Archivio | settembre, 2013

Aneddoti nella musica

26 Set

 

 

   Oggi pubblico 24 divertenti aneddoti musicali, scelti e tradotti da me dal volume Anegdota, ciekawostka i dowcip w muzyce (Aneddoti, curiosità e facezie nella musica, Ediz. Polihymnia, 2012) del musicologo polacco Janusz Nowosad, lo stesso autore del libro La musica che scorre dai versi, da cui ho tratto le poesie del mio precedente post.

 

   Un pianista principiante e presuntuoso chiese al compositore e pianista italiano Franco Alfano (1876-1954):

   – Sopra al pianoforte dovrei appendere il ritratto di Chopin o quello     di Mozart?

   – Meglio quello di Beethoven.

   – Perché proprio Beethoven, e non Chopin o Mozart?

   – Perché Beethoven era sordo!

 

                                                 *  *  *

   Per la solenne inaugurazione del monumento a Ludwig van Beethoven (1770-1827) giunsero a Bonn personalità da tutta l’Europa. La tribuna per gli illustri ospiti sfortunatamente però era stata messa in modo tale che la statua di Beethoven si vedeva girata di spalle. Quando venne scoperto il monumento tutti restarono sbigottiti, ma il cerimoniere non si perse d’animo e disse:

   – Lor signori perdonino! In vita era un po’ zotico e tale è rimasto anche dopo la morte!

 

                                                  *  *  *

   Un giovane musicista chiese al compositore francese Hector Berlioz (1803-1869) un giudizio sulle sue composizioni. Berlioz, dopo aver dato loro un’occhiata, dichiarò:

   – Mi dispiace, ma devo confessarle che lei non ha alcun talento musicale. Finché è ancora in tempo, si scelga un’altra professione.

   Quando il giovane avvilito era già in strada, Berlioz si affacciò alla finestra gridando:

   – Ragazzo! Devo anche confessare che quando avevo la tua età, i professori mi dissero esattamente la stessa cosa!

 

                                                  *  *  *

   Johannes Brahms (1833-1897) entrò in un ristorante e  ordinò il vino migliore. Il proprietario per soddisfare la richiesta del celebre cliente portò una bottiglia, dicendo:

   – Questo è superiore a ogni altra qualità, come la musica di Brahms è superiore a ogni altra musica.

   – In tal caso – replicò il compositore – tenga questo vino per sé e mi porti una bottiglia di Beethoven.

 

                                                  *  *  *

   Hans von Bülow (1830-1894) prima di un concerto stava salendo di corsa le scale verso il suo guardaroba, e inavvertitamente urtò un uomo che stava scendendo.

   – Somaro! – gridò lo sconosciuto.

   – Hans von Bülow – rispose il musicista.

 

                                                   *  *  *

   John Cage morendo, disse al notaio che stendeva il testamento:

   – Vorrei che al mio funerale suonasse l’orchestra.

   – Bene, maestro! E quali composizioni vorrebbe ascoltare?

 

                                                   *  *  *

   Enrico Caruso (1873-1921) comprò una casa e ordinò di restaurarla. Durante i lavori, in una delle stanze cominciò a esercitare la voce cantando arie e canzoni. A un tratto entrò nella stanza il mastro muratore e chiese:

   – Maestro, lei vuole vedere la casa ultimata?

   – Naturalmente.

   – Allora smetta di cantare.

   – Perché?

   – Perché tutte le volte che lei canta, i muratori affascinati dal suo canto smettono di lavorare!

 

                                                   *  *  *

   Il compositore russo Piotr Čajkovskij (1840-1893) una volta preparava un concerto in una piccola città. Durante le prove l’obista suonava continuamente troppo forte. Il compositore irritato chiese:

   – Davvero non riesce a suonare più piano?

   – Mah! Se ci riuscissi, non passerei la mia vita in questo buco di paese!

 

                                                  

 

                                                   *  *  *

   George Gershwin (1898-1937) chiese a Igor Stravinskij (1882-1971) di poter studiare con lui. Stravinskij all’inizio si rifiutò, ma poi saputo che a Gershwin le composizioni fruttavano centoventimila dollari l’anno, esclamò:

   – Caro collega, sono io che dovrei prendere lezioni da lei!

 

                                                   *  *  *

   Beniamino Gigli (1890-1957) si espresse così su una certa imponente e corpulenta cantante lirica, che aveva una bellissima voce:

   – E’ un elefante che ha inghiottito un usignolo.

 

                                                   *  *  *

   Durante le prove di un concerto per tromba e orchestra, il solista sbagliava continuamente e stonava, e volendo scaricarsi della colpa disse a Joseph Haydn (1732-1809):

   – Signor direttore, l’orchestra suona così forte, che non riesco a sentirmi.

   Al che Haydn:

   – In tal caso lei è davvero fortunato!

