e il padre era diventato proprietario di una tenuta nel villaggio di Mežišči nel distretto di Murom. Dopo il diploma restò nel liceo come insegnante di tedesco e francese. Nel 1908 partì per San Pietroburgo, dove si laureò al Dipartimento di Economia dei Corsi superiori commerciali “M.V. Pobedinskij”, e nel 1913 alla Facoltà di Giurisprudenza dei Corsi superiori femminili.

     Dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, lasciò Pietroburgo e tornò a Murom. Nel 1918 la tenuta del padre fu saccheggiata e la madre, non reggendo al dolore, si sparò. La vista del corpo della madre, disteso sul pavimento della veranda ricoperta di rampicanti, la perseguitò per il resto della sua vita:

Stringerà il cuore come una cara mano

E risveglierà di nuovo il passato.

E ancora… Una fuga di stanze…

Sul pavimento il sangue versato…

     Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1919, visse a Baku. Negli anni ’20 e ’30 lavorò in diversi enti statali. Nel luglio del 1941, a causa delle sue origini tedesche, fu mandata in esilio a Baškiria. Sfruttando le sue conoscenze, riuscì a trasferirsi ad Alma-Ata, dove sperava di trovare lavoro. Tuttavia, tranne qualche saltuaria traduzione, non riuscì mai a trovare una occupazione stabile. Morì di consunzione il 7 febbraio 1945 in un ospedale di Alma-Ata.

     Morì con un’amara e serena profetica certezza che prima o poi le sue poesie sarebbero arrivate al lettore:

Adesso dormi coi tuoi amici.

Non importa quando il turno verrà

E il nome del poeta dimenticato

Le ceneri di dosso si scuoterà..

     A Mosca era vicina alla cerchia della Dimora letteraria e dal 1921 fu membro dell’Unione dei Poeti di tutta la Russia. Si considerava una acmeista. Fu fortemente influenzata dalla poesia di Aleksej Lozin-Lozinskij, del quale era amica fin dai tempi di San Pietroburgo.

     Ricordiamo in particolare il ciclo dedicato alla memoria di N.S. Gumiljov e le poesie per le persone amate, morte tragicamente: il poeta Aleksej Lozin-Lokinskij che si suicidò e l’ufficiale di marina Andrej Sinitsyn che fu fucilato. Molte poesie degli anni ’20 e ’30 sono un luttuoso grido per i defunti, una preghiera per loro.

     Prima di partire per l’esilio Susanna Ekshe riuscì a lasciare i quaderni con le sue poesie ai suoi amici più cari. Inoltre alcuni versi scritti durante la guerra vennero recuperati dalle lettere, perché i taccuini di quel periodo furono rubati alla poetessa. La depositaria del patrimonio poetico di Susanna, prima della sua morte avvenuta nel 2004, lo trasferì all’archivio municipale di Mosca. Ed è così che è stato possibile arrivare alla pubblicazione del 2007.

     Adesso aspettano di vedere la luce, oltre ad altre poesie eventualmente    ritrovate, anche le sue traduzioni di Dante, Petrarca, Shakespeare, Heine e Wilde, nonché le sue poesie scritte in lingue straniere: inglese, francese, tedesco e italiano. Probabilmente fu grazie all’influenza di Lozinskij, che negli anni ’20 apparvero solo alcune traduzioni di Dante e Petrarca.

     La poetessa Elena Trepetova in un suo articolo intitolato La restituzione di un poeta, scritto dopo l’uscita della raccolta, afferma: «Conoscere la sua poesia è affascinante. Si tratta realmente della restituzione di un nome nuovo alla letteratura, ingiustamente dimenticato, degno di stare alla pari coi nomi di Akhmatova, Gumiljov, Vološin… Sono poesie semplici, cesellate, estremamente sincere, fedeli alla tradizione classica… Questa poetessa crea versi di una bellezza equilibrata e rigorosa…Tra le poesie incluse nella raccolta, ce ne sono molte intrise di sincera religiosità, che possono essere definite preghiere, come ad esempio L’icona della Madonna di Vladimir… Per tutta la sua vita, attraverso gli anni del comunismo e del totalitarismo, Susanna Ukshe ha portato la fede in Dio nel suo cuore e nella sua creazione…Ciò è dimostrato dalle sue poesie di dolore inginocchiato, dal suo cuore contrito e pregante».

     Sono felice di avere incontrato questa poetessa a me così affine. Sento che mi sta aspettando. Sarà lei ad accompagnarmi e sospingermi “come un’onda verso l’ultima sponda”.

Poesie di Susanna Alfonsovna Ukshe tradotte da Paolo Statuti

Mojka

Dorme il Mojka di notte in primavera

Come larga fascia d’argento.

E dormono gli edifici olandesi –

Del terribile Pietro l’intento.

Il castello lituano bruciato

(«Ah, se i vecchi sorgessero ora…»)

E le colonne rosso-scure

Che lo specchio del fiume scolora.

Gli alberi emanano dolci spezie,

Sotto la volta le navi si gelano.

E il granatiere col casco d’orso

Sembra come uno spettro lontano.

1917

*  *  *

Il balcone è coperto di foglie appassite,

Tra gli alberi un fruscio misterioso,

E il caro aroma degli amati fiori

Non disperderà il pensiero penoso.

Presto l’autunno, come freddo ospite,

Verrà guardando il vecchio balcone,

E una patina porporina coprirà

Le foglie di vite sulle colonne.

Anneriranno le fragranti erbe dei prati,

Le mie rondini dovranno migrare. –

Il triste inverno sotto il peso delle nevi

In qualche modo si dovrà passare.

1917

*  *  *

Saluto, o vento libero e freddo,

Sul fatale fiume la tua voce.

Quante barche di notte si staccarono

E i vecchi facevano il segno di croce.

Vento! Vento! All’alba tra gli scogli

Di Finlandia tu facevi la ronda,

Coprendo di rabeschi iridati

I cadaveri illividiti nell’onda. *

Non hai visto il poeta russo?

Era snello, esile e slanciato.

