Archivio | settembre, 2016

Tomasz Jastrun

21 Set

 

Tomasz Jastrun .   fot. Wlodzimierz Wasyluk/REPORTER

Tomasz Jastrun .
fot. Wlodzimierz Wasyluk/REPORTER

 

 

Tomasz Jastrun, poeta, prosatore, saggista, pubblicista, critico letterario, autore di libri per bambini, è nato a Varsavia il 15 settembre 1950. Figlio di due noti poeti: Mieczysław Jastrun (1903-1983, v. nel mio blog) e Mieczysława Buczkówna (1924-2015). Da molti anni figura di spicco nel panorama letterario e giornalistico polacco. Mi fece visita a Varsavia nel lontano 1983 e in quella occasione mi regalò una copia del suo debutto poetico Senza giustificazione (1978). Ricordo ancora che era in tenuta da tennis, e a tale proposito cito una sua confessione: “Vivo di scrittura e per la scrittura. La mia passione è dare testimonianza al mondo attraverso la parola in differenti forme letterarie e giornalistiche, un’altra mia passione è il tennis…”

Nel 1974 si laureò in Filologia Polacca all’Università di Varsavia. Nel periodo comunista fu legato alla opposizione democratica e partecipò attivamente alle lotte di Solidarność, pubblicando anche sulla stampa clandestina. Negli anni 1990-1994 è stato direttore dell’Istituto Polacco a Stoccolma e addetto culturale in Svezia. Negli anni 1994-1995 ha condotto il programma culturale televisivo Pegaz.

Ha collaborato e collabora tuttora con molte riviste di prestigio, tra le quali Kultura di Parigi, uscita fino all’anno 2000. Più volte premiato per la sua creazione, ha al suo attivo dieci raccolte di poesie, due romanzi e moltissimi feuilleton e reportage.

Nel 2012 ha pubblicato sulla rivista femminile Lo specchio un articolo intitolato Igiene intima della mente. Eccone un frammento: “Mi affascina l’autobiografia che ognuno di noi scrive con le briciole della memoria. Mi piace chiedere alle persone quali sono i loro primi ricordi. C’è in essi qualcosa di delicato, di intimo, ma anche insicurezza di  sé. E c’è sempre una commozione interiore…Nel corso degli anni accumuliamo tanti ricordi da crearne dei magazzini. Che fare perché non prevalgano pensieri e ricordi cupi? In ciò aiuta certamente la meditazione, lo yoga, l’atteggiamento ottimistico verso il mondo. Io, purtroppo, ho un magazzino di fatti imbarazzanti e da far vergogna. Nessuno li sorveglia. Mi visitano in situazioni inattese…Per fortuna sono riuscito a costruire un museo di pensieri sereni e lieti. E’ stato per me un evento importante la creazione di questo intimo ministero che amministra i buoni pensieri. Vi fanno parte insoliti paesaggi, esperienze e ricordi toccanti. Dunque i ricordi si possono accumulare e gestire con affetto…”

 

Poesie di Tomasz Jastrun tradotte da Paolo Statuti

 

Le mucche

Chi non ha mai avuto l’impressione

Che un villaggio visto per la prima volta

Nei vapori della nebbia – sia stato già visto

Con gli stessi occhi – in un’altra veglia

 

In colloqui vibranti di gravità

Ricordiamo questo fatto – l’uomo – diciamo

Ha diverse vite prima e dopo…

L’anima di sicuro non muore

Il corpo sì – ma l’anima dura in eterno

 

E accanto

Le mucche sui prati della verde esistenza

Ruminano ulteriori giorni

E più avanti – le mucche con poppe fatiscenti

Condotte al macello

Muggiscono tristemente – il latte non muore

Il latte dura in eterno

 

Commiato

 

Cosa posso scrivere di questo

Niente e niente non si accordano

Tanto scriveva e parlava della morte

Ed è morto non sapendo che moriva

Poi qualcuno ha gettato il suo nome

Nella fogna di un giornale

Non è andato lontano

Poi alcune persone hanno scavato una fossa

E hanno ricoperto la fossa

Alcune persone del tutto sconosciute

Niente e niente non si accordano

E soltanto i versi spuntano da dietro la morte

Come ali di uccelli

Che non sono riusciti a ripararsi dalla tempesta

 

