Archivio | febbraio, 2016

Jan Śpiewak

24 Feb

 

 

  jan spiewak

 

Jan Śpiewak (1908-1967), poeta, saggista, critico letterario e traduttore, marito della poetessa Anna Kamieńska (v. nel mio blog) e padre del sociologo Paweł Śpiewak. Nacque nel villaggio ucraino di Hola Prystań da una famiglia ebrea. Di questo suo luogo di nascita scrisse nel necrologio Jarosław Iwaszkiewicz: “Nacque in Ucraina, nella terra steppica che si estende tra il Dniepr e la steppa. Essi ebbero entrambi un notevole ruolo nella sua poesia”.

L’infanzia, trascorsa a Cherson, fu segnata dalla fame. I genitori ebrei vennero fucilati e ciò costituì la perenne ossessione della sua memoria e della sua creazione. Studiò filologia polacca a Lwów e a Varsavia. Fu legato al gruppo di poeti di sinistra, che stampavano i loro versi sulle riviste socialiste Segnali e Binario sinistro. Durante la seconda guerra mondiale visse in Unione Sovietica.

Tornò a Varsavia nel 1950. Fu membro della redazione del mensile letterario Tempi moderni. Pubblicò 9 raccolte poetiche (la prima – Poesie della steppa è del 1938) e traduzioni dal russo e dal bulgaro. Con la moglie Anna Kamieńska tradusse i drammi di Gorkij, mentre in collaborazione con Seweryn Pollak pubblicò nel 1955 il patrimonio letterario di Józef Czechowicz. E’ anche autore di antologie, schizzi letterari, saggi, ricordi di altri poeti (ad es. Gałczyński, Piętak, Ginczanka). Nel 1966 ricevette l’Ordine dei santi Cirillo e Metodio di prima classe, per le traduzioni dal bulgaro raccolte nell’antologia O bosco, bosco verde. Le sue poesie sono inserite in numerose antologie di poesia polacca, pubblicate nella lingue straniere.

Morì a Varsavia. Dal 1968 a Świdwin ogni anno si svolge il concorso poetico nazionale di poesia intitolato a Jan Śpiewak e Anna Kamieńska.

La poesia di Jan Śpiewak, di cui scrissero con grande entusiasmo illustri critici, è decisamente originale. Dopo la guerra egli si rifece a due tradizioni: il colorito e fiero linguaggio degli abitanti delle campagne e la poesia russa d’avanguardia, soprattutto quella del geniale poeta Velemir Chlebnikov, di cui fu appassionato propagatore e brillante traduttore.

Il poeta e critico letterario Michał Sprusiński conclude così la sua prefazione alla raccolta di poesie, scelte dalla stessa moglie del poeta Anna Kamieńska, e pubblicate nel 1972 (Ed. PIW, Varsavia): “La lirica di Jan Śpiewak è una lirica di contrasti in lotta tra loro, di antinomie inconciliabili, di antitesi con la natura della parola e di duello con la natura della memoria. E’ una spedizione verso isole illusorie, un perdurare tra le aggressioni degli elementi vittoriosi nel procurare dolore e vinti con l’immaginazione, la cui ultima meta è una solitaria isola della salvezza – la terra della predestinazione umana: verità espressa nell’ultima poesia di questa raccolta Salmo dello sconforto, scritto da un poeta che fondatamente sperava”:

 

Dove quando chi

Intorno intorno

Niente niente niente

Da solo in alto

Da solo in basso

Una stella in mano

Proiettile

Una stella negli occhi

Fiamma

Non ci sono occhi

Non ci sono

Teeer-rraaa!

 

 

Come di consueto pubblico qui alcune poesie di Jan Śpiewak nella mia versione.

 

 

Poesie di Jan Śpiewak tradotte da Paolo Statuti

 

 

Nella mia tasca

 

Nella mia tasca – un cerbiatto e una stella.

Nella mia tasca – colibrì, una gazzella.

 

Nei miei capelli – fulmini e nevi.

Nei miei capelli – il cielo sorridente.

 

Nelle mie mani – una carrozza, bisonti.

Nelle mie mani – pifferi e un violino.

La stella e il cerbiatto, i bisonti, i colibrì,

Le nevi, le tormente, la carrozza, i meli.

 

Ecco le mie meraviglie, ecco i miei tesori,

Che il vento spazzerà via.

 

 

* * *

 

Durante un acquazzone ho fissato una goccia.

A lungo ho seguito il suo volo.

Le auguravo:

Di cadere lentamente. Senza fretta. Molto lentamente.

Di assorbire in sé il colore dei lampi, il sapore del vento,

il fruscio della luce, il respiro di ogni verde.

Di essere simile a un uccello e a un orso,

a un girino e a una farfalla, all’oceano e a un torrente.

Di scurire come una nuvola,

di farsi miele, betulla,

di sorridere di sale, di assenzio.

Di essere leggera e inerte,

sonora e muta.

D’indossare tutti gli abiti.

