
Andrej Voznesenskij
La caccia alla lepre
All’amico Jura
Si caccia la lepre. Le cagne aizzate.
Caccia! Caccia! Latrati e chiasso.
E pellicce ranciate
Come aranci nella neve.
Cacciamo la lepre. Passata la sbornia,
Io, il garagista, il tenente della milizia,
Stivali di feltro, facce giallo cromo,
Il genero di Bukashkin con un ragazzo –
Diamo gas!
La jeep, prodigio industriale,
Avvolge la catena.
Ciarle! Cacciamo la lepre.
Forse, solo, cacciamo noi stessi?
Ardono le nevi tracciate,
Io con gli stivali e il giaccone,
Cosa balla la mia mira, Jurka?
Jurka, qui qualcosa non va,
Se nello spavento sulla neve
Salta un bicchiere
di sangue vivo!
La febbre di uccidere, come la febbre di concepire,
Cieca e funesta,
Essa adesso urla: carne di lepre!
Domani urlerà: carne umana…
Giaceva di traverso,
Giaceva, palpitando dal lato sinistro,
Come il grigio cuore del bosco,
Del silenzio.
Giaceva, l’azzurro dei fianchi
Sollevava, respirava ancora,
Come un occhio doloroso,
che batte
Sulla triste guancia delle nevi.
Ma d’un tratto, divampando come cero,
Balzò su,
E sul bosco, sul nero fiumicello
Irruppe
Un grido
Umano!
Il suono fu acuto e chiaro, come
ultrasuono
o come il grido di un bambino.
Io sapevo che le lepri gemono. Ma in questo modo?!
Era la nota della vita. Così gridano le partorienti.
Così gridano le radure spoglie
E i cespugli finora muti,
Così la morte ci tronca la voce
Di una purezza non provata.
Alla natura, silenziosa e stupenda,
Un boschetto, forse un lago, un ciocco –
Ad essi è permesso ascoltare, provare,
Solo la voce non è data.
Così si grida la prima e ultima volta.
Era la vita, allontanandosi cantava,
Volando via, come da un calappio,
Verso la volta celeste e le nuvole.
Durò un istante,
Restammo impietriti,
come in un fotogramma fermato.
Lo stivale del garagista che correva non toccò terra.
Quattro neri pallini, non giunti a segno, si conficcarono
nell’aria.
Egli ci guardò. E – o così ci parve –
Sui muscoli orizzontali del corridore,
sui peli bruciacchiati del collo balenò il viso.
Gli occhi storti e spalancati, come
negli affreschi di Dionisio.
Egli guardò con stupore e rabbia.
Si sollevò nell’aria.
Quasi fosse fuso con il grido.
Restò sospeso…
Col viso alterato e luminoso,
Come hanno gli angeli e le cantanti.
Arcangelo silvestre dalle lunghe gambe…
Scorreva la nebbia dorata verso i boschi.
“Inganna”, – dopo aver sparato ha sputato.
E sommessamente piangeva il ragazzo.
Tornavamo nottetempo.
Il vento sfregava il muso come fosse smeriglio.
Come semafori purpurei,
I nostri visi scorrevano verso il buio.
1963
Comandamento
Di sera, di notte, di giorno e di mattina
Ringrazio che non sono morto ieri.
La pallottola dell’avversario ha colpito la candela.
Ringrazio per la sacralità del rito.
Il nemico fa per me – è più atteso di un fratello,
ringrazio che non sono morto ieri.
Ringrazio che non sono morto ieri,
il mio giardino e la casetta col terrazzino,
sarebbe di ieri, dell’altroieri,
e stamattina il nespolo è fiorito!
E mai entreresti nella mia vita
tu, che ti chiami forza peccaminosa –
con purezza, come rimettendo i peccati,
la casa hai rivestito – che magia!
Non vedrei come sei fresca la mattina!
Comincerebbe a svegliarti un altro uomo.
Tutto questo è impensabile!
Ringrazio che non sono morto ieri.
La perdita è nera. La linea è segnata.
Bisogna leggere il verdetto, senza lamenti.
Bisogna, come Brumel’, cominciare da “niente”.
Ringrazio che non sono morto ieri.
L’esistenza è come una sorella,
non commettiamo magici errori.
La vita è così cara, per questo
ringrazio che non sono morto ieri.
Perché essa ha ragione, non è odio, è magia.
Forse domani diranno: “E’ ora!”
Perciò scarabocchia con un sorriso di penna:
“Ringrazio che non sono morto ieri”.
1976
(Versione di Paolo Statuti)