Archivio | agosto, 2013

Michelangelo: La Pietà Rondanini

31 Ago
Michelangelo: Autoritratto

Michelangelo: Autoritratto

 

 

   Mieczysław Wallis (1895-1975) fu uno dei più illustri esteti polacchi del XX secolo. Filosofo e storico dell’arte, professore all’Università di Łódź. Dal suo volume Późna twórczość wielkich artystów (L’opera tarda di grandi artisti), pubblicato nel 1975, ho scelto e tradotto le pagine dedicate alla Pietà Rondanini.

 

   …Nel 1555 circa, all’età di 80 anni, Michelangelo attraversa una profonda crisi interiore. Il nuovo impeto di zelo religioso cristiano legato alla controriforma influisce fortemente su di lui, provoca nella sua anima una tragica lacerazione. Si rende conto che la sua stupenda creazione scultorea e pittorica, con tutto il suo stupore per il fascino del corpo umano, la sua arte di cui era vissuto e che aveva tanto amato, e alla quale aveva dedicato tutte le sue energie, non lo aveva condotto alla cosa più importante: al mondo trascendentale, a Dio (1). Aveva sprecato la sua vita per l’arte. Commovente è il lamento di questo ottantenne:

Le fauole del mondo m’anno tolto

Il tempo, dato a contemplare Idio…

Non meno toccante è la sua confessione:

Ne pinger ne scolpir fia più che quieti

L’anima mia a quell’amor diuino,

ch’asperse a prender noi  ‘n croce le braccia.

 

   Michelangelo tuttavia superò questa crisi interiore. Non rinunciò alla creazione plastica, ma cercò, tramite essa, di esprimere la sua esperienza religiosa. Da questi sforzi nacque l’ultima versione del Pianto, chiamata Pietà Rondanini.

   Il tema del Pianto e quello ad esso legato della Deposizione dalla Croce occupò Michelangelo per tutta la vita. Già all’età di 25 anni scolpì il gruppo che si trova nella basilica di san Pietro a Roma. La bella giovanile Maria regge sulle ginocchia la salma del figlio. Le due figure, quella femminile (vestita) e quella maschile (nuda) creano qui un pacato gruppo perfettamente armonizzato. La serena sofferenza di Maria si esprime unicamente nella lieve inclinazione della testa e nell’inerte abbandono della mano sinistra semiaperta. In quest’opera, che celebra la bellezza del corpo umano ed è così sobria nell’espressione del dolore, ha trovato una delle sue più complete incarnazioni l’idea rinascimentale della bellezza.

   Mezzo secolo dopo, negli anni 1550-1555, Michelangelo scolpì di nuovo un gruppo marmoreo del Pianto o meglio della Deposizione dalla Croce: qui il corpo di Cristo si piega, sorretto da una parte da Maria Maddalena e sostenuto da dietro da Nicodemo (o Giuseppe d’Arimatea) al quale lo scultore diede i suoi tratti. Michelangelo aveva eseguito questo gruppo per la sua tomba, ma insoddisfatto lo distrusse. Fu rimesso di nuovo insieme da uno dei suoi allievi. Conosciamo ancora un’altra versione simile del Pianto, ed è la cosiddetta Pietà di Palestrina, nella quale la Vergine e Maria Maddalena sostengono il corpo di Cristo, ma in questo caso la paternità di Michelangelo è incerta.

   Verso il 1552 Michelangelo iniziò una nuova versione del Pianto. Essa si protrasse, con lunghe interruzioni, fino alla morte dell’artista. Quest’ultima versione incompiuta è nota come la Pietà Rondanini. Difficile trovare un contrasto maggiore tra quest’ultima, opera tarda, e la Pietà del Vaticano, opera giovanile. Nella scultura del Vaticano la bella Maria tiene sulle ginocchia il bel Gesù. L’espressione del dolore materno è quanto mai sobria e repressa. La Pietà Rondanini invece presenta una composizione delle figure del tutto insolita. Maria in piedi è unita al corpo di Cristo, anche lui in posizione eretta. La testa di Cristo pende, il suo corpo si piega alle ginocchia. Maria qui è una vecchia donna logorata, e il suo volto è reso rigido e muto dal dolore. Entrambe le figure, smunte e macilente, quasi prive dei corpi, sembrano congiunte, tanto che è difficile dire se la madre sorregge il figlio o piuttosto non si appoggia a lui. Le linee delle due figure sono spigolose, spezzate. La superficie ruvida, volutamente non levigata del marmo, riflette migliaia di piccole luci, essa stessa sembra emanare luce.

   La Pietà Rondanini fu l’ultima più sconcertante versione del tema che occupò l’intera vita di Michelangelo: il tema del dolore materno per la perdita del figlio diletto – del figlio che con il suo martirio salvò l’umanità. La realizzazione dell’opera si protrasse, con lunghe interruzioni, per una quindicina di anni. Si vede con quale sforzo Michelangelo lottava per dare l’espressione ottimale alla sua nuova immagine del Pianto. Ecco come descrive la nascita di quest’opera Charles de Tolnay: “La Pietà Rondanini è ricordata nella seconda versione del Vasari (1568), il quale ci dice che l’artista, dopo aver mutilato e abbandonato la Deposizione dalla Croce, che si trova adesso nella cattedrale di Firenze, riprese un blocco di marmo, dove aveva già iniziato un gruppo della Pietà. La prima versione risale probabilmente agli anni 1552-1553, e ad essa appartiene il braccio destro staccato di Cristo e il visibile frammento della testa della Vergine. Di questo periodo sono tre schizzi su un unico foglio conservati nel Museo Ashmolean di Oxford, che consentono di ricostruire la prima versione, ispirata da un certo tipo della Trinità. La seconda versione iniziò nel 1555 e ad essa appartengono probabilmente le gambe levigate di Cristo, più allungate e nelle proporzioni del braccio incompleto della prima versione. Secondo Daniele da Volterra, Michelangelo rifece questo gruppo di nuovo sei giorni prima della morte. Distrusse, a quanto pare, la parte superiore del corpo di Cristo delle versioni precedenti, per scolpirla ora sul corpo della Vergine, e cambiò la posizione della testa di quest’ultima, in modo che adesso ella guarda davanti a sé, similmente alla testa di Cristo. Infine la Vergine, anziché sorreggere il corpo del figlio, è appoggiata ad esso, ed entrambi i corpi sembrano come fusi insieme (2).

   I contemporanei e i posteri per lungo tempo non hanno compreso un’opera possente come la Pietà Rondanini. Il Vasari la ricorda, ma solo di sfuggita e quasi con noncuranza: ”Michelangelo doveva pur fare qualcosa per passare le giornate col suo martello, e allora prese un blocco già sgrossato per un’altra Pietà, diversa dalla precedente e di dimensioni assai più ridotte”. Dopo la morte dello scultore il gruppo finì in cantina. Fu tirato fuori da lì soltanto nel XVII secolo e messo nel cortile del Palazzo Rondanini a Roma (di qui la sua denominazione).

   Jakub Burckhardt nel 1855 la ricorda, ma dice tuttavia che “è meglio non guardarla affatto…Come poteva Michelangelo voler ricavare ancora per forza queste figure da un blocco già così compromesso, a danno delle proporzioni del corpo, che nessuno conosceva meglio di lui. Purtroppo, di sicuro, ogni colpo di scalpello è suo”. Una svolta radicale nel giudizio avvenne soltanto all’inizio del XX secolo, anzitutto grazie all’espressionismo. Nel 1909 Wilhelm Worringer nella rivista “Kunst und Künstler” interpretò la Pietà Rondanini come un’opera generata dallo spirito del gotico. L’importanza di questa figura fu messa pienamente in luce nel 1911 da Georg Simmel, definendola tuttavia come “la più ingannevole e tragica” (“das verräterischste und tragischste Werk”) opera di Michelangelo. In un certo senso qui non c’è più alcuna materia, dalla quale l’anima dovrebbe difendersi. Nel 1957 il noto scultore britannico Henry Moore, definì la Pietà Rondanini  “una delle più grandi opere di Michelangelo”. Oggi si trova nel Castello Sforzesco di Milano e costituisce una delle attrattive di questa città, figura sui manifesti turistici e negli annunci delle agenzie di viaggio… In quest’opera che a lungo fu giudicata negativamente o addirittura ignorata, vediamo oggi una delle maggiori affermazioni del genio di Michelangelo (3).

 

NOTE

 

(1) Secondo G. Simmel la tragicità di Michelangelo consisteva nel fatto che, la perfezione raggiunta nel rappresentare le figure umane, non lo aveva avvicinato all’oggetto del suo amore e del suo desiderio più ardente: a ciò che è immenso, assoluto, trascendentale, a Dio. La sua sorte infelice era quella di aver impiegato tutte le energie della sua vita in una creazione che non poteva appagare i suoi più intimi desideri, poiché passava su un piano diverso dall’oggetto di essi.

(2) Tale questione non ha per noi fondamentale importanza. Nella Pietà Rondanini la Madonna sembra non sorreggere Cristo morto, ma appoggiarsi a lui, questo stato di cose ha fatto nascere nel giovane storico dell’arte Aleksander Paź il pensiero che Michelangelo nell’ultima versione di questo gruppo volesse cambiare Cristo sorretto da Maria in Maria sorretta da Cristo, in altre parole voleva trasformare il Pianto per il Cristo in una particolare Assunzione di Maria. E’ un’ipotesi interessante, ma non sembra avere una sufficiente giustificazione nell’analisi di quest’opera.

(3) Ch. de Tolnay caratterizza nel modo seguente la metamorfosi che si è verificata nel nostro rapporto con l’opera tarda del grande artista: “L’ultimo stile di Michelangelo nella scultura e nella pittura fu considerato a lungo l’espressione della sua tragica sconfitta come uomo. Di recente si è consolidato il parere che la completa libertà di espressione egli la conquistò proprio nell’ultimo periodo, e che le sue ultime opere rispecchiano la riconciliazione col destino e la rivelazione della grazia divina. Questo periodo è caratterizzato principalmente dalla sua conversione religiosa, in seguito alla quale cambiarono la forma, la funzione e il significato delle sue opere. Questo cambiamento si svolse in due fasi. Le opere dei primi 15 anni dell’ultimo periodo sono ancora ideate in forme poderose, che rispondono agli ideali del rinascimento italiano, benché il contenuto e lo scopo siano cambiati. Nell’ultimo decennio Michelangelo si liberò da questi principi  estetici, e sviluppò uno stile del tutto personale. Eseguite prevalentemente senza ordinazione, per se stesso, le sue ultime opere possono essere definite confessioni soggettive. Ignorando completamente le opinioni dei suoi mecenati, e non tenendo conto del proprio passato artistico, egli seguì soltanto la sua voce interiore. Respinse del tutto le stupende naturali forme del corpo umano come mezzo di raffigurazione del suo pensiero, aspirando ora a una espressione diretta di tutti i suoi stati d’animo, senza considerare l’armonia razionale e la bellezza del corpo umano. Nelle forme che adesso appaiono allungate e fuse tra loro, egli riuscì ad esprimere la suprema pace cui anelava”.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Michelangelo: Pietà di Firenze

Michelangelo: Pietà di Firenze

Michelangelo: Pietà del Vaticano

Michelangelo: Pietà del Vaticano

Michelangelo: Pietà di Palestrina

Michelangelo: Pietà di Palestrina

i2aa94bd814b94ec4585a999f388e3bb9_big

spoti12

Michelangelo_Pieta_Rondanini

L’arte di vedere il mondo

29 Ago

 

 

   Sono felice di aver trovato e tradotto questo testo dello scrittore russo Konstantin Paustovskij (1892-1968), del quale ho già pubblicato Van Gogh il folle e Gauguin. L’arte di vedere il mondo, tratto anch’esso dal volume Racconti sui pittori (Mosca, 1966, 1981), si addice in modo particolare al mio blog.

 

                                                La pittura insegna a guardare e a vedere

                                                         (sono concetti diversi e di rado coincidono).

                                                          Grazie a ciò nella pittura vive intatta

                                                          la sensazione che è propria dei bambini.

 

                                                          Aleksandr Blok

 

                                                          L’uomo resta sbalordito davanti a cose

                                                          che non possono avere alcun ruolo

                                                          nella sua vita: davanti a un riflesso che

                                                          non si può cogliere, davanti a rupi

                                                          dove non si può seminare, davanti

                                                          al sorprendente colore del cielo.

 

                                                          John Ruskin

 

 

   Ci sono verità incontestabili, che malgrado ciò spesso restano a riposo come i campi, senza avere alcuna influenza sull’attività dell’uomo, a causa della nostra pigrizia o ignoranza.

   Una di queste evidenti verità riguarda l’arte di scrivere, e in particolare i mezzi tecnici e artistici del prosatore. Si tratta del fatto che la conoscenza dei settori creativi confinanti con la prosa di un romanzo – poesia, pittura, architettura, scultura e musica – arricchisce straordinariamente il mondo spirituale dello scrittore e conferisce alla sua prosa una particolare plasticità. Penetrano in essa la luce e i colori della pittura, la freschezza delle parole propria della poesia, le proporzioni dell’architettura, il rilievo e la forza espressiva della scultura, il ritmo e la melodia della musica.

   Essi sono valori aggiuntivi della prosa, in un certo senso – colori supplementari.