 

                                                    *  *  *

   Una volta un giovane musicista smise di suonare e disse a Joseph Haydn:

   – Dicono che a lei piace ascoltare la buona musica.

   – Non preoccuparti, ragazzo, continua pure a suonare!

                                                    *  *  *

   Quando a Parigi doveva aver luogo la prima esecuzione dell’oratorio La creazione del mondo di Joseph Haydn, il direttore si rivolse ai cantanti pregandoli di indossare abiti adeguati alle parti interpretate.

   – Signor direttore – protestò la cantante che doveva interpretare Eva. – Io sono un’artista rispettabile e nell’abito di Eva non canterò!

 

                                                        *  *  * 

   Un certo aristocratico chiese a Joseph Haydn di giudicare come suo figlio suonava il clavicembalo. Dopo il concerto il padre si rivolse al compositore:

   – Suona davvero bene, vero?  

   – Ha una tecnica formidabile. 

   – Vero, maestro?

   – Sì. Suona le composizioni facili come se fossero estremamente difficili.

                                                   *  *  *        

   Una solista cantava un’aria volgendo le spalle al direttore d’orchestra austriaco Herbert von Karajan (1908-1989). Egli durante l’intervallo si rivolse all’artista:

   – Mi scusi, signora, ma se io dirigo con il tempo di tre quarti, non agiti il sedere con il tempo di quattro quarti, perché mi confonde!

 

                                                 

 

 

                                                   *  *  *

   Il compositore italiano Gioacchino Rossini (1792-1868) era presente a un concerto di Franz Liszt (1811-1886). Durante l’intervallo uno dei presenti gli chiese cosa pensasse del pianista.

   – Liszt fa così tanto per essere osservato, che a tratti non ho avuto il tempo di ascoltarlo…

 

                                                  *  *  *

   Gioacchino Rossini, venuto a sapere che a Pesaro, sua città natale, volevano erigergli un monumento quando era ancora in vita, disse ai membri del consiglio comunale:

   – Signori! Se darete questi soldi a me, prometto che starò sul piedistallo per alcune ore al giorno!

 

                                                   *  *  *

   Robert Schumann (1810-1856) fu anche un apprezzato critico musicale. Una volta fu assalito da un compositore poco conosciuto:

   – Come ha potuto stroncare in tal modo il mio concerto per violino, se ha dormito per tutta la sua durata?

   – Anche dormire è un certo tipo di critica – rispose Schumann.

 

                                                   *  *  *

   Il direttore d’orchestra Leopold Stokowski (1882-1977) durante i concerti non tollerava alcun rumore. Una volta smise di dirigere e si rivolse alla platea dicendo:

   – Haendel ha creato questa composizione per archi e ottoni. Nella partitura non c’è neanche una nota per tossi e raffreddori.

 

                                                   *  *  *

   Rychard Strauss (1864-1949) dirigeva una prova della Sinfonia delle Alpi. In una parte veloce intitolata Il temporale al primo violino sfuggì di mano l’archetto. Il compositore interruppe la prova e disse:

   – Riprendiamo il temporale dall’inizio, visto che il nostro violinista ha perso l’ombrello.

 

                                                   *  *  *

   Una volta Igor Stravinskij salendo su un taki notò che sulla targhetta di identificazione della vettura c’era il suo nome e cognome. Chiese quindi al tassista:

   – Lei è parente del compositore?

   – Quale compositore? – si meravigliò il tassista. – Stravinskij è il proprietario della ditta per la quale lavoro da trent’anni. Io non ho niente a che fare con la musica. Mi chiamo Strauss!

 

                                                  *  *  *

   Una certa contessa propose al celebre basso russo Fiodor Šaljapin di partecipare a un concerto gratuitamente.

   – Cara contessa, la prego di ricordare una volta per sempre, che soltanto gli uccelli cantano gratis!

 

 

 

 

                                                  *  *  *

   Carl Maria von Weber (1786-1826) andò con un amico alla prima rappresentazione di un’opera scritta dal regio direttore generale, che non sopportava Weber. Durante l’esecuzione l’elefante vero che prendeva parte all’azione, alzò la coda e arricchì la scena di un ulteriore accessorio. Allora l’amico sorrise e chiese al compositore:

   – Carl, cosa pensi dell’educazione di questo animale?

   – Forse questo elefante è male addestrato, ma di sicuro è un eccellente critico!

 

                                                  *  *  *

   Henryk Wieniawski (1835-1880) per un certo periodo fu il violino di corte dello zar Alessandro II. Durante un concerto ai piedi dello zar si era accovacciato il suo cane preferito, il quale appena Wieniawski cominciò a suonare, balzò su ululando. Il violinista spaventato smise di suonare. Vedendo ciò lo zar chiese all’artista:

– A quanto pare il mio cane la disturba…

– Oh no, Maestà Imperiale! Sicuramente sono io che disturbo lui.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

   

La musica che scorre dai versi

23 Set

 

 

   Care Amiche e Amici del mio blog, “rovistando” in internet ho scovato un libro fatto su misura per me. Si tratta infatti di una antologia di poesie dal titolo “La musica che scorre dai versi”, curata da Janusz Nowosad, musicologo e insegnante di musica, e pubblicata dalla Associazione degli Insegnanti di Musica (Lublino 2012). Da questo libro ho scelto e tradotto le seguenti 10 poesie di 10 differenti autori.

