Archivio | luglio, 2017

Racconto di Paolo Statuti

24 Lug

 

 

 

 

 

                                          Lultima volta

 

Dio, colma la mia solitudine

con la Tua solitudine. Acco-

gli la mia solitudine nella

Tua solitudine…

                                                                                                       Anna Kamieńska

 

– Mamma, dammi un po’ di soldi…è l’ultima volta, te lo giuro…dico sul serio, devi credermi, aiutami, non resisto, soffro troppo…

La donna fissava il volto smunto e gli occhi slavati del figlio che continuava ad implorarla e a giurare che avrebbe smesso di bucarsi. Le tremavano le gambe. Si sedette lentamente, con un movimento quasi meccanico. Il giovane era lì a due passi da lei, eppure la sua voce le giungeva sempre più smorzata e lontana, finché cessò del tutto. In quel momento si sentì sola, come su una spiaggia deserta, e le sembrava di udire il rumore pigro e ovattato della risacca. La solitudine era una pesante pietra che la schiacciava, era una ferita aperta nella quale la nostalgia affondava implacabile i suoi artigli, nella quale batteva senza tregua il passato con tutto il suo bagaglio di dolori, pentimenti, delusioni, speranze, rimpianti: il parto diciotto anni prima, il divorzio, l’infanzia difficile del figlio, l’incapacità di essere più severa quando le circostanze lo imponevano, il suo amore forse esagerato, i tentativi – all’inizio ostinati – di ritrovare la serenità interiore…

Il figlio la scosse afferrandole un braccio:

– Ma a che stai pensando?! Insomma, vuoi darmi questi soldi, o preferisci che vada a rubarli?

La madre si riscosse, lo fissò ancora un attimo con lo sguardo assente, poi con voce fievole e rassegnata disse:

– Mi hai detto tante volte che volevi smettere…come posso crederti?

Senza aggiungere altro si alzò, si tolse la chiave dal collo e aprì il cassetto del comò, prese i soldi e li porse al figlio:

– Tieni e ricordati solo questo: quando ti buchi è come se l’ago della siringa trafiggesse il mio cuore.

– Mamma, te l’ho detto, è l’ultima volta che ti chiedo i soldi, ho deciso davvero di smettere, domani mi faccio ricoverare…beh, ciao, non lasciare la luce accesa e va’ a letto.

Appena la porta si richiuse alle spalle del giovane, la donna cominciò a prepararsi per uscire. Aveva assoluto bisogno di un po’ d’aria, di guardare la gente, camminare, entrare un momento in chiesa, aveva bisogno di sentirsi ancora viva. Da due anni, ogni giorno, mentre lavava, cucinava o faceva la spesa si ripeteva: devo salvarlo, devo fare qualcosa per salvarlo. Le aveva tentate tutte, per tirar fuori il figlio e se stessa da quell’inferno. Un giorno, sconvolta dalla disperazione e dall’ira aveva perfino provato l’irresistibile impulso a uccidere uno spacciatore che aveva visto davanti alla scuola del figlio. Con un lungo coltello da cucina nella borsa si era avvicinata furtivamente alle spalle dello spacciatore, ma prima che avesse il tempo di estrarre il coltello, egli si era voltato…aveva ancora i lineamenti di un giovane, ma sembravano come rosi dai tarli, come accade con un bel mobile di noce; tutta la sua persona sapeva di stantio, come se internamente qualcosa si stesse decomponendo…forse la sua anima – pensò la donna. Aveva provato ripugnanza – o forse pietà? – e inoltre che cosa avrebbe ottenuto uccidendolo?

Vide che la chiesa era ancora aperta e vi si diresse. In ginocchio davanti al Crocifisso piangeva e pregava, confortata dalla tristezza di Cristo: «Signore, Tu che sei drogato d’amore tocca il cuore ai trafficanti e agli spacciatori, anche una pietra si scalda se ci batte il sole, aiuta i drogati – sii Tu la la loro eroina…»

Uscita dalla chiesa si sedette su una panchina. Vi restò solo qualche minuto, non riusciva a stare ferma, era troppo agitata e decise di tornare a casa per prendere un calmante.

 

In un boschetto alla periferia della città. Al tramonto.

Lui: – Sai, ieri ho conosciuto un assistente sociale, dice che se lo vogliamo veramente può farci uscire da tunnel. All’inizio sarà molto dura, lo so, ma penso che valga la pena di provare. Punto e basta, fine della dolce illusione.

Lei: – Sì, hai ragione, lo penso anch’io.

– Hai una mentina? Ho la bocca amara.

– Tieni.

– Questa sera siamo soli…non vedo neanche Franco, ultimamente era proprio conciato male.

– Già, chissà cosa gli sarà successo…

– Tu ce l’hai la roba?

– Sì, l’ho avuta da uno nuovo, non l’ho mai visto prima, speriamo che non sia robaccia.

– Anch’io l’ho avuta per la prima volta da uno di colore che bazzica dalle parti della stazione. Fammi vedere la tua…beh, sembrerebbe ok, del resto fra un po’ lo sapremo.