   Non credo agli scrittori che non amano la poesia e la pittura. Nel migliore dei casi sono persone presuntuose e d’intelletto piuttosto pigro, e nel peggiore dei casi – sono ignoranti.

   Uno scrittore non può trascurare ciò che amplia la sua visione del mondo, se vuole essere – è chiaro – maestro e non artigiano, creatore di valori, e non un qualunque uomo terra terra, che di continuo consuma i beni della vita, quasi fossero gomma da masticare.

   Spesso accade che dopo aver letto un racconto, un breve o anche lungo romanzo, non resta nella nostra mente nient’altro che un gruppo di figure scialbe. Malgrado tutti gli sforzi, non possiamo vedere questi personaggi, immaginarli, poiché l’autore non ha conferito loro alcun vivo tratto del carattere. L’azione dei racconti e dei romanzi di questo tipo si svolge nel corso di una grigia giornata, priva di colori e di luce, tra realtà solo di nome, perché l’autore, non vedendole lui stesso, non può neanche mostrarle a noi lettori.

   Malgrado la tematica attuale, queste opere sono mal riuscite, c’è in esse un falso vigore che si sforza di sostituire la gioia, soprattutto la gioia del lavoro.

   Questo grigiore deriva non solo dalla povertà spirituale e dall’ignoranza dell’autore, semplicemente egli guarda il mondo con l‘occhio freddo del pesce.

   Verrebbe la voglia di frantumare queste novelle e romanzi, come una finestra ermeticamente chiusa in una stanza soffocante e piena di polvere, affinché il vetro si spargesse tintinnando e subito entrasse dall’esterno il vento, lo scroscio della pioggia, le grida dei bambini, i fischi delle locomotive, il riverbero del lastrico bagnato, affinché entrasse tutta la vita con la sua bella screziatura di luce, con le sue tinte e i suoi brusii.

   Non sono pochi i libri scritti come da autori ciechi. Essi sono destinati a persone che vedono, e per questo la loro apparizione è un nonsenso.

   Per vedere non basta sapersi guardare intorno. Bisogna imparare a guardare. Può vedere pienamente le persone e la terra soltanto colui che le ama. Il grigiore e la banalità della prosa di un romanzo sono spesso la conseguenza del sangue tiepido dello scrittore e un grave sintomo di una sua ossificazione. Ma talvolta è una semplice incapacità, che indica mancanza di cultura, e in questo caso  possiamo dire che la malattia è curabile.

   Come guardare, come cogliere la luce e i colori possono insegnarcelo i pittori. Vedono meglio di noi. E sanno ricordare ciò che hanno visto.

   Quando ero ancora un giovane scrittore, un amico pittore mi disse:

   – Lei non vede del tutto chiaramente, mio caro. E’ un po’ offuscato. E rozzo. Giudicando dai suoi racconti, lei scorge soltanto i colori primari e le superfici fortemente colorate, mentre i passaggi e le sfumature nei suoi occhi si fondono in una chiazza uniforme.

   – Non posso farci niente – mi giustificai. – Ormai questi sono i miei occhi.

   – Sciocchezze! Un buon occhio si può formare. Non sia pigro e si dedichi al suo sguardo. Bisogna, come dire, mantenere l’occhio in forma. Provi per un mese o due a guardare ogni cosa come se dovesse dipingerla. In tram, in autobus, dappertutto guardi la gente proprio così. Dopo due o tre giorni lei si convincerà che prima non vedeva sui volti neanche la decima parte di quello che ha notato ora. E fra due mesi lei avrà imparato a guardare e non ci sarà più bisogno di costringersi a farlo.

   Seguii il consiglio del pittore e infatti – la gente, le cose, tutto si rivelò assai più attraente di prima, quando guardavo in modo superficiale e in fretta.

   Mi rammaricavo di aver stupidamente sprecato il mio tempo. Quante cose interessanti avrei potuto vedere negli anni passati! Ed ora esse sono scomparse per sempre e non potrò più risuscitarle!

   Fu la prima lezione che mi impartì un pittore. La seconda fu più dimostrativa.

   Un giorno in autunno andavo da Mosca a Leningrado. Non passando per Kalinin e Bologoje, ma dalla stazione di Savelovskij, attraversando Kalazin e Chwojna.

   Molti abitanti di Mosca e di Leningrado non sospettano nemmeno l’esistenza di questo percorso. Per la verità è più lungo, ma più interessante della solita strada che passa per Bologoje. Più interessante, perché corre attraverso una regione disabitata e boschiva.

   Mio compagno di viaggio era un ometto dagli occhi piccoli ma assai vivaci, vestito di ruvida tela. Aveva con sé una cassetta piena di colori a olio, e dei rotoli di tela pronta per l’uso. Si trattava dunque di un pittore.

   Cominciammo a parlare. Mi disse che si recava dalle parti di Tichvin, dove viveva un amico guardia forestale, che avrebbe abitato da lui e dipinto l’autunno.

   – Ma perché lei si reca così lontano, fino a Tichvin? – chiesi.

   – Ho lì il mio angolo preferito – mi rispose il pittore in tono confidenziale. – Non ce n’è uno simile. Un altro così non lo trovo. Il bosco, tutti pioppi tremuli. Soltanto qua e là qualche abete isolato. Il pioppo tremulo in autunno prende una veste come nessun altro albero. I colori delle foglie sono così limpidi. Porporine, giallo limone, lilla, perfino nere, picchiettate d’oro. Al sole sembra uno stupendo falò. Lavoro là fino all’inizio dell’inverno, e poi mi trasferisco sul Golfo di Finlandia, oltre Leningrado. Le assicuro, là si trova la brina più bella di tutta la Russia. Non ne ho mai vista un’altra così.

   Dissi – naturalmente scherzando – che avendo un tale bagaglio di nozioni, avrebbe potuto scrivere una guida per i pittori, consigliando cosa e dove valeva la pena dipingere.

   – E cosa crede? – rispose serio il pittore. – Non è difficile scrivere una guida, ma non ha senso. Tutti arrivano nello stesso posto, ma poi ognuno cerca la bellezza per proprio conto. Così è decisamente meglio.

   – Perché?

   – Il paese ci svela allora tutta la sua varietà. La terra russa nasconde tanto incanto, che basta per tutti i pittori per millenni. Ma sa – aggiunse con una punta d’inquietudine nella voce – l’uomo ha cominciato a calpestare troppo e a distruggere la terra. Eppure la sua bellezza è grande e sacra nella nostra vita. Uno dei nostri fini ultimi. Non so lei, ma io ne sono convinto. Chi non lo capisce, non può essere un progressista.

   Poco dopo mezzogiorno mi appisolai, ma il mio vicino ben presto mi svegliò.

   – Non si arrabbi – disse alquanto imbarazzato – ma è meglio che lei non dorma. Davanti a noi c’è uno spettacolo magnifico – un temporale a settembre. Guardi!

   Guardai dal finestrino. Da sud una nuvola lacerata dai zigzag dei lampi occupava metà del cielo.

   – Vergine santa! – esclamò il pittore. – Che quantità di colori! Come rendere questo gioco di luci? Nemmeno Levitan saprebbe come cavarsela.

   – Quale gioco di luci? – chiesi sconcertato.

   – Mio Dio! – si arrabbiò il pittore. – Ma dove ha gli occhi? Vede quel bosco buio e profondo? Cade su si esso l’ombra della nuvola. E là più lontano si vedono macchie di colore giallo pallido e verdastre – provengono dalla luce del sole velata dalle nuvole. Vede? Come se fosse coperto di oro rosso. E tutto controluce. Quasi come una parete di disegni dorati. Oppure come un tessuto steso all’orizzonte, ricamato di oro dalle nostre donne di Tichvin. E adesso guardi quella fila di abeti qui più vicino. Vede il riverbero bronzeo sugli aghi? Proviene dalla parete dorata del bosco, che spande la luce sugli abeti. Luce riflessa. Difficile dipingerla, tanto è delicata. E vede là quel tenue chiarore, direi – tutto leggerezza e fragilità, riuscirà a riprodurlo una mano molto calma e sicura?

   Il pittore mi lanciò un’occhiata e scoppiò a ridere.

   – Quale forza ha malgrado tutto la luce riflessa del bosco in autunno! E’ come se un bagliore avesse inondato l’intero scompartimento. E soprattutto interessante è la sua faccia. Varrebbe la pena dipingerla ora. Purtroppo tutto è così fugace.

   – E’ compito dei pittori – dissi – immortalare le cose fugaci.

   – Ci proviamo – replicò il pittore. – Purché un tale attimo non ci sorprenda all’improvviso proprio come adesso. Per la verità un pittore non dovrebbe mai separarsi dai colori, dalla tela e dai pennelli. Per gli scrittori è più facile. Essi hanno la tavolozza nella mente. Vede come tutto cambia in fretta. Il bosco palpita ora di luce, ora di oscurità!

   Correndo dalla nostra parte le nubi lacerate sorpassavano una nuvola temporalesca e il loro rapido movimento in realtà mescolava sul terreno tutti i colori. Nella distesa del bosco turbinavano adesso l’amaranto, l’oro rosso e bianco, la malachite, la porpora e la plumbea oscurità.

   A tratti un raggio di sole, apertosi un varco tra le nuvole, si posava sulle singole betulle, che fiammeggiavano una dopo l’altra come torce dorate e subito si spegnevano. Soffi di vento che annunciava il temporale aggrovigliavano ancor più quel turbinio di colori.

   – E il cielo, che cielo! – gridò il pittore. – Guardi che sta succedendo lassù!

   La nube temporalesca in volute di fumo grigio cenere si avvicinava velocemente alla terra. Era paurosamente nera, ma ogni zigzag del lampo scopriva in essa vortici giallastri e infausti, caverne azzurro cupo e fenditure viperine, illuminate dall’interno da un riverbero opaco e rosato.

   Le nuvole squarciate dai bagliori scoprivano ogni tanto i raggi ramati che si sprigionavano dentro di esse. E più in basso sopra la terra, tra la nuvola e i boschi, si vedevano già le lunghe lingue della pioggia torrenziale.

   – Incredibile! – gridava entusiasmato il pittore. – Non succede spesso di vedere una tale cerimonia infernale!

   Ci spostammo dal finestrino nello scompartimento al finestrino nel corridoio. Le tendine svolazzavano al vento e facevano lampeggiare la luce.

   Pioveva a dirotto. Il controllore si affrettò a sollevare i finestrini. Obliqui rivoli di acqua scorrevano sui vetri. La luce si spense e soltanto da qualche parte molto lontano, all’orizzonte, attraverso la cortina di pioggia appariva indorata l’ultima striscia del bosco.

   – Si è impresso nella memoria qualcosa?

   – Non molto.

   – Anch’io non molto – disse il pittore con rammarico. – La pioggia cesserà e i colori allora saranno più marcati. Lei capisce, nel fogliame bagnato e sui tronchi il sole scintillerà. Detto tra parentesi, osservi la luce in una giornata nuvolosa prima della pioggia. E’ diversa prima della pioggia, ed è diversa durante la pioggia, ma dopo appare già eccezionale. Perché le foglie bagnate danno all’aria un lieve luccichio. Un grigio soffice e caldo. E in generale, mio caro, esaminare i colori e la luce è un vero godimento. Per nulla al mondo cambierei il mio destino di pittore.

   Scese dal treno di notte a una piccola stazione. Scesi anch’io per salutarlo. Ardeva una lampada a petrolio. La locomotiva ansimava pesantemente.

   Invidiai il pittore e all’improvviso mi irritai per le mie faccende, a causa delle quali dovevo proseguire il viaggio e non potevo fermarmi, sia pure per pochi giorni, in quella regione settentrionale. Lì ogni rametto di calluna poteva far venire tanti pensieri, sufficienti per alcuni poemi in prosa.

   Addirittura inconcepibile era il fatto che in tutta la vita, come del resto accade a quasi ogni uomo, non ho accettato di vivere come il mio cuore mi dettava, ma occupandomi di questioni che non tolleravano indugi.

 

   I colori e la luce della natura bisogna non tanto osservarli, quanto semplicemente viverli. Creando un’opera d’arte bisogna servirsi soltanto del materiale che si è conquistato un posto nel cuore.

   La pittura è importante per il prosatore, non solo perché lo aiuta a scorgere la luce e i colori e a simpatizzare con essi. Il pittore spesso scorge ciò che noi non vediamo affatto, e cominciamo a vedere soltanto grazie ai suoi quadri. Ci meravigliamo allora di non averlo notato prima.

   Il pittore francese Monet giunse a Londra e dipinse l’abbazia di Westminster. Monet lavorava nella consueta nebbia di Londra e nel suo quadro la sagoma gotica dell’abbazia si intravede a stento in questa nebbia. Il quadro è dipinto alla perfezione.

   Quando fu esposto, sorprese i londinesi. Li stupiva il fatto che la nebbia per Monet avesse una sfumatura rossastra, eppure anche un bambino sa che la nebbia è grigia.

   L’arditezza di Monet all’inizio suscitò obiezioni. I londinesi indignati uscivano sulle strade della città, fissavano la nebbia e costatavano per la prima volta che in effetti essa era rossastra.

   Si cominciò subito a cercare una spiegazione di questo fenomeno. Alla fine si convenne che la nebbia aveva una sfumatura rossa, perché era satura di fumo. Inoltre danno questo colore alla nebbia le case di Londra di mattoni rossi.