 

Ancora una volta l’affetto

 

Tutto sparirà

Il colore degli occhi fuggirà via da sotto le ciglia

E andrà a vivere in un altro bosco

I baci appassiranno

Il vento perderà forza e odore

Quello stesso vento

Che ti arruffava i capelli

 

Si salverà il nostro affetto

Un ciottolo con l’occhio chiaro

Rigirato dalle onde

Avanti e indietro

 

I semi

 

Non amo le poesie lunghe

 

La poesia breve è come un sasso

Si può scagliare

Gettare in aria come una palla

O inghiottire prima di addormentarsi

 

Le poesie lunghe sono come strade

Con macchine parcheggiate ai lati

E la folla oziosa che guarda le vetrine

 

La poesia breve entrerà in un solo

Respiro

In un palmo aperto o chiuso

In un solo sospiro e lamento

 

Le poesie lunghe oggi

non sono pratiche

E’ difficile concentrarsi in esse

In un continuo balbettio di fatti

 

La poesia breve è il segno dei nostri

Tempi

Il seme che aspetta la sua stagione

 

Le ciglia

 

Ho toccato

Col labbro screpolato

La sua bocca

E niente è successo

Non mi ha colpito in viso

I suoi occhi non hanno cambiato colore

Soltanto le ciglia

Si sono alzate come ali di uccello

Che non sa

Se restare

O volare via

 

La frontiera

 

I giorni che ci separano

Sono come le scale

Che salirò di corsa

In un fresco pomeriggio d’estate

A casa di lei

Mi sederò al tavolo

Dirimpetto

E berremo il dorato tè

Da due affettuosi bicchieri

E dopo proverò

Se avrò abbastanza coraggio

A varcare la frontiera verde

Dei suoi occhi e arrivare

Fino alle labbra

Con le mie labbra

 

Nella stanza dov’è in agguato l’orologio

La camicia di suo marito

E’ appesa crocifissa alla sedia

E crescono senza fruscio i fiori

Che ci guardano

Con gli occhi sgranati

 

Figlio e padre

 

Non mi piace qui

Mi guarda con rimprovero

E io che devo fare

Non mi scuserò di certo

Taccio soltanto eloquentemente

E lui si stringe a me

Come se capisse

Che dobbiamo resistere insieme

E vivere in armonia

Perché non abbiamo niente

Oltre a noi stessi

 

E un attimo dopo

Ci mettiamo entrambi al lavoro

Lui colleziona

Vecchi biglietti d’autobus

E io parole

Dalle quali ricavo

Bastoni e stampelle

 

Il vecchio poeta sta in ascolto

 

Turbina la cenere sull’erba bruciata

Saltano neri grilli

E c’è un tale silenzio

Che si sente

Come lavorano i cuori

Dei versi

 

Il mio angelo morente

 

E’ arrivato l’Angelo Custode

Non l’ha spaventato la mia età

Neanche un sorriso scettico

 

Si è seduto dirimpetto con aria cupa

E ho visto che era senza ali

Respirava con affanno

Puzzava di vodca e di sigarette

Era vecchio e mi stupii che fosse ancora vivo

 

Sedeva dirimpetto e taceva

Ma io capii tutto

Dietro la finestra il cielo era vuoto

E si sentiva come lavoravano le stelle

Morte api dell’universo

 

L’invidia

 

L’invidia non è un fiume

E nemmeno un mare agitato

Il più delle volte è una mano aperta

 

Su questa mano ci sono fiumi

E mari

E una stretta che non guarda negli occhi

 

L’invidia ha un sesso

Una bocca e ciglia aggrottate

Sulle quali si sono posati

Due stanchi avvoltoi

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

Ewa Sonnenberg: Rue de Buci

19 Set

 

 

Arthur Rimbaud

Arthur Rimbaud

Paul Verlaine

Paul Verlaine

 