– Sai, i due vecchi diventano sempre più pesanti, ormai non li reggo più, minacciano perfino di denunciarmi. Tu è un bel po’ che ti buchi, ormai tua madre deve averci fatto il callo…

– Cambia discorso, per favore!

– Beh, allora sei pronto?

– Aspetta ancora un momento. Guarda che colore strano ha il cielo, ha una faccia lugubre, non ti pare?

– A me non sembra.

– Guarda, un topo! In questo istante mi piacerebbe diventare un gatto per dargli la caccia. Deve essere un sacco divertente. E’ una bestia straordinaria, così agile e furbo e affamato di carezze.

– Quando parli così mi commuovi, caro il mio bel micione.

– Ti piacciono i canti zigani?

– Non li conosco.

– E’ grave…ho un disco russo, te lo porterò. Devi ascoltarlo aprendo l’anima al sole, al fuoco, al vento, alle stelle…devi sentire l’amore travolgente, la seduzione dei violini, devi vedere le tracce dei carri, il fango sulle ruote…oh, che vita stupenda!…Che ore sono?

– Le nove.

– Verrei che questo giorno non finisse mai…beh, penso sia ora, cominciano a tremarmi le mani…vedi? Fammela tu, oggi, dai fa’ presto!

Trascorso soltanto un minuto lo vide sbarrare gli occhi e illividire…si irrigidiva sempre più…cercava di dire qualcosa ma non riusciva ad articolare una sillaba; con le ultime forze le strinse la mano e si accasciò tra le braccia della ragazza. La giovane urlava, urlava a squarciagola, chiamava aiuto in preda al panico. Finalmente arrivò l’ambulanza e lo trasportarono d’urgenza al pronto soccorso.

 

E’ già notte. Nella stanza immersa nel silenzio e rischiarata debolmente dalla luce lasciata accesa nell’ingresso, squilla il telefono.

– Pronto…

– Pronto…

– Qui è il pronto soccorso dell’ospedale Santa Caterina. Lei è la signora Maria? La mamma di Giulio?

– Sì, mio Dio…cos’è successo?!

– Signora, sia forte, purtroppo suo figlio…overdose…non ce l’ha fatta…signora…mi sente? Signora, risponda! Signora…(rivolto a un infermiere) Presto, l’ambulanza. Dobbiamo sbrigarci, poveretta…deve essere svenuta…forse il cuore…

 

(C) by Paolo Statuti

Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882)

23 Lug

Henry Wadsworth Longfellow

 

   210 anni fa nasceva a Portland il poeta Henry Wadsworth Lonfellow, rappresentante del romanticismo, considerato accanto a Walt Whitman il principale poeta americano.

 

5 poesie di Henry Wadsworth Longfellow tradotte da Paolo Statuti

 

Uccelli migratori

Nere ombre scendono

Dagli alti abeti,

Che contro il cielo alzano

Compatte pareti;

 

E dalle corone

Degli olmi ombrosi

Come marea il buio sommerge

I campi intorno a noi spaziosi.

 

E’ una notte d’incanto,

E dappertutto

Empie l’aria un caldo lieve vapore,

E sembrano vicini i suoni distanti,

 

E in alto, nella luce

Della notte stellata,

Volano rapidi gli uccelli migratori

Nell’atmosfera aspersa di rugiada.

 

Io sento il battito

Delle loro penne passare,

Dalla terra del nevischio e della neve

Un caldo prato essi vanno a cercare.

 

E sento il grido

Delle loro voci in alto

Che scende come in sogno dal cielo,

Ma le loro forme non vedo.

 

No! E’ un’illusione!

Quei suoni che fluiscono

In mormorii di gioia e di afflizione

Non vengono dalle ali degli uccelli.

 

Essi sono le schiere

Di canti dei poeti,

Mormorii di pena, peccato e piacere,

Il suono di parole alate.

 

E’ il grido

Delle anime che alte volano,

Con le penne che battono a stento,

Cercando un clima più propenso.

 

Dal loro volo distante,

Attraverso regni di magia,

Esso cade nel nostro mondo della notte,

Con il mormorante suono della poesia.

 

 

Un salmo della vita

 

Non dirmi in tristi versi

Che la vita è un sogno vuoto!

Che l’anima che sogna è morta,

E le cose sembrano ciò che non sono.

 

La Vita è reale! La Vita è sincerità!

E la tomba non è il suo traguardo;

Sei polvere e polvere tornerai –

Questo l’anima non riguarda.

 

Non al godimento, né al dispiacere,

La nostra fine o via è destinata;

Ma ad agire, e che ogni domani

Ci trovi più oltre l’odierna giornata.

 

Il lavoro è lungo e il Tempo scorre,

E il nostro animo, benché prode e forte,

Come soffocato tamburo batte

Le marce funebri fino alla morte.

 

Nel campo di battaglia del mondo,

Nel bivacco della Vita, ogni momento,

Non essere come muto bestiame!

Sii un eroe nel combattimento !

 

Non fidarti del Futuro, benché lusinghiero!

Che il Passato seppellisca la sua opera!

Agisci, agisci nel Presente che vive!

Il cuore dentro, e Dio al di sopra!