   In un modo o nell’altro si riconobbe che l’artista aveva ragione. Da allora tutti vedevano la nebbia londinese con gli occhi di Monet. Lo chiamarono perfino “il creatore della nebbia di Londra”.

   Per quanto riguarda me personalmente, tutta la varietà dei colori propria del maltempo russo, la notai per la prima volta guardando il quadro di Levitan “Sopra l’eterna pace”.

   Fino a quel momento ai miei occhi il maltempo era stato noiosamente grigio. Appunto per questo è così triste, pensavo, perché assorbe i colori e copre la terra di grigiore.

   Ma Levitan vide in quel grigio qualcosa di solenne, perfino la grandezza e trovò in esso molti colori puri. Da allora il maltempo non ha più un effetto deprimente su di me. Al contrario, mi sono perfino affezionato alla sua aria pulita, al freddo che punge le guance, alla superficie lucente e increspata dei fiumi, alle nuvole che rotolano pesantemente. Mi ci sono affezionato infine, perché nei giorni di pioggia cominciamo ad apprezzare i semplici beni terreni – il tepore della stanza, il fuoco nella stufa russa, il pigolio del samovar, sul pavimento la paglia asciutta coperta da un grezzo telo, per poterci dormire sopra, il soporifero tamburellare della pioggia sul tetto e il piacevole sonnellino.

 

   Quasi ogni pittore, rappresentante di qualsiasi epoca, di qualsiasi scuola, ci mostra nuovi aspetti della realtà.

   Ho avuto la fortuna di visitare varie volte la Galleria di Dresda.

   Oltre alla “Madonna Sistina” di Raffaello, ci sono moltissimi splendidi vecchi quadri, davanti ai quali è addirittura pericoloso fermarsi. Non ti lasciano più andare. Si possono guardare per ore e ore di seguito, forse anche intere giornate e intere notti, e tanto più a lungo li fissi, tanto più forte cresce nell’animo una inesplicabile emozione, tanto che alla fine è difficile trattenere le lacrime.

   Qual è la causa di queste lacrime, alle quali non consentiamo di scorrere? La perfezione spirituale racchiusa in questi quadri e la potenza del genio, che indirizzano i nostri pensieri verso la purezza, la forza e la magnanimità.

   Quando contempliamo la bellezza, si risveglia in noi l’ansia che precede la catarsi. E’ come se la freschezza delle piogge, dei venti e di un alito della terra in fiore, del cielo settentrionale e delle lacrime che l’amore versa, penetrasse nel nostro cuore riconoscente e non volesse lasciarlo più.

   Gli impressionisti in un certo senso hanno intensificato la luce solare. Dipingevano all’aria aperta e a volte forse rafforzavano i colori volutamente, in modo tale che la terra nei loro quadri apparisse in una luce gioiosa…

   Dopo l’incontro sul treno con lo sconosciuto pittore giunsi a Leningrado. Di nuovo apparvero ai miei occhi i magnifici complessi architettonici delle sue piazze e dei suoi edifici.

   Li guardai a lungo, cercando di cogliere il segreto della loro architettura. Esso si celava nel fatto che questi edifici, in realtà non così grandi, davano un’impressione di monumentalità. Una delle costruzioni più belle, l’edificio dello Stato Maggiore, che con il suo elegante arco si erge di fronte al Palazzo d’Inverno, non è più alto di una casa di tre piani. Eppure sembra imponente, paragonato a un qualunque grattacielo di Mosca.

   La soluzione dell’enigma è semplice. L’impressione di maestosità è creata dalle proporzioni equilibrate e armoniche dell’edificio, che ha una sobria decorazione – semplici cornici delle finestre, semplici cartigli e bassorilievi.

   Osserviamo bene questi edifici e capiremo che il buon gusto è sinonimo di moderazione.

   Sono convinto che proprio il principio delle proporzioni equilibrate, la mancanza di ogni eccesso nella decorazione, il rispetto della semplicità, grazie alla quale ogni linea si mette in luce, procurano un vero godimento, e tutto ciò riguarda in una certa misura anche la prosa di un romanzo.

   Lo scrittore innamorato della classica perfezione delle forme architettoniche, evita nella sua prosa una composizione pesante e goffa. Fa di tutto invece per raggiungere le giuste proporzioni e mantenere la sobrietà nell’uso dei mezzi letterari. Eviterà l’eccesso di ornamenti che rendono prolissa la prosa, il cosiddetto stile ornamentale.

   Bisogna portare la composizione di un’opera in prosa a un livello tale, che non consenta di togliere o aggiungere alcunché, senza rischiare di nuocere al senso della narrazione e al logico sviluppo della trama.

   Come al solito a Leningrado trascorsi la maggior parte del tempo al Museo Russo e all’Ermitage.

   La leggera penombra soffusa di bruna doratura delle sale dell’Ermitage mi sembrava sacra. Ci entravo come nel panteon del genio umano. Qui ancora da ragazzo capii per la prima volta quale fortuna fosse essere uomo. E capii quanto grande e buono egli può essere.

   All’inizio mi sentivo smarrito fra tutti quei magnifici pittori. Avevo le vertigini per la ricchezza e l’intensità dei colori, e per riposare un po’ mi recavo nelle sale dove erano esposte le sculture.

   Sedevo lì abbastanza a lungo. Quanto più guardavo le statue degli ignoti scultori ellenici, o le donne di Canova che sorridono in modo quasi impercettibile, tanto più capivo che quelle sculture sono nella loro essenza un’invocare la bellezza in noi stessi…

   Niente di strano che Heine visitando il Louvre sedesse ore intere davanti alla Venere di Milo e piangesse.

   Su cosa? Sulla vilipesa perfezione dell’uomo. Sul fatto che il cammino verso la perfezione è lungo e arduo, che lui, Heine, che donò agli uomini il suo stupendo sarcastico talento, non avrebbe raggiunto la terra promessa, verso cui tutta la vita lo aveva spinto il suo cuore inquieto.

   Tale è la forza della scultura, il suo fuoco interiore, senza il quale è impensabile la grande arte, e la prosa di grande pregio.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Opere d’arte citate nel testo

Isaac Levitan: sopra l'eterna pace

Isaac Levitan: sopra l’eterna pace

 

La Venere di Milo

La Venere di Milo

 

Raffaello: Madonna Sistina

Raffaello: Madonna Sistina

 

Claude Monet: Il parlamento nella nebbia

Claude Monet: Il parlamento nella nebbia

  

 

   

Paul Gauguin

25 Ago

 

 

   Dallo stesso libro Racconti sui pittori dello scrittore russo Konstantin Paustovskij (1892-1968), da cui ho già tradotto e pubblicato nel mio blog il saggio van Gogh il folle, presento oggi nella mia versione ai miei lettori il testo dedicato a Gauguin.

 

   Aprii la finestra. Nella stanza fece irruzione il vento. In basso si stendeva la città sconosciuta. Il sole splendeva alto sui tetti. Dopo il temporale l’odore di terra bagnata era particolarmente intenso.

   Presi da sotto la caraffa l’orario delle navi, un foglietto di carta gialla satinata, e scrissi a tergo:

   “Essere un vagabondo, raccogliere tutto ciò che capita strada facendo – la nebbia, le facce della gente solcate dalla malattia, poesie che nessuno legge – e pensare a questo con grande diletto, trovare immagini insolite come i sogni e cominciare un’altra vita su questi fogli di carta. Creare il proprio mondo – insolito ed estraneo a tutto ciò che si apre intorno a noi, che è così misero e ridicolmente insensato. «Chìnati sullo specchio della tua anima e proverai diletto. La tua anima cui l’amore darà le ali, si sottometterà e salirà su lontane vette, dove la verità con le mani colme di luce toglierà la cortina al tuo intelletto»”. Posso meditare ore intere su questa massima persiana, trovando in essa sempre nuove profondità.

   Rifletto molto sulle cose accidentali. Ecco un piccolo schizzo a olio conservato nel mio portafoglio. In basso c’è scritto in neretto: A Gauguin – Winkler.

   Gauguin.

   Comincio a pensare alla vita di quest’uomo.

   La madre era una Spagnola dai capelli blu scuri, pronipote di un filibustiere, che morì di sete nel deserto messicano. Il tintinnio delle corazze di rame, il vino e l’oro, il leggendario, mostruoso oro, nonché la sifilide, compromisero il futuro della famiglia cattolica della donna. Mandò il figlio a scuola dai gesuiti. Imparò il latino e i canti religiosi, venne a sapere della immacolata concezione e conobbe il segreto dell’eucarestia. Nelle snelle figure dei padri, nelle loro tonache che odoravano d’incenso, c’era qualcosa dei suoi crudeli antenati. Gli abati furono i conquistatori del grande regno di san Pietro.

   Lasciò la scuola da ateo. Per un po’ di tempo fece il marinaio. Con la voce sorda degli avi lo chiamavano spazi sconfinati. Le rosse tele delle sere subtropicali, indorate vistosamente e con sfarzo, il respiro di una autentica esoticità, erano rimasti nella sua memoria come una fenditura nel vetro. Non è opprimente portare in sé per tutta la vita la nostalgia di un che di quasi fantastico e lontano, unita al desiderio di mostrare tutto ciò con nuovi colori?

   Apparteneva alle terre vergini questo parigino dalla carnagione color caffè e dal bianco giallastro degli occhi irrequieti.

   Una normale vita quotidiana – il lavoro in banca, intrapreso dopo aver lasciato la nave, la famiglia, una casetta con le persiane verdi in un tranquillo quartiere di Parigi, le gite domenicali sul fiume – tutto questo egli sostituì all’improvviso con la vita di un pittore-mendicante. La federa sporca, le guance non rasate, gli avvisi incollati lungo i viali e i primi quadri ancora scuri – ecco l’inizio della sua carriera.

   Detestava Dio e la cultura. Vedeva in essa banalità e torpore. Vivere in città e non conoscere nemmeno la mappa del cielo stellato – è un po’ troppo! Disse così prima della fuga da Parigi. Creato per la grandezza fuggì a Tahiti, isola dell’Oceano Pacifico. Fuggì per sempre e fino alla morte lo affascinò la Polinesia.

   Il sole scioglieva i colori sui suoi quadri. Il succo dei colori, le smaglianti, gioiose tinte colavano dalle sue tele. Blu scuro, sabbia marrone come il corpo di un bambino, i petti delle fanciulle dai capezzoli marcati. L’oro nei limoni, nella mimosa, nelle sere e sulle anche delle donne.

   Dipingeva e la febbre gli scuoteva la mano. Smise e guardò i suoi quadri, le gigantesche penne degli uccelli e per la prima volta credette al racconto biblico della creazione del mondo. Il silenzioso, straordinario mondo sovraccarico di colori densamente stesi lo guardava con bramosia, guardava il suo corpo troppo debole per essere quello di un genio.

   Morì e sua moglie, una ragazza tahitiana, gli coprì gli occhi con i suoi capelli. Era il periodo dei venti, bianche nuvole scorrevano sulle isole. Sembrava che Gauguin si fosse solo assopito.

   Gli indigeni piangevano. Era morto il meraviglioso uomo bianco che con tale rabbia difendeva la loro vita, la loro isola che s’immergeva nello splendore dell’aurora, da altri bianchi – con gli occhiali tondi, i loro sistemi politici, l’aborto, la vodca e la contabilità.

   Prima della morte Gauguin si era spaventato per l’invasione di uomini dall’Occidente. Strisciavano benevoli e tranquilli con le tasche tintinnanti di orecchini e perline. La loro cupidigia sprizzava il veleno della gonorrea, le giovani cominciarono a coprirsi il petto arancione con percalle dozzinale, sulle isole, dove si pregava a una conchiglia e all’acqua del mare, adesso ticchettavano le remington. Nella sua seconda patria Gauguin non voleva far entrare nessun Europeo. Aveva dichiarato all’Europa una guerra impari. E questo ribelle, bestemmiatore, che aveva calpestato il crocifisso, fu seppellito dai preti con tutta la pompa del rito cattolico, considerandolo un fedele figlio della Chiesa.

   Così scomparve Gauguin, l’uomo dallo sguardo accigliato e il torso da marinaio, con le mani che odoravano di resina e di olio, con l’animo di un bambino stanco di meditare continuamente sulla rinascita e infanzia dell’umanità.

   Nelle accoglienti sale armoniosamente tappezzate del Museo Pushkin a Mosca ho guardato i suoi quadri. Ho visto la firma: Paul Gauguin.

   Ricordo il suo autoritratto. Gli occhi guardano tranquilli e severi, lucenti e scuri sul volto triangolare. E dietro le finestre cade, soffice e silenziosa la neve di Mosca e si posa sui rami e sui cornicioni delle chiese.

   I geni semidimenticati, che si sono eretti al di sopra dei comuni mortali, esemplari nella loro mancanza di coerenza, insoliti e capricciosi come bambini. Volentieri li ricordo, mi ripeto i loro nomi. Le riflessioni su di loro commuovono come una preghiera.

   Ricordo molti poeti erranti. La miseria, una tazza di caffè allungato, lo splendore dei grandi successi e l’incontenibile tristezza che ai meno forti corrode il cuore. Il loro contributo – asciugare sul viso uno sputo e strani libri che parlano ai solitari.