 

Ignacy Krasicki (1735-1801)

 

L’usignolo e il cardellino

(fiaba)

Disse il cardellino all’usignolo che se ne stava muto:

“Peccato che canti poco”. L’usignolo rispose arguto:

“Ciò che la natura mi ha dato, eseguo fedelmente.

Meglio poco, ma bene, che molto e assai mediocremente”.

 

Jarosław Iwaszkiewicz (1894-1980)

 

Musica di notte

 

Non inginocchiarti davanti a me amico

Il tempo tra di noi s’è inginocchiato

 

Il tempo suona

dicono gli Italiani

Stupendo è

il nostro grande rasserenamento

 

Il mondo è spaventoso

ma cantano in esso

come in un enorme acquario

betulle volpi

torrenti di fiori

strade nei campi

e case di legno

 

e anche i concerti di Brahms

e i valzer di Chopin

Accogliamo con umiltà

il grande stupore il grande elevamento

la discesa nel sottosuolo

 

Il tempo ha dato il tempo ha preso

che il suo nome sia lavato nella musica

 

Non inginocchiarti da’ la mano

baciamoci

con il bacio della pace

Cos’altro mai ci resta?

 

 

 

 

 

 

 

Maria Pawlikowska-Jasnorzewska (1895-1945)

 

Uccelli di primavera

 

Un uccellino sopra uno stecco

del giardino accanto

con una sega di vetro

suona una triste canzone. –

 

Poco fa suonava un flauto

di melodioso ghiaccio,

ma il sole lo ha sciolto

e in gocce lo ha sparso. –

 

Là ora un altro, più in alto,

ostinato come un Cinese

che scrolla il capo,

scuote una campanella di vetro. –

 

I crochi crescono, veloci,

in una dolcezza colorata,

come se sulla bionda terra

l’arcobaleno si fosse calato. –

 

L’erba cresce all’improvviso

come estratta con la mano,

profumano i candidi fiori,

le balsamine dell’aria,

 

e un merlo nella nera gola

modella una morbida nota,

attinta anni prima

al pozzo di Melusina. –

 

Józef Czechowicz (1903-1939)

 

La musica di via d’Oro

 

Il cielo muta, la sera si è placata,

il vento sussurra ancora, prima di assopirsi.

Il cielo fruscia col violetto.

Il vento – non più il vento – il sorriso.

 

Da via Dominikańska il canto del coro;

le ragazze lodano Maria.

Dall’Archidiakońska gli fanno eco

le arie di un violino solitario.

 

Il silenzio musicale delle case

è congiunto all’arcobaleno,

sulla fronte della chiesa un raggio

scende come ciocca di capelli.

 

Ed ora qualcuno il silenzio ha teso,

lo batte col pugno di bronzo

la campana della sera,

grondando la forza del metallo,

 

comincia a suonare sotto la croce:

 

uno – e due – e tre –

 

Jerzy Liebert (1904-1931)

 

La musica del mattino

 

Lontano e assai leggero

Il vento culla gli alberi e il cielo,

Gli uccelli l’azzurro dalle piccole gole

A gocce spargono nel silenzio.

 

Il silenzio, come vaso colmo

Fino all’orlo di dolce fluido,

Versa l’azzurro nei bicchieri

Di acacia e di gelsomino.

 

L’azzurro si unisce all’argento,

Spruzza un forte aroma,

Agli uccelli le ugole graffia

E nuove gocce risuonano.

 

Marian Piechal (1905-1989)

 

Musica

 

Sogno scorrevole, luce udibile,

con impeto nei sensi versati.

Spirito che dalla sabbia una palma

porta fin sotto le nuvole.

 

 

 

 

Trama inesplicabile

in un tempo senza spazio –

creata come essere immateriale

che non proietta l’ombra.

 

Puro senso nudo, essenza denudata,

ragione ultima di tutte le cose –

e proprio soltanto qualcosa

troppo ardua per la mente umana.

 

La casta religione, la musica,

toccherà l’impalpabile,

l’intimo paesaggio dell’anima,

davanti al quale si chiudono gli occhi.

 

Jerzy Hordyński (1919-1998)

 

Notturno in Fa-diesis maggiore di Chopin

 

La musica riempie la sera,

allontana la memoria,

siamo entrati nell’ora dei presagi

veramente soli.

 

Qualsiasi cosa adesso accadrà,

non soffocherà l’istante,

indovino la morbidezza del tuo volto

dal fruscio delle foglie.