   La poetessa polacca Ewa Sonnenberg (v. nel mio blog alcune sue poesie nella mia versione) nell’autunno del 1999 si trovava a Parigi, usufruendo di una borsa di studio. In tale occasione ha cercato le tracce di Arthur Rimbaud (1854-1891) e di Paul Verlaine (1844-1896) in Rue de Buci, dove i due poeti avevano abitato. Seduta in un piccolo caffè di questa strada, ha scritto la poesia “Rue de Buci”, che ho tradotto ora in italiano. E’ un monologo poetico di Paul Verlaine, tornato a Parigi cento anni dopo. Questa poesia sarà inserita nella raccolta di prose poetiche di Ewa Sonnenberg dal titolo “Guida lirica dell’Europa”, che uscirà molto probabilmente l’anno prossimo. Sia questa mia traduzione anche un modesto omaggio a Verlaine, di cui quest’anno ricorre il centoventesimo anniversario della morte.

 

Rue de Buci

Questa strada un po’ pazza un po’ monella

vende ciò che ha di meglio

e il marciapiede ha un’unica soluzione

l’edificio tra Eden Park e il caffè Jade

l’ottico Moret in basso e la porta verde

da qui non ci si ritira

 

quasi dovessi vivere un’altra giovinezza

come se andassi dritto in te e tu non avessi nulla in contrario

infuriato con il cielo che tanto aveva promesso

e merdre ci prese per idioti

un autunno schifoso ma non m’importa

solo che fa freddo manca il calore dai polmoni come i tuoi

(spero che tu sia guarito da quella vecchia bronchite)

 

Rimb aspetto tutta la domenica ha dimenticato di santificarla

se la spassa col caffè del lato opposto

non servono più l’assenzio bevo una cioccolata calda

alzo la testa come allora: settembre 1871

lo stesso tentativo la stessa speranza

 

dal tuo lucernario una goccia di sole entra nelle pupille le aguzza

come al solito non sei in casa ti sei dimenticato?

di nuovo sei andato a peccare? tu infantile torturatore?

fa’ buon viso ancora non abbiamo iniziato il gioco

lascia le malate penne unisciti a me

al lucernario hai cambiato le tendine così candide che vergogna!

è mai possibile? ma perché? hai chiesto un prestito a Gavroche?

no preferiresti spenderli in vino

 

non sono potuto nemmeno salire

lasciare un biglietto sulla porta: tuo Verlaine!

nella fossa delle scale che ci turbava c’è una macchina elettronica

questa porcheria prima non c’era

come te la passi? qui ti rimpiangono più di tutti Judyta Szarlota

ricordano la tua geniale soglia unica nel suo genere

demolitore di buone maniere e di azioni del cuore

madame très Belle ha esposto i gerani è del tutto rincitrullita

comment allez – vous ca ca? chiede con la sua vocetta da soprano

come sempre di ottimo umore

 

muovi la tendina saprò che ci sono che vivi

quel sacro lucernario dal quale gettavi le mie mutande sporche

qui si vergognano della biancheria sporca ignorano la buona poesia

gettavi quegli stracci per imprigionarmi e trattenermi

che tempi!

una pioggia d’insulti bestemmie implorazioni e che gesti signorili

 

qui nessuno adesso fa così è in corso un grande lavaggio

un lavaggio meccanico di biancheria sporca e di cervelli

quel profanato lucernario da cui la prima volta chiamasti Paul!

lo sentii lo sento adesso ti cerco nella folla dei ragazzi

vanno e vengono come di solito accade

tu tutto indorato! nessuno di loro come te

 

guardo annoiato le donne brutte e avvizzite

sono tutte morte le belle prostitute con fantasia

sono rimaste solo quelle smunte malaticce o certe mascoline

le idiote ti falsificano

 

squallido freddo umido gli uomini conducono le loro donne

con la cinta dei pantaloni come col guinzaglio così buffi seri

intorno a me seduti per il pranzo domenicale

ma te lo immagini?

stendono bianche tovaglie parlano battendo le posate sul piatto

provo sollievo io triste poeta con una borsa di studio di Parigi

finalmente volevo farti visita una volta dopo cento anni

devi sapere assolutamente una cosa

la poesia è finita!