   In ciascuno c’è la predisposizione alla genialità. Ma gravoso è il cammino del genio. So cos’è il fremito dell’anima. Arriva di sorpresa in un colloquio animato, durante le meditazioni notturne o un quieto mattino in un porto assonnato. In quei momenti temo il destino di quegli uomini.

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Alcuni quadri di Paul Gauguin

GAP00171gauguin2il-cavallo-biancoimage033250px-Paul_Gauguin_112landscape_with_peacocks_by_gauguinpaul_gauguin_004_danza_quattro_bretoni_1888pobrane (9)Reprodukcja_Sloneczniki_-_Gauguinwpid-wielki-tworca-pejzazy-gauguin-12bb2d8cfbd7935cbc0d171ed451be21

Van Gogh il folle

23 Ago
Konstantin Paustovskij

Konstantin Paustovskij

 

 

    In un negozio di libri usati ho trovato il volumetto Opowieści o malarzach (Racconti sui pittori), dello scrittore russo Konstantin Paustovskij (1892-1968). In questo libro, ristampato a Mosca nel 1981 (prima edizione 1966), sono inclusi i saggi scritti da Paustovskij in differenti periodi della sua vita, e riguardanti i suoi pittori preferiti. L’autore, secondo il suo stile, conversa con i lettori e considera non tanto i quadri dei singoli artisti, o la tematica raffigurata o la tecnica di esecuzione, ma piuttosto le circostanze della loro vita, cerca di portare alla luce i contenuti poetici alla base delle loro opere, di scoprire le fonti della creazione. Prossimamente pubblicherò un altro suo breve saggio dedicato a Gauguin, e un testo molto interessante dal titolo L’arte di vedere il mondo. Dal libro Racconti sui pittori ho tradotto per il momento il seguente testo:

 

Van Gogh il folle

 

   Nel mondo della creazione artistica infuria sempre una tempesta di pensieri, immagini, colori, luce, sofferenza, amore, ricerche. Questo mondo ci appare enigmatico. Forse perché ogni vero maestro sottomettendosi alle regole generali della creazione (ancora oggi abbastanza oscure) vive al tempo stesso una vita diversa dai restanti artisti, e per questo crea ulteriori proprie regole, lavora secondo un proprio modello, lascia nelle sue opere l’impronta dei suoi stati d’animo e a modo suo esprime il proprio io.

   Se Vincent van Gogh non fosse stato un Olandese, se non si fosse stancato della onorevole e noiosa vita familiare, se non avessero voluto che diventasse un predicatore, e quindi un uomo con una professione indefinita e inadatta, se non fosse stato per la sua amicizia con i poveri minatori di Borinage, e con gli impressionisti francesi indipendenti, se…

   Si potrebbero aggiungere alcune decine di analoghi “se”, ma una cosa sola è importante – tutte le inclinazioni di van Gogh, tutte le circostanze della sua vita portarono a un risultato che sembrava inatteso, fecero di lui uno dei più grandi e più luminosi pittori del mondo.

   Van Gogh impartì a tutti gli uomini d’arte una stupenda lezione. Fu un esempio di sacrificio, d’inflessibile rettitudine, di prodigiosa follia, che rigettava da sé come scorze le delusioni e gli insuccessi personali.

   Qualcuno scrivendo di van Gogh ha chiamato la sua vita un Golgota. L’artista era inchiodato alla croce della sua pittura, come Dostojevskij lo era alla croce della sua prosa.

   Non temiamo questo paragone. Esso dice in fin dei conti che l’artista desiderava a tal punto trasmettere al mondo tutta la bellezza che viveva nel suo cuore e nella sua mente, che l’intera sua esistenza ci appare come una via crucis attraverso il tormento e la gioia insieme. E questa via scorre ai limiti delle forze umane.

   Così si spiega anche la morte di van Gogh. Non c’è niente di più errato, che vedere nel modo in cui lasciò questo mondo, soltanto patologia e alienazione mentale. Da tempo è stato già detto e da tempo si sa, che l’arte esige dall’artista una dedizione illimitata. Solo allora egli può possedere quella forza inesplicabile, che a volte definiamo magica.

   Gli esempi di ciò che la nostra maldestra lingua chiama magia non mancano.

   Ne citerò uno. Nella Tracia, vicino alla città di Kazanlak è stata dissotterrata non molto tempo fa la tomba di un capo trace. Le pareti sono ricoperte di affreschi. In uno di essi il capo defunto siede alla tavola del convito funerario rituale. E’ magro e nero, come bruciato dalla morte.

   Accanto a lui siede la moglie, bella e triste. La sua mano stringe la nera mano del marito. In quella mano viva, nelle sue forti, delicate dita c’è una tale serenità e una tale fede nell’immortalità dell’uomo amato, che l’intero affresco funebre appare come una solenne affermazione della vita e dell’amore.

   L’affresco ha un potere magico, intensificato ancor più dai quattro focosi destrieri alle spalle del capo defunto.

   Van Gogh era un uomo molto sensibile alle questioni sociali. Cercava nuove e giuste forme di vita nel mondo e si definiva pittore della gente semplice, dei contadini e degli operai. Proprio egli disse: “Sono convinto che non ci sia nulla di più profondamente artistico che amare il prossimo”.

   A differenza di una falsa saggezza che considera la pittura soltanto una servitrice del mondo reale, tutta la vita di van Gogh dimostra che essa esiste autonomamente ed è un meraviglioso fenomeno in una catena di altre manifestazioni della realtà.

   Lo scetticismo e l’avversione per gli impressionisti e per van Gogh, ancora esistenti, anche se per fortuna in via di estinzione, si possono spiegare solo con l’ignoranza artistica, oppure con la negazione della bellezza come forza propulsiva della vita, oppure infine con la paura di fronte a tutto ciò che non risponde alle menti e ai gusti ricoperti di muffa.

   Ci sono ancora persone da noi, annoverate nel mondo dell’arte, che fanno venire in mente la proprietaria della pensione, dove viveva Levitan a Mosca. Egli si era indebitato con lei e voleva pagarla con i suoi quadri. Ma lei non li accettò, perché mancava in essi il benché “minimo tema” – così si espresse. A chi serve l’eterna pace dei fiumi nordici, o l’autunno dorato sotto il cielo nebbioso, se nei quadri non ci sono persone, né mucche e nemmeno galline!

   Il tema è una grande cosa, ma non si può pretendere da tutti gli artisti (così come dagli scrittori) l’uniformazione di forma e contenuto. Condizione di esistenza dell’arte è la varietà dei pareri e dei gusti.

   Se approviamo l’arte dell’Ellade, se subiamo il fascino di Nefertiti e la forte influenza delle opere di Delacroix e di Nesterov e di altre centinaia di artisti totalmente diversi tra loro, come possiamo mettere in dubbio l’enorme importanza di van Gogh, con la sua fantasmagoria di colori brillanti e decisi e la sua profonda visione del mondo! Chi non si rallegra e non si commuove alla vista delle sue tele, è un ipocrita oppure un “ciocco secco”, come diceva il poeta persiano Saadi.

   E’ difficile trovare un altro esempio di maggiore abnegazione di quello che dette con la sua vita Vincent van Gogh. Sognava di creare in Francia una “compagnia di pittori”, una specie di collettività che consentisse agli artisti di servire esclusivamentre l’arte.

   Van Gogh soffrì molto. Nei suoi quadri I mangiatori di patate e La ronda dei carcerati ha reso tutto l’abisso della desolazione umana. Pensava che spetta all’artista contrastare la sofferenza con tutte le forze e con tutto il talento.

   Compito dell’artista è creare la gioia. Ed egli la creò, servendosi dei mezzi che meglio padroneggiava – i colori. Era sbalordito dal modo in cui la natura riesce perfettamente a legare i colori, era affascinato dal numero incalcolabile delle loro sfumature e dalle tinte della terra che mutano di continuo, ma sono ugualmente belle in tutte le stagioni e sotto ogni latitudine.

   Nella vita di van Gogh ha svolto un ruolo importante la città provenzale di Arles. Arles è una città come uscita da un sogno.

   La luce del giorno, limpida e marcata, rende plastico, tridimensionale il paesaggio di Arles, la sua arena romana, dove adesso si svolgono i combattimenti dei tori, le sue sobrie strade semivuote che richiamano alla mente la vicina Spagna, la modesta isolata casetta di van Gogh, scampata per miracolo al bombardamento del quartiere della città dove essa si trova.

   Al Louvre nella galleria degli impressionisti sono conservate le tavolozze di tutti i grandi pittori francesi, tra esse c’è anche la tavolozza di van Gogh. Sembra che vi si siano incollati sopra frammenti delle grasse zolle della terra di Arles. Riluce di ocra, di rosso minio, cupreo e di vino, del colore autunnale della vite, di ruggine centenaria e dell’umido lilla della terra appena arata.

   Gli alberi legati dalle mani di giganti in nodi ramati brillano col grigio azzurro della corteccia.

   Tutto è addensato e compatto. I colori sembrano saltare via l’uno dall’altro, come se nessuno di essi potesse resistere alla intensità e alla brillantezza di quello accanto.

   Van Gogh nei suoi quadri ha trasfigurato la terra. Come se l’avesse lavata con un’acqua miracolosa, fino a farla risplendere di colori così vividi e intensi, che ogni vecchio albero si è trasformato in una scultura, e ogni campo di trifoglio – nella luce solare racchiusa in una miriade di semplici fiorellini.

   Per suo volere i colori si sono fermati nella loro continua trasformazione, per consentirci di godere della loro bellezza.

   Come si può dunque affermare che a van Gogh fosse indifferente l’uomo? Eppure egli gli ha donato la più grande ricchezza che aveva – la propria visione della vita sulla terra, splendente di mille colori e di tutte le loro più delicate sfumature.

  

   Era poverissimo, orgoglioso e privo di senso pratico. Divideva l’ultimo boccone coi senzatetto e provò sulla propria pelle cosa significa l’ingiustizia sociale. Disprezzava il successo a buon mercato.

   Di sicuro non era un lottatore. Il suo eroismo si limitava alla fanatica fede in un radioso futuro per i lavoratori – aratori e operai, poeti e studiosi. Non riusciva ad essere un lottatore, però voleva avere ed ha avuto la sua quota parte nel tesoro del futuro – i quadri che cantano le lodi della terra.

 

Alcune citazioni da van Gogh:

 

Siamo tanto attaccati a questa vecchia vita perché accanto ai momenti di tristezza, abbiamo anche momenti di gioia in cui anima e cuore esultano – come l’allodola che non può fare a meno di cantare al mattino – anche se l’anima talvolta trema in noi, piena di timori.

 

A che sarei utile, a che potrei servire? C’è qualcosa dentro di me, ma cos’è?

 

Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali.

 

Che cosa sarebbe la vita se non avessimo il coraggio di fare tentativi?

 

Per agire nel mondo, occorre morire a se stessi. L’uomo non sta sulla terra solo per essere felice, neppure per essere semplicemente onesto. Vi si trova per realizzare grandi cose per la società, per raggiungere la nobiltà d’animo e andare oltre la volgarità in cui si trascina l’esistenza di quasi tutti gli individui.

 

Per quanto mi riguarda, nulla so con certezza, ma la vista delle stelle mi fa sognare.

 

E’ come avere un gran fuoco nella propria anima e nessuno viene mai a scaldarvisi, e i passanti non scorgono che un po’ di fumo, in alto, fuori del camino e poi se ne vanno per la loro strada.

 

A momenti, come le onde disperate si infrangono sulle scogliere indifferenti, un desiderio tumultuoso di abbracciare qualcosa.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Alcuni quadri di van Gogh che hanno attinenza col testo pubblicato:

   

Il raccolto

Il raccolto

Il vigneto rosso

Il vigneto rosso

La stanza di van Gogh ad Arles

La stanza di van Gogh ad Arles

Contadini con bambina

Contadini con bambina

Mogli di minatoriMogli di minatori

La ronda dei carcerati

La ronda dei carcerati

I mangiatori di patate

I mangiatori di patate

L'aratro

L’aratro

Minatori nella neve

Minatori nella neve

Seminatore col sole che tramonta

Seminatore col sole che tramonta

L’arcobaleno

20 Ago

 

   Nel 1970 la casa editrice “ISKRY” di Varsavia pubblicò una raccolta umoristica dal titolo Stańczyk, ovvero ridiamo per tutto l’anno, comprendente poesiole, aneddoti, aforismi e racconti brevi. Uno di questi ultimi è intitolato L’arcobaleno e ne è autore Janusz Osęka, nato a Varsavia nel 1925, scrittore e satirico. Dal 1960 al 1990 fu redattore della nota rivista umoristica “Szpilki” (Spilli). Nel 1997 ricevette il titolo di “Giusto Tra le Nazioni del Mondo”, per la sua partecipazione a un gruppo che dopo l’Insurrezione di Varsavia mise in salvo diversi combattenti ebrei. Janusz Osęka ha pubblicato una quindicina di libri di carattere satirico-umoristico, che raccomando agli editori italiani interessati a questo genere letterario. Se si pensa che questo raccontino è uscito nel 1970, bisogna ammettere che la censura polacca riusciva ad essere abbastanza “liberale”; molto probabilmente in altri paesi a regime comunista questo testo non sarebbe passato. Eccolo nella mia versione. 

