Archivio | dicembre, 2012

Andrej Voznesenskij (1933-2010)

13 Dic
Andrej Voznesenskij

Andrej Voznesenskij

 

 

La caccia alla lepre

                                                    All’amico  Jura

Si caccia la lepre. Le cagne aizzate.

Caccia! Caccia! Latrati e chiasso.

E pellicce ranciate

Come aranci nella neve.

 

Cacciamo la lepre. Passata la sbornia,

Io, il garagista, il tenente della milizia,

Stivali di feltro, facce giallo cromo,

Il genero di Bukashkin con un ragazzo –

 

Diamo gas!

 

La jeep, prodigio industriale,

Avvolge la catena.

Ciarle! Cacciamo la lepre.

Forse, solo, cacciamo noi stessi?

 

Ardono le nevi tracciate,

Io con gli stivali e il giaccone,

Cosa balla la mia mira, Jurka?

 

Jurka, qui qualcosa non va,

Se nello spavento sulla neve

Salta un bicchiere

                              di sangue vivo!

La febbre di uccidere, come la febbre di concepire,

Cieca e funesta,

Essa adesso urla: carne di lepre!

Domani urlerà: carne umana…

 

Giaceva di traverso,

Giaceva, palpitando dal lato sinistro,

Come il grigio cuore del bosco,

Del silenzio.

 

Giaceva, l’azzurro dei fianchi

Sollevava, respirava ancora,

Come un occhio doloroso,

                                              che batte

Sulla triste guancia delle nevi.

 

Ma d’un tratto, divampando come cero,

Balzò su,

E sul bosco, sul nero fiumicello

Irruppe

Un grido

Umano!

 

Il suono fu acuto e chiaro, come

                                                    ultrasuono

o come il grido di un bambino.

Io sapevo che le lepri gemono. Ma in questo modo?!

Era la nota della vita. Così gridano le partorienti.

 

Così gridano le radure spoglie

E i cespugli finora muti,

Così la morte ci tronca la voce

Di una purezza non provata.

 

Alla natura, silenziosa e stupenda,

Un boschetto, forse un lago, un ciocco –

Ad essi è permesso ascoltare, provare,

Solo la voce non è data.

 

Così si grida la prima e ultima volta.

Era la vita, allontanandosi cantava,

Volando via, come da un calappio,

Verso la volta celeste e le nuvole.

 

Durò un istante,

Restammo impietriti,

come in un fotogramma fermato.

Lo stivale del garagista che correva non toccò terra.

Quattro neri pallini, non giunti a segno, si conficcarono

nell’aria.

Egli ci guardò. E – o così ci parve –

Sui muscoli orizzontali del corridore,

sui peli bruciacchiati del collo balenò il viso.

Gli occhi storti e spalancati, come

negli affreschi di Dionisio.

Egli guardò con stupore e rabbia.

Si sollevò nell’aria.

                                Quasi fosse fuso con il grido.

Restò sospeso…

Col viso alterato e luminoso,

Come hanno gli angeli e le cantanti.

 

Arcangelo silvestre dalle lunghe gambe…

Scorreva la nebbia dorata verso i boschi.

“Inganna”, – dopo aver sparato ha sputato.

E sommessamente piangeva il ragazzo.

 

Tornavamo nottetempo.

Il vento sfregava il muso come fosse smeriglio.

Come semafori purpurei,

I nostri visi scorrevano verso il buio.

 

1963

 

 

 

 Comandamento

 

Di sera, di notte, di giorno e di mattina

Ringrazio che non sono morto ieri.

 

La pallottola dell’avversario ha colpito la candela.

Ringrazio per la sacralità del rito.

Il nemico fa per me – è più atteso di un fratello,

ringrazio che non sono morto ieri.

 

Ringrazio che non sono morto ieri,

il mio giardino e la casetta col terrazzino,

sarebbe di ieri, dell’altroieri,

e stamattina il nespolo è fiorito!

 

E mai entreresti nella mia vita

tu, che ti chiami forza peccaminosa –

con purezza, come rimettendo i peccati,

la casa hai rivestito – che magia!

 

Non vedrei come sei fresca la mattina!

Comincerebbe a svegliarti un altro uomo.

Tutto questo è impensabile!

Ringrazio che non sono morto ieri.

 

La perdita è nera. La linea è segnata.

Bisogna leggere il verdetto, senza lamenti.

Bisogna, come Brumel’, cominciare da “niente”.

Ringrazio che non sono morto ieri.

 

L’esistenza è come una sorella,

non commettiamo magici errori.

La vita è così cara, per questo

ringrazio che non sono morto ieri.

 

Perché essa ha ragione, non è odio, è magia.

Forse domani diranno: “E’ ora!”

Perciò scarabocchia con un sorriso di penna:

“Ringrazio che non sono morto ieri”.

 

1976

 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

 

 

 

 

Jarosław Iwaszkiewicz

9 Dic

    

 

Conegliano

Conegliano

Jarosław Iwaszkiewicz

Jarosław Iwaszkiewicz

 Nel mio blog ho già pubblicato un articolo dal titolo: Jarosław Iwaszkiewicz – Il poeta polacco che aveva l’Italia nel cuore. Ho trovato tra le mie carte un bellissimo racconto di questo grande scrittore e poeta, da me tradotto tanti anni fa e tratto dal suo volume “Podróże do Włoch” (Viaggi in Italia). Desidero proporlo alle mie amiche e ai miei amici come piccolo regalo di Natale. Non vi troverete niente della tradizionale iconografia delle festività natalizie, ma – come dice lo stesso Iwaszkiewicz: è un’occasione per riscoprire il fondo, l’antico fondo dell’anima umana. Ma non è proprio questo lo spirito del Natale?