nel mio paese i poeti scrivono versi sui barbieri

nel mio paese i ragazzi siedono in silenzio davanti alla loro birra

allo  stesso modo noiosi sia ubriachi che sobri

là dove sono io bisogna chiedere le parole più semplici

là dove sono io non se ne intendono ma sai

finiscono di scrivere i propri inizi e i sicuri insipidi finali

più di tutto il rimpianto della libertà è caduto dai grattacieli

sulla testa sul collo digrigna i denti rosicchia le unghie

 

cerco di passare il tempo nei musei e nelle sale d’aspetto

fuori aliti profumati provo nausea

da cosa mi sarai ridato?

mezzogiorno di tentazione dai capelli d’oro

velenosi campanili pungono l’aria

qualcuno ha visto Rimbaud?

un cane randagio stordito cerca il padrone tra i tavolini

timide nuvole atlantiche corrono in un cielo straniero

hanno il sapore del mare di Calais ah! poter tornare in Inghilterra!

mi sono rimaste solo due sigarette

una la fumerò una la lascerò per te

 

tu ed io è solo una questione nostra

e certamente litigheremmo ci azzufferemmo dormiremmo

arriverebbe la polizia l’ambulanza del pronto soccorso

l’opinione pubblica farebbe esercizi di lingue

 

il sole è geloso di noi fa i capricci e si appanna

come se tu dovessi apparire d’un tratto da dietro l’angolo

darmi la mano e allora questa strada di nuovo soltanto nostra

lanceremmo le bricconate e via di corsa nel rifugio-verso

lo tratteremo come la peggiore sgualdrina

bello e claudicante mi sorride

come se di noi sapesse tutto

e compatisse il vecchio grullo che aspetta la sua giovinezza

il pleure dans mon coeur com’ero così sono rimasto grullo

mi arrampico sulle rocciose rive delle dita

ma non ho ottenuto nessun gesto amichevole

l’ora successiva grida Arthur! mostrati finalmente

il tuo Paul di nuovo piange!

 

non ti addolcirò più con la mia glassa di ragazzo

fra breve le feste bisogna comprare qualcosa sia come sia passarle

presto è l’anno nuovo non si può così a bocca asciutta

da qualche parte là in alto dai serenità pesci vino carta

quanto più potrai Rimb insopportabile irritante

come al solito tu te ne infischi hai dimenticato l’incontro

sei fatto così

 

sono arrivati tutti i vecchi conoscenti chiedono di te

che facce faranno quando ci vedranno insieme

quei parnassiani fetenti Merat Chanal Perin Guerin Carjat

avresti un bel da fare! tu già sapevi come agire con loro

lo ammetto io non avevo mai tanto coraggio

Rimb le feste le vorrei bere bere bere senza sosta con te

sì soltanto tu ed io e nessun altro

piuttosto pii desideri per ragazze liceali

nessun limite sporcizia puzzo miseria

l’inchiostro allungato con l’alcol

 

un furbacchione americano sta fotografando il nostro edificio

la blasfema tana in cui mi sono preso i reumatismi

niente è diverso lo stesso numero slogato

uno per un buon inizio zero per essere umili

 

sulla nostra strada parcheggiano automobili e harley

un traffico simile ai nostri tempi non c’era

e quell’abbagliante negozio di vini

a pochi metri dal tuo portone

quasi fosse aperto in nostro onore

peccato che soltanto ora lo avremmo vicino

senza di te non si sa che fare nessuna idea per la vita

da quando ho perso le chiavi e il numero di telefono

ho abitato sulle strade arredando il loro  freddo

ero tutto: rivelazione vate grafomane

rimatore provinciale beatnik underground

di una grande città e maestro di haiku

 

c’è un profumo di mughetti no non sono ubriaco

divertente sei tu? vicino o forse accanto a qualcun altro?

no non sono geloso sai che non lo sono mai stato

una ragazza vende orologi si avvicina

propone meccanismi dorati solo cento franchi di quei tempi

niente di simile mi posso permettere

ecco un artista della fine del XX secolo

il battello ebbro è affondato è finito contro la moderna torre di vetro

a Montparnasse le vocali sono sbiadite o sono preda dei daltonici

le interpretano a modo loro

perdona non potevo fare niente

 

scendi una buona volta si annuncia un buon inizio

ho tanti anni quanti ne avevo allora non farti pregare sono un ideale

non bevo non fumo ho voglia di donne e bevo il tè con lo zucchero

con te questo non mi succedeva

 

autunno 1999

 