 

L’arcobaleno

 

   Giunsero sul posto, diedero un’occhiata al progetto e cominciarono a misurare, e tutti credettero che sicuramente avrebbero costruito una centrale elettrica o una strada per il villaggio. Soltanto dopo, quando presero a calcolare la distanza del cielo, usando i palloni, risultò chiaro che volevano costruire un arcobaleno. Un contadino che era stato assunto per gonfiare i palloni, aveva captato la conversazione tra i due pittori che si occupavano della scelta dei colori, e così venimmo a sapere che si trattava di un investimento destinato a due distretti, denominato Primo Arcobaleno Permanente Statale Nr. 1. Durante la posa della prima pietra sotto le fondamenta vicino al bosco, dove il terreno era più solido, perché calpestato dalle mucche, un rappresentante della provincia disse:

   “Dovreste essere orgogliosi che sul vostro terreno sorgerà una costruzione come questa, che i vostri padri non si sognavano nemmeno. Oggi, avendo a cuore l’abbellimento del nostro paese, abbiamo pianificato almeno un arcobaleno per ogni provincia, il che significa un notevole incremento di colori sulle teste della popolazione, e inoltre in tal modo non dipenderemo più dai capricci del tempo. Tireremo su il nostro arcobaleno con uno sforzo comune perfino in anticipo, alla faccia di quelli che ci descrivono sempre a fosche tinte”.

   All’inizio i contadini trattavano l’arcobaleno con diffidenza. Si lamentavano che esso avrebbe trattenuto le nuvole, e avremmo perso il grano a causa della siccità, ma fu chiarito loro che simili pareri erano contrari al parere della scienza e alla decisione delle autorità. Il progetto dell’arcobaleno portava la firma di illustri architetti, e di sicuro avrebbe spaventato i passeri e altri parassiti.

   I contadini si abbonirono, tanto più che molti trovarono lavoro nel montaggio dei segmenti, e lassù la retribuzione era particolarmente alta. I lavori proseguivano speditamente e qualcuno, per guadagnare tempo,  propose perfino di costruire l’arcobaleno dal basso, ma a segmenti, tuttavia l’idea restò sospesa in aria e non se ne fece niente, inoltre l’ideatore fu molto criticato. L’arcobaleno era giunto alla fase delle rifiniture, quando all’improvviso arrivò un’ispezione e scoprì che esso si spaccava in alcuni punti, perché il materiale era troppo leggero e ondeggiava al vento come un pioppo tarlato. I lavori furono fermati, vennero presi alcuni campioni dell’arcobaleno per essere analizzati, ma nel frattempo la questione fu in parte chiarita: il capomastro, che aveva una casa a Varsavia, si era costruito su di essa un piccolo arcobaleno unifamiliare. Interrogato dall’organo inquirente non riuscì a spiegare, dove avesse preso il materiale per quella iniziativa privata, quindi ovviamente l’arcobaleno fu confiscato e lui finì in prigione. Allora il capomastro disse:

   – Il mio arcobaleno fa ridere, guardate piuttosto quello sulla villa del presidente della giunta!

   Vennero inviati alcuni agenti nel luogo indicato e, in effetti, videro un arcobalendo così enorme, da lasciare il fiato sospeso, tutto costruito col materiale contrassegnato “Arcobaleno Permanente Statale Nr. 1”. Furono subito messi i sigilli e fu lasciato a disposizione del procuratore.

   Agli arresti il presidente disse:

   – Se devo finire in prigione io, allora ci finiscano pure il capo contabile e il magazziniere. Entrambi hanno i pannelli dell’arcobaleno in cantina sotto il carbone.

   – Lei ha dato il cattivo esempio – gridò indignato il procuratore, quando il presidente volle coinvolgere anche il guardiano al cancello, che dietro compenso chiudeva gli occhi sui pezzi di arcobaleno che venivano trafugati.

   L’esempio della direzione fu davvero fatale, perché a un contadino del nostro villaggio, mentre lasciava il cantiere, fu trovato un pezzo di arcobaleno in una gamba dei pantaloni. Un altro lo aveva portato via nel pane e un altro ancora avvolto sotto la camicia; inoltre in alcuni fienili ne furono scoperti diversi metri sotto il fieno. Spiegavano che volevano abbellirsi i tetti con un proprio arcobaleno, perché quello statale, sì era bello, ma era troppo lontano. Nel frattempo l’arcobaleno statale cominciò a scricchiolare, a spaccarsi, e un pezzo cadde sulla stalla del mugnaio, sfondò il tetto e ferì una mucca. Allora arrivò una nuova commissione e accertò che l’arcobaleno aveva dei difetti e costituiva un serio pericolo per la popolazione. Se fosse crollato del tutto, avrebbe potuto seppellire perfino interi villaggi. Pertanto bisognava evacuare quelli che ci vivevano sotto.

   Nel villaggio scoppiarono le lamentele:

   – Per colpa di alcuni individui asociali dobbiamo rimetterci noi! Non bastava loro l’arcobaleno sociale?! San Giuseppe, salvaci tu!

   Tra lo sconforto generale alcuni ebbero i rimorsi di coscienza, e chi aveva un pezzo nascosto nello sgabuzzino o sotterrato sotto un albero, lo tirò fuori e lo portò al cantiere.

   – Ecco – diceva – s’è impigliato da me non so come, perciò lo riporto, forse basta per una toppa.

   I costruttori, dopo lunga riflessione, dichiararono che integrando l’opera nei punti mancanti e rinforzandola qua e là, si sarebbe retta bene sui sostegni. Dopo aver ricuperato gli arcobaleni confiscati al capomastro, al presidente, al magazziniere e al contabile, e aver rimesso insieme i pezzi che si erano impigliati nei casolari, la parte che ancora mancava fu fatta da noi col sistema del lavoro a domicilio, nell’ambito delle attività sociali. Capimmo che il comune, grande, stupendo arcobaleno statale non aveva nulla a che fare con il rachitico arcobaleno privato, che oltre tutto annerisce subito, a causa del fumo che esce dal comignolo.

   Quando il nostro nuovo e magnifico arcobaleno era già innalzato, affinché il procuratore non avesse più risentimenti per la nostra precedente sconsideratezza, decidemmo di costruire, con i pezzi avanzati, un piccolo ma grazioso arcobaleno sulla sua casa.

 

(C) by Paolo Statuti

 

Sławomir Mrożek (30.6.1930-15.8.2013)

17 Ago

 

Sławomir Mrożek

Sławomir Mrożek

   Drammaturgo, prosatore e disegnatore. Tanti anni fa, quando ancora non conoscevo bene la lingua polacca, tradussi insieme col mio caro amico e collega Zbigniew Chotkowski la commedia di Mrożek Szczęśliwe wydarzenie, erroneamente intitolandola Un caso fortunato, mentre avrei dovuto tradurre come Il lieto evento. In omaggio a questo grande commediografo, noto e rappresentato in tutto il mondo, e scomparso due giorni fa, pubblico nel mio blog il suo racconto Wesele w Atomicach (Nozze ad Atomizze) nella mia versione, tratto  dalla omonima raccolta di racconti, uscita nel 1959. Questo racconto è inserito nella mia antologia dei racconti brevi polacchi Viaggio sulla cima della notte, pubblicata da Editori Riuniti nel 1988.

 

Nozze ad Atomizze

 

   Eh sì, nel campo della tecnica siamo arrivati molto in alto…

   Il fidanzato aveva vicino al bosco un bel laboratorio e, a quanto pare, anche due reattori presso la strada imperiale, e nello stesso podere una piccola, ma ben tenuta azienda di sintesi chimica. Alla fidanzata il padre aveva regalato in dote un’intera centrale energetica, in una buona posizione, proprio al centro del villaggio, accanto alla chiesa. Inoltre, teneva in una cassapanca dipinta qualcosa come sei brevetti nel campo della biochimica. Nulla di strano, quindi, che i giovani fossero bene assortiti e che i genitori di entrambi avessero acconsentito subito al matrimonio. E ad Atomizze vennero annunciate le nozze.

   Proprio mentre stavo facendo una laminatura a freddo, il fratello della promessa sposa venne per invitarmi alle nozze. Eccotelo lì, davvero un bel pezzo di scienziato, collega dai tempi della cattedra. Lodò il Signore, strofinò i piedi nudi sulla stuoia e si sedette sullo sgabello.

   Faticavamo un po’ a conversare, perché quell’anno gli aerei a reazione chissà per quale motivo volavano particolarmente numerosi e le piste di decollo dietro il capannone s’incrociavano; senza sosta ecco che un altro si alzava in volo e col suo fragoroso gorgheggìo soffocava le nostre parole.

   Già, la maritiamo, – sospirò l’ospite. – Mah, speriamo che alle nozze non scoppi qualche incidente – aggiunse afflitto.

   – Che incidente dovrebbe scoppiare? – chiesi. – Sono nozze di pace, sì o no?

   Sedemmo un quarto d’ora circa, guardammo i bambini che tornavano dall’università, il vecchio Józwa che trasportava il carburante nel capannone, poi mi salutò e uscì.

   Venne il giorno delle nozze. Capitavano in un momento poco opportuno, perché proprio allora da noi avevano cominciato a trasformare la natura. Ciò che hanno rimboscato è stato civilizzato, ma in compenso è migliorato, mentre i deserti sono stati ricoperti di alberi. Hanno modificato il corso del fiume, perché scorresse dall’altra parte. Di conseguenza la strada per la chiesa era finita più avanti, invece nel mio cortile era venuta su una grossa diga di grande importanza economica, tanto che la porta non si apriva del tutto e a fatica si poteva uscire di casa.

   Quando arrivai sul posto, la cerimonia era appena iniziata. Le damigelle cantavano:

                  Quando la cuffia ti metteranno,

                  guarda in alto il palchettone,

                  e i tuoi bambini nasceranno

                  con gli occhi neri come il carbone.

 

   Poi le fecero l’elettrolisi e la condussero nella camera di pressione.

   Nel frattempo stavano arrivando gli ospiti. Tutti erano in termostato popolare sulla tuta blu da tennis. Alcuni già fumeggiavano dagli scafandri. Nel cortile i piloti brilli scoppiettavano dai tubi di scappamento. I cani abbaiavano.

   Ma soltanto dopo la chiesa cominciò la festa vera e propria. Stavo in piedi sulla panca fuori della casa per respirare l’aria del tardo pomeriggio. Dalla stanza principale giungevano i suoni svelti ora della musica dodecafonica, ora di quella sintetica. Continuamente erompevano i ritornelli e il calpestio dei piedi. In cielo spuntò una stella. I bambini la prendevano a sassate.

   Le nozze erano in pieno svolgimento, allorché un po’ prima delle undici saltò in mezzo a tutti il giovane Smyga, dall’altra parte del fiume, ballerino di grido, cantante, vecchia volpe e mattacchione. Fece un paio di giravolte, si fermò davanti all’orchestra e cominciò subito a cantare:

 

                   Davanti ai nostri occhi

                   Il futuro splende già,

                   l’uomo sarà felice

                   se lo sarà la società!

                   Oh oh, oh oh!

 

   Piacque molto a tutti. Scrosciarono risate e applausi calorosi. Ma ecco che il giovane Pieg sobbalzò, fece una capriola, spostò il berretto di lato e cantò in risposta:

 

                    Prima bisogna iniziare

                    dalla moralità:

                    la felicità sociale

                    attraverso la castità!

                    Ohilì ohilà, oggi!

 

   Di nuovo risate e applausi. Alcuni gridarono a Smyga di ribattere a Pieg. Ma quello non disse nulla, di soppiatto si mise alle spalle di Pieg e inaspettatamente gli sparò una testata atomica, che teneva nascosta nel petto. Pieg barcollò e cominciò ad irradiare, ma fece ancora in tempo a premere un bottone del giubbotto, e dalla rampa di lancio che teneva nella gamba destra dei pantaloni, fece partire un missile a medio raggio dritto in fronte a quello. Avrebbe senza dubbio accoppato Smyga, ma l’ultimo stadio del missile non gli si accese e di conseguenza l’ordigno deviò dalla traiettoria. Smyga retrocesse, ondeggiò e si appoggiò alla barriera termica, ma quella si infranse e Smyga volò via in fondo alla temperatura, mentre il coefficiente di questa aumentava di continuo.

   – Gente, che diavolo fate?! – gridò il padre della sposina, indicando l’obsoleto contatore Geiger da parete.

   Ma ormai la furia e il putiferio erano scoppiati e al centro della stanza cominciarono a spuntare velocemente enormi felci azzurre: un fatto consueto in presenza di aumento di radioattività in un ambiente chiuso. Cominciarono a volare altri missili, soltanto Bańbula – lui solo – manteneva un dignitoso contegno e come niente fosse vibrava coltellate a dritta e a manca. D’un tratto risuonò un fischio acuto. Era il padrone di casa che, resosi conto di non poter calmare gli ospiti in altro modo, era balzato verso il serbatoio domestico, aveva aperto il rubinetto e, liberando i gas da combattimento nella stanza, aveva iniziato ad inquinare l’ambiente. Si precipitarono tutti alle tute, ma la mia risultò inermetica, inoltre un po’ addormentato lo ero già, perciò decisi di abbandonare la festa e di avviarmi pian piano verso casa.