 

 

 

Gli assorti nel respiro del verde

la città trascurerà,

aspettiamo che Dio ci trasformi

in dalie.

 

Anna Kamieńska (1920-1986)

 

Silenzio

 

Mi sono svegliata nel silenzio

come in una tomba appartata

La luce sorride come Beethoven

col sorriso dei sordi

 

E saranno i miei ultimi giorni

i primi come il violino

perché si sappia

che tutto è nel silenzio

 

Nel silenzio sei nato

nel silenzio ti rivolterai

 

Ludwik Jerzy Kern (1921-2010)

 

Cos’è la musica?

 

Cos’è la musica? Non lo so.

Forse semplicemente il cielo

Con le note anziché le stelle;

 

 

Forse un ponte incantato,

Sul quale gli strumenti

Ci aiutano a passare.

 

Tutto – come una volta qualcuno disse –

Ha una base musicale.

Perfino il chiaro di luna.

 

Cos’è la musica? Non lo so.

Forse semplicemente il cielo

Con le note anziché le stelle.

 

Jerzy Harasymowicz (1933-1999)

 

L’organo del villaggio

 

Prendi un vecchietto

Prendi un litro di miele

Prendi un temporale che brontola lontano

Prendi un gatto da dietro la stufa

Prendi un gruppetto di colombi

Prendi la più grassa perpetua

Prendi i cherubini paffuti come luna piena

morsicchiati dalle api del paradiso

Aggiungi tre sorrisi di san Francesco

La querula smorfia di un angioletto

Di’

Mettetevi in posa per una foto di gruppo

E quando l’avranno fatto aspetta che dalla finestra

entri un fascio di sole

d’oro

E quando li avrà del tutto indorati

Quando non si saprà se è un litro di miele

o un cherubino

 

Allora bacia la mano di legno tarlato del santo

che non lontano caccia via una gazza dalla nicchia

 

Fa’ così e l’organo fratello sentirai

brontolare come un leone

nel barocco della criniera

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kazimierz Wierzyński: Bandiere e marce

21 Set

 

 

   Del grande poeta polacco Kazimierz Wierzyński (v. nel mio blog l’articolo su di lui e le sue poesie nella mia versione) pubblico oggi un suo reportage – anche esso nella mia versione –  intitolato Bandiere e marce, tratto da: Viaggio nella nuova Germania (Gazeta Polska 1934, nr. 135). E’ la descrizione del 1 maggio 1934 a Berlino. Oltre ad essere una concisa acuta analisi del nazismo, questo testo mette in luce lo stile di Wierzyński prosatore e maestro delle forme brevi, come appunto il reportage.

 

   Tutta la Germania marcia, tutta la Germania è coperta da un’unica bandiera. In ogni città rimbomba lo stesso passo greve; colonne brune e nere battono la stessa data: 1 maggio. Ovunque c’è un Tempelhof, ovunque vi si ammassano le folle. Esse sono chiuse in un grande gigantesco quadrato. Un lato di esso è formato da un’enorme tribuna, altri due lati si dipartono da questa in profondità, il quarto lato si perde in una lontananza inaccessibile all’occhio. L’intero spazio è cosparso della migliarola di teste umane, due milioni di Berlinesi in piedi con la faccia rivolta verso l’alta tribuna aspettano. Questa faccia non si può distinguere, si è fusa nell’unica massa di file allineate. All’interno del quadrato i singoli spazi sono delimitati da spaccature, lungo le quali passano le staffette e i veicoli con la croce rossa. E’ il pronto soccorso, prestato qui oggi duemila volte.

   Il lieve movimento che regna in questa massa umana pietrificata non potrà mutare la sua immobilità. La nazione uguagliata nelle sue classi e nella sua origine, nel pensiero e nello stato d’animo si è schierata qui e si guarda come allo specchio. Ha marciato con passo uguale e ben allineata, si è schierata in uguali formazioni, si è confrontata con il proprio simbolo. Il vento distende su di essa gli stendardi, le bandiere sventolano sugli alti pennoni sistemati in lunghe file. La loro vista provoca una grande suggestione. Dal centro della tela rossa spicca un nero artiglio in un cerchio bianco. La forma austera e dura della croce uncinata non riesce a nascondere la sua rapacità. Il vento spinge in alto l’artiglio aggressivo, la nera grinfia s’impossessa della folla come un avvoltoio. La folla ha marciato dietro questo stendardo per vedere e ascoltare il capo. E’ ammassata qui da molte ore, sviene dal caldo e aspetta. Sul palco davanti alle tribune per primo appare Goering. Lungo la strada per il Tempelhof si è unito a un gruppetto di quattro, ha marciato tra un operaio e un ragioniere e così fotografato domani sarà su tutti i giornali. Una buona idea.