L’estate scorsa – forse al petto

O alla tempia – gli hanno sparato.

Se l’hai visto…Ascolta, vento caro,

Là dove i pini sussurrano i loro canti,

Prepara una tomba gioiosa

Sulla sabbia tra i giunchi fruscianti,

E copri il corpo martoriato

Di spumosi umidi pizzi,

E il nembo della piaga annerita

Bagna con dorati sprizzi…

1921

* Si diceva che i bolscevichi caricassero i cadaveri dei giustiziati sulle barche e li scaricassero nel Golfo di Finlandia. Impressionata dalla morte di Gumiljov e da questa versione, Susanna Ukshe scrisse questa poesia, che considerava uno dei suoi testi migliori.

Dove ormeggiare la mia barca?

Dove ormeggiare la mia barca?

In nessuna strada posso andare.

A me stessa e alla mia angoscia

Da nessuna parte posso scampare.

Sul petto del Volga indorato,

A Baku, nella sua bellezza,

Nelle onde verdi del Caspio

Ho incontrato la mia tristezza.

Stringerà il cuore come una cara mano

E risveglierà di nuovo il passato.

E ancora…Una fuga di stanze…

Sul pavimento il sangue versato…

Soffocante è la polvere da sparo,

E non puoi coricarti da nessuna parte –

Non un suono intorno, non un fruscio,

Solo la croce delle candele che arde.

1921

Carovana a Baku

                                    A K.S. Kurbatova

Le strade erano ebbre di verbena,

Dall’ardente Sud il vento soffiava.

Sotto la finestra in tintinnante carovana

La fila dei dromedari avanzava,

A passo cadenzato, pigramente,

Di tappeti variopinti ornata,

E dietro come cornice di smeraldo –

Scorrevano le onde della baia assolata.

C’erano donne brune a piedi scalzi,

Arse dal respiro dell’estate.

Ai polsi brillavano i braccialetti,

Le trecce sotto i chador arruffate.

E col turbante, con boria e austero,

Con la barba tinta di china,

Il proprietario, su una gobba di tappeti,

Scaldava al sole la larga schiena.

Si alzava la polvere dietro la carovana,

I sonagli tintinnavano distanti.

Le strade erano ebbre di verbena

E i fiori sui marciapiedi erano tanti.

1921

*  *  *

Capirà un postero i giorni passati,

Cosa abbiamo vissuto un nipote capirà?

Come di notte crepitava la mitragliatrice –

Un breve grido si levò dall’oscurità.

E i bambini battevano amaramente le ciglia,

E ciò che era natio di nessuno è diventato –

E non sappiamo se era vino o sangue

Ciò che sulle strade era colato.

E sotto i ponti si ghiacciavano i cadaveri –

Della grigia Nevà i pontoni ammutiti –

E c’erano macchie di sangue sui bordi,

Come deformi fiori anneriti.

1923

Tempi violenti! Grandi e sanguinosi

Tempi violenti! Grandi e sanguinosi, –

Quando la terra dai marmi tornava viva,

E ogni giorno nuova gloria portava,

E ogni giorno la trascorsa seppelliva.

Tutti parlarono col piombo e con l’acciaio,

E il fratello contro il fratello si armò,

E i bambini smisero di sorridere,

E all’alba più nessuno il sole salutò.

Perdemmo l’usanza di guardare il cielo,

Di notte gli astri non erano veduti;

E ognuno sognava un tozzo di pane,

La calda carezza dei nidi perduti.

E tutti conobbero miseria e freddo,

La bocca del fucile, la prigionia,

La fame inaudita e insopportabile,

Le tenebre e la paura della follia. «…»

1926

L’icona della Madonna di Vladimir

Velluto nero nell’oro, con un bordo,

Il viso pallido e affranto.

Resto immobile, muta,

Senza forze per spezzare l’incanto.

E non oso staccare lo sguardo da lei,

Che più volte ho potuto guardare,

Dal suo abito severo

E dagli occhi che sembrano parlare.

La mano scura stringe teneramente

Il bambino nel suo abituccio dorato,

Il mesto sopracciglio sul naso sottile,

E da tale angoscia il labbro è segnato.

E non invano la imploravano

Le generazioni di tanti anni fa,

Confidando nella sua misericordia,

Per scampare ad ogni calamità.

Chi ripeterà le ferventi preghiere

Sussurrate interminabili ore?

Non è riflesso nel contorno degli occhi

Il proprio e l’altrui dolore?

Centinaia di anni il popolo sofferente

È venuto da te con amore e speranza.

Per questo negli occhi offuscati

Il tuo cuore materno canta?

Per questo il volto è raggelato di pianto,

Per questo il tuo sguardo è pietoso,

Perché sempre a te un infelice

Il suo tormento portava fiducioso?

1933

*  *  *

Dietro il muro il gelo s’inasprisce,

Il vecchio cane è accoccolato ai piedi –

In una sedia sprofondata

Mi avvolgo in un grande plaid.

È bello presso la calda stufa

Nei versi altrui annegare

E col divino Petrarca

Nei secoli richiamare.

Lasciando cadere le parole,

In un silenzio certosino,

Le gemme di Gumiljov

Spandere fino al mattino.

E poi, con un suono lontano,

Alla finestra smarrito,

In un letto singolo

Ascoltare in sogno uno spartito.

1934

L’ultima cosa

Finalmente l’ultima pagina è giunta.

Il quaderno è finito. Le parole stilate.

Cinque lunghe stagioni come breve riga

Con passo pesante sono passate.

Ora solo nel ricordo del poeta

Troveranno pace in un cassetto,

E aspetteranno ancora decenni,

Finché non cesserà il buio predetto.

Tanti canti nella stessa tomba

E non pochi ce ne saranno ancora…

Erano come uccelli dorati e adesso

Sono tornati nella mia memoria.

Anche tu vivevi – eco dei moti del cuore,

Quaderno smarrito e ritrovato…

Tante volte hai visto il mio dolore

E a sopportarlo mi hai aiutato.

Adesso dormi coi tuoi amici.