 

Jarosław Iwaszkiewicz

 

Conegliano

   Resto sempre incantato nell’Accademia Veneziana (e in altre gallerie italiane) davanti ai quadri di Cima da Conegliano. Si tratta delle più svariate scene sacre: la Natività, la Visitazione, Il Sermone della Montagna, dipinti quasi sempre sullo sfondo di un unico paesaggio: un castello su di un’alta montagna e un viale di cipressi che conduce ad esso.

   E’ il paesaggio che, rimasto quasi immutato, si può osservare ancora oggi dalla stazione ferroviaria di Conegliano, o dalla strada che da Udine porta a Venezia. Conegliano è la prima cittadina italiana che un viaggiatore incontra andando in Italia, così come è l’ultima quando si congeda da questo paese. Poi non restano che “gli azzurri valichi tedeschi”.

   Quando andai la prima volta in Italia, ritenni mio dovere (e anche Grydzewski, redattore di “Notizie Letterarie”, lo riteneva) scrivere una magnifica “corrispondenza” di viaggio. E quando il treno, con mio sommo rammarico stava per lasciare Conegliano (era una serata afosa e profumavano le acacie), mi è apparso sul marciapiede il capostazione col suo eterno e sempre pittoresco berretto rosso, che con un braccio dava il via al treno e con l’altro reggeva un lanuto cagnolino.

   Scrissi di questo cane nella mia “superlativa” corrispondenza, suscitando per questo l’indignazione di tutti. “Se ne va in Italia (nessun altro allora ci andava) per descrivere i cagnolini, nella bella Italia lui vede solo i cagnolini e i berretti rossi dei capistazione!…”

   Perfino una bella signora, le cui opinioni mi stavano a cuore, si scandalizzò di questa mia ragazzata e mi scrisse in proposito una lettera, meravigliandosi che, invece di “ammirare gli affreschi e i mosaici, io mi occupassi di simili baggianate”. Era tutto così assolutamente poco serio.

   Considerai opportuno rispondere a quella signora con la seguente lettera, che si adatta a meraviglia ad epilogo del mio viaggio in Italia.

   Mia cara – anzi Egregia signora!

   Dunque lei vuol sapere perché mi è piaciuto il cagnolino del capostazione di Conegliano…Perché dopo il ritorno dall’Italia ho scritto su di lui, perché ho parlato di cose tanto comuni, di un cane, di gatti, anziché del mare azzurro, del cielo azzurro, della grotta azzurra, degli occhi azzurri.

   Neanche lei può capire perché ciò sia successo.

   Devo dunque spiegarlo? Ci proverò!

   Avrei forse dovuto ancora una volta parlare di ciò che è già stato detto mille volte? Dovevo parlare della morte di Dante alla vista di Ravenna – quando ho bevuto là un ottimo vino infiascato? Dovevo meditare sulla vanità di tutte le cose davanti alla rotonda di Teodorico – quando il treno mi ha portato vicino ad essa nella sua folle corsa? A malapena ho potuto vedere di sfuggita le sue grigie pietre da dietro le spalle di un corpulento italiano – ho scritto solo una poesiola:

                          Non so quante volte Dante è spirato

                          Nella bottiglia o nel fiasco di vino,

                          Si avventa il treno come un drago alato

                          Sulla tonda tomba di Teodorico.

 

   Cos’altro mai dovevo pensare, dire, scrivere io, figlio del XX secolo, che legge Cocteau, di cui del resto Lei troverà traccia in questa poesiola, e Reverdy, benché non lo capisca affatto? Che là in Ucraina un tempo si pensava e ci si sentiva, si sentiva in altro modo? Ah, è triste. Pian piano si arriva al momento in cui davvero niente, più niente interessa. E proprio allora si scorge un cagnolino , un bianco cagnolino, come una rivelazione. L’improvvisa emozione davanti a un cucciolo è la chiave che mette in moto una macchina, e tutti i sentimenti, tutti gli entusiasmi, tutti gli ideali di colpo ricominciano a muoversi come un ingranaggio, una cinghia di trasmissione – e d’un tratto si riscopre il fondo, l’antico fondo dell’anima umana.

   Fu proprio così. Una notte afosa, un caldo soffocante; era già passata la mezzanotte e attraverso il finestrino, senza sosta, dal cielo di cobalto si riversava nel vagone il profumo delle acacie. Non ho ricordato in quel momento, una canzonetta sulle acacie (la rammenta?) che si cantava da noi tempo fa e che parlava dei cosiddetti bei tempi. Le assicuro che allora non pensavo a quella canzonetta. Il profumo di quelle acacie mi ha intorpidito. Gli alberi carichi di fiori andavano lungo la strada ardente come piccoli italiani alla prima Comunione. Il treno si fermò a Conegliano. Vigneti e viali di castagni cingevano da entrambi i lati la piccola, bianca stazioncina dai muri arroventati, dietro la stazione si vedeva la cittadina, dietro questa la montagna come il Calvario alla luce della luna, come in un quadro, una montagna banale, del tutto banale, con la cresta dei cipressi, con i ruderi del castello…proprio come in una ballata, come in un romanzo romantico. Che noia! Non distante dai ruderi – un castello rinascimentale, gli alberi, i cipressi, la notte, la vampa e il silenzio. Sul marciapiede – cioè un piccolo spazio infocato – alcune dame e un vecchio signore, giunto da Venezia; si salutano, conversano; d’un tratto una delle dame inciampa, lancia un gridolino, da sotto le gambe sguscia via un piccolo, bianco gomitolo, il capostazione con in testa il suo berretto rosso, si china e raccoglie il gomitolo – è un magnifico volpino, un cuccioletto che trotterella a fatica, in quel momento il treno si muove, il capostazione saluta, il cagnolino sul suo braccio guaisce debolmente…E questo sarebbe tutto? E’ tutto. Esternamente è tutto.