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

Jarosław Borszewicz (1956-2016)

8 Set

 

Jarosław Borszewicz

Jarosław Borszewicz

 

Scrive lo stesso Borszewicz:

“La prima volta sono nato nell’autunno del 1956. La seconda volta sono venuto al mondo a giugno del 1978, quando ho vinto il concorso per il miglior debutto dell’anno. La terza volta sono nato a giugno del 1980, quando ubriaco ho superato gli esami di ammissione alla Scuola Statale Superiore di Cinematografia e Teatro a Łódź, e poi – sobrio  e lucido – mi sono innamorato della più bella ragazza nella storia di questa scuola. La quarta volta sono nato lunedì 14 dicembre 1981 – il primo giorno lavorativo dello stato di guerra, quando la casa editrice di Łódź mi consegnò la prima copia del volumetto del mio debutto poetico Duetto strabico. Ancora ricordo come quel giorno mi sembravano piccoli e innocui di fronte ai miei versi i carri armati che mi passavano accanto. La quinta volta sono nato nel 1985, quando ho avuto l’inconfutabile prova che Dio non esiste. La sesta volta sono nato nel 1987, quando ho avuto l’inconfutabile prova che dio esiste. La settima volta sono nato nel 1998, quando ho venduto la mia cinquantesima sceneggiatura cinematografica e ho ricevuto il premio straordinario per la mia creazione cinematografica e letteraria, e mi sono permesso una vacanza di quindici anni dalla letteratura. L’ottava volta sono nato nel 2015, quando il mio romanzo del debutto (o più precisamente il mio romanzo poetico) Oscurità é riapparso in una veste, quale – per vari motivi – non poté indossare nel 1983.”

E’ difficile classificare questo romanzo: prosa letteraria, volume di poesia o anche romanzo dalla cupa trama…Ma forse non c’è bisogno di farlo, perché l’insolita forma letteraria di questo libro continua ancora oggi a far discutere sul senso dell’esistenza, e dopo tanti anni ha superato brillantemente la prova del tempo. Il lettore si lascia subito trasportare dall’intricato racconto, il cui vero protagonista è la morte. Il narratore lotta con la sua solitudine, con la mortalità sua e dei suoi, e cerca tuttavia di trovare la speranza nell’amore e nell’amicizia.

 

 

Poesie di Jarosław Borszewicz tradotte da Paolo Statuti

 

*  *  *

Meno male che se qui,

perché ieri di nuovo mi doleva il cuore,

e ancora non ho un’idea per la vita.

 

Devi aiutarmi,

perché da sedici giorni piove

e la vita pian piano mi si disfa.

 

Dovevo andare dal dentista,

ma mi si è appiccicata una poesia per te,

e non so a chi lasciarla in casa.

 

Meno male che sei qui,

perché ieri da “Fukier” (1)

di nuovo la morte ha chiesto di me al guardaroba.

 

Oggi ti ho telefonato,

ma la cornetta mi ha morso la mano

e la ferita non guarirà tanto presto.

 

Devi aiutarmi,

perché sono stanco come Dio,

che ha faticato una settimana –

e non ha creato il mondo…

 

  • Noto ristorante di Varsavia

 

 

 

 

*  *  *

solo accanto a te

posso stendermi su un letto di legno

e non pensare

– com’è simile a una bara

 

solo accanto a te

sono un ruscello

che non soffre di amnesia

 

solo accanto a te

il mondo non si disintegra

in ventitré parti

 

solo accanto a te

ci sono tali quarti d’ora

durante i quali non penso alla morte

 

solo accanto a te

muoio più lentamente

più sottovoce

– umanamente

 

*  *  *

mi addolorano gli amori

che non ho vissuto

 

mi spaventano le morti

cui non ho partecipato

 

ho paura dei mondi

in cui non dimoro

 

temo me stesso

che non conosco

 

*  *  *

sempre più spesso

mi servono

quattro pareti di una stanza vuota

 

sempre più spesso

le gambe mi portano

(con piacere)

sui marciapiedi deserti

di città superpopolate

 

sempre più spesso

quelli che non ho trovato

e quelli che non mi hanno trovato

non reclamano

 

sempre più spesso

nella casa vuota

trovo

me stesso

 

*  *  *

Dicono

che la paura ha gli occhi grandi.