Non importa quando il turno verrà

E il nome del poeta dimenticato

Le ceneri di dosso si scuoterà.

1939

(C) by Paolo Statuti

i

Anna Dmitrievna Radlova

19 Lug

  

   Anna Dmitrievna Radlova, poetessa e traduttrice russa, nacque il 3 febbraio 1891 a San Pietroburgo. Il padre, Dmitrij Ivanovič Darmolatov (morto nel 1914), tedesco di nascita, era il direttore della banca commerciale Azov-Don. La sorella Sara divenne una famosa scultrice. È opera sua la lapide di Boris Pasternak a Peredelkino (1965). La sorella Nadežda sposò un fratello di Osip Mandel’shtam e morì durante il parto nel 1922. Infine l’altra sorella Vera si suicidiò a causa di una delusione d’amore.

     Si laureò ai corsi Bestužev, prima università femminile fondata nel 1878 e operante fino al 1919, quando fu incorporata nell’Università Statale di San Pietroburgo. Nel 1914 sposò Sergej Ernestovič Radlov, uno studente della Facoltà di Storia e Filosofia della stessa Università, che poi divenne un regista teatrale famoso. Nel 1915 nacque il figlio Dmitrij. Nella primavera del 1916 iniziò a scrivere poesie, alcune delle quali furono subito pubblicate dalla rivista Apollon.

     All’inizio degli anni ’20 entrò a far parte del gruppo degli emotivisti (o emozionalisti), creato da Michail Kuzmin. Nel periodo 1918-1923 uscirono tre sue raccolte di poesie: Favi (1918), Navi (1920), L’ospite alato (1922) e il dramma in versi La nave della Madre di Dio (1923), che ha come oggetto la setta dei flagellanti. Il Racconto di Tatarinova sui settari dei secoli XVIII-XIX, scritto nel 1931, fu pubblicato nel 1997.

     Dal 1922 si dedicò alla traduzione dei classici europei (Balzac, Maupassant e soprattutto Shakespeare. Traduzioni messe in scena dai teatri diretti dal marito: Kirov, Teatro Accademico del Dramma e Teatro Lensovet. Nell’estate del 1926 divorziò da Sergej Radlov e sposò l’ingegnere Kornelij Pokrovskij, ma il primo marito continuò a vivere con loro. Il critico letterario Dmitrij Sviatopolk-Mirskij in una sua lettera accennò a questo “mariage de trois”, definendo Anna Radlova “la moglie di due uomini”. Anche in pubblico, come testimonia Kuzmin, apparivano spesso in tre. Ma nel 1938 Pokrovskij, che per molti anni aveva fatto parte della cerchia di Kuzmin, si suicidò aspettandosi di essere nuovamente arrestato. Anna allora “tornò” dal suo primo marito.

     Nel marzo del 1942 i Radlov, insieme al teatro diretto da Sergej, furono evacuati a Pjatigorsk. Ma ben presto la città fu occupata dai tedeschi e il teatro venne trasferito a Zaporože e successivamente a Berlino. Dopo essersi trovati insieme a un gruppo di attori nel sud della Francia alla fine della guerra, i Radlov si trasferirono a Parigi. Tuttavia, subdolamente consigliati dalla missione sovietica, essi tornarono in patria. Appena scesi dall’aereo, come era da prevedersi,  furono subito arrestati con l’accusa di tradimento e collaborazione con gli invasori. Vennero condannati a dieci anni di carcere e destinati al campo di Pereborskij, vicino a Rybinsk. Per loro fortuna il direttore del lager amava il teatro e permise a Sergej di crearne uno, reclutando attori professionisti che abbondavano tra i prigionieri. Anna collaborava attivamente col marito. Morì per un ictus nello stesso campo il 23 febbraio 1949. Fu riabilitata nel 1958. Sergej invece lasciò il lager nel 1953, senza riabilitazione e diritto di vivere a Mosca e Leningrado. Si trasferì in Lettonia, dove diresse i teatri drammatici russi a Daugavpils e Riga. Fu riabilitato nel 1957 e morì a Riga l’anno seguente.

     Nell’”Enciclopedia letteraria” (9, 1935) le poesie di Anna Radlova erano così caratterizzate: “Il mondo dei sentimenti strettamente personali è il contenuto principale della poesia di Anna Radlova. L’isolamento dalla realtà è evidente soprattutto nella prima raccolta di poesie. Nel primo periodo della rivoluzione la poetessa, come molti rappresentanti dell’intellighenzia, aveva un atteggiamento passivo verso la vittoria del proletariato. Si estraniava dagli eventi rivoluzionari e pre-rivoluzionari, immersa in un mondo di stati d’animo individualistici: i motivi della morte, l’amore e un senso di sventura predominano nelle sue poesie. Nel successivo sviluppo della cretività, Anna Radlova esprime il suo desiderio di avvicinarsi all’immagine della modernità. Ha accettato la rivuluzione non nel suo vero significato, ma come “aria tempestosa”, come “lieta tempesta”. La sua poesia, aggiungo io, propende anche verso le immagini classiche e il settarismo mistico.

     I contemporanei hanno valutato la sua creazione sia positivamente che negativamente. Anche le sue traduzioni di Shakespeare furono criticate o, al contrario, considerate dei capolavori. Ad esempio Boris Pasternak che come è noto tradusse anche lui tutte le principali tragedie shakespeariane, ha osservato che il grande drammaturgo inglese “era stato tradotto da ottimi poeti”, tra i quali fece i nomi di Michail Lozinskij e Anna Radlova.

     All’inizio degli anni ’20 alcuni critici assegnavano ad Anna Radlova il posto di prima poetessa russa. Michail Kuzmin apprezzava molto le sue poesie e in particolare quelle della raccolta L’ospite alato. In una recensione pubblicata nel 1922 sulla rivista Vita dell’arte, dichiarò che la base della creatività artistica è il “principio femminile del sibillanismo, della profetessa delfica…Il poeta più virile nasce profeticamente dal materno grembo della visione subconscia femminile”. Riguardo alla raccolta scrisse: “Questo potrebbe essere il libro più necessario e moderno ora, perché la modernità, percepita in modo profondo e profetico è espressa con grande forza, profezia e pathos… Un bellissimo libro alato”.