   Ma quel cagnolino – un bianco cagnolino, un batuffolo più che un cagnolino, un gomitolo di lana bianca, non un cagnolino – è diventato proprio quella chiave di cui parlavo poc’anzi. Come una rivelazione mi si è affacciato il pensiero che tutto in quel momento fosse solo un prodigio, e che da quel momento avrebbe continuato ad esserlo. Che il mio fratello cane è fratello come un albero, come il cielo, come il mare, che quella notte era la più meravigliosa delle notti, che “siamo soli con il Dio della notte”. E quando in quella buia calura il treno è partito verso un’ignota, nera lontananza, ho capito che non si può scrivere sull’Italia, perché l’Italia è realmente un prodigio. Che non si può rendere a parole né la polvere gialla sui marmi di Roma, né la bianca spumosità dei marmi di Venezia, né l’azzurro dei colli attorno a Firenze, che di sera si tramuta in ametista; al massimo si può scherzare con le parole e scrivere su Venezia:

 

                                Quali sono i più bei colori,

                                Ieri ho domandato.

                                Mi ha detto il guardiano al Luna Park:

                                Il giallo, il bianco, il rosato.

 

   Sarebbe una barbarie descrivere ancora una volta (per cosa? per chi?) e fare giochi di prestigio e tirare di scherma con le parole…a che servirebbe? Descrivere fedelmente quella montagna di rosa, di rosa e di azzurri, quell’insieme di cupole, di colore dell’aurora e della reseda, di torri dai riflessi oro-amaranto, di cariglioni verderamati percossi dai martelletti dei centauri…

   L’Italia non si può descrivere a parole. Il mondo non si può descrivere a parole. E i tre compiti del poeta: conoscere, capire, riprodurre, sono una chimera come una montagna di vetro, come un palazzo di ghiaccio. Non si può recingere il mondo, quella muta di cani scatenati, quella mandria di cavalli gremita di stalloni morelli; non si può rinchiudere l’Italia nella cornice dorata delle parole, l’uccello dalle candide piume farebbe scoppiare la gabbia dei suoni – l’uccello come la terra che si leva in volo sulle acque dell’ombra e dell’universo; la scorza delle tenui paroline cadrebbe come la buccia di verdi mandorle dal contenuto incomparabile; risonerebbe la voce: “Io sono colui che è”, e il mondo ci passerebbe oltre, come noi gli passeremmo oltre. E’ il treno nero e solo, che corre nella notte, portandoci nelle tenebre, e cosa c’è di strano, se a volte in esso ci incanta più di tutto un particolare, come una lente che concentra le linee delle nostre vicende, un particolare tenue, minuto, quasi invisibile – appunto il cagnolino del capostazione di Conegliano.

   Ecco perché ho rinunciato a descrivere i paesaggi italiani e ho descritto cani e gatti, e talvolta anche le persone. Forse questo non piacerà ai lettori e diranno che non sono saggio, perché non ho scritto che Michelangelo fu un buon pittore, e perché non ho lodato Botticelli.

   Penso che Botticelli può fare a meno delle mie lodi, mentre il piccolo, bianco cagnolino, estratto dal nulla, vivrà finché qualcuno vorrà leggere questa lettera scritta forse a Lei, Signora. O forse a nessuno. 

(Versione di Paolo Statuti)

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Il Natale polacco con Władysław Stanisław Reymont

5 Dic
Władysław Stanisław Reymont

Władysław Stanisław Reymont

Una Vigilia di Natale con Władysław Stanisław Reymont

 

   Władysław Stanisław Reymont, lo scrittore che assieme a Stefan Żeromski impresse una svolta decisiva alla letteratura polacca tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nacque il 6 maggio del 1867 nel villaggio di Kobiele Wielkie, nei pressi di Radomsko, e morì il 5 dicembre del 1925 a Varsavia. Fu un autodidatta che seguì una strada insolita – da lavorante in una sartoria a vincitore del premio Nobel nel 1924, un anno prima della morte.

   Figlio di un organista, tentò diversi mestieri. Fu novizio in un convento di Paolini, da cui ben presto fuggì, comparsa in un teatro ambulante, semplice impiegato delle ferrovie e aspirante sarto. Finalmente scoprì in sé il talento letterario. Era un epico nato, fornito di straordinaria perspicacia, eccellente memoria, fertile immaginazione e di grande sensibilità per le bellezze della lingua, e questi pregi compensarono la mancanza d’istruzione e gli consentirono di farsi una vasta eterogenea cultura letteraria.

   Dopo aver provato dunque diversi mestieri, nel 1893 iniziò la sua carriera di scrittore sul Settimanale Illustrato e su altre riviste di Varsavia. Già i primi articoli e racconti gli valsero incoraggiamenti e giudizi lusinghieri. Testi come La morte e La cagna mettevano a nudo la cruda verità sulla vita nelle campagne. Tre anni dopo uscì a Varsavia il primo romanzo di Reymont – La commediante, e nel 1897 la seconda parte dello stesso, intitolata Fermenti. In questi due libri lo scrittore incluse molti ricordi del suo vagabondare giovanile assieme alla troupe teatrale.