E io dico

che la paura

non ha affatto gli occhi.

Perché se li avesse

io stesso

le caverei quegli occhi

con le mie mani.

Ma essa non li ha.

Non ha nessun occhio.

 

 

*  *  *

cerco un mondo

dove una rondine

fa primavera

dove una gatta

non fa la morta

dove quando ti vedono

salutano

cerco un mondo

dove homo homini

homo

 

*  *  *

Fra tutti i viaggi

in particolare amo

le lunghe gite

in me stesso

 

perché il diavolo sa

dove si va

e non si sa dov’è

l’ultima stazione

 

amo questi viaggi

perché

posso intraprenderli stando

in tram

al lavoro

sulla strada

 

amo questi viaggi

perché

tanti paesaggi sconosciuti

tanti luoghi ancora non scoperti

 

amo questi viaggi

che faccio senza biglietto

e da cui torno

con così tanti bagagli

 

*  *  *

Vorrei

capire l’uomo

che salta dal sedicesimo piano

e cadendo grida:

– La morte non esiste!

Vorrei

capire l’albero

che nel cuore dell’estate

si tarla.

Vorrei

capire l’assassino

che s’inginocchia accanto alla vittima

e piange.

Vorrei

capire Einstein

che sul letto di morte dice:

– Muoio

e non so cos’è il vento.

Vorrei

capire l’uomo

che sulla cima dell’Everest

dice:

Adesso

non so come scendere.

Vorrei

capire la goccia di rugiada

che dice:

– Ho paura della pioggia.

Vorrei

capire il re

che il giorno dell’incoronazione dice:

– Ecco, così

si perde la libertà.

Vorrei

capire il ragazzo

che si è tagliato le vene

sull’autoemoteca.

Vorrei

capire l’amico

che è morto due anni fa

e ancora non è tornato.

Vorrei

capire uno

che si guarda allo specchio e dice:

– Questo non sono io.

 

Colloquio con l’Assente

 

non andartene

tutt’al più prenderai il corpo

ma il Resto

in ogni caso

rimarrà con me

 

1

hai lasciato te stessa

o Assente

in ogni luogo dove non ci sei

ho anche troppo di te

 

2

credimi

o Assente

che

dovevo andarmene

dovevo andarmene

per

convincermi che eri

la più saggia

la più bella

la più necessaria

perdonami

ma se non me ne fossi andato

non lo avrei mai saputo

 

3

o Assente

chiamami ogni tanto

sono curioso di sapere

dove e con chi adesso

stai morendo

 

*  *  *

c’è in me

il portone dell’ospedale psichiatrico

che chiude dietro di sé

come il passato

 

e ci sono in me

le maniglie delle porte grigio chiare

la cui assenza

sogno ancora oggi

 

 

ci sono in me

le mani maldestre di un vecchio

che con le lunghe unghie

lacerava la nebbia inesistente

 

e ci sono in me

gli occhi della giovane dottoressa

nei quali vidi

la donna moribonda Alina Szapocznikow (2)

 

c’è in me

l’alba vista

attraverso la finestra coperta della mia stanza

quando non sono  certo

se ciò che brilla

non è per caso

il primo e ultimo

fulmine

 

c’è in me

il piccolo pianeta

che tra poco cadrà nelle braccia del cosmo

 

c’è in me questa poverina

piccolina

questa briciola

 

c’è in me –

la più fedele delle madri

 

c’è in me

quella che ha generato dio

e quella

che lo ha ucciso

 

c’è in me

la pozzanghera dove

nell’infanzia

mi si affondò l’intera flotta di navi di carta

che non risusciteranno mai più

 

c’è in me

una certa città

dove tutte le persone normali

già da tempo si sono suicidate

 

c’è in me

la lettera di Agnieszka

(nella busta chiusa con cura

un foglio di carta in bianco

con il graffio di un’unghia tagliente)

 