     Tuttavia non solo Kuzmin le voleva bene. Konstantin Vaginov scrisse questi  versi nell’album di Anna Radlova: “E fa paura sotto le pupille della nobiltà romana / Trovare lo spirito flagellante, la nostalgia di Mosca / la Regina della nave”. Tuttavia c’era anche chi, come ad esempio Anna Akhmatova, odiava la sua omonima come rivale, sia nella poesia che nella vita privata (ci sono prove che Anna Andreevna non fosse indifferente a Sergej Radlov).

     Con questa poetessa ho messo un’altra tessera al mosaico che sto formando della poesia femminile dell’età d’argento, vera fonte inesauribile di versi ispirati e profondi e soprattutto sconosciuti, almeno in Italia, dove la poesia femminile di questo periodo è degnamente, ma scarsamente rappresentata dalle sole Anna Akhmatova e Marina Cvetaeva.

Poesie di Anna Radlova tradotte da Paolo Statuti

Italia

Similmente al sangue, sparso perché

Un canto nascesse e non fosse obliato,

O patria di Dante e Filippo Lippi,

Il tuo nome è dolcissimo e beato.

E di nuovo, sognando la patria straniera,

Al nord, dove l’estate è così ristretta,

Che gli occhi non osano invaghirsi del sole, –

Io vedo la terra benedetta,

Dove, immobile, l’afa accarezza

Il corpo che canta contento

E dove battono le ali degli angeli –

Ma tra i fortunati lo chiamano vento;

E ricordo l’oro dei suoi giardini;

E le tinte dei suoi maestri santi

O innamorati; la frescura delle chiese

E il fugace profumo d’incenso e oleandri.

E io so che là, come in passato,

All’ospitalità sanno fare onore,

Sanno stendersi in terra davanti alla Madonna

E sanno anche morire d’amore.

1916

Prima di sera eravamo nel campo

Prima di sera eravamo nel campo,

E l’erba alta taceva,

Vento e sole erano senza volontà,

E il lago lontano non splendeva.

Il cielo quietato pregava il Signore

E sereno, affabile mi guardava,

E soltanto nella mia mano abbronzata

Il tuo cuore commosso pulsava.

1916

A tacere ci si può abituare

A tacere ci si può abituare,

Un amico il silenzio diventerà.

Con quanto riguardo e attenzione

I nostri segreti ascolterà.

Esso, la seccante bambinaia,

Io prima da me ho distolto

E poi d’estate nel novilunio

Il nemico per amico ho accolto.

Lui di amore mi parlava

Con tale commosso talento,

E dopo, munifico, ha donato

Biasimo e tradimento.

1917

Come azzurro palazzo di cristallo

Come azzurro palazzo di cristallo,

Il cielo di qua è spazioso,

E i campi sono ricchi di pane e vino,

E il vento dal mare con me è lezioso.

E la carne chiede oblio e risate,

Ma lo spirito si ribella, cieco e severo.

O triste amore, esso vive di te,

E l’ardua fedeltà è il suo sollievo.

1917

L’Angelo del Canto

                                   A A.A. Smirnov

Il volto sereno e appassionato

Bruciato dal forte sole locale,

E delle ali aguzze il volo non si udiva,

Egli si avvicinava e le mani si freddavano,

E la testa inebriata girava.

E, come il bambino che ho partorito con dolore,

Così nel dolore erompeva il nostro canto,

Mio, suo, – non so, ma il tocco

Con beata stanchezza ricordavo.

A letto la mattina restavo più a lungo,

Leggevo a un amico nuove poesie.

Non lo chiamerò ospite della sera

E i suoi occhi non conoscevo ancora.

Adesso, non perché l’amore

Ho respinto, come spingono una pietra,

Che sulla strada polverosa e ardente

Piantandosi, ferisce i piedi al pellegrino,

Ma forse soltanto perché il sole

Qui è più vicino alla mia dolce terra,

E ci sono uccelli con le corone, e fiero

E tenace cresce qui un cactus, Angelo del Canto,

Mio severo e unico amico adesso

Così chiaro e tenero sei diventato, come

Il fratello maggiore con l’amata sorella.

Noi a lungo ci sdraiamo sulla sabbia al mare.

Quando il caldo di mezzogiorno si placa,

Cerchiamo tra le pietre i nidi di serpenti,

Beviamo fredda acqua di sorgente,

E a notte tarda nel giardino vaghiamo

E la testa alla fresca ala

Io accosto, e negli occhi noi vediamo

le care costellazioni, – allora in modo diverso

Lui m’insegna a comporre i canti.

1917

Là il mare fruscia come antica pergamena

Là il mare fruscia come antica pergamena,

La luna del sud fa la ronda.

L’amico fino all’ultimo giorno assapora

Del silenzio l’avvelenata bevanda.

Oh, troppo brevi erano i nostri incontri,

E avaro l’importante conversare.

Io non avrei saputo nulla, ma lo sguardo

Mi svelò ciò che le parole volevano celare.

1918

La stella-assenzio si è levata sulla nostra città

La stella-assenzio si è levata sulla nostra città,

Perniciosi sono i verdi raggi.

Dal recinto del frutteto del mattino

Mai più voleranno via i gracchi.

Oh, non per un debole timido petto

È l’aria burrascosa dei soli in rivolta,

E la gente china il capo sempre più quieta,

E il vento dal mare è più amaro e più fresco.

Diletto sarà questo vento al poeta.

E sorriderà la giovane madre nel dire

– Oh, caro vento, non gemere, non rombare,

Tu impedisci a mio figlio di dormire.

1919

Gli anni scorrevano come folle mandria

Gli anni scorrevano come folle mandria –

Nei secoli saranno da Dio conteggiati –

La morte nuda passeggiava senza pudore,

E a sorridere i bambini furono disabituati.