   Nel 1899 apparve il grande romanzo La terra promessa – l’opera che doveva dargli definitivamente una posizione di prestigio nella letteratura del tempo. E’ un quadro artistico, vivo e pulsante di Łódź, che da piccolo borgo con poche fabbriche, negli ultimi anni del XIX secolo era diventata una grande città industriale. Reymont ne mostrava in modo realistico il travolgente sviluppo. Questo romanzo consacrò per sempre la fama dello scrittore, il suo talento così originale, la sua capacità di rappresentare il mondo in modo così efficace e perentorio. Da questo libro sono stati tratti due film. Il primo fu girato nel lontano 1927. Il secondo, realizzato da Andrzej Wajda a metà degli anni ’70, ottenne il I premio al Festival Cinematografico Internazionale di Chicago.

   Ma l’opera maggiore di Reymont fu il romanzo in quattro volumi I contadini, pubblicato negli anni 1904-1905. E’ una vasta epopea della campagna polacca, alla fine del XIX secolo, considerata uno dei grandi capolavori del romanzo realistico europeo di quel periodo. In nessuna altra opera sulla campagna polacca è possibile trovare una così profonda conoscenza della vita quotidiana del contadino. Il romanzo di Reymont non idealizza la vita nelle campagne. La dura lotta per l’esistenza, il desiderio di possedere la terra, l’amore e l’odio – sono gli elementi che formano questa straordinaria epopea e ne fanno non solo un documento storico, ma soprattutto un’opera che analizza in profondità le esperienze e i sentimenti umani.

   E’ un grande inno al lavoro e all’amore per la terra natia. Proposto per il premio Nobel, il romanzo I contadini fu preferito alle opere di scrittori come Thomas Mann, Thomas Hardy, Maksim Gor’kij e Stefan Żeromski. Uno dei membri della giuria, ricordando che era il secondo Nobel assegnato a uno scrittore polacco, dopo Henryk Sienkiewicz, disse: “La Polonia finora ha avuto una letteratura che descriveva la vita della nobiltà. Reymont la completa ora con un romanzo epico sui contadini. Il contadino polacco, con tutti i suoi difetti e tutte le sue debolezze, si presenta agli occhi dei lettori come la parte più sana e migliore del popolo polacco”. I contadini sono stati tradotti in molte lingue. Dopo aver letto il romanzo, lo scrittore francese Emile Guillaumin (autore del libro Vita di un uomo semplice ) dichiarò: “Bisogna considerare quest’opera come una maestosa, stupenda cattedrale, in cui ogni dettaglio tocca il cuore.

   Di questo grande scrittore polacco pubblico qui, nella mia versione, un breve racconto ispirato alle tradizioni e alle leggende natalizie polacche. Il titolo è appunto “Leggenda della Vigilia”.

 

Leggenda della Vigilia

 

   …Andava Gesù con san Pietro e Giuda lungo la strada da Ujazd a Pietrów.

   Fu tanto, tanto tempo fa, perché dove adesso è asciutto – scorreva l’acqua, e dove adesso ci sono i campi – c’erano boschi e terreni così incolti, che ad ogni miglio si trovava una campagna e ogni due – una casa signorile.

   Gesù tremava dal freddo, perché era vestito miseramente e il gelo era intenso, ciò infatti accadeva la Vigilia di Natale.

   Avevano voglia di mangiare, ma non c’era né un casolare, né una locanda, né anima viva da nessuna parte, soltanto selve e terreni deserti. Si sedevano un po’, sopraffatti dalla stanchezza, ma subito riprendevano il cammino, perché i lupi e altri animali selvatici li seguivano a branchi e ululavano da far accapponare la pelle.

   San Pietro aveva spezzato un grosso ramo per usarlo come bastone, e Giuda aveva raccolto una pietra e la stringeva nella mano, ma vedendo ciò Gesù disse loro:

   – Non temete. Io sono con voi…

   San Pietro e Giuda non avevano paura, ma se un animale è feroce è feroce, e con un bastone o una pietra in mano un uomo cammina più sicuro e con più coraggio.

   Verso sera giunsero a una casa signorile e pensarono di trovarvi da riscaldarsi e da mangiare un boccone, ma i padroni li cacciarono via, nelle selve, nei boschi.

   San Pietro era così infuriato, che avrebbe voluto assestare almeno una bastonata sulla loro testa, e Giuda disse:

   – Ho una tale rabbia, Signore, una tale rabbia, che ora prendo quella gallina appollaiata sulla siepe – sì, ora la prendo proprio…

   Allora Gesù disse loro:

   – Abbiate pazienza…La gente è ignorante e per questo è stolta e cattiva. Soltanto una scimmia molesta un’altra scimmia, un uomo invece dovrebbe essere solidale con un altro uomo e aiutarlo, al mondo sarà ancora così.

   Riprese il cammino e mormorava qualcosa tra sé, ed essi gli camminavano dietro…camminavano…e il gelo era sempre più intenso e avevano sempre più fame. Camminavano…camminavano…finché arrivarono a una locanda.

   – Entriamo – disse Gesù – persone generose si possono sempre trovare in questo mondo.

   – Ma Signore! – esclamò san Pietro – non ho più neanche un centesimo.