 

Le vite dei grandi ci spingono

A fare delle nostre vite un portento,

E, morendo, a lasciare dietro di noi

Le nostre impronte sulle sabbie del tempo;

 

Le impronte , che forse un altro –

Un fratello solo e naufragato,

Navigando sul maestoso mare della vita,

Vedendo, di nuovo si sentirà rincuorato.

 

Dunque stiamo desti e facciamo,

Con il cuore per ogni evento;

Sempre realizzando, sempre perseguendo,

A lavorare e aspettare impariamo.

 

 

Excelsior

 

Le ombre della sera eran già vicine,

Quando attraverso un villaggio alpino

Un giovane tra neve e ghiaccio passava,

E un vessillo con un motto strano portava:

Excelsior!

 

La fronte era triste, ma il suo sguardo

Balenava come sguainato brando,

E sonava come tromba d’argento

Di quella lingua l’ignoto accento:

Excelsior!

 

In case felici egli vedeva il chiarore

Dei focolari, la luce e il calore;

Sopra, spettrali ghiacciai notò,

E dalle labbra un gemito sgorgò:

Excelsior!

 

Un vecchio disse: “Non tentare la sorte –

Il buio scende, la tempesta è alle porte,

Il torrente è profondo e veloce!”

Ma della tromba chiara replicò la voce:

Excelsior!

 

Disse una fanciulla: “Fermati, o diletto,

E riposa la tua testa sul mio petto!”

Un lacrima brillò nei suoi occhi blu,

Ma gemendo rispose una volta di più:

Excelsior!

 

“Attento al ramo secco che si protende!

Attento alla valanga incombente!” –

Fu la buonanotte di un paesano,

Ma la voce rispose dall’alto e lontano:

Excelsior!

 

Mentre, volgendo al cielo lo sguardo,

I devoti monaci di san Bernardo

Recitavano la loro preghiera,

La voce gridò nell’aria vibrando:

Excelsior!

 

Un viandante, dal suo cane fedele

Fu trovato semisommerso dalla neve,

Stringendo nella mano, ormai morto,

Il vessillo con quello strano motto:

Excelsior!

 

Là nella fredda e grigia luce della sera,

Senza vita, ma bello, egli giaceva,

E dal cielo, serena e distante,

La voce scendeva come stella filante:

Excelsior!

 

 

Elegia

 

Cupo è il mattino nella foschia; nello stretto sbocco del porto

Immobile giace il mare, sotto un tendaggio di nubi;

Come in sogno brillano le vele nel lontano orizzonte,

Simili a torri di una città costruita ai margini del mare.

 

Lente, solenni e calme esse solcano l’oceano;

Con loro i miei pensieri fluiscono sull’immenso abisso,

Sempre più avanti spinti da inappagati desideri,

Fino alle isole Esperidi, fino alle rive dell’Ausonia.

 

Le vele sono svanite, sono scomparse nell’oceano;

Il mare ha inghiottito le torri della città!

Tutte sono svanite, tranne quelle ancorate nella rada

Senza vele, dalla foschia trapelano così grandi.

 

Svaniti sono anche i pensieri, le oscure inappagate brame;

Inghiottite sono le torri di nubi dall’oceano dei sogni;

Mentre in un paradiso di quiete il mio cuore si rifugia,

Legato con le catene dell’amore, ancorato alla fede!

 

 

Il fabbro del villaggio

 

Sotto un frondoso castagno

Sta la fucina del villaggio;

Forte e vigoroso è il fabbro,

Le mani grandi e venate;

E i muscoli delle braccia

Saldi come sbarre temprate.

 

Lunghi i capelli, crespi e neri,

La faccia dal fuoco abbrunita;

La fronte di sudore intrisa,

Guadagna solo onestamente,

E guarda il mondo negli occhi,

Perché a nessuno deve niente.

 

Ogni settimana fino alla sera,

Senti il suo mantice soffiare;

Senti il suo pesante martello

E dei colpi il ritmo cadenzato,

Come fa la campana del paesello,

Quando la sera il sole è già calato.

 

I bambini che tornano da scuola

Si fermano e amano guardare

La fiamma che si leva dal forno,

E udire del mantice il mugghiare,

E prendere le scintille che intorno

Si alzano come stoppia dall’aia.

 

La domenica si reca in chiesa,

E siede tra i suoi ragazzi;

Ascolta il sermone del pastore,

Ascolta la voce della figliola,

Che canta nel coro della scuola,

E ciò rallegra il suo cuore.

 

Gli ricorda la voce della madre

Che ora canta in Paradiso!

E pensa a lei una volta ancora

Che giace nella sua buia dimora;

E con la sua ruvida mano

Asciuga una lacrima dal viso.

 

Tra pene, gioie e fatiche severe,

Percorre la strada della vita;

Ogni mattina un nuovo dovere,

E ogni sera lo vede compiuto,

Ha tentato, ha fatto qualcosa,

E la notte sereno riposa.

 

Grazie, grazie , o nobile amico,

Per la lezione che tu ci hai dato!