E noi conoscemmo la misura d’ogni cosa,

E la morte diventò l’unica norma

Dell’amore senza ali e di quello alato

E delle vane parole sull’amore.

E il cuore – nuovo «Titanic» addolorato

Dormirà negli abissi dell’Atlantico,

E le navi su di esso fluiscono in catene,

In pesanti corazze e pesanti sonni.

O Terra, del Signore amato bene,

Oblio non c’è nei tuoi sordi mari,

Nei tuoi giardini la quiete non ha speranza,

E neanche nelle rosse aurore, – ma nell’arida notte

Come fredda lama un verso s’innalza.

1920

I posteri

Ed ecco per sostituire noi laceri e ubriachi

Di vino amaro, distacchi e ribellioni, o gente,

Verrete decisi, estranei alle nostre piaghe,

Col mio sorriso che non comprende.

E cresceranno sulla terra querce e rose,

Si quieteranno le rivolte come belve domate,

E come serena serie di serena semplicità,

Fioriranno le primavere e verranno le gelate.

La tua anima insaziabile, o postero,

L’amaro solenne passato condannerà,

La tua voce sarà giovane e il passo sonoro,

E la ruvida mano la cetra in polvere ridurrà.

Una pace epica stenderà sull’universo,

Più certa dell’oblio, la sua ala immensa,

Della nostra sorte-prigione un poeta epico

Dirà che era cieca e perversa.

Ma forse uno di questo gregge glorioso

Alla parola sangue avrà un lieve tremore,

E ricorderà che per sempre la potente lingua

Al grande sangue ha legato il grande amore.

1920

Gridava la terra con voce nera

Gridava la terra con voce nera,

Un angelo con la spada narrava al poeta

Che colpivano, lottavano e morivano,

E nulla restò sulla terra intera.

Per fame o vento rotearono le stelle.

Gente, animali, uccelli, alberi – e niente,

Sparì anche l’alba mattutina e serale,

Solo aria nera, sibilante e tagliente.

Il cuore girava come trottola ronzante,

Si mosse una stella e incontro mi volò,

Come acuto diamante il cuore mi ferì,

Si compirono i mille giorni e il sangue sgorgò.

Mi tremano le gambe dal capogiro,

Di nuovo mi trovo sulla polverosa strada,

Pietre miliari, pastori, branchi di pecore,

E nel cielo la stella d’oriente inchiodata.

1921

(C) by Paolo Statuti

Due poesie russe sull’Italia

16 Lug

Due poesie russe sull’Italia

   Della poetessa Anna Radlova (1891-1949)  sto preparando un post con alcune poesie. Una di queste è dedicata all’Italia, ed è stata scritta nel 1916. La sorte ha voluto che 100 anni dopo, un’altra poetessa russa, Julia Pikalova, altrettanto bella e degna di tale nome, abbia scritto la sua poesia Italia dedicandomela. Con profonda gratitudine verso le due poetesse, vi propongo le due poesie, felice di averle tradotte entrambe in italiano.

Anna Radlova
Julia Pikalova

Anna Radlova

Italia

Similmente al sangue, sparso perché

Un canto nascesse e non fosse obliato,

O patria di Dante e Filippo Lippi,

Il tuo nome è dolcissimo e beato.

E di nuovo, sognando la patria straniera,

Al nord, dove l’estate è così ristretta,

Che gli occhi non osano invaghirsi del sole, –

Io vedo la terra benedetta,

Dove, immobile, l’afa accarezza

Il corpo che canta contento

E dove battono le ali degli angeli –

Ma tra i fortunati lo chiamano vento;

E ricordo l’oro dei suoi giardini;

E le tinte dei suoi maestri santi

O innamorati; la frescura delle chiese

E il fugace profumo d’incenso e oleandri.

E io so che là, come in passato,

All’ospitalità sanno fare onore,

Sanno stendersi in terra davanti alla Madonna

E sanno anche morire d’amore.

1916

Julia Pikalova

Italia

                                       A Paolo Statuti

Italia! Della tua erede

In nessun luogo un’impronta rimane.*

Vengono verso di me due cigni bianchi,

E io non ho neanche un po’ di pane.

Assorbo il cielo, che spande generoso

Sulle onde azzurri riflessi.

Io ti canto, ma non saranno

Da te compresi i miei versi.

Lo so: qualunque cosa io faccia,

Per te non sarò in nessuna parte…

E i cigni – due bianche candele –

Si dondolavano ad arte,

E i cigni salutavano alteri,

Gli elastici colli movendo.

A un tratto un nodo in gola:

Essi mi stavano capendo!

* L’erede è il poeta straniero che non lascia impronte, perché l’Italia non lo capisce.

2016

Varvara Aleksandrovna Butjaghina

12 Lug

    

Varvara Aleksandrovna Butjaghina nacque a Elets nel 1900 e morì a Mosca nel 1987. Fino al 1907 crebbe in una famiglia ortodossa numerosa, dove tutti amavano la poesia e l’arte. Nello stesso anno si trasferirono a Mosca, dove la poetessa nel  1918 terminò il ginnasio femminile “S.A. Arsen’eva”. Successivamente studiò alla Facoltà di Storia e Filosofia dell’Università e all’Istituto Superiore di Arte e Letteratura. Iniziò a scrivere poesie all’età di nove anni. Pubblicò due raccolte di versi: Ranuncoli (1921), con la prefazione del Commissario del Popolo all’Istruzione negli anni 1917-1929 Anatolij Lunačarskij (1875-1933) e Vele (1926).

     Fu tra i fondatori della nuova corrente letteraria dei “Neoclassici”, i quali, proclamando le opere di Pushkin l’apice della creazione, tendevano alla “semplicità e chiarezza classica”.

     Nel 1925 sposò l’architetto Viktor Khodataev, dal quale ebbe i figli Jurij e Kirill, e dopo la morte del marito fu segretamente sposata col filosofo Vasilij Rozanov.