 

c’è in me

un libro

che ho paura di scrivere

perché guardandomi negli occhi

non mi salti alla gola

 

c’è in me

la morte

e c’è in me

la vita

 

tutto è in me

e niente è in me

 

(2) Scultrice polacca (1926-1973)

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

Marzanna Bogumiła Kielar

3 Set

 

 

Marzanna Bogumiła Kielar

Marzanna Bogumiła Kielar

 

La poetessa Marzanna Bogumiła Kielar è nata a Gołdap l’8 febbraio 1963. Si è laureata in scienze sociali e insegna pedagogia presso l’Accademia Cristiana di Teologia a Varsavia. I suoi versi sono stati tradotti in 23 lingue e inseriti in circa quaranta antologie. Ha scritto 5 raccolte di poesie, la prima delle quali Sacra conversazione è uscita nel 1992. Ha vinto diversi  premi, tra cui nel 1993 quello intitolato alla poetessa Kazimiera Iłłakowiczówna (1888-1983). Un critico l’ha definita la nuova “Saffo polacca”, dopo la prima “Saffo” Maria Pawlikowska-Jasnorzewska (1891-1945), e questo appellativo non è infondato. La sua poesia infatti evidenzia chiaramente il punto di vista femminile, e la stessa Kielar nelle interviste sottolinea la diversità del modo di scrivere della donna.

Nei suoi versi si avverte la contemplazione della natura, il fascino delle aurore e dei tramonti, l’amore per tutto ciò che merita di essere amato. E’ una poesia di riflessione filosofica e immaginazione erotica, ed è ricca di suggestive metafore. La poetessa si guarda intorno e scopre ciò che senza l’aiuto del verso è per noi una semplice quotidianità – come il vento, le nuvole, come l’aria cosparsa di gelo. Scrive il poeta e critico Wojciech Kuczok: “Un lago, un bosco, la convivenza di donna, uomo e natura, lontana dalla chiassosa civiltà – qui Kielar ha la sua “vita nel bosco”, ma più bella del Walden di Thoreau, perché in essa c’è anche l’amore e ciò che è necessario per vivere in due, “…in armonia con la vita, senza idee, senza desideri”. Tutto il sottile erotismo della lirica di Kielar si realizza nella duplicità – in questo che è il più bello dei plurali, che basta per l’intera umanità. I confini del mondo sono i confini di un giardino; se vi appare l’uomo, è solo come giardiniere che ha cura delle piante o anche della propria unione amorosa, coltivando erbe e amore con pari dedizione.”

Quando penso alla poesia – dice la poetessa – è come se mi trovassi faccia a faccia con cose innominate. Per me la poesia è un tentativo di assimilare ciò che mi sembra definitivo. Io cerco di dargli un nome – per me stessa.

 

 

 

Poesie di Marzanna Bogumiła Kielar tradotte da Paolo Statuti

 

Sacra conversazione

nel silenzio della sera,

come mai la tua improvvisa presenza, tremante e fiduciosa?

Il morbido convolvolo del tatto, come prima di un viaggio

e la sua inevitabilità, come mai?

Come profumo vicino

che alletta la coppa della mano, quando fra tutte

le cose, buone e cattive,

della loro raffinata, effimera abbondanza

ne scegli una senza fretta: una manciata di neri mirtilli

e mi chiudono la bocca

i mirtilli

 

*  *  *

come morirai,  così legato a te stesso, con il sole

tra gli aghi di pino, o luminoso giorno? Con questa

 

abbagliante luce negli specchietti della vettura

quando entro nella strada del bosco; con la rossa sfera

 

sopra l’oscura terra arata

dietro gli stagni, sul solco sensibile al tocco dei piedi.

Quando il vento apre il cielo – e nessuna traccia

è nelle chiome degli alberi. O giorno –

 

con l’ortica che ingiallisce sul sentiero che porta

all’acqua, con la zanzara, imprudente, sul mio polso

– morirò?, così legata a te

e alla notte, all’amore; il cielo come tronco senza scorza

 

 

schiacciato nelle zolle sulle colline.

Sotto di lui le acetose forate si accalcano in un umido fascio.