Così nella fucina della vita

I nostri destini devono essere foggiati;

E ogni ardente azione, ogni pensiero,

Sull’incudine devono essere lavorati.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

Janusz Korczak (1878-1942)

12 Lug

 

 

Janusz Korczak, 1933

  

 

Medico, umanista, pedagogo e scrittore ebreo polacco. Pseudonimo del dottor Henryk Goldszmit, che dedicò la sua vita a scrivere libri sull’educazione dei bambini nello spirito della fratellanza tra i popoli. Direttore di una casa per bambini ebrei, chiuso con tutti gli altri abitanti tra le mura del ghetto di Varsavia, che venne letteralmente raso al suolo dopo uno spietato e sistematico rastrellamento, si lasciò portare assieme ai suoi orfani nelle camere della morte di Treblinka, e ne volle condividere la sorte, nonostante la possibilità che aveva di essere aiutato dai suoi amici polacchi. Oltrepassò con i suoi bambini la porta della camera a gas, lasciando dietro di sé una leggenda. Tra le sue opere, ricordiamo: Sława (La fama), Józki, Jaśki i Franki (diminutivi di nomi polacchi) e Joski, Mośki i Srule (diminutivi di nomi ebrei), e ancora Król Maciuś Pierwszy (Re Matteuccio I), Kajtuś czarodziej (Kajtuś il mago), Kiedy znów będę mały (Quando di nuovo sarò bambino), Jak kochać dziecko (Come amare i bambini).

Pubblico qui la sua Preghiera dell’artista nella mia traduzione.

 

La preghiera dell’artista

 

Ti ringrazio, o Creatore, per aver voluto creare un essere strano come me. Ingarbugliato contro ogni logica, eppure tale come dev’essere; del resto forse Ti servo, dal momento che esisto. Quanto più insensato, tanto più Ti sono riconoscente – io – protesta – impertinenza – sfrontato padrone di me stesso nell’indocile gregge, io – burlone – Pesce d’Aprile e albero Aswattha.

La mia preghiera, o Creatore, non è quella di un tempo, quella di tutti, ma è la mia di oggi – proprio in questo – questo unico momento, che non si ripeterà più. Per intenderci: sono il Tuo giullare – profeta – e Fratello! Io – ma lo so forse chi sono? Lo so che non mi conosco, a volte assurdamente dignitoso e a volte dignitosamente assurdo – fiero, umile, tenero, minaccioso, sdegnoso mi strofino come un gatto, nascosto spiffero tutto, vendo lacrime, perdo bastoni e temperini, attento alla minima ombra di schiavitù in arrivo, non spezzo ma brucio i ceppi – e soltanto nel più lieve sussurro io Ti vedo, o Creatore, e per questo Ti sono immensamente grato. Non credi che ho voglia di pregare? Ma sì! Per far dispetto ai pretuncoli – sei Dio – lo so che significa.

Ti ringrazio, o Creatore, per aver creato il maiale, l’elefante con il lungo naso, per aver lacerato le foglie e i cuori, e aver dato i musi neri ai Neri, e alle barbabietole lo zucchero. Grazie per l’usignolo e la cimice, grazie perché la ragazza ha il seno e l’aria soffoca il pesce; perché ci sono i lampi e le amarene, perché è stupendo che ci hai ordinato di nascere, perché hai talmente intontito l’uomo, da fargli pensare che non è possibile diversamente; perché hai dato la Mente alle pietre, al mare, alle persone.

La Mente che al prossimo racconta balle e per se stessa fantastica superbe favole. Non il cielo – essa ha le più vermiglie albe e i più vermigli tramonti – essa è aquila, furfante, menzogna. Oh, come l’amo!

Salta le lezioni – indovina dove gironzola, finché la briccona non tornerà imbrattata, diversa dalla gente, e così astutamente pentita, e così allegra, giura di correggersi – lo stupido le crederà – sa che la perdoneranno, la mascalzona.

Tutto presagisco, non so niente. Considero stupide le verità lette; hanno un valore che osservo attraverso il buco della serratura, e quindi in modo impreciso, perciò mi sbaglio sempre; tanto meglio. Sono!

Non so niente. tutto indovino. Lo sai, o Creatore, che significa: tutto!

Non sono affatto servizievole, e porca miseria devo essere il primo; la speranza la perdo solo per cinque minuti, tutto ciò che è saggio lo inizio da domani; mi riempio di sabbia  dall’ombelico in su, mi crogiolo al sole; compatisco la pera, sola nel campo, e bacio un vecchio sulla spalla. Seriamente mi gratto la pancia, faccio le capriole in aria e avrò sempre sedici anni, farò i giochi da cortile, fischierò con le dita e perderò tutti i bottoni dei calzoni. Dalla testa ai piedi non sono affatto servizievole, oh come sarebbe povera l’umanità senza di me! Le insegno ad amare il peccato e gli incendi e a respirare a pieni, pieni, pieni polmoni.

Su un mio unico quesito sgobbano tutta la vita cento ottusi professori. A rosate dolci orecchiette mando la buonanotte, a migliaia di ragazze e ragazzi. Spalmo la pomata su tutti i cani rognosi. Prendo al collo il passato che cerca di liberarsi e lo rivelo. E con la pistola tiro al futuro come a un bersaglio. E bevo il sole, senza battere gli occhi. E così qualcosa mi dice che ci hai creati di punto in bianco, e hai inclinato l’asse della terra per fare uno scherzo, e che allora dovevi essere un po’ ubriaco: un artista non si crea a mente lucida. E i loro, di quelli di là, gli unici sogni arcifestivi – sono il nostro pane quotidiano.