   E’ un uomo tarchiato e pesante, come composto di due botti; quella di sotto si muove sulle tozze gambe, quella di sopra agita le grosse braccia, nel mezzo ha una cintura tirata al massimo. Cammina davanti al fronte dei reparti e saluta alzando una mano, forse con zelo eccessivo ma in rapporto all’entusiasmo delle folle.

   Hitler ha un’entrata assai migliore. Il suo arrivo è preceduto da un lontano brusio proveniente dal fondo del quadrilatero. I distanti evviva della folla si gonfiano nell’aria. E’ semplice, disinvolto, sorridente. Tra coloro che seguono il cancelliere c’è Goebbels, leggermente zoppicante da una gamba. E’ sempre accanto a lui, non lo precede mai, ha il suo peso anche tra gli altri. Dalla sommità della tribuna egli annuncia il discorso del cancelliere. Dà le spalle al sole, cosicché la sua faccia è in ombra; come una scura macchia si delinea soltanto il contorno della testa ben modellata.

   Goebbels parla come scrive un calligrafo – in modo chiaro, comprensibile e quasi senza sforzo. L’ho ascoltato quattro volte – era sempre lo stesso. Egli non pratica il clamore delle passioni esuberanti, vuole convincere con un sagace argomento. Non si impone e non aggredisce con impeto, piuttosto dibatte e ragiona. E’ un dialettico intelligente e abile, risveglia l’apparato logico del pensiero e poi lo costringe alle conclusioni e ai giudizi previsti. Lascia all’ascoltatore la libera scelta di un’opinione, ma in precedenza le demolisce tutte, tranne quella desiderata. Il volto asciutto dell’ex filologo è scuro, come arso dal calore, da esso tuttavia risalta la freddezza, o forse la glacialità dei fanatici. Goebbels parla e forse agisce anche a freddo.

   Hitler, comune, semplice uomo, quasi the man of the street, parla invece a caldo. Legge il discorso dal manoscritto, ma lo fa come se improvvisasse. Non ha la padronanza di sé e la precisione di Goebbels, si eccita, alza la voce fino a gridare. Gesticola animatamente, incrocia le braccia sul petto, poggia le mani sui fianchi. Sulla fronte gli cade una ciocca di capelli che scosta con semplicità, senza gesti teatrali e senza gettare la testa all’indietro. Propriamente non si sa a cosa gli serva questo soprappiù di civetteria. Si riscalda lentamente, assieme alla massa. Poi ardono insieme. Nella sua passione c’è l’onestà della fede. Crede in ciò che dice, in se stesso e nelle masse.

   Ascolta il discorso il rigido, docile silenzio dell’intera piazza e di tutta la Germania. Gli altoparlanti cospargono di parole efficaci l’immenso quadrilatero, la radio le getta da una città all’altra, i due milioni di ascoltatori diventano sessanta milioni. Ovunque ascoltano, ovunque marciano, ovunque il nero artiglio s’impossessa della folla.

   Dove va la grande marcia? Verso l’unità della nazione tedesca in un unico libero stato tedesco. Queste parole ascoltate tante volte, che si perdono nel tragitto dal padiglione dell’orecchio al cervello, qui sono sempre una santità mistica.

   Come penetrarla, capirla e presentarla nel modo più obiettivo? Combattuto e distrutto deve essere il Tedesco, il quale ha accettato che la sua nazione fosse considerata secondaria e non uguale alle altre. Contrastato e distrutto deve essere lo spirito che ha acconsentito alla degradazione e si è rassegnato alla disfatta. Per loro non c’è pietà. Ci sono i campi di concentramento, le pire sulla Opernplatz e l’emigrazione. Deve nascere un “nuovo uomo tedesco” che sostenga la “volontà tedesca dell’unità” e ridia “onore al lavoro tedesco”. L’uomo nuovo del totalitarismo tedesco si edifica e si forma nelle grandi organizzazioni, in una grande schiera compatta, in una grande comune marcia della massa. Le cifre più basse di questa grandezza cominciano dai milioni. I due milioni del Tempelhof, i tre milioni della Hitler-Jugend, i venti milioni dell’Arbeitsfront, i sessanta milioni di Tedeschi del Terzo Reich. Questi milioni sono condotti all’unità da un uomo solo: der Führer. Le masse si sono rivelate impotenti e incapaci di creare, quando su di esse si abbattevano una dopo l’altra le inarrestabili crisi del dopoguerra. Le masse non potevano risolvere i propri dubbi, non sapevano rimediare al male di cui soffrivano insieme al resto del mondo. L’importanza educativa dei diritti della libertà si è rivelata inferiore all’importanza della libertà distruttiva del male non contrastato. L’impotenza e lo sconforto intaccavano irresistibilmente e in profondità tutti gli strati della nazione. Le crisi del dopoguerra hanno ucciso nelle masse la fede, lo sforzo e la creatività.