   Gesù si cercò addosso ma non trovò niente. Si rattristò il suo cuore e disse:

   – Neppure io. Forse tu, Giuda, hai qualcosa, dunque prestameli.

   – Ho una zloty! – rispose – e ne aveva due, ma gli dispiaceva prestare i soldi.

   – Dammelo! Se non ne hai di più, pazienza.

   Eppure Gesù sapeva che egli lo stava ingannando.

   Giuda allora tirò fuori 98 centesimi, glieli porse e disse: – Chissà dove sono finiti gli altri due centesimi…- perché pensava di risparmiare così anche quelli.

   Gesù prese i soldi ed entrarono nella locanda.

   – Sia lodato Gesù Cristo!

   – Sempre sia lodato! Siate i benvenuti, da dove vi ha portati qui il Signore Iddio? – chiese la locandiera.

   – Dal mondo, buona donna, dal mondo. Siamo infreddoliti e affamati, forse tu ci darai ristoro, perché respiriamo a stento dalla stanchezza.

   – Dacci un po’ di pane – disse san Pietro.

   – Non ce n’è.

   – Allora  almeno un po’ di formaggio e di salame…

   – Non ce n’è, mi dispiace…

   – Forse hai almeno una scodella di cavolo o di patate…

   – Non c’è più niente, perché prima di voi sono state qui alcune persone, che hanno mangiato tutto fino all’ultima briciola.

   – E un po’ di vodka ce l’avresti?

   – La vodka c’è, ma non di quella buona, perché la migliore è finita.

   – Volete bere qualcosa? – chiese Gesù.

   Giuda si limitò a sputare, e san Pietro disse:

   – Beh…una mezza non ci starebbe male, perché lo stomaco mi gorgoglia e l’anima è triste.

   – Forse ci sono delle aringhe? – domandò Giuda, perché era molto ghiotto di pesce.

   – Non ci sono aringhe.

   – Cosa dunque posso fare per voi! – si rammaricò Gesù.

   – Pagare – disse la locandiera – allora forse si troverebbe anche un’oca…

   – Pagheremo quanto ti spetta – rispose Gesù. – Donna, dacci quest’oca, la guarderemo e contratteremo.

   La locandiera portò l’oca dalla dispensa.

   Per primo la esaminò Giuda, perché in passato faceva il mercante e se ne intendeva – ma appena soppesata l’oca sul palmo della mano, soffiò sulle piume della pancia e disse:

   – Magra!…Troppo magra, sembra uno stecco. Basterebbe solo per me, ma per tre bocche – è per un dente ciascuna.

   San Pietro si grattò la testa, perché non sarebbe bastata neanche per lui solo.

   – Arrostiscila – ordinò Gesù alla locandiera e poi chiese:

   – E’ vero, Pietro, che per noi tre è troppo piccola?

   – Troppo, Signore, se almeno ci fosse anche una scodella o due di cavolo e una pagnotta come contorno – basterebbe, ma così…

   Gesù rifletté un istante e poi disse:

   – Facciamo così: adesso ce ne andiamo a dormire per calmare un po’ la fame, e intanto l’oca si cuocerà, e quando ci alzeremo la mangerà quello di noi che avrà fatto il sogno più bello.

   Si sdraiarono subito vicino alla stufa e si addormentarono.

   Dopo un’ora o due Gesù si svegliò.

   – Alzatevi!…allora, Pietro, tu cosa hai sognato?

   – Signore, ho sognato di essere il tuo fattore, di avere anche le chiavi della fattoria e una capanna tutta per me, e ti servivo fedelmente, Signore.

   – Bene, bene, mio amato bracciante, sarai il mio fattore – disse Gesù e prese tra le sue sante mani la testa di Pietro. – E io ho sognato di essere già in cielo, perché al mondo non c’erano più né cattivi, né ignoranti, né poveri; perché ormai tutti i contadini avevano la terra e tutti gli uomini stavano benissimo.

   – L’oca è tua, Signore, perché hai fatto il sogno più bello – rispose san Pietro e, benché non ci vedesse dalla fame, non provava dentro di sé alcun rammarico.

   – E tu, Giuda, cos’hai sognato? – chiese Gesù soavemente, guardando barbagialla che si era appena alzato e si strofinava gli occhi sbadigliando.

   – Io, Signore, ho sognato…di essermi alzato nel sonno e di aver mangiato l’oca…- rispose Giuda sottovoce e con gli occhi inchiodati al pavimento.

   – Già già…niente male, proprio niente male …Donna, portaci quell’oca.

   La locandiera arrivò e disse che quello con la barba gialla si era mangiato l’oca e che non era rimasto neanche un ossicino per il cane.

   Gesù guardò teneramente Giuda e disse:

   – Hai sognato di aver mangiato l’oca, Giuda? Hai fatto davvero un bel sogno…

   – L’ho sognato, Signore – rispose sottovoce, senza alzare gli occhi e strappandosi i peli della barba gialla.

   – L’hai sognato…bene, allora resta qui solo, Giuda…L’hai sognato, sogna dunque ancora di aver mangiato l’oca con il cavolo, e in compagnia, e noi Pietro andiamocene a cercare qualcuno che ci dia da mangiare e che non ci imbrogli.

   E se ne andarono in due.

   Ed è per questo che adesso il popolo polacco osserva scrupolosamente la Vigilia, secondo gli insegnamenti di Gesù.