     Dalla fine degli anni ’20 non pubblicò più nulla, ciò che diede origine a voci sulla sua morte per tifo. In realtà, ha spiegato il figlio Kirill, Varvara smise di scrivere poesie perché “non volle iscriversi al Proletkul’t” (Cultura proletaria), organizzazione culturale attiva negli anni 1917-1932 nella Russia Sovietica.

     Io personalmente penso che Varvara, dopo l’uccisione di Gumiljov e di altri poeti, dopo le  controverse morti di Esenin e Majakovskij, fosse terrorizzata dalla consapevolezza di essere una poetessa  non cortigiana, e abbia semplicemente scelto di vivere. Considerato il numero dei poeti che, soprattutto negli anni seguenti, furono ripetutamente giustiziati da Stalin, detto l’”assassino della Poesia”, o si suicidarono, bisogna dire che Varvara fu lungimirante. Scelse di tacere, benché fosse considerata un grande talento, forse non ancora del tutto esente da inflenze di Blok e Akhmatova, ma che avrebbe certamente creato in futuro opere più originali e più profonde. Optò per la vita e infatti, dopo aver lasciato la poesia, visse a lungo, lavorando come sceneggiatrice presso lo studio Sojuzmultfilm e come revisore responsabile per il quotidiano Komsomolskaja Pravda.

     Però non posso non chiedermi se sia possibile che una poetessa come Varvara non abbia davvero scritto più niente nella sua lunga vita. Probabilmente in segreto lo ha fatto, e allora dove sono nascoste le poesie non pubblicate? Forse bisognerebbe chiederlo alla Poesia stessa, questa  bizzarra imprevedibile maliarda regina dei sentimenti, che vaga nei cieli del mondo e decide le sorti dei poeti.

     Lo scrittore Boris Gusman (1892-1944) nel suo libro Cento poeti (1923) afferma: «L’anima di Varvara Butjaghina è aperta al mondo “con tutte le finestre”. Essa ingoia avidamente ogni granello di gioia, ogni granello di solare felicità che una vita munifica dona. Le sue poesie sono ricche di immagini, non senza motivo Lunačarskij le ha paragonate agli arazzi e alle vetrate.

     Lo scrittore Pjotr Jarovoj (1887-1951) in un suo articolo dedicato alla prima raccolta di Varvara Butjaghina dice: «Negli attimi di riposo sfogliate il libretto Ranuncoli e proverete relax e soddisfazione. È vero, un settario politico, dopo averlo letto dirà certamente che non lo approva. Del resto, nelle poesie di Varvara Butjaghina non si parla di rivoluzione, di ottobre, di rivolta e di programma produttivo. In generale in esse si parla di giovinezza, entusiasmo, albe di primavera, e anche un po’ di malinconia primaverile. Ogni riga colpisce per lirismo, freschezza e musica delicata… Qual è in fondo il compito rivoluzionario della poesia? – chiederà chi ha letto questi versi. – Non è soprattutto quello di elevare, dare refrigerio all’anima, suscitare sentimenti gioiosi verso la vita? Ha ragione Lunačarskij, concludendo così la sua prefazione alla raccolta: «Compagni, non siate aridi, non siate troppo unilaterali, anche in questo tempo sacro». Una pietra, un fiore, una nuvola entrano nella tua coscienza come qualcosa che ti riguarda. Conoscerai te stesso e ciò che ti circonda, ti circonda non per caso, non perché la poetessa ti abbia costretto, ma perché sei riuscito a scinderti negli atomi del mondo e li hai di nuovo ravvivati con la gioia di essere. Questa poetessa vive l’istante attraverso l’immagine, e l’immagine nei suoi versi è intimamente fresca e profonda. In generale nella sua poesia si avvertono geniali risultati artistici:

Le nostre anime sono laghi scorrenti.

Tutto fluisce ciò che nei sogni era.

Da un bambino con occhi di fiori

Compro un soldino di primavera.

oppure:

Dove scivolerò lungo il pendio dorato?

E ogni giorno sempre più tenero posa

Il tramonto nel languore serale

Manciate di coralli e pietre rosa».

Per concludere questo breve testo introduttivo ho scelto questa strofa:

Il vengo dall’eremo del miele.

Io sono tutta per un’impresa alata.

E Dio, crocifisso dai dolori

Dalla croce tolgo allietata.

Poesie di Varvara Aleksandrovna Butjaghina tradotte da Paolo Statuti

*  *  *

Ha tessuto una ragnatela dorata

Il ricamo di gialle ninfee nel prato.

Manterrà il cancelletto bianco,

Se di desiderio l’hai così avviluppato?

Ho sparso i passi lungo il pendio,

Per me oggi è un giorno di miele.

Coglierò la menta a manciate,

Nuoterò nel profumo di abete.

E poi, dimenticati giorno e ora,

Il mio braccio bruno ti cingerà.

La notte spegnerà il fuoco del tramonto

E la dorata brace soffocherà.

*  *  *

Lo so: la morte verrà furtiva,

E il branco delle albe si quieterà,

E il ricordo con un lieve brivido

In fretta la vita sfoglierà.

Il crepitio delle fredde primavere

E dei sogni gli arrivi d’oltremare,

Le discese nelle cupe profondità

E il sole che sulle alture appare.

E i caldi lati dell’amicizia,

Le allegre chiassose sere,

E ciò che io possedevo,

E che avrei potuto avere.

E nel cuore verrà il rimpianto:

Che di tutti l’amore non ho avuto,

Che mai più io ritroverò

Il tempo che ho perduto.

Bufera dorata

Gioca col purpureo la bufera:

Ogni giorno più allegra e spensierata

Torce le foglie e al vento si stende

Come dai cani la volpe dorata.

Ha scaldato l’aria vetrosa,

La mia soglia di oro ha riempita.

Non resterò a celare nelle stelle

I cocci di un’estasi finita.

Getterò i pensieri e il frutteto,

E nel mondo, il sole seguendo,

I campanelli delle albe ascoltare,

Sonoramente all’amore rispondendo…

Tu tornerai prima o poi

Con le labbra di polvere riarse,

Nella caduta stellare delle foglie

Vedrai – fuoco e tracce scomparse.