   Trentasette partiti politici e trentasette programmi si sono lottizzati la resistenza schiacciata e l’energia annichilita della nazione. In questi lotti si è riversata una folla di molti milioni, priva di lavoro e di pane. Hitler ha ridotto della metà il numero dei disoccupati e Goebbels può dire con orgoglio e al tempo stesso con ironia: quale democrazia e quale liberalismo sacrificherebbe i diritti dell’individuo per agevolare la vita a milioni? E chi, quale democrazia e quale liberalismo è riuscito a fare questo?! Il Führerprinzip non ha paura di mettere a confronto l’idea con la vita. Wir müssen siegen! Andiamo verso la vittoria con una grande marcia generale.

   Verso quale vittoria? In una stanza della Banca del Reich, dietro una porta imbottita, trema per questa vittoria il Comitato dei creditori e a stento rattoppa gli strappi dell’economia. Gonfiata dall’impetuosa politica dell’occupazione, essa scricchiola da molto tempo e se questo scricchiolio non si sente è perché il passo delle colonne che marciano risuona sonoro e disteso sul selciato.

   Verso quale vittoria? Verso il mistico spirito tedesco in cui si incrociano le correnti degli junker con i radicali, il razzismo con il concordato, la morale protestante con il germanismo pagano-statale, l’aristocrazia nietzschiana con il collettivismo del Gleichschaltung.

   La sostanza dell’hitlerismo non è così chiara e fissata come le sue forme sono capaci e salde. Si agita in esse e si mescola un contenuto molteplice e vario, a somiglianza del quadrilatero in cui i volti umani hanno perso i lineamenti e si sono fusi in un’unica massa di identiche file. I quadrilateri si possono rompere con un comando, spostare secondo gli ordini, si può mutare il loro schieramento come nelle manovre. L’hitlerismo vuole soltanto racchiudere l’intero paese in figure geometriche, suddividere tutta la Germania in centinaia di quadrilateri. Effettua la misurazione delle forze, le ammassa e mobilita. Copre tutti con una sola bandiera, si impossessa di tutti con l’acuminato artiglio. E ordina di marciare, indica l’andatura, guida le colonne compatte verso il futuro.

   Non bada allo slancio naturale, autocreativo della vita. Gli sembra che questa marcia sia incerta e troppo lenta; non giunge abbastanza rapidamente alla meta che gli impone dall’alto l’impetuosa volontà dei capi. L’uomo ha deluso i capi, essi non credono in lui; pensano e sentono per lui. L’hanno riversato in una massa innumerabile, nella quale – diventato irriconoscibile – egli si sparge come una migliarola di teste umane.

   …Arduo e gravoso è questo grande giorno. Tutte queste marce, stendardi, tutti questi milioni e queste masse! E un caldo simile e una tale ressa! L’uomo esce dalla massa e torna a casa soltanto verso sera. Si lava la propria faccia sudata e si guarda nel suo specchio privato.

   Alle dieci di sera in ogni fabbrica e in ogni azienda si svolgerà una festa comune, la festa tedesca di tutta la Germania. Il führer l’ha raccomandata ai datori di lavoro e ai lavoratori.

   L’uomo se ne rallegra, egli è felice quando gli si raccomanda qualcosa, è felice quando può sottomettersi a qualcuno perfino nel divertimento. Ballerà un po’, berrà un po’ di birra, riposerà dopo l’entusiasmo. E’ difficile essere sempre grandi come Napoleone, si può anche ridere un po’ ed essere un po’ tristi come Chaplin.

 

 

(C) by Paolo Statuti

Rafał Wojaczek

15 Set

 

Rafał Wojaczek: Ritratto del poeta e pittore Zbigniew Kresowaty

Rafał Wojaczek (Ritratto eseguito dal poeta e pittore Zbigniew Kresowaty)

  

   Poeta e prosatore polacco, annoverato nel gruppo dei poeti maledetti. Nacque a Mikołów il 6 dicembre 1945 e morì suicida a Wrocław l’11 maggio 1971. Debuttò nel 1969 con la raccolta Sezon (La stagione), accolta con lusinghieri giudizi dalla critica. Nel 1970 uscì la sua seconda raccolta Inna bajka (Una diversa favola). Postume uscirono Którego nie było (Colui che non c’era, 1972) e Nie skończona krucjata (La crociata non finita, 1972).

   Scriveva solo quando non era in stato di ubriachezza. Si chiudeva in casa per due settimane e senza interruzione scriveva, correggeva, limava. Poi subentrava un intervallo di due-tre settimane, durante il quale si ubriacava da non reggersi in piedi, faceva scenate, provocava scandali. Più volte tentò di togliersi la vita. I medici gli diagnosticarono la schizofrenia. Questa diagnosi pesò su tutta la sua vita. Egli stesso chiese di trascorrere una settimana in una clinica psichiatrica e lì conobbe un’infermiera che diventò sua moglie e gli diede una figlia. Ma il matrimonio non durò neanche un anno e finì col divorzio.