Non mi piacciono solo quelli che non bevono;  ho paura solo di quelli che ambiscono e sanno ciò che vogliono.

I miei istanti – solo trovatelli e figli illegittimi – senza assistenza né ordine – ballano sulla corda, inghiottiscono le torce.

Rubo una pera nel frutteto altrui; misfatto non grave – non fuggo, ma volo via leggero; sempre in tempo, ubriaco, mi sveglio, da una pozzanghera esco imbiancato, e Dio non si adira con me – è indulgente.

Tutto amo spensieratamente – con gioia – senza preoccupazioni.

Furbo di tre cotte, ingenuo come una ragazza, quando crede. Mi osservo e sorrido, oppure litigherò con forza. Colleziono perline, spalanco gli occhi, dirò a un lampione: «Solo tu sei saggio e bello». Ogni giorno noto qualcosa di nuovo in ciò che guardo da anni – stupito all’improvviso che il cane abbia la coda, che il tram vada sa solo e la betulla sia così bianca.

Povera coccinella, quando l’occhio ti duole, povera è ogni, ogni, ogni vita terrena.

Sono nato, o Creatore, cinque secoli in ritardo, cinquecento anni in anticipo. Per questo sono così allegro e triste: perché vivo, ho già finito di vivere, ancora non ho cominciato.

Tu ed Io – o Creatore, nessun altro. Ma Io – siamo noi, Noi tutti. Noi – la blasfema sinistra del Tuo Parlamento e del Tuo Trono, Domine, canes (1). Noi, gli arcobaleni del tempaccio autunnale, tra i Tuoi figli pazze creature, noi – neve di luglio – papaveri rossi dei ghiacciai – noi – vele spiegate. Non fa niente se col gomitolo della nonna giochiamo col gattino – noi abbattiamo i troni dei despoti, noi alziamo torri solitarie. Noi da un’anima folle facciamo scaturire un’azione lucidissima, noi obbedienti ai rulli dell’organetto – con un inno al futuro pugnaliamo il presente, moriamo e risuscitiamo per ordine nostro, noi nei cimiteri di tutti gli insuccessi disprezziamo i successi a ricordo della comune impotenza.

Per questo, o Creatore, Ti benedico e con un brivido punto tutto su una carta – lo Stupendo Piacere della Vita.

Va banque (2): La Vita per la Creatività.

 

 

(1) Domine, canes (lat.) – (del Tuo Trono) o Signore, i cani (N.d.A)

(2) Va banque (franc.) – tutto su una sola carta (N.d.A.)

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

Andrzej Titkow

11 Lug

 

Andrzej Titkow, poeta, regista, sceneggiatore polacco, è nato a Varsavia il 24 marzo 1946. Come poeta ha debuttato nel 1963 sul settimanale Tempi moderni, e come regista cinematografico nel 1971 con il documentario In questa non grande città. Ha realizzato più di 80 documentari e alcuni film a soggetto. Ha pubblicato tre raccolte di poesie: Introduzione a un poema non scritto (1976), Annotazioni, scongiuri (1996) e Cantico dei Cantici al contrario (2016).

Di quest’ultima raccolta egli dice: «E’ come un diario lirico tenuto per più di mezzo secolo. La poesia è stata il mio primo amore e non l’ho mai tradita. A volte penso di  essere soltanto un poeta che fa anche dei film. Solo la poesia, come in genere l’arte, riesce a reggere il peso esistenziale del singolo individuo, ad esprimere le sue gioie e sofferenze, la sua impotenza verso ciò che lo aspetta. Seguo da tanto tempo il mio proprio sentiero e cerco di non accrescere il caos. Ancora non ho detto tutto e sono sempre pronto ad accogliere nuove sfide».

Il giornalista e poeta polacco Ludwik Lewin, in un suo articolo dal titolo Andrzej Titkow ovvero l’ontologia dell’inesistenza, scrive: «Fin dall’inizio la filosofia di Titkow è stata dolorosa. Dolorosa fisicamente. Con il dolore terminano (e iniziano?) i tentativi di amare, di descrivere la propria esistenza e il proprio posto tra gli uomini: “qualcuno mi ha colpito egli era me, io ero lui, ma mi doleva il braccio, mi dolevano gli occhi”…E gli uomini? Sono, ma non ci sono, come quando “si intravedeva la separazione, benché non si fossimo ancora incontrati” e là, dov’è “quella ragazza così vicina, che è intoccabile”. E io? “Io cinto di me da ogni lato, ma non autosufficiente, esige un nome”. Di fronte alla relatività del tempo, alla reiterazione, interscambiabilità e immobilità degli eventi, i nomi hanno un senso? “Ciò che non è avvenuto domani a Budapest, Accadrà oggi a Parigi…” La relatività cronologica e geografica conduce all’impotenza, e il suo effetto deve essere l’incompiutezza…Le poesie di Titkow è diretta alle apprensioni, ai timori, agli spaventi che prova ognuno di noi. E – paradossalmente – riescono a mitigarli».