Solo il vento mi troverà.

E per giunta, il bagliore interrogato:

 – È andata – sembra – a dare ai miseri

Passanti la gioia di un granello donato.

Primaverile

Fuggirò dalla sorda galleria

A discorsi e sguardi annoiati,

Se la sera è dolce e viscosa

E i meli di neve velati.

È bello indugiare su un dirupo,

Su tappeti di villaggi a distesa,

Quando ogni strada è fortunata,

E i cuori sono pronti a ogni impresa.

Aperte le braccia come ali,

Squillare e andare con la testa

In quest’aria colma di gelsomino,

In questo prato come una festa.

E la luna sprizzerà abbagliante,

Scorrerà sulle foglie, sulla rena

E ordinerà nella fragrante vita

Di superare la giovanile pena.

Strettamente con ansia primaverile

Legherà a un tratto mani e piedi,

Ecciterà e alletterà con la strada

Per i prati variopinti dei cieli.

Là le stelle ondeggiano al vento,

Cadendo a terra, nei giardini…

E andrai, – e la friabile erba

Mostrerà segni azzurrini.

*  *  *

Per la strada, la distanza luminosa,

Ho lasciato l’intimità e il ritrovo,

E sonore scrosciano sulla sella

Le pellicce con l’amore nuovo.

Il mio meriggio è semplice e scuro,

E la mezzanotte – pungenti foghe.

E la luna – un leoncino dorato –

In terra la criniera scuote.

Viaggiatore col turbante per  il vento,

Chi sei – io non domanderò.

Per abbeverare i suoi cammelli

Una fresca pelliccia scioglierò.

Oh, potrai dolcemente tinnire

E più aromi verserai?

Ma partendo, monete di rame

Sui palmi insaziabili porrai.

Con un silenzio rovente i sonagli

Dalle sabbie saranno schiacciati,

E il vento non estrarrà gli anelli

Nella sabbia da me calpestati.

Disgelo

Sul vetro – riflessi sfumati di azzurro.

Una ragnatela di fronde gonfiate.

Io getto tutti gli stracci invernali

Nel disgelo delle primaverili nottate.

Fluite dietro il ghiaccio o ceppi

Delle pesanti immobili ore.

I gracchi dal campanile della chiesa

Alle lastre lanciano il loro clamore.

Agita le nubi trasparenti

Il fresco vento alle giornate finite.

Domani il sole una coppa di miele

Porgerà alle labbra intorpidite.

O sole, tu sei l’apostolo migliore.

Le tue parabole non è dato evitare.

Dai alla mia anima remi bianchi.

Nella tua baia blu voglio remare.

In primavera

Icone, silenzio e penitenti,

A voi d’inverno il mio salmo è cantato.

Trovo la mia impronta dell’anno scorso

Su un allegro ciottolo asciugato.

Le nostre anime sono laghi scorrenti:

Tutto fluisce ciò che nei sogni era.

Da un bambino con occhi di fiori

Compro un soldino di primavera.

E le viole si radicano nel palmo

Con un’onda di ametiste-odori.

Per la fervida orazione la primavera

Indossa un felonio* a vivaci colori.

E io vado con gli occhi aperti.

Il vento, ogni mio giorno è disperso.

Solo senti battere sotto le lastre

Il cuore della terra ridesto.

* Paramento dei sacerdoti ortodossi.

Il cammino

I cattivi rametti al buio pungono.

E frusciano presso una porta scura.

Dei miei giorni passerò il recinto,

Prenderò il sentiero dell’aurora,

Per essere una raminga blu.

Messa nello zaino la tristezza,

L’anima non guarderà mai indietro,

In nessun luogo dirà “ormeggia”.

Cogliendo il suono del vento,

Passerò per villaggi ultraterreni,

E con gli occhi – selvatiche api –

Pungerò i tuoi sonni sereni.

E con una stella – candela caduta –

Il mio cammino voglio segnare,

Perché, tenuto il tempo con le briglie,

Tu possa farmi ritornare.

(C) by Paolo Statuti

Frederika Moiseevna Nappel’baum

5 Lug

    

Frederika Nappel’baum

Frederika Moiseevna Nappel’baum, poetessa e fotografa, era la figlia secondogenita del celebre fotografo-ritrattista Moisej Solomonovič Nappel’baum (1869-1958). Nacque nel 1902 a Minsk. Il suo nome è legato soprattutto allo Studio poetico La conchiglia sonora, un gruppo di poeti di San Pietroburgo, formato all’inizio dagli studenti più giovani dello Studio di Nikolaj Gumiljov. Ne facevano parte, tra gli altri, le sorelle Ida e Frederika Nappel’baum, Nikolaj Čukovskij e Konstantin Vaginov, considerato il miglior poeta della Conchiglia. La sua Musa era Frederika. Nel suo romanzo Il canto del caprone egli descrive l’appartamento dei Nappel’baum, dove dopo la morte di Gumiljov si svolgevano ogni lunedì gli incontri letterari, e scrive delle due sorelle: «Era una casa incredibile. Due giovani donne, ed entrambe scrivevano poesie. Una –  nebulosa, malinconica, l’altra – passionale, spontanea. Esse hanno deciso di dividere il mondo in due parti: una prenderà la sua tristezza, l’altra – le sue estasi».

     Ida nel suo libro di memorie Angolo di riflesso scrive: «Musa della Conchiglia sonora era per tutti Frederika. Questo scrivevano i giovani poeti sulla sua copia della raccolta di poesie degli studenti. Lo stesso Nikolaj Gumiljov scrisse questi versi nella copia, donata a Frederika, del suo libro La tenda (1921), dove raccolse il meglio delle sue poesie su temi africani:

O unico guerriero, come il tuo valore,

così non ha fine il mio favore.