   Gli ultimi anni furono assai difficili – sprofondando sempre più nell’alcol sentiva di non essere più in grado di scrivere come un tempo. E non potendo scrivere, la vita non avrebbe avuto più alcun valore.  L’ultimo tentativo di suicidio gli riuscì. Su un biglietto scrisse esattamente le dosi e i nomi delle medicine che avrebbe preso. Non si sa se per documentare la sua morte, o per lasciare una indicazione per il pronto soccorso. Comunque sia, aveva ingerito una tale quantità di farmaci, tra cui una forte dose di valium, che neanche un pronto intervento avrebbe potuto salvarlo.

   Principali temi della sua poesia sono la morte, l’amore, la femminilità e la carnalità. L’erotismo e la sessualità sono ripetutamente legati alla morte. Il soggetto lirico dei suoi versi parla del dolore, ha il senso della estraneità, si ribella alla ipocrisia del mondo e della società, e ostinatamente esplora gli angoli oscuri dell’anima umana, analizza le proprie paure, inquietudini, ossessioni. Il linguaggio della sua poesia è spesso naturalistico, brutale e osceno. Ma sotto il volgare strato lessicale di Wojaczek si cela anche un profondo lirismo, un bisogno di tenerezza e una grande sensibilità, come emerge dalle lettere alla madre e al suo grande amore Teresa Ziomber.

   Questo poeta così inquieto e tragico, dalla vita così imprevedibile, morto ad appena ventisei anni non ancora compiuti, è stato uno dei fenomeni più controversi nella poesia polacca del XX secolo. E’ sfrecciato come una cometa, lasciando dietro di sé la leggenda, soprattutto tra i giovani.

 

Rafał Wojaczek tradotto da Paolo Statuti

 

Patria

 

Madre saggia come torre di chiesa

Madre più grande di Romana Chiesa

Madre lunga come transiberiana

E vasta come il deserto del Sahara

 

Madre pia come il foglio del partito

E bella come i vigili del fuoco

E paziente come un inquisitore

E dolorante come nel parto

 

E autentica come uno sfollagente

Madre buona come un gotto di birra

Seni di madre due vodke devote

 

E premurosa come un barista

Madre sacra come Regina di Polonia

Madre estranea come Regina di Polonia

 

Versetto per Miron Białoszewski

Ascoltare fino alla sordità

Affissarsi fino alla cecità

Affannarsi fino all’ultimo fiato

Assorbirsi fino alla distruzione

Ah, assanguarsi – fino al sole!

Amare fino alla repulsione

 

1970

 

Ti parlo piano

Ti parlo così piano come un luccichio

E fioriscono le stelle sul prato del mio sangue

Nei miei occhi è la stella del tuo sangue

Parlo così piano che la mia ombra svanisce

 

Sono un’isola fresca per il tuo corpo

che cade di notte come goccia ardente

Ti parlo così piano come nel sonno

il tuo sudore sulla mia pelle brucia

 

Ti parlo così piano come un uccello

all’alba il sole cala nei tuoi occhi

Ti parlo così piano

come lacrima che scolpisce una ruga

 

Ti parlo così piano

come tu fai con me

 

Mito di famiglia

 

Kiełbasa * –  

Mia madre commestibile

 

E’ appesa a un gancio di nichel

e odora di camino

 

Costa poco del resto non è mai stata cara

era comprensiva e conosceva le possibilità

 

Io sono figlio di mia madre

e di un certo giovanotto

che non fu prudente

e di sicuro cattivo

ma forse soltanto non sapeva

Mia madre allora era stordita

e poi si pentì

 

Adesso io ho fame

e mia madre pende

 

Dunque fisso la vetrina

e sento

che mi cola

la saliva e lo sperma

 

Lo so tra un istante non esiterò più

entrerò e chiederò

proprio questa

Kiełbasa –

Mia madre commestibile

E’ la mia fame dell’infanzia

* Salame in polacco

 

Sii per me

 

Sii per me dai piedi alla testa, dal tallone all’orecchio

Dai ginocchi all’inguine, dal gomito alle unghie

Sotto l’ascella, sotto la lingua, dal clitoride alle ciglia.

 

Sii il polo del mio cuore anormale

Il cancro che mangia il cervello e permetterà di sentirlo

Sii l’acqua dell’ossigeno per i polmoni bruciati.

 

Sii  per me reggiseno, mutande, giarrettiera

Sii culla per il corpo, bambinaia che culla

Mangiami lo sporco delle unghie, bevi il sangue mensile.

 

Sii passione e compimento, piacere, di nuovo fame

Passato e futuro, secondo ed eternità

Sii ragazzo, sii ragazza, sii notte e giorno.