 

 Poesie di Andrzej Titkow tradotte da Paolo Statuti

 

 

Risposta

 

con ponderazione dalle parole troncare

con la scure del verso tutto il superfluo

e le parole comporre finché risuoni una musica soave

ma questo mondo non conosce armonia

dunque tutto ciò che potrò fare è chinarmi

e bere a volontà dal pigro fiume del consueto

è così che nasce il verso

che non riuscirà ad annotare

o qualcosa che annoto con cura benché verso più non è

volentieri ti do ragione – la Danimarca è una prigione

ma la prigione più amara è nell’intimo –

questo silenzio

 

1968

 

La protesi

     Non so da quando, da quanto tempo colui

che parla in mio nome non è più

me stesso, non so da quando, con che diritto parlano

con la mia bocca i nemici, gli amici nonché

il passante comune, lo statista sfinito

dalla vita, grigio come il muro, sotto il quale ogni giorno

si ferma, per riprendere fiato

Non so a chi appartiene questa voce

che emana da me, voce che potrebbe

essere la cosiddetta voce della coscienza –

tanto è smorzata, incolore, randagia

Davvero non so chi parla in mio nome

e in nome di chi parla in me questo ventriloquo

Colui che parla, benché non sia me stesso,

vuole essere udito oltre le parole, nelle parole

e a dispetto delle parole vuole essere ascoltato,

tra le molte voci vuole riconoscere la sua voce

Questo caso, quale io sono, questa necessità

che il mio io crea, cinto di me da ogni lato,

ma non autosufficiente, esige un nome

 

1973

 

 

A cena

                                                                    – Amleto, dov’è Polonio?

                                                                    – A cena.

                                                                    – A cena? dove?

                                                                    – Non là, dove egli mangia, ma là,

                                                                      dove mangiano lui

 

Già si mettono a tavola, secondo il protocollo,

il cui senso, benché oscuro, non è del tutto occulto.

I loro volti estranei, ma come familiari.

I loro volti ben noti, sebbene quasi estranei.

Fra i commensali tramena la servitù:

affila i coltelli, pulisce le forchette, perché il pasto

si svolga nel debito modo, con cura asciuga

i bicchieri, perché in essi il sangue abbia il suo colore.

Colui che non si è mai affaticato a pensare,

gustando il tuo cervello dirà che avevi spesso pensieri banali.

Colui al quale non volevi porgere la mano, spolperà

fino all’ultima fibra le tue mani amputate.

Colui che ha una pietra nel petto, mangiando il tuo cuore

si lagnerà che è duro.

E ancora – se amavi – ti faranno il terzo grado,

infilzeranno il tuo amore al freddo spiedo dello scherno

e lo gireranno finché rinnegherà se stesso.

Ed esporranno il tuo amore sulla piazza del mercato,

dove la marmaglia indiscreta, poiché non amava mai,

si befferà ancora delle tue spoglie mortali.

 

Ti mangeranno,

perché rechi in te la fame.

Ti svenderanno,

perché

non vuoi fissare il prezzo.

Avveleneranno tutti i pozzi,

perché sei assetato.

 

1973

 

 

 

 

*  *  *

 

e perché le albe non siano cinte di filo spinato

perché gli occhi non siano segnali ammonitori

e perché i colloqui non siano torri di controllo

perché i giorni non siano sale d’aspetto dei dentisti

e perché i giorni non siano come stazioni di villaggi

dove davanti a un gotto sbreccato e a una puttana sdentata

si dimentica presto lo scopo del viaggio

 

e perché i mattini  siano chiavi che aprono i catenacci

perché le fortezze abbassino tutti i ponti levatoi

e perché le sere siano come porte spalancate

perché i giorni ardano come falò al crepuscolo

e perché i giorni siano come prato non recinto

e perché sul prato le donne variopinte come farfalle

non muoiano come farfalle appena sfiorate con la mano

 

1973

 

 

*  *  *

 

quella donna così altera,

che è quasi accessibile

quella ragazza così vicina,

che è intoccabile

quell’uomo così cieco,

che è quasi abbagliato

quel ragazzo chiuso –

totalmente aperto

il giorno passa così in fretta,

che diventa immobile

il violino piange tanto,

che sembra di pietra

tu ridi così forte,

che ormai è solo paura

 

1973

 

 

Annotazione del 27 maggio 1996

 

Il ragazzino in me

che scrive poesie

si è ferito al dito

e piange sonoramente

ed io,

quello molto adulto,

con la cartella piena di timbri

non so mai aiutarlo

 

 

Sulle rovine delle note di Prokofiev

 

Sulle rovine delle note di Prokofiev

all’improvviso una musica propria,

indistinta,

segreta,

atonale,

sotterranea,

subacquea.

 

E di nuovo sono un ragazzino,

che sulla strada da casa a scuola,

tra le rovine delle case di un tempo

e i ponteggi che avvolgono le case future,

si ferma di colpo

scosso dal vento del presagio

e con il più grande stupore,

in fervido raccoglimento,

in un segreto abissale,

con le lacrime che affluiscono improvvise

negli occhi spalancati,

chiarisce a se stesso

che diventerà un artista.