Lo sguardo si aggrappa a una nuvola, al grigiore

e al suo bordo acceso e spiegato.

 

Nudità

 

i rami rivestiti di bianco e di rosa scuro,

di ronzio delle api;

l’ala del giorno si distende al sole,

nel vento lieve, nei profumi dell’erba falciata

e della lunga matricaria .

La riva dello stagno riparata che si oscura.

La tua mano nei miei capelli e sul collo, soave,

morbida. Tutta la sua fragilità (e il tremito?).

La nudità delle foglie che si schiudono, dei verdi

ora più densi, le dita che fanno scivolare la spallina.

 

Soffione, bile solare

 

Soffione, bile solare

sotto il cielo tranquillo e infiammato

trasparenza di un attimo che fa scorgere

come respira la terra, con quale leggerezza;

la perfetta forma sferica, da cui nulla deriva

 

– appena un po’ di bellezza, la fioritura del soffione

e del bianco trifoglio sui ripidi prati, come ora

nell’aria soffice e azzurrina.

E il sangue, la notte aperta e affamata.

E se è amore, è di rado, malvolentieri

e in qualche modo accanto a noi.

 

 

 

All’alba

 

svegliarti, all’alba: con un peso sulle dita semiassopite,

precedendo la sveglia, prima del viaggio; prima

che la sala d’aspetto della stazione, i marciapiedi

 

s’impadroniscano di noi, ci avvolgano in una fodera metallica,

nel freddo. La luce solo adesso monta i suoi impianti,

dal buio estrae abiti abbandonati, libri – e il sale

 

dell’alba marina

si spande sul davanzale interno. Le nubi sempre più forti,

complicate: lenti giri

di un gravoso tragitto – sulle ali dei gabbiani;

la carta millimetrata della memoria trattiene le inezie.

Innervate come lobo di orecchio, gonfiore di labbra; il gesto,

 

il modo in cui slacci il cinturino dell’orologio e lo togli

dal polso – è adesso la scatola nera ritrovata

nella secca della notte. Nei trucioli

del sonno; il tocco come aprire

 

una sillaba, strascicarla in un sussurro…

(Svegliarsi, ascoltare) –

come si strappano i tendini di quelle ore, e i minuti tornano

e conducono, ormai privi di cronologia

 

una vita autonoma (vibra l’ago magnetico:

la memoria)

 

il lago nella grazia di un bagliore di grafite

 

il lago nella grazia di un bagliore di grafite, prima

del crepuscolo, sul finire di una torrida giornata;

un molteplice gioco di ombre e colore,

e la luce soltanto cala; si addensa il buio

dalla linea del bosco sulla riva opposta

colmando l’aria di un freddo fumo di nebbia;

il nero è sempre più denso

e si chiude il paesaggio

come sesso – per subito cedersi, schiudersi morbido

e abbracciarci, occupati con noi stessi,

sugli asciugamani da bagno distesi sull’erba

 

o rametto oscillante del sole

 

o rametto oscillante del sole,

come paesaggi di viaggio stesi in un chiaro spazio

mi insegni ad amare: non possedendo;

fiorisci nel mio guardare,

nel bianco silenzio della parete, incorporeo;

le labbra di chi sono in te, accese dal grido,

quando muori sulle anche, intrecciato in alto,

imprendibile?

 

Quando scorro come prato sotto l’ala del falco,

con chi scorro? Sotto il cielo inclinato,

aperto come eco;

e dove scorro?

 

In giardino, a piedi scalzi

scuoto una formica dal piede

e guardo che ne farà della vita donata,

di questa sua goccia di tempo.

Nella gialla luce del sentiero rincorre le altre,

che uccidono un insetto, vivaci, ingorde.

Ignara della mia breve esitazione.

 

Presso una calda pietra, in un rovescio di sole,

di pesanti frutti

solo questo vedi occhio a quanto pare penetrante,

occhio cieco del poeta:

soltanto questo fiore rapace dal bel nome greco

/tanathos/, come si apre e si chiude.

E non puoi capire ciò né verificarlo in qualche vivo

modo. Ciò che anche a te una volta per sempre

verrà dato; quasi nere, dolci

le visciole colte sanguinano sulla mia mano.