   La notte era luminosa, perché dalla fattoria dove si svolgevano le nozze si rifletteva un tale riverbero che potevo ritrovare la strada senza fatica. Camminavo leggero e spedito, perché anche la pioggerella radioattiva spruzzava la strada a meraviglia. Soltanto ero un po’ infastidito da un crampo nell’organismo, già, ma dopo una festa è una cosa consueta, e anche dal fatto che cominciarono a spuntarmi altre gambette, tre paia da ogni parte, un corno verde sulla fronte e sul groppone un piccolo scudo di chitina. In qualche modo comunque riuscii ad arrivare a casa, passai strisciando attraverso una fessura nella finestra e trovatomi un posticino sicuro dietro l’armadio, alla larga dai ragni, mi addormentai tranquillamente, meditando su ciò che era successo in quel fragoroso sposalizio.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

Assisi: Gli affreschi di Giotto

16 Ago
Czesław Ryszka

Czesław Ryszka

 

 

   Czesław Ryszka è nato a Goławiec il 3 luglio 1946. Giornalista, scrittore cattolico, pubblicista, politico, deputato nella III legislatura, senatore nella VI e nella VII. Autore di molte pubblicazioni di carattere socio-religioso. Nel 1985 è uscito il suo libro Pisane w Asyżu (Scritto ad Assisi). Da esso ho scelto e tradotto il testo seguente:

 

Gli affreschi di Giotto

 

   …Al Sacro Convento mi recai la mattina presto. Il cielo era nuvoloso. A metà strada tra Santa Maria degli Angeli e Assisi mi sorprese la pioggia. Raggiunsi la basilica tutto bagnato. Pensavo che il maltempo avrebbe tenuto lontani i turisti e i pellegrini, e che avrei avuto un po’ di tranquillità. Macché! Sulla piazza davanti a Porta san Pietro erano parcheggiati una quindicina di pullman. La maggior parte dei pellegrini assisteva già alle messe.

   Gli affreschi di Giotto si stavano appena svegliando dal sonno. Nell’enorme basilica, di solito inondata dal sole, regnava la penombra. Abbracciai più volte con lo sguardo tutte le pareti e più volte girai intorno ad esse. Ventotto scene riguardano i fatti più noti della vita di Francesco. La maggior parte di esse raffigura i miracoli del Santo. Gli affreschi formano quindi una tipica agiografia medioevale. Pensai che Giotto aveva dovuto studiare prima la Leggenda maggiore di san Bonaventura o anche il Trattato dei miracoli di Tommaso da Celano, per poi tracciare l’abbozzo, tratteggiare, misurare…Forse all’inizio non riusciva a rappresentare le scene come avrebbe desiderato, e soltanto quando decise di vivere lui stesso come Francesco, quando impresse nell’intonaco la sua emozione per l’incontro col Santo, soltanto allora i pennelli coi colori, fedelissimi e sottomessi compagni, ubbidienti alla fantasia dell’artista, trasformarono le pareti nella viva storia di quegli anni. L’opera di Giotto supera ogni valutazione. Penso che, se agli scrittori biblici Jahvè infuse la propria saggezza, ed essi scrivevano quasi sotto Sua dettatura, similmente deve essere stato nel caso di questi dipinti. Forse, non Francesco fu in questo caso il “guardiano” dal cielo, ma ad esempio frate Elia, anch’egli defunto, colui al quale premeva tanto che la basilica francescana mostrasse tutto lo splendore dello spirito e della vita del santo Fondatore. Qualunque cosa si sia scritto su di lui, egli era legato a Francesco come a un padre e di sicuro non aveva bisogno d’insinuarsi nelle sue grazie – come scrivono alcuni autori. Semplicemente Elia era diverso, era un francescano moderno che teneva alla cultura, era un esteta e conosceva il mondo. Non piaceva ai semplici, ma non li criticava, non soffocava lo spirito dei radicali, tuttavia apprezzava il buon senso e la prudenza. Amava anche l’arte. Si può dunque con certezza scrivere che Elia esultasse in cielo vedendo realizzarsi l’opera della sua vita. A Giotto però non venne in mente di mettere la sua immagine, magari anche nel punto meno visibile.

   Gli affreschi di Giotto sono la registrazione pittorica della vita del Poverello. Essi svelano molti particolari che non sempre si rammentano. Per questo sceglierò alcuni di essi. Ad esempio l’incontro di Francesco col sultano. Ne parla uno degli affreschi. Esso ebbe luogo alla vigilia della battaglia dei crociati a Damietta. Dapprima aveva cercato di convincere questi ultimi a desistere dal combattimento, li supplicò, sostenendo che Cristo non approvava quella guerra, che non si poteva predicare il Vangelo con l’aiuto della spada. Ma per essi rinunciare alla lotta, sarebbe stato un tradimento, avrebbe significato seminare il caos e il disfattismo tra le fila dei cavalieri, fiaccare lo spirito bellicoso dei crociati. Non ascoltarono Francesco. Allora decise di recarsi nel campo del nemico, dallo stesso sultano.  Non sappiamo come si svolse questo incontro. Nell’affresco di Giotto il sultano ascolta con attenzione il discorso di Francesco, sul suo volto si vede l’apprezzamento per il coraggio dello straniero e la diffidenza per la sincerità delle sue parole, poiché i cavalieri cristiani fino a quel momento avevano agito crudelmente, proprio all’apposto di quanto voleva il loro Dio.

   In quale lingua Francesco cercava di convincere il sultano? Forse confidava soltanto nelle parole: “Non temete, ciò che direte…La Buona Novella non ha bisogno di  traduttori, ma di testimoni fedeli, è come un raggio di sole che dona a ciascuno luce e calore. Francesco, ispirato durante quel colloquio, voleva saltare nel fuoco, per dimostrare la potenza dell’Altissimo. Giotto non nascose l’incredulità del sultano, ma sul suo viso dipinse l’emozione, l’eco di un dubbio interiore, derivante dal pensiero che il Dio di Francesco fosse più potente di Allah.

   Un altro affresco riguarda l’incontro del Poverello col papa Onorio III. Probabilmente trovandosi di fronte al pontefice, egli dimenticò cosa doveva dire. Il discorso preparato con cura era fuggito via dalla mente e si sentì la testa vuota. Ma non si scoraggiò, in fondo era lì  per una questione divina, quindi chiamò in aiuto lo Spirito Santo e ottenne il dono dell’eloquenza, tanto che il papa con la testa poggiata sulla mano e con grande attenzione ascoltò l’umile frate. I cardinali, ammutoliti dall’impressione, capirono che non era Francesco a parlare, ma attraverso lui lo Spirito del Signore. Di più – alcuni si convinsero che il suo modo d’intendere la Chiesa e il Vangelo si poteva paragonare al volo dell’aquila, mentre il loro – allo strisciare sul ventre. Può divertire la varietà di espressioni sui visi di questo affresco. Giotto era un osservatore magnifico, ma anche un po’ ironico e critico. I volti dei dignitari esprimono meraviglia e imbarazzo. Francesco parlava come un eminente teologo e predicatore. Il suo modo di esprimere i pensieri era improntato a una grande saggezza e perspicacia teologica. Serva da esempio un frammento delle sue Ammonizioni, nel quale mette in rilievo la fede nella presenza di Cristo nell’Eucarestia: “Perché non conoscete la verità e non credete nel Figlio di Dio? Ecco, ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo il pane e il vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero. E in tale maniera il Signore è sempre presente con i suoi fedeli, come egli stesso dice: “Ecco io sono con voi sino alla fine del mondo”.

   Non riuscendo a restare seduto nello stesso posto, almeno ogni ora facevo il giro della basilica, con la testa all’insù, guardavo attentamente gli affreschi, li confrontavo. Come sono diversi dai precedenti dipinti lì accanto, eseguiti da Cimabue e da altri. Giotto si allontanò felicemente dalla pittura piatta tipica dello stile bizantino, e con coraggio introdusse la prospettiva. Le sue figure si allontanano, sono differenti, hanno il “peso” dei propri corpi, sono modellate come statue, in pose drammatiche. Perfino le allegorie delle virtù di Francesco non seguono i vecchi simboli bizantini, ma il punto centrale è occupato dal “succedere”, dal mondo umano, dai temi presi dalla vita di ogni giorno. Stupendo, perché soltanto così si può definire, l’affresco della predica di Francesco agli uccelli, una delle opere più note di Giotto, ci porta, per la prima volta nell’arte pittorica, in mezzo alla natura. Il cielo, la terra, gli alberi, gli uccelli, l’erba, i colli…e le figure umane – questo nella pittura ancora non s’era visto. Che pace in questo dipinto quasi bucolico! Se non fosse per l’aureola sulla testa di Francesco, si potrebbe pensare che sia stato eseguito in un periodo notevolmente posteriore. Giotto ha magistralmente organizzato lo spazio, ha subordinato ogni dettaglio all’idea-guida, in cui il posto centrale è occupato dall’uomo.

   Molte scene di Giotto ricordano l’iconografia evangelica, Francesco viene mostrato con un altro Cristo. Un esempio può essere l’affresco che rappresenta il Santo durante i lavori del capitolo ad Arles. Come il Signore nella cena dopo la risurrezione, così anche Francesco entra nella stanza chiusa, dove deliberano i frati. Con le braccia tese a formare la croce benedice il dibattito, non lo interrompe, permette ad Antonio di parlare.

   Similmente nell’affresco del giudizio davanti al vescovo. Il dipinto ricorda il battesimo di Gesù nel Giordano. Francesco spogliato indica il cielo, da cui anziché la voce, emerge la mano che benedice la decisione del giovane. Un altro riferimento al Vangelo può essere la visione di frate Pacifico, in cui un angelo gli mostra il trono accanto a Cristo, preparato in cielo per Francesco. Le immagini dei troni in cielo e degli onori celesti, consentiva al geniale pittore di stendere davanti agli occhi della gente il quadro del cielo come regno simile a quello terrestre. Giotto però vi aggiunge l’interpretazione teologica: Francesco prenderà il posto dell’angelo caduto.

   Anche l’affresco che rappresenta la cacciata dei demoni da Arezzo si ricollega alla vita di Cristo. Gli abitanti di Arezzo in discordia tra loro, di notte si aggredivano a vicenda, uccidendosi l’un l’altro. I demoni seduti sui tetti esultavano per il proprio governo della città. Ma frate Silvestro su esplicito incarico di Francesco li caccia via e in città torna la pace. In Giotto i diavoli come pipistrelli fuggono in preda al panico, volano via a Sodoma e a Gomorra, spaventati dal segno della croce e dal nome di Cristo. Non facevano forse lo stesso gli apostoli, cacciando via gli spiriti maligni su ordine di Cristo?

   Ricorderò ancora l’affresco dell’estasi di Francesco. Esso richiama alla mente la Trasfigurazione. Il Santo conversa con Gesù che si sporge dalle nubi. I frati scossi, come gli apostoli sul Tabor, guardano al miracolo dell’unificazione della Terra col Cielo. Francesco nella prodigiosa illuminazione dello spirito, accoglie a braccia tese la benedizione di Dio e la trasmette oltre, sulla terra distesa sotto i suoi piedi.

   L’ultimo affresco che ricorda molto la liberazione di san Pietro dalla prigione romana, raffigura la miracolosa liberazione di Pietro d’Alife, il cavaliere sospettato di eresia. Francesco, invocato da quest’ultimo accorre in suo aiuto e gli toglie le catene.

   Per Giotto la basilica di Assisi fu anche un magnifico campo per sviluppare il suo genio. Arricchì la basilica al punto che un frate, mentre la visitava, ricordando il Fondatore e il suo invito alla povertà, ebbe a dire maliziosamente: “Però, tranne le mogli qui ai fraticelli ormai non manca proprio nulla”.

Francesco davanti al sultano

Francesco davanti al sultano

Francesco davanti al papa a Roma

Francesco davanti al papa a Roma

Francesco appare al capitolo di Arles

Francesco appare al capitolo di Arles

Francesco predica agli uccelli

Francesco predica agli uccelli

Francesco si spoglia davanti al vescovo

Francesco si spoglia davanti al vescovo

La cacciata dei diavoli da Arezzo

La cacciata dei diavoli da Arezzo

Estasi di Francesco

Estasi di Francesco

Francesco libera Pietro d'Elife

Francesco libera Pietro d’Elife

Assisi: Interno della Basilica superiore

Assisi: Interno della Basilica superiore

                                                                       

Nikolaj Rerich (1874-1947)

13 Ago

 

Piotr Kuncewicz

Piotr Kuncewicz

 

Nikolaj Rerich

Nikolaj Rerich

   Piotr Kuncewicz (1936-2007), scrittore, poeta, critico letterario e teatrale, storico della letteratura, pubblicista radiofonico e televisivo, è stato per molti anni presidente dell’Unione dei Letterati Polacchi. Nel 1979 uscì la sua raccolta di feuilleton letterari W poszukiwaniu niecodzienności (Alla ricerca dell’insolito). Da essa ho tradotto il testo Pośrednik (Il mediatore), dedicato a Nikolaj Rerich, una delle figure più luminose del simbolismo russo, pittore, filosofo, scrittore, poeta, viaggiatore, scenografo della celebre compagnia di Balletti Russi fondata da Diaghilev.