 

 

(C) by Paolo Statuti

Il Natale polacco

4 Dic

Di nuovo in cielo brilla la cometaimages (72)

 

   Con commozione e nostalgia pubblico nel mio blog una trasmissione da me realizzata tanti anni fa per la redazione italiana di Radio Polonia e destinata agli ascoltatori italiani.

 

   Natale! Quante cose può  dire una parola sola…quanti ricordi, desideri, speranze. E’ una finestra provvidenziale che si apre dopo una anno di attesa, per lasciare entrare un soffio d’aria fresca e pulita. E’ la chiave che può aprire ogni porta, anche la più sprangata. Ma è soprattutto desiderio di ritrovarsi, bisogno d’amare, risveglio di sentimenti assopiti.

   La notte di Natale in Polonia ci si divide l’ostia benedetta; si lascia un posto vuoto a tavola, simbolicamente occupato da un ospite occasionale in cerca di calore umano, o da un parente o amico lontano – sono solo due esempi del nostro modo d’intendere e di celebrare la nascita di Cristo, il momento più poetico e solenne dell’anno.

   Abbiamo scelto per voi alcuni versi e canti natalizi polacchi. Poesia e musica ci è sembrato infatti il binomio più adatto per esprimere a voi e ai vostri cari il nostro più fervido e sincero augurio di BUON NATALE!

(qui era inserito un brano dello Scherzo in si minore di Chopin, in cui riecheggia il motivo del canto natalizio Lulajże Jezuniu (Fa’ la nanna, o Gesù)

   Jerzy Liebert nella poesia La messa di mezzanotte, dipinge il suo Natale con una sequenza di pennellate vivide e delicate, e termina il quadro con la figura di Gesù Bambino, che guarda malinconicamente la porta, in attesa di vedere entrare un uomo degno di tale nome.

 

La messa di mezzanotte

Gli uccelli come campanelle si godono il canto –

Cristo è nato per noi e nuovi giorni verranno.

 

Dalle rive della Vistola fino alla Grotta

Con gli uccelli sono giunti i caprioli in frotta.

 

Lo scoiattolo mostra i denti e osserva in alto

Due colombi che nuotano nel cielo di cobalto.

 

E i fiori, benché sia inverno e il freddo l’abbia gelati,

Portano la mirra, l’incenso e calici dorati.

 

Anche i pavoni sono giunti da paesi lontani,

Per comparare le piume con le angeliche ali.

 

E il Bambinello triste guarda la porta e attende

Di vedere l’uomo fra tutta quella gente…

 

Scrivere questo link in google: 

 http://www.youtube.com/watch?v=I8ccPFdZSKI

 

 

 

 

 

   Leopold Staff è l’autore del sonetto che stiamo per leggervi. Il poeta avverte il freddo gelido nella natura e nelle anime, sente la sofferenza del mondo, ma nello stesso tempo ode anche il grido incredibile e consolatore: “Il Signore è nato!”. Egli è nato dall’Eternità e, ahimé, il mondo legato al tempo non può generarlo senza affanno.

 

*  *  *

 

Quando il vento a dicembre è più acuto e freddo,

Quando già gozzovigliano le bufere,

E la terra irrigidisce sotto la neve

E la vita e la morte vanno a braccetto;

 

Quando la notte la sua vetta ha toccato

E tutto il mondo grida il suo dolore:

A un tratto sentiamo – noi Iperbòrei –

Quel grido incredibile: “Il Signore è nato!”

 

Oh, prodigio! Sempre Dio quando è dicembre

Nasce! Ma è vero poi, nasce realmente,

Se questa voce si rinnova ogni anno?

 

Infelici! Ciechi! Sordi! In verità

Il Dio eterno nasce dall’Eternità,

E può il mondo generarlo – senza affanno?

Scrivere questo link in google: 

 http://www.youtube.com/watch?v=1kmxc0nV9bY

 

 

 

 

   La poetessa Kazimiera Iłłakowiczówna costruisce la sua Pastorale come un luminoso mosaico di trepidi angeli in balenanti armature, di bagliori di luce che si sprigionano dalle stelle e dalla neve bianca, di immagini legate all’iconografia del Natale: la Madonna in ansia, i premurosi pastori, gli animali pietosi…e dalla scena fluisce verso il cielo stellato il caldo pennacchio biancopiumato dei respiri e la ninnananna a Gesù.

 

Pastorale

 

Gesù trema nella culla nato d’inverno;

una frotta d’angeli veglia trepida sul Bambinello;

Maria

come un giglio

nella veste avvolge suo Figlio.

 

Un angelo i minuti conta,

un altro a quello è legato,

un terzo intona un lieto canto,

il primo tocco dei secoli è scoccato

agli uomini in dono

sull’orologio

da Dio fattosi Uomo.

 

Bagliori dalla luce, dalle stelle, dalla neve bianca.

Lascia che scaldino il Figlioletto, Maria, Vergine santa.

Si scansino gli angeli con le armature e i canti gioiosi,

e vengano a scaldare il Bambinello gli animali pietosi,

perché fuori si muore dal freddo!

E voi, cari pastorelli, nella capanna entrate in fretta,

portategli vicino il bue e l’asinello,

perché ormai è spento il tenue focherello.

Il gelo mostra i denti,

il Bambino giace fragile sulla paglia

e china sulla culla Maria è sempre più pallida.

 

Dalle vesti, dalle armature, dalle tese mani bianche

attorno alla capanna – nell’aria un cerchio lucente e trepidante.

E dall’interno al gelo verso il cielo stellato

fluisce dei caldi respiri il pennacchio biancopiumato,

i sussurri pietosi, il pianto che non c’è più

 e la “Ninna, ninnananna, o amato Gesù”.