 

E adesso sulle rovine delle note di Prokofiev

rigenerate da un paio di belle mani femminili

che battono sui tasti

e un paio di certe mani maschili,

l’arco sulle corde del violoncello,

sono di nuovo

quel ragazzino,

impaurito fino al coraggio,

incerto fino alla certezza,

inquieto fino alla quiete,

umile fino all’orgoglio,

sconfitto fino alla vittoria,

che qui e adesso

nelle rovine delle note di Prokofiev

rinnova la vecchia alleanza.

 

2005

 

Cartolina da Creta

 

Una gatta pezzata

sul bianco muro della taverna,

alture calcaree,

da lontano il pulsare dell’onda,

tre sedie vuote

sotto la parete

di una casa non finita,

ed è come

se niente

dovesse mai finire.

 

La gente nella taverna,

una coppia,

silenziosa,

annoiata di sé,

e un’altra –

mano nella mano,

immersi in se stessi,

uniti per sempre

dal fugace legame del sesso,

si mescolano

gli odori, i respiri,

i passi, le melodie,

si congiungono e si dividono

toccate, sguardi,

 

pensieri, colori

ed è come

se niente

dovesse mai finire.

 

Due salvagente

sulla terrazza della taverna,

il cameriere con la biro sull’orecchio,

Cretesi, Greci,

Tedeschi, Olandesi, Russi,

gente del luogo e turisti,

coppiette homo ed hetero,

single e clan di famiglia,

donne e uomini,

giovani, vecchi, bambini,

nella chioma di un albero

un improvviso strepito di uccelli,

il ritmo cadenzato dell’onda,

l’instancabile canto

d’invisibili cicale,

la gatta pezzata

sul bianco muro della taverna

e benché scenda la sera

è come

se niente

dovesse mai finire.

 

2010

 

Seneca il Giovane, detto il Filosofo

 

Se pensi che vai sempre in salita

e che ti piove sempre sul bagnato,

rilassati, voltati addietro.

Ad esempio quel Seneca il Giovane, detto il Filosofo

eseguì un autentico slalom gigante appenninico.

Lottava con Caligola, Claudio, Nerone,

Caligola che non aveva alcun rispetto del diritto umano,

e considerava diritto divino il suo capriccio,

accusò Seneca di congiura, che non c’era stata.

Seneca poteva perdere la vita, ma non perse la testa,

Per aspera ad astra – affermò in segreto

e l’imperatore con disprezzo lo risparmiò.

Poi anche Claudio lo prese di mira,

la morte era già vicina,

ma riuscì a scamparla,

prima di essere preso.

Alla fine lo sistemò Nerone,

allievo poco diligente, spergiuro, avvelenatore, incendiario.

Lo costrinse nell’angolo,

Seneca non aveva scampo,

quindi aprì le vene

e volò verso gli astri.

 

Sì, sì, vostro Onore,

soffoco, per favore faccia aprire la finestra.

Le pupille finestra dell’anima

sono coperte da una grigia brina,

non hai né un nemico né un amico,

sulle vicine alture

la cetra e la lira dell’alba

strimpella una comune cicala.

 

2014

 

Ornithology

 

E’ possibile che l’uomo chiamato Uccello

potesse sognare nei sogni più elevati,

che tanti anni dopo la sua morte,

un vecchio sconosciuto,

in un paese forse anch’esso sconosciuto,

dopo due birre Kaštelan

infilerà un disco in una stretta fessura

per ascoltare Ornithology?

Quel vecchio,

quel qualcuno ignoto, inimmaginabile,

udrà, forse non per la prima volta

nella sua lunga vita,

quel trillo stanco di uccello,

quell’infaticabile canto del cigno,

inciso quattro giorni dopo la sua nascita.

E’ forse proprio questa  la famosa

immortalità, che inseguono

i mediocri e i geni, i vigliacchi e gli eroi,

i grandi e i meschini, i nobili e gli ignobili,

dai secoli dei secoli, amen?

 

2015

 

 

 

John Donne (1572-1631)

4 Lug

 John Donne

A Valediction: Forbidding Mourning

 

As virtuous men pass mildly away,

And whisper to their souls to go,

Whilst some of their sad friends do say,

“The breath goes now,” and some say, “No,”

 

So let us melt, and make no noise,

No tear-floods, nor sigh-tempests move;

‘Twere profanation of our joys

To tell the laity our love.

 

Moving of the earth brings harms and fears,

Men reckon what it did and meant;

But trepidation of the spheres,

Though greater far, is innocent.

 

Dull sublunary lovers’ love

(Whose soul is sense) cannot admit

Absence, because it doth remove

Those things which elemented it.

 

But we, by a love so much refined

That our selves know not what it is,

Inter-assured of the mind,

Care less, eyes, lips, and hands to miss.

 

Our two souls therefore, which are one,

Though I must go, endure not yet

A breach, but an expansion.

Like gold to airy thinness beat.

 

If they be two, they are two so

As stiff twin compasses are two:

Thy soul, the fixed foot, makes no show

To move, but doth, if the other do;

 

And though it in the center sit,

Yet when the other far doth roam,

It leans, and hearkens after it,

And grows erect, as that comes home.