 

Sii per me vita, gioia, sii morte, gelosia

Sii rabbia e disprezzo, disgrazia e noia

Sii Dio, sii Negro, padre, madre, figlio.

 

Sii – e non chiedere come Ti ripagherò

E allora gratis prenderai il più bel tradimento:

L’amore che sveglierà la morte addormentata in Te.

 

La stagione

 

C’è la ringhiera

ma non ci sono le scale

C’è l’io

ma non ci sono io

C’è il freddo

ma non ci sono le calde pelli degli animali

le pellicce d’orso le code di volpe

 

Dal momento in cui è bagnato

è molto bagnato

l’io ama il bagnato

sulla piazza, senza l’ombrello

 

C’è il buio

c’è il buio come il più buio

io non ci sono

 

Non c’è il dormire

Non c’è il respirare

Il vivere non c’è

 

Soltanto gli alberi si muovono

insolito muoversi degli alberi

 

generano un gatto nero

che percorre tutte le strade

 

Scrivo amore

 

per te scrivo amore

io senza nome

animale insonne

 

scrivo spaventato

solo di fronte a Te

che ti chiami Essere

io carne della preghiera

di cui Tu sei l’uccello

 

dalle labbra cola

una goccia di alcol

in essa tutti i soli e le stelle

l’unico sole di questa stagione

 

dalle labbra cola

una goccia di sangue

e dove è la Tua lingua

che calmi il dolore

causato dalla parola morsa

amo

 

 

 

 

*  *  *

I capelli assonnati assonnata la veste Lesbia assonnata

     Il brugo del sonno dolcemente elargisce l’arsenico

L’udito dorme la voce tace Dio muore

     Sordamente fruscia una conchiglia dell’oceano

Il bianco pesce del corpo lentamente nuota

 

 

Di nuovo musica

 

Di nuovo musica: chi ci pensa così intensamente,

che il cuore perde la memoria e batte altrove.

E il noto, benché sempre inatteso, timore

fa sì che i nostri corpi si trovino di nuovo.

 

E di nuovo con le labbra impaurite chiedi abilmente

il mio favore e curi la mia lingua addentata.

Ai freddi piedi permetti che lo spavento li guidi,

perché se avrai fiducia, lui stesso ti mostrerà il modo.

 

E di nuovo sei così premurosa e docilmente

fedele a quell’oblio che la musica

ti offre: l’invito ad accompagnarla col sangue.

E di nuovo la morte ci prende con sé per i suoi scopi.

 

1972

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

I poeti e la poesia

14 Set

 

Alphonse Mucha: La poesia

Alphonse Mucha: La poesia

 

 

Cosa pensano i poeti della poesia? Ho invitato nel mio blog alcuni di loro che mi hanno confessato quanto segue.

 

– Finché non ti sentirai infelice, non nascerà in te la poesia.

                                                                                      Tadeusz Różewicz

– Quando c’è la poesia – anche i poeti sono poesia. Il vero poeta non è poeta. Il vero poeta è la poesia.

                                                                                     Edward Stachura

– Penso di aver calcato nella poesia alcuni propri sentieri, che nessuno ha percorso con me. Se saranno invasi dall’erba o risulteranno utili, non lo so.

                                                                                    Jerzy Ficowski

Portavo la mia poesia come un soldato il nome nella piastrina sul petto, contro le pallottole di due guerre.

                                                                                    Julian Przyboś

– Poesia, per essere te stessa  devi dialogare con la verità.

                                                                                    Mieczysław Jastrun

– La poesia per me è solo un modo di maturare. Per questo non mi vergogno nemmeno dei miei versi più deboli. Essi sono tappe, ricerca, autodeterminazione.

                                                                                    Anna Kamieńska

 

 

– La poesia, signori miei, è il salto,

il salto di un barbaro che ha fiutato Dio!

                                                                                  Julian Tuwim 

 

– Non so cos’è la poesia,

non so perché c’è e a che pro,

ma so che a volte la gente

legge i versi e piange.

                                                           Władysław Broniewski                                

– Vi svelo un segreto:

non leggiamo la poesia perché è bella.

La leggiamo, perché apparteniamo al genere umano

e l’uomo ha i sentimenti.

Medicina, diritto, finanze e tecnica

sono magnifici campi,

ma viviamo per la poesia, per la bellezza, per l’amore.

                                                           Associazione dei Poeti Defunti

Che colpa hai, o Poesia, se non dai da mangiare,

Se a chi ami solo lauri e fiori puoi dare,

Ma con le scarpe bucate e il paltò rattoppato

D’inverno si consola col cielo stellato?

                                                             Aleksander Michaux (Miron)

– La poesia è un pittoresco scarabocchio, da cui deriva niente o tutto.

                                                                                    Karolina Baset

– La poesia protegge dalla distruzione l’alito della divinità nell’uomo.

                                                                                   Percy Bysshe Shelley

 

 

 

(C) by Paolo Statuti