 

 

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 http://www.youtube.com/watch?v=LlYr2r1-fcs

 

 

 

   Jan Twardowski nella brevissima eppure così intensa poesia Sulla piazza della città, paragona la sfarzosa, colossale stella che guidò i Re Magi a Betlemme, a un’esile stellina di neve, che con la sua fragilità e purezza lo ha ricondotto a Dio.  

 

Sulla piazza della città

 

I re ha guidato a Betlemme una stella colossale

girando cerchi dorati sulle teste dei cammelli –

 

me ha ricondotto a Dio la mattina di Natale

sulla piazza infangata – di neve un’esile stella.

 

E’ caduta – e di colpo candore, luce e calore…

e il gelo mi leccava le ossa attraverso il cappotto invernale.

 

 

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 http://www.youtube.com/watch?v=9H3hQk6jCyI

 

 

 

 

   L’ultima poesia che vi presentiamo è di Konstanty Ildefons Gałczyński, e s’intitola Il ritorno. Il poeta, dopo un lungo e deludente errare per il mondo, a Natale torna con la fantasia alla casa paterna, e ritrova tutto e tutti esattamente come un tempo. Di nuovo la famiglia è riunita, di nuovo in cielo brilla la Cometa, i cuori vibrano in coro e d’un tratto il silenzio è rotto da un canto natalizio suonato all’ocarina.

 

Il ritorno

 

C’è una via non ancora sparita

(ma come arrivarci, e per quali strade?),

la via dell’infanzia tradita,

la via della Grande Pastorale.

Là nella polvere di carbone,

e non in un giardino incantato,

c’è una casa dal tetto arancione,

la casa dove un giorno sei nato.

La stessa pietra davanti all’ingresso.

E il custode è sempre lo stesso.

Mi chiede: “Dov’è stato per tanti anni?”

“Ho girato questo mondo d’inganni”.

Sali le scale col cuore in gola.

Entri. La mamma è bella come allora.

Con lei mio padre coi baffi neri.

E i nonni. Tutti come fosse ieri.

Anche mio fratello con l’ocarina,

e che poi morì di scarlattina.

Papà dice alla mamma: “E’ spuntata,

in cielo già brilla la cometa,

dividiamoci l’ostia consacrata”.

Ci stringiamo uniti nell’attesa

con i cuori che vibrano in coro

come sull’albero le foglie tra loro.

Silenzio. L’abete accende i suoi rami.

In cima un angelo sbatte le ali.

Alle finestre i rossi gerani,

delle candele i riflessi dorati,

e mio fratello suona in sordina

il canto di Natale all’ocarina:

FA LA NINNA, O GESU’,

MIO BAMBINO,

FA LA NANNA, O GESU’,

MIO TESORINO.

 

 

(stesso brano dello Scherzo di Chopin)

 

 

   Le versioni in lingua italiana delle poesie che avete ascoltato sono di Paolo Statuti. I canti natalizi eseguiti erano, nell’ordine:

 

– Wśród nocnej ciszy  (Nel silenzio della notte)

Bóg się rodzi  (Dio è nato)

– Jezus malusieńki  (Gesù Bambino)

Lulajże, Jezuniu (Fa’ la nanna, o Gesù)

 

   In apertura e chiusura di trasmissione avete inoltre ascoltato un brano dello Scherzo in si minore di Chopin, in cui riecheggia il motivo del canto natalizio Fa’ la nanna, o Gesù.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Il Santo Natale nella poesia polacca

4 Dic

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   La notte della Vigilia, nel bagliore della grotta di Betlemme, è nato il Figlio di Dio. “E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato in mezzo a noi, pieno di grazie e di verità” – come leggiamo nel Vangelo di san Giovanni. Il mistero dell’Incarnazione e della Nascita è diventato fonte di ispirazione artistica per i poeti dal medioevo fino ai nostri giorni. In Polonia il Natale ha sempre trovato nell’anima popolare la sua espressione più spontanea e commovente, come del resto dimostrano le bellissime “kolende”, ovvero canti di Natale , così densi di tenerezza e di serenità, così lirici, mistici, pieni di religiosa meditazione. In questo mio articolo desidero parlare della poesia polacca legata appunto alla festa più bella dell’anno, la festa che risveglia i sentimenti più preziosi e più profondi dell’uomo.

   Natale è il tempo dell’attesa e della gioia. Silenzio e incanto e “all’improvviso purezza, luminosità e calore” – scrive il poeta Jan Twardowski (v. articolo a lui dedicato in questo blog). La stella di Betlemme brilla alta nel cielo. Affrettiamoci dunque con esultanza e fiducia e prendiamo parte alla comunità famigliare. Un’antichissima consuetudine polacca è quella di lasciare un posto vuoto a tavola per un viandante sperduto, per un amico o parente lontano, per un pellegrino “che dalla falsa strada, invisibilmente ci rende visita…condotto dalla potenza divina” – sono parole del poeta Stanisław Miłaszewski. Jan Kasprowicz ricorda invece che “c’è anche l’amore nei nostri cuori, perché questo giorno gioioso è concepito nell’amore”. Dunque attesa, il sussurro della preghiera, l’ostia benedetta, gli auguri…Ecco la Vigilia, così sentita, così vicina al cuore di ogni uomo. La sua immagine ritorna continuamente nelle confessioni liriche dei poeti – come ricordo dell’infanzia lontana o come sogno irreale. L’accompagna un’atmosfera di mistero, straordinaria, purificante. “Il Dio-Uomo è nato per gli uomini, dunque svegliamo coloro che sonnecchiano, coloro che hanno il cuore indurito, che si plachi la collera…” – esorta il poeta Tadeusz Chrzanowski. Nel silenzio della notte risuona un canto di adorazione. In quell’attimo tra gli uomini è sceso il Maestro-Eterno. Le visioni poetiche della Notte della Vigilia si ricollegano alla kolende. In esse si avverte anzitutto una grande gioia – perché è nato Colui che cambierà il volto della Terra. La Natività è innalzata al rango più alto – come evento che influisce sulla storia dell’universo. I poeti rendono quindi omaggio a Cristo, creano strofe di lode e venerazione. Sulla Terra è giunto il Dio-Uomo per donare agli uomini il sentimento dell’uguaglianza e della giustizia, perché regnino l’Amore, la Saggezza, la Fede e la Speranza. Nella poesia “Natale” del poeta del ‘600 Jan Andrzej Morsztyn, leggiamo: “Notte felice, nella quale nasce per noi un Giorno Luminoso, la Luce per tutto il creato…”