     Frederika scrisse poesie dall’età di nove anni. Scriveva poco, di rado, con ispirazione. Lei non capiva quelli che erano sempre con la penna in mano…Dopo la morte di Gumiljov, Kornej Čukovskij divenne la nostra guida. Egli percepiva la poesia di mia sorella come una nota pura, e amava dire: «Ed ora “dulcis in fundo” ascoltiamo i versi di Frederika». Secondo Jurij Tynjanov, lei era come l’arpa in una orchestra, capace di unire in poesia la purezza del suono e la profondità del pensiero. Voglio sottolineare che la fonte principale della sua ispirazione era il vento. Un giorno, nella mia dacia, a un tratto annunciò con un sorriso eloquente: «Vado a fare una passeggiata. Oggi c’è vento». E tornò con una poesia, era come se fosse la sua parola d’ordine poetica».

      A questo proposito, Nikolaj Korneevič Čukovskij (1904 – 1965) scrive nel suo libro di memorie So quello che ho visto: «Un giorno Blok visitò la Casa delle Arti e il seminario di poesia tenuto da Gumiljov. Gli studenti leggevano i loro versi: entrambe le sorelle Nappel’baum, Konstantin Vaginov, Daniil Gorfinkel’ e altri, io per fortuna no. Blok ascoltava accigliato, sprezzante. Non fece nessuna osservazione, non elogiò nessuno, solo di tanto in tanto chiedeva di continuare. Loro leggevano e lui ascoltava sempre imbronciato.  Fece alcune domande che non avevano alcun nesso con i versi letti. A Frederika chiese: «Cosa amate più di tutto?» e lei rispose: «Il vento».

     Nel 1926 la Conchiglia sonora pubblicò il volumetto di appena 46 pagine Poesie 1921-1925 di Frederika, grazie al contributo di parenti e ammiratori. Nikolaj Zabolockij, piuttosto critico nei confronti delle raccolte dei poeti di Leningrado, e soprattutto scettico verso la “poesia femminile”, apprezzava le poesie di Frederika. Gli piacevano i suoi versi. Secondo il critico letterario Igor’ Loščilov la poesia La ragazzina-sorella con la testa ricciuta servì da spunto a Zabolockij per la sua famosa poesia La ragazza brutta.

     Alla fine degli anni ’20 Frederika partì per Mosca, dove lavorò nello studio di suo padre. Scrisse poco. Era restia a pubblicare. La maggior parte delle sue poesie è stata inserita nella raccolta Poesie 1921-1957, di sole 86 pagine, uscita a San Pietroburgo nel 1993. Morì nel 1958, lo stesso anno di suo padre.

     Purtroppo di questa poetessa non sono riuscito a trovare in yandex più di cinque poesie. I suoi due libretti del 1926 e del 1993 non figurano nei cataloghi di nessuna biblioteca italiana.

Poesie di Frederika Nappel’baum tradotte da Paolo Statuti

*  *  *

Mi è caro ricordare

Le deserte e stupende ore,

Quando sul paese aleggiava

Un immenso splendore.

Quando in file rianimate,

Le strade con chiasso e senza gente,

Sorgevano i palazzi, e la pietra,

Come fiamma, cantava un verso ardente.

E – nuovo battito di vita –

Passarono come riflessi-istanti

Sullo specchio d’un bicchiere d’acqua

Due ali fiammeggianti.

E da questa linea vacillante

Ormai per sempre separati

Dalla soffocante dolcezza,

Della quale eravamo inebriati,

Noi sentiamo un lieve suono

Nella polvere di età decadute,

Noi guardiamo il nero splendore

Di rive ancora non vedute.

1923

*  *  *

E questa casa, come saldo tronco,

Cos’è per essa un coro non accordato?

Sopra – candele che ardono senza fiamma,

Sotto – una valle col prato argentato.

Ma come un rametto spuntato di notte,

Per l’ultima volta prendendo respiro,

Tu ti staccherai – in raggi neri,

In un ardente slancio, in vano sfolgorio.

Il solido tronco tra gli altri rami

Ti colmerà di tristezza e fedeltà,

E la tua ombra, di te stessa più chiara,

Ritmicamente tra loro oscillerà.

1924

*  *  *

La ragazzina-sorella, con la testa ricciuta

Cammina al sole, come bocciolo di roseto,

I suoi falpalà come attenta folla

Con un sussurro bleso le si accalcano dietro.

Improvvisa una nube su di lei s’è fermata,

Due foglie come scarabei in volo…

Già l’alba nella nebbia l’ha impaurita,

Muove le ali, come per staccarsi dal suolo,

Lei, la sorellina, ancora non lo sa –

Con una bambola a tre facce si diletta,

Come  bambola a tre facce la sua alba va

Nel cielo assonnato, con l’infantile cuffietta.

Agosto 1925

*  *  *

Le dita germoglieranno in foglie,

E i piedi nell’argilla induriranno,

Non perché in volo

Mi sfiorerà bruciando

Il Citaredo dal volto d’argento,

Il lanciatore di un disco di fuoco –

Nel semplice paese, dove la luce è fioca,

Verrà da me un terrestre caro non poco,

E senza mitici prodigi

Facendo la nostra effimera strada,

All’ombra di cieli divini

Giaceremo come la terra umana.

E il nostro corpo fiorirà

In fiori così delicati,

E di nuovo la volta sarà deserta

Sopra gli occhi sotterrati.

1926

Paesaggio con altalena

L’altalena si alzò. E, per un attimo ferma,

Quasi in verticale la tavoletta vibrava.

E il cielo rombava da un estremo all’altro,

E in cielo per campi il fiume andava.

Quali mani s’impigliano in funi dorate?

Quale corpo sulla terra nera si protende?

Non è chiaro, non si vede…Ma, forse un alato,

Ma, forse un folle, o un semplice demente.

E in quali occhi come cornice s’è aperto

L’abisso ricciuto dalle nubi ombrato

Da dove i villaggi correvano a balzi,

Come stormo di cardellini spaventato.

E tutto crollò. Ma perché questa invidia?

Con gli occhi aperti nella semioscurità

Davvero neanche tu capirai fino in fondo,

Come nel vano della finestra nessun giorno resterà.

1928

(C) by Paolo Statuti