 

Il mediatore

   Chi fu in realtà? Difficile dirlo. Anzitutto un pittore molto conosciuto, i cui quadri si possono ammirare nelle più importanti gallerie del mondo. Non sono pochi: si calcola che abbia lasciato circa settemila tele, senza contare gli affreschi dipinti nelle chiese ortodosse prima della rivoluzione. E’ noto soprattutto come pittore delle montagne dell’Himalaya. E qui comincia la sua singolarissima avventura, l’avventura di tutta la sua vita. Ma Rerich non si accontentò della pittura. Già agli inizi del secolo guidò una spedizione scientifica durata cinque anni nei luoghi meno esplorati dell’Asia.

   Non si separò tuttavia dal mondo, anzi a modo suo prese parte anche alla politica. Si trattava più esattamente della cultura. Quando fu approvato il patto sulla tutela dei beni culturali, il contributo di Rerich fu così grande, che al patto fu dato il suo nome. Rerich si stabilì ai confini dell’Himalaya e visse un po’ alla maniera di Tolstoj. Del resto similmente a quest’ultimo, diventò a poco a poco una grande autorità morale. Ogni tanto visitava l’Unione Sovietica, anche se là il contenuto delle sue meditazioni e dei suoi scritti non poteva di certo suscitare entusiasmo. Eppure Lunačarskij e in seguito a quanto pare anche Stalin, trovarono tempo per lui. Per una figura di quel calibro, non c’è da stupirsi. Rerich fu un filosofo alla maniera indiana – non senza motivo tra i suoi amici più intimi c’erano Gandhi, Tagore, Nehru.

   Dipingeva l’Himalaya, conventi e castelli sui monti, dipingeva il Tibet. La sue tele dai viola e gialli intensi, raffiguranti paesaggi rocciosi, sobri, suscitano un’impressione incredibile, c’è in essi un certo simbolismo in armonia con la creazione poetica. Nelle sue poesie si avverte un cammino, una esperienza interiore, emerge da esse un ben preciso piano di valori.  Nel mondo sono stati lasciati dei “segni sacri” e l’uomo è tenuto a trovarli, o almeno a cercarli. Ognuno è chiamato e ognuno può ricevere la chiamata. Purché la sappia sentire, perché la chiamata è sempre inattesa. L’interpretazione della sua arte non deve essere soltanto religiosa, ma deve includere anche e soprattutto il senso della vita e del proprio destino, che ogni uomo dovrebbe scoprire e realizzare. Quella di Rerich è una morale assai elevata. Purtroppo, il più delle volte non raggiungiamo la nostra vocazione, qualunque essa sia. Forse per questo un autore come Rerich provoca in noi a volte un senso di insofferenza – ci rammenta cose che non è comodo ricordare nella vita di ogni giorno. Anche per questo motivo forse è un poeta che non troverà mai un gran numero di lettori. Ma se ci sono, essi si distinguono per le loro alte qualità – tra gli ammiratori di Rerich e della sua poesia oltre a Tagore c’era anche Gor’kij…

   Le sue poesie sono molto semplici e al tempo stesso complesse. Semplici perché a volte in esse non c’è ombra di ritmo, ed è del tutto assente la rima. Di regola sono parabole, allegorie, che non vanno capite alla lettera. Ma il precetto morale, sempre presente, è letterale e concreto.

   Mi vergogno ad ammetterlo, ma fino a poco tempo fa la mia conoscenza di Rerich era assai nebulosa. Ora, lo dico pienamente convinto, considero Rerich una delle figure più straordinarie del XX secolo.

Poesie di Nikolaj Rerich tradotte da Paolo Statuti

 

Gocce

La Tua felicità riempie

le mie mani. E’ tanta da versarsi

attraverso le mie dita. Non posso

trattenerla tutta. Non faccio in tempo

a scorgere i lucenti rivoli di ricchezza. La Tua

buona onda attraverso le mani si versa

in terra. Non vedo, chi raccoglierà

il prezioso liquido? Le minute stille

su chi cadranno? A casa non giungerò

in tempo. Di tutta la felicità nelle mani

strette con forza riuscirò a portare soltanto

                                 gocce.

 

La perla

 

Di nuovo o messaggero. Di nuovo il Tuo

comando! E un dono da Te!

O Signore, Tu mi hai mandato

una Tua perla e hai comandato

d’inserirla nella mia collana.

Ma Tu sai, o Signore,

la mia collana – è falsa.

Ed essa è lunga, come sono

lunghe soltanto le cose

false. Il tuo dono scintillante

tra i ninnoli offuscati

annegherà. Ma Tu

hai ordinato. Io eseguirò.

 

Ehi, voi, bighelloni di strada!

Nella mia collana

c’è datami

dal Signore

                 una perla!

 

Col sorriso?

 

O messaggero, mio messaggero!

Tu te ne stai lì e sorridi.

E non sai cosa mi hai

portato. Tu mi hai portato il dono

della guarigione. Ogni mia lacrima

guarirà una malattia del mondo.

Ma, Signore, dove prendere

così tante lacrime e a quale

dei mali del mondo devo consacrare

il primo torrente? O messaggero,

mio messaggero, te ne stai lì e

sorridi. Non c’è in Te

l’ordine di curare l’infelicità

                                   col sorriso?                   

 

Si rallegra

 

Dietro la mia finestra di nuovo splende

il sole. Dell’iride sono rivestiti tutti

i fuscelli. Sui muri sventolano

le raggianti bandiere della luce. Di gioia

la vivifica aria tremola. Perché

sei inquieta, anima mia? Ti sei spaventata

per ciò che non sai. Per te

il sole s’è oscurato. E si sono spente

le danze dei felici fuscelli.

Ma ieri, anima mia, tu sapevi

così poco. Così grande è

la tua ignoranza. Ma a causa della tormenta

era tutto così povero, che tu ti sei

considerata ricca. Ma ecco il sole

oggi è sorto per te. Per te

le bandiere della luce hanno sventolato.

I fuscelli la gioia ti hanno portato.

Tu sei ricca, anima mia. A te

giunge il sapere. La bandiera della luce

su di te risplende!

                      Si rallegra!

 

La mattina

 

Non so e non posso.

Quando voglio, penso, –

qualcuno vuole più fortemente?

Quando apprendo, –

non sa qualcuno ancora più fermamente?

Quando io posso, – non può

qualcuno meglio e più a fondo?

Ed ecco io non so e non posso.

Tu, che vieni in silenzio,

senza parlare dimmi, nella vita cosa

volevo e cosa ho raggiunto?

Posa su di me la tua mano, –

di nuovo potrò e bramerò,

e ciò ho bramato di notte verrà in mente

                              la mattina.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Alcuni quadri di Nikolaj Rerich
i (11)i (12)i (13)i (14)i (15)i (16)i (17)i (18)i (19)i (20)

rerich-nicholas_roerich_guests_from_overseas

r-nnn-n-pocaluj-ziemie-kiss1

Maria Maddalena

11 Ago

 

Jan Dobraczyński

Jan Dobraczyński

 

Santa Maria Maddalena (Domenico Tintoretto)

Santa Maria Maddalena (Domenico Tintoretto)

 

   Nel Vangelo ci sono pagine molto belle e toccanti, soprattutto quelle in cui ci imbattiamo nella misericordia e nel perdono. In particolare mi ha sempre commosso l’episodio dell’adultera (Gv 8, 3-11), dove troviamo di fronte la misericordia divina e la miseria umana, dove è così grande l’effusione del perdono e della grazia da parte della misericordia, che la miseria viene riabilitata e ristabilita nel bene.  La figura della Maddalena ha ispirato scrittori, poeti, pittori e musicisti. Tra gli uomini di penna c’è il romanziere cattolico Jan Dobraczyński (1910-1994), il cui libro Magdalena è stato pubblicato in italiano nella mia traduzione dalla casa editrice Gribaudi (Ho visto il Maestro. Il romanzo di Maria Maddalena, 2005). Per i miei lettori ho scelto le avvincenti pagine relative alla conversione di questa donna che, al pari degli uomini, fu chiamata a testimoniare il Vangelo, e per questo la Chiesa ortodossa le dà il titolo di apostola.

 

   Fu svegliata dal chiasso, dal bagliore delle torce e dalle mani che la scuotevano violentemente. Nella piccola stanza aveva fatto irruzione un gruppo di uomini. L’afferrarono brutalmente per i capelli, tirarono via le lenzuola, le strapparono di dosso la kuttona. Con gesto disperato si aggrappò al lenzuolo e se lo strinse al petto. A botte e strattoni la tirarono fuori dalla stanza. Per un attimo scorse, tra gli aggressori che non cessavano di urlare, la faccia spaventata del padrone di casa. La trascinarono lungo il corridoio senza smettere di colpirla. Il lenzuolo le si era avvoltolato tra le gambe. Cadde. Allora la presero a calci, scuotendola e tirandole i capelli. Sentiva su tutto il corpo il tocco delle sudicie mani.

   La turba che la trascinava si riversò sulla strada. Lì aspettava una folla ancora maggiore. Benché la colpissero da tutte le parti, riuscì a scorgere nella calca il fariseo che l’aveva importunata il giorno prima. Egli e alcuni altri vestiti da farisei davano gli ordini.

   Le tolsero via il lenzuolo con il quale voleva coprirsi, le sputarono in faccia, le strapparono gli orecchini. Lo stupore che l’aveva colta dopo essere stata brutalmente svegliata si era trasformato in paura mortale. Era sicura che tra un attimo sarebbe morta. Quegli uomini senza dubbio la trascinavano per lapidarla. La sua costernazione aumentò ancora , quando scoprì di conoscere la faccia dell’uomo che la reggeva per i capelli e non smetteva di scuoterla. Era una faccia che aveva già visto. Doveva essere uno degli uomini di Melitone. Ma non aveva il tempo di riflettere. Cercava di proteggere il viso dai colpi e dagli sputi. La turba ululando e urlando se la trascinò dietro lungo una stradina, sempre colpendola con le mani e con i piedi. Sentiva rivoli di sangue che le scorrevano sul viso e sul corpo. Inciampava, cadeva, di nuovo si rialzava. Il crescente dolore aveva soffocato in lei anche la paura della morte.

   Non si rendeva conto di dove la portassero, ma a un certo momento notò che si trovavano sul ponte del fiume Xystos e della valle del Tyropeon. In tal caso la trascinavano verso il Tempio. Strano. Se volevano lapidarla, avrebbero dovuto portarla fuori città…

   Ma questi pensieri apparvero e scomparvero come un lampo. L’unica cosa che in lei si rafforzava sempre più era la consapevolezza che non avrebbe potuto sopportare oltre quel dolore: doveva finire, anche se la sua fine avesse significato la morte. «Basta, Basta!» le martellava nella testa. Tutto fuorché quella incessante valanga di colpi…

   All’improvviso la folla si fermò. Maddalena alzò la testa, tolse le mani dal viso, scostò i capelli insanguinati che le coprivano gli occhi. Si trovavano nel cortile del Tempio, davanti al colonnato detto portico di Salomone, nel luogo dove erano soliti riunirsi i dottori e i maestri per meditare ad alta voce sui versetti della Torah, circondati dagli ascoltatori. Il corteo si mescolò a quelli che ascoltavano colui che stava parlando. I farisei che avevano guidato l’aggressione andarono oltre. Si avvicinarono all’uomo che sedeva sotto una delle colonne del portico.

   Era alto e di bell’aspetto. Alla luce del sole i suoi capelli avevano il colore giallo bruno del miele. Il volto esprimeva gravità, serenità e una strana tristezza. Rivolse ai nuovi arrivati i grandi occhi scuri, che fino a quel momento aveva tenuto fissi sui volti di coloro che lo ascoltavano. Erano occhi profondi. Sembravano parlare, domandare e rispondere, aspettare e chiamare a sé.

   Quelli che lo stavano ascoltando si ritrassero e formarono un ampio cerchio. Malgrado fosse di prima mattina, erano in molti. Il gruppo condotto dai farisei si fermò al centro, separato dalla folla. Al cenno di un fariseo Maddalena venne spinta avanti. Quando le mani dei persecutori la lasciarono, stramazzò al suolo. Giacendo cercava di celare la sua nudità. Aveva il corpo coperto di sangue e di lividi, i capelli arruffati le cadevano sul viso. Attraverso essi, come da una grata, guardava l’uomo che sedeva sempre appoggiato alla colonna. Tre giovani farisei si avvicinarono a lui. Uno disse:

   – Ti salutiamo, rabbi.

   Chinò lievemente la testa.

   – Anch’io vi saluto. Siete i benvenuti. La pace dell’Altissimo sia sempre con voi. Cosa vi conduce qui?

   Il fariseo indicò con un ampio gesto la donna che giaceva a terra.

   – Ti abbiamo portato questa donna dissoluta e adultera, rabbi. E’ stata la concubina di un pagano. L’abbiamo sorpresa in flagrante adulterio. Che dobbiamo fare di lei? Tu cosa dici?

   Soltanto allora capì chi doveva essere l’uomo dal quale l’avevano condotta. Dalle sue parole dipendeva il suo destino. A quanto pare era pietoso con gli infermi. Ma lei non era inferma. Malgrado ciò, provava il desiderio di alzarsi di scatto e di gettarsi ai suoi piedi. D’implorare pietà e soccorso. Eppure non poteva farlo. Aveva la sensazione che i suoi capelli e le sue braccia fossero stretti da mani invisibili e la reggessero in modo da non farla muovere. Cominciò a tremare, sia per la paura che per la disperazione.