   Questa Notte Divina dovrebbe essere sempre silenziosa, santa e serena, eppure non sempre il Santo Natale è stato gioioso. Durante il periodo delle spartizioni, quando seduti alla tavola della Vigilia si aspettava invano un padre, un fratello, un figlio, il cuore delle donne polacche era spezzato dalla disperazione. Nelle immagini poetiche di quegli anni accanto ai motivi della stella, della grotta e della mangiatoia erano presenti anche simboli patriottici. In seguito venne la triste Betlemme polacca dell’occupazione nazista. Le confessioni dei poeti in quel travagliato periodo rendono omaggio alla notte santa, ma al tempo stesso tragica, oscura e sanguinosa. “Nel silenzio della notte ansima insonne la città nel terrore, la città nel sangue di neve” – scrive la poetessa Jadwiga Gamska-Łempicka. Per il Bambinello non c’era posto sulla Terra così crudele, così odiosa. Non c’era posto per Lui nei cuori travagliati degli uomini. Perché “i cuori si sono trasformati in tenebre” – afferma Krzysztof Kamil Baczyński (ibidem), morto a soli 23 anni durante l’Insurrezione di Varsavia; e gli faceva eco Maciej Józef Kononowicz: “Nei nostri petti battono i pugni – Il cuore? Questo era tanto tempo fa…” Eppure questi versi di terrore e di morte sono illuminati dalla speranza. Che cosa ci si attendeva dal Bambinello? “Ridacci gli occhi dell’infanzia, il sorriso e la fede nella vita. Ridacci le mani delle madri, ridacci le labbra delle mogli e il cinguettio dei bambini e la casa” – scriveva Maciej Józef Kononowicz  In un campo di concentramento in Germania.

   E arrivò anche il gelido inverno del 1981, lo stato di guerra che arrestava brutalmente il progresso verso la sospirata libertà. In quel periodo mi trovavo a Roma e con le lacrime agli occhi scrissi questa breve poesia che fu pubblicata da “il Messaggero”. In essa mi rivolgo a Zbigniew Chotkowski, un mio carissimo collega polacco sepolto a Prima Porta.

 

Natale polacco

Caro Zbyszek,

neppure a Prima Porta

riposi in pace.

Sognavi una Vigilia

di gioia serena,

ma di colpo

è cambiata la scena:

fischia un vento gelido

che scuote la Grotta,

in ginocchio nel fango

la Madonna trema,

sparano ai pastori,

la neve si arrossa.

Inoltre piange a dirotto

e mancano gli ombrelli

della rassegnazione.

Sognavi il Natale,

ed è la Passione.

     

 (Roma, Natale 1981)

 

   Natale. Tempo di grande fede, tempo di serietà e felicità. “Ecco la stella conduce come latteo ruscello di pietà alla Città della Grande Speranza – alla mistica Betlemme” – così si esprime il poeta Mikołaj Bieszczadowski.

   La civiltà contemporanea porta nelle composizioni poetiche motivi nuovi. Accanto ai contenuti religiosi appaiono riflessioni profondamente filosofiche, metafisiche, esistenziali: sulla morte, sulle tenebre, su ciò che trascorre, sul senso della vita umana. Zbigniew Dolecki si chiede: “Tu che sei nato secoli fa – dimmi in questa notte…i nostri cari trasformati in polvere un giorno ci parleranno ancora?”

   Ed ecco che oggi si recano a Betlemme “i poveri che mangiano il pane quotidiano, coloro che si sciolgono in lacrime, coloro che sono soli, impazziti dal dolore, che non hanno il sorriso, e sono piccoli, viventi nel timore e storditi dalla sofferenza – perché una luce immensa diventi la loro casa”. Queste struggenti parole sono del poeta Ernest Bryll (ibidem).

   Affascinati dall’evento, ricolmi di fede e di speranza – entriamo in un Nuovo Anno del Signore.  “Tremiamo di spavento, anche se siamo felici” – dice Roman Brandstaetter (ibidem). Gesù Bambino ci ha donato la luce che – come afferma il papa-poeta Karol Wojtyła (ibidem) – “entra nei cuori e rischiara le tenebre delle generazioni, penetra nelle debolezze”.

 

                                                                                       (Paolo Statuti)

 

Fotografia: Altare di Wit Stwosz (particolare). Chiesa Mariana a Cracovia.

(C) by Paolo Statuti