 

Such wilt thou be to me, who must,

Like the other foot, obliquely run;

Thy firmness makes my circle just,

And makes me end where I begun.

 

 

Un commiato: divieto di cordoglio

 

Come un vecchio in sereno trapasso,

Prega la sua anima di andare,

Mentre gli amici affranti non sanno

Se è già morto o continua a respirare:

 

Così separiamoci in silenzio,

Senza lacrime e senza dolore;

E’ profanare le nostre gioie

Dire a un profano il nostro amore.

 

Un terremoto porta danni e paure,

Le sue rovine l’uomo ha ben presenti;

Ma i tremiti delle sfere celesti,

Pur assai più grandi, sono innocenti.

 

L’amore degli amanti sublunari

(La cui anima è il senso), l’assenza

Non ammette, perché sottrae ad esso

La sua più naturale essenza.

 

Ma il nostro amore è così puro,

Che anche noi di esso siamo ignari,

Sicure entrambe le nostre menti,

Faremo a meno di occhi, labbra e mani.

 

Alle nostre anime unite in una,

Il mio distacco non recherà rottura,

Ma ancor di più si espanderanno,

Come l’oro battuto in sfoglia si sfigura.

 

Se devono essere due, esse sono due

Come le gambe gemelle del compasso;

La tua anima, fissa, sembra immota,

Ma si muove se la mia fa un passo.

 

E benché essa stia ferma al centro,

Quando l’altra gamba gira intorno,

Essa si piega e verso l’altra tende,

E si raddrizza, quando l’altra torna.

 

Così tu sarai per me, che devo,

Come l’altra gamba, correre piegato;

La tua fermezza il mio cerchio precisa,

E mi fa finire là dove ho iniziato.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Edgar Lee Masters (1868-1950)

3 Lug

Edgar Lee Masters

 

   La poesia George Gray, inclusa nella celebre antologia Spoon river (1916, edizione definitiva) del poeta americano Edgar Lee Masters, è la voce di un uomo defunto che medita sul disegno della sua lapide. La barca di marmo è il simbolo più appropriato della sua vita –

un mezzo di potenziale movimento e avventura, inciso sulla pietra. George Gray ha trascorso una vita futile cercando sicurezza e comodità. Evitando la delusione, il dolore e il rischio, egli ha trascurato tutto ciò che poteva dare un senso alla sua vita. Egli ci sussurra di non fare lo stesso errore, ma di vivere la vita nella sua pienezza, affinché al termine di essa non ci si debba pentire di non aver fatto le cose che avremmo voluto fare, e di non essere diventati chi avremmo desiderato diventare. Ecco questa poesia nella mia versione.

 

George Gray

Ho studiato molte volte

Il marmo che fu inciso per me –

Una barca con la vela serrata ferma nel porto.

In verità raffigura non la mia destinazione

Ma la mia vita.

L’amore mi fu offerto, ma evitai la delusione;

Il dolore bussò alla mia porta, ma mi spaventai;

L’ambizione mi chiamava, ma non volevo rischiare.

Eppure sognavo di dare un senso alla mia vita.

E adesso so che dobbiamo alzare la vela

E abbandonarci ai venti del destino

Dovunque essi portino la barca.

Dare un senso alla vita può causare la pazzia,

Ma la vita priva di senso è una tortura

D’inquietudine e vuoto desiderio –

E’ una barca che vagheggia il mare, ma ne ha paura.

 

 

(C) by Paolo Statuti

Jan Brzechwa

2 Lug

   Il 2 luglio 1966 morì a Varsavia Jan Brzechwa, scrittore satirico, poeta e autore di notissime favole e versi per bambini, nonché traduttore della letteratura russa. Voglio onorare la sua memoria con questa poesia che ho tradotto oggi. Di lui ho tradotto tra l’altro il celebre romanzo per bambini Akademia Pana Kleksa (Il signor Macchiadinchiostro). Non è morto a metà maggio come voleva, ma si è sbagliato di poco.

Jan Brzechwa

Jan Brzechwa

Morire con tatto

Morite pure, va bene, ma non lo fate

Proprio quando è iniziata l’estate!

Perché allora ognuno pensa alle vacanze:

A Mombasa, a Majorca o in Provance.

Se proprio allora io muoio, con certezza

Sarebbe una vera e propria sgarbatezza!

Bisogna morire con garbo. Chi è garbato

Non muore certo in autunno inoltrato.

Non vorrei che al funerale quelli arrivati

Mi mandassero al diavolo tutti inzuppati,

Che si prendessero un solenne raffreddore,

Per avermi compianto un paio d’ore.

Morire con tatto! Sarebbe un bel guaio

Se il funerale si svolgesse a gennaio.

O a febbraio, quando il freddo più si sente,

E all’idea del funerale trema la gente.

Non voglio che le persone commosse ,

Abbiano per questo le orecchie tutte rosse.

A primavera è il momento più adatto,

Perché un malato grave muoia con tatto,

Il vento di primavera il verde accarezza

E spazza via il lutto e la tristezza.

E la morte sembra un’inezia. Con coraggio

Cercherò di rinviarla a metà maggio.

(C) by Paolo Statuti