   – E cosa dice la Scrittura? – udì di nuovo la voce dell’uomo.

   Un altro fariseo, evidentemente preparato a questa domanda, prese il rotolo che aveva con sé, lo distese e cominciò a leggere, scandendo ogni parola come se cantasse:

   – Dice la Scrittura: «Gli uomini della città conducano via la donna dalla casa del padre e sia lapidata finché non morirà…»

   – Dunque ha peccato in casa di suo padre? – l’uomo interruppe con questa domanda la lettura del fariseo.

   – Non ha il padre. Era sotto la tutela del fratello. Ha abbandonato la casa per commettere adulterio. E’ stata vista peccare con i pagani. La Scrittura impone chiaramente di lapidarla. E tu, rabbi, cosa dici?

   Non rispose. Si alzò lentamente. Adesso si vedeva che era alto, superava in altezza coloro che lo circondavano. Fissò a lungo i volti dei farisei che aveva davanti a sé. Quello sguardo sembrava penetrare in profondità, sembrava toccare i cuori degli uomini. Quelli istintivamente indietreggiarono. Ed egli sempre lentamente si chinò, si inginocchiò. Sulla polvere rossa che il vento d’oriente aveva portato e che copriva le piastrelle del cortile, scrisse qualcosa con il dito. I farisei che seguivano ogni suo gesto accompagnavano con lo sguardo il movimento del dito. A mano a mano che leggevano però, sui loro volti appariva dapprima lo stupore, e subito dopo l’indignazione e lo sgomento. Guardavano ora colui che scriveva, ora se stessi. Ad un tratto quello che aveva letto la Scrittura avvolse il rotolo e frettolosamente scomparve nella folla. Si allontanò anche quello che il giorno prima pretendeva che Maddalena cedesse alle sue voglie. Infine se ne andò anche il terzo.

   Il gruppo privo dei capi non sapeva cosa fare. Si avvicinarono al Maestro che non smetteva di scrivere. Appena però uno posava lo sguardo su ciò che era stato scritto, subito indietreggiava, si nascondeva dietro gli altri. Spariva, si  allontanava. Il gruppo si scioglieva come neve a contatto dell’acqua calda. L’uomo che Maddalena aveva riconosciuto come un seguace di Melitone, corse via come se avesse visto il diavolo.

   Non passò molto tempo e non era rimasto più nessuno di quelli che l’avevano condotta lì.

   Allora l’uomo smise di scrivere e si alzò. A passi lenti andò verso Maddalena. Tremava tutta. Aveva dimenticato il corpo percosso e ferito. L’uomo che le si avvicinava la impauriva. Le pareva che delle voci le gridassero in un orecchio: «Scappa anche tu! Nasconditi!» Ma non aveva la forza di sollevarsi da terra. Premette la testa contro le piastrelle del cortile. Era sicura che colui che le si avvicinava avrebbe scritto davanti a lei qualche parola terribile, capace di farla precipitare in un abisso.

   L’uomo di chinò su di lei. Ella fissava i suoi piedi nei semplici sandali legati con un laccio. Al colmo dello spavento aspettava il fulmine.

   Al suo posto udì una voce virile, profonda, inaspettatamente mite:

   – Nessuno ti ha condannata?

   Quella mitezza la spinse ad alzare la testa. Vide chino su di sé un volto pieno di comprensione, pietà e bontà. Ella non ricordava lo sguardo di suo padre, perché era morto quando era una bambina, ma sentiva che in quel modo poteva guardare soltanto un padre. I suoi occhi penetravano nell’intimo, bruciavano e confortavano. Erano come il fuoco che cauterizza una ferita e la guarisce.

   – No, rabbi – disse. – Nessuno…

   – Nemmeno io ti condannerò – e così dicendo si tolse il mantello dalle spalle e coprì il corpo insanguinato della donna. – Torna a casa, alla casa paterna…

   Scoppiò in un pianto dirotto. Piangeva come mai le era successo nella vita. Aveva capito di essere stata salvata, aveva capito e nello stesso tempo si rendeva conto dell’enormità del male da lei commesso. Egli per lei non doveva scrivere nulla. Di lei sapeva tutto. Conosceva ogni suo peccato. E aveva cancellato tutto con una sola sua parola.

   – Oh, Signore! – esclamò. – Oh, Signore, Signore!

   Accostò la testa ai suoi piedi, vi premette sopra le labbra. – Oh, Signore! – ripeteva, non riuscendo a pronunciare nessun’altra parola.

   Protese il dito con il quale poco prima aveva scritto i suoi tremendi moniti e toccò la fronte di Maddalena, dicendole:

   – Va’ e non peccare più.

   Le sembrava che con quelle parole il cielo le fosse piombato sulla testa. Non c’era vento, eppure aveva l’impressione che un potente turbine l’avesse colpita e le penetrasse nel corpo, nelle ossa, in ogni particella del suo essere. L’aveva fatta a pezzi e annientata. Ma era un vento misericordioso. Aveva ucciso e contemporaneamente restituito alla vita. L’aveva resa di nuovo quella di un tempo… Incredula sollevò la testa. Egli non era più vicino a lei. Si era allontanato, sedeva di nuovo sotto la colonna. Di nuovo parlava e la folla lo aveva circondato per ascoltarlo meglio.

   Il mondo riprese l’aspetto che aveva prima. Il sole splendeva come sempre. Sentiva il brusio delle voci umane. Da qualche parte belavano le pecore, ragliavano gli asini e i cammelli. Tutto era come prima. Soltanto lei non era più quella che avevano trascinato lì…

   Strisciò fino al punto in cui egli si era chinato, toccò con le labbra le pietre. Poi si alzò. Si avvolse nel mantello con cui egli l’aveva coperta. Lasciò il cortile.

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

Janusz Łętowski

10 Ago

 

 

Professore di diritto amministrativo, melomane e apprezzato critico musicale. Dalla sua raccolta di feuilleton sui grandi interpreti della musica classica Galeria portretów muzycznych (Galleria di ritratti musicali, 1987) ho scelto e tradotto dal polacco per i miei lettori l’introduzione.

 

Introduzione

   Poco tempo fa ho incontrato un mio buon conoscente, una persona il cui parere tengo in seria considerazione, perché apprezzo i suoi gusti e i suoi giudizi.

   – Ciò che scrivi è troppo personale e soggettivo – mi ha detto. – E inoltre eccedi nell’uso della prima persona. Il giudizio dovrebbe essere piuttosto impersonale, basato su argomenti e non su impressioni. Scrivere ciò che proviene da “se stessi” ha un sapore di presunzione e di civetteria. Dovresti evitarlo.

   Mah, se solo potessi! Capisco bene di che si tratta, ma – onestamente parlando – non credo in generale che sia possibile una obiettività assoluta nei pareri e nelle valutazioni musicali. Si può ancora dimostrare che ad esempio Schnabel suona il pianoforte meglio del proverbiale Sempronio, ma è una incongruenza argomentare su chi esegua “meglio” le sonate di Beethoven: Schnabel, Backhaus o Kempff. Arriviamo infatti al punto in cui decide il gusto personale dell’ascoltatore, al punto in cui se qualcuno afferma: “questa esecuzione mi piace”, non gli si può rispondere con alcun argomento logico, a meno che non si usi la risposta: “ti piace , perché sei un somaro”, ma in effetti anche essa spiegherebbe ben poco.

   Perché allora si leggono le critiche e le recensioni? E’ una cosa che mi fa riflettere, perché anch’io in questo campo cerco di leggere tutto ciò che mi capita sotto mano. In primo luogo dunque, si legge per sapere cosa avviene, chi e dove si è esibito, cosa ha suonato, quali dischi sono usciti, quale libro hanno stampato. L’informazione in questo caso è il punto di partenza per formarsi un ritratto dell’artista: molto su di lui, infatti, dirà il repertorio che sceglie, e il luogo dove si esibisce dirà al lettore qualcosa sulla sua attuale posizione nel mondo della musica. Allo stesso modo, se ad esempio qualcuno ha inciso per una nota casa discografica, oppure è passato da un disco a basso prezzo ad uno molto costoso. Questo modo di ragionare a volte non trova riscontro, tuttavia esso può fornire qualche indicazione.

   In secondo luogo, il rapporto tra il critico e il lettore in materia di cultura è alquanto diverso dal rapporto che si stabilisce nella lettura del giornale. Se prendo in mano un articolo pubblicato sul quotidiano “Tribuna”, posso aspettarmi che, a causa dell’orientamento di questo giornale, il contenuto dell’articolo corrisponderà alla posizione ufficiale in un dato campo, e leggo appunto con questa disposizione d’animo. Una cosa diversa sono i giudizi su una esecuzione artistica, espressi soprattutto con riflessione e senza lasciarsi coinvolgere emotivamente. Qui il rapporto tra chi scrive e il lettore si basa principalmente sulla stima di quest’ultimo nei confronti di un particolare autore, del suo gusto personale, della sua serietà e accuratezza…

   Ma cos’è che dà al critico o al recensore una certa preminenza sul semplice ascoltatore o acquirente di dischi? Secondo me soltanto questo: il primo ascolta molto di più e quindi ha una più ampia possibilità di confronto. E solo dal confronto viene la conoscenza e il distacco che modera la perentorietà dei giudizi e la veemenza della prima valutazione. Ogni persona, e quindi anche chi scrive sulla musica, ha naturalmente i propri gusti. Ci sono cose che ama, e cose che suscitano in lui delle obiezioni. Ha dunque due modi di agire nei confronti dei lettori: il primo è non considerare i propri gusti e cercare argomenti obiettivi per giustificare la sua opinione nel caso specifico; il secondo è rivelare il proprio gusto e parlare a viso aperto. Io cerco di seguire quest’ultimo criterio. La conseguenza principale della mia scelta – ciò che naturalmente può e dovrebbe essere oggetto di critica – è il fatto che io evito quasi del tutto la problematica della musica contemporanea. Non me ne intendo, e la cosa peggiore è che non riesco nemmeno per mio uso personale a farmi un’idea di cosa ci sia in essa di buono e non buono. Non distinguo una esecuzione eccellente da una mediocre, a meno di usare criteri affatto tradizionali, ma essi in questo caso non possono essere applicati! Una volta ho ascoltato la registrazione dei Diavoli di Loudun di Krzysztof Penderecki, e a tratti ho avuto l’impressione che alcuni solisti stonassero. Ma la protesta interiore è subito frenata dalla riflessione: e se il compositore intendeva proprio questo? Hans Hotter una volta eseguiva i canti di Rychard Strauss e si rammaricava terribilmente, che le note alte gli causassero problemi e le cantava sforzandosi. Arrivò il compositore, il quale disse: “E chi le ha detto che ho scritto i miei canti, in modo che risuonassero morbidamente? Volevo proprio questo, che si sentisse lo sforzo!” Di fronte all’ampliamento della libertà del compositore fino a limiti estremi, oggigiorno è difficile per il recensore dare un giudizio univoco. Per questo, rendendomi conto della mia debolezza, preferisco cavarmela con le storielle sul conservatorismo.

   Le difficoltà che trova davanti a sé il critico sono tuttavia niente di fronte alla situazione addirittura tragica di un esecutore sulla scena davanti agli ascoltatori. Ai tempi di Nikisch e di Paderewski, il concerto era ancora l’unica forma di messaggio musicale. Il concertista presentava la sua arte a un pubblico ben disposto ad approvarla. Oggi la radio, la televisione, i nastri e i dischi hanno fatto sì che si accetta volentieri solo l’artista di fama mondiale. Nessuno mi indurrà a uscire di casa davanti alla prospettiva di un semplice concerto con un programma ordinario. Non andrò ad ascoltare una sinfonia di Brahms nell’esecuzione di un’orchestra scadente; potrei forse recarmi a un concerto, dove ad esempio venisse eseguita una sinfonia di Elgar, che del resto da noi è quasi sconosciuto. Però se una sinfonia di Brahms fosse preparata da uno dei migliori direttori polacchi con l’orchestra migliore che egli si possa permettere, andrei al concerto, sapendo che in ogni caso nell’armadio di casa mi aspettano Furtwängler, Walter, Barbirolli, Boult, Szell e qualcun altro niente affatto inferiore. In anticipo sono predisposto al confronto e al giudizio sulla esecuzione in base a ciò che già conosco, a ciò cui sono abituato. Sono dunque un ascoltatore molto diffidente, niente affatto propenso ad arrendersi alle concezioni del direttore d’orchestra, e pronto a un velenoso brontolio in caso di brutta esecuzione: ma qui, fratello, hai strimpellato da questo punto, e da quel punto…L’artista lo sa ed è una cosa che non gli piace affatto. Ma non ci può fare niente. Si trova in una situazione simile a quella di un insegnante dei nostri tempi in una buona scuola elementare, piena di marmocchi sapientoni, che guardano la televisione per alcune ore al giorno. Non lo invidio per questa situazione, ma deve rendersene conto. Abbiamo sempre meno tempo. Siamo stanchi. Per i mediocri non c’è posto. Ma colui che riuscirà a vincere con un avversario così esperto e saggio, come l’odierno ascoltatore, è come se vincesse cento volte.

 

 

(C) by Paolo Statuti