Una goccia.

La piccola goccia di uno scrosciante acquazzone.

 

 

* * *

 

Ecco i miei giardini, ecco i miei frutteti.

Qui vengono gli uccelli e diversi animali.

In un giardino ho la mia grotta, nascosta con cura,

vi custodisco i miei sogni più attraenti,

i sorrisi sinceri degli amici – ce ne sono pochi.

Vi custodisco frantumi di parole da tempo dimenticate,

singole note di svariate canzoni

e il fruscio della steppa, per ricordarlo sempre.

Deformi e contorti faggi, argentei abeti,

un timido melo, un salice e un frassino,

e altri alberi di cui non conosco il nome.

Dicono che la bontà non sia così buffa

come ci sembra, spacie quando gli uccelli

portano nei becchi le loro piume più belle.

I fiori qui convivono con l’erbaccia.

Nel mio giardino vengono anche i filosofi,

fanno sonore tirate dicendo che il passato

è sempre stato più saggio, essi amano i libri,

per loro tutti i fiori fioriscono allo stesso modo.

Nel mio giardino vengono le nuvole, a volte

un ramo ricorda un frammento dell’Odissea, è buffo

quando gli alberi ricordano canti dimenticati.

Accade che una singola foglia ricordi Urszula (1),

la figlia morta, alla quale il padre piangendo

eresse un perenne mausoleo di semplici parole.

Una volta nel giardino ho costruito un rifugio,

dove ho messo l’elmo e lo scudo di un cavaliere tracio

che vedevo a Plowdiw, un sassolino colorato,

la fionda da bambino e il fischietto ricavato da un nocciolo.

Il mio giardino non ha un nome e nemmeno uno spazio reale.

Ultimamente ho dimenticato la strada per il mio giardino.

 

(1) Urszula Kochanowska (v. nel mio blog)

 

 

* * *

 

Mia madre che vive in una nuvola,

Ogni giorno mi dice:

Ti ho dato gli occhi – per poter distinguere.

Ti ho dato le dita – per poter cercare.

Ti ho dato un cuore – per poter credere.

Ti ho dato una moglie – per poter esistere.

 

E mette ogni giorno a mia moglie un abito di frutti.

E mette a mia moglie ogni giorno un abito di rami.

E mette ogni giorno a mia moglie un abito di vento.

Un abito di sorriso, un abito di affetto innominato.

 

 

Dice mia madre che vive in una nuvola:

Ecco il frutto, ecco il ramo, ecco il vento.

Ecco la foglia che nelle mie mani cresce,

Perché l’ombra rimanga dopo di te

Nei capelli vibranti di tuo figlio.

 

E mette ogni giorno a mio figlio un abito del mio sangue,

Un abito di affetto di mia moglie nei nidi degli occhi,

E mette a mio figlio ogni giorno un abito di saggezza,

Un abito di riflessione, un abito di esperienze perfette.

 

Mia madre che vive in una nuvola…

 

 

Canto delle abitazioni

 

La mia prima abitazione aveva sette finestre.

La mia seconda abitazione aveva due vetri umidi.

 

Un grammofono – un piccolo calamaio.

Un noce che cantava – un grembiule di scuola.

Un cuore agitato – la luna sulla radura.

Ho lasciato tutto. Sono andato via per sempre.

 

La mia terza abitazione guardava sulla malva.

La mia quarta abitazione: fuoco e speranza.

 

Stradine qua e là – parole ribelli.

Pomeriggi malinconici – sfera e speranza.

Buonanotte, Mammina – dormi, caro Padre.

Ho lasciato tutto. Sono andato via per sempre.

 

La mia quinta abitazione: amore e ansia.

La mia quinta abitazione: nuvole e sorrisi.

 

Un grammofono – testine lucenti.

Sonni interrotti da un grido – cavallini indocili.

Cielo vicino agli occhi – caldo moderato delle stelle.

Questo non lo lascerò. Resterò per sempre.

 

* * *

Tra il movimento delle labbra e la parola

cosa avviene?

Tra il lampo della mente e il tacere

quale precipizio?

 

Tra il grido del neonato e l’immobilità

quali annegamenti?

Tra il chiarore e la polvere

quanta sofferenza?

 

Gente non misurabile, gente integra,

gente evitata, gente avida.

La terra vi punirà, l’albero vi eviterà.

Sarete redenti.

 

Sulla scala gli angeli andavano,

sulla scala gli angeli andavano,

che importa!

 

Tra il suono e il tono chiassoso

quali corridoi?

Tra la supplica e il pentimento

quali fulmini?

 

Gente che si avvilisce, gente non formata.

Gente che brucia nel fuoco, gente non destata.

 

Sulla scala gli angeli andavano.

Sulla scala gli angeli andavano.

E poi?

 

L’interno di un sasso

 

Ho schiacciato un sasso col piede.

E’ scoppiato il fuoco. Un flauto ha pigolato lamentoso.

I muri si sono travestiti da boschi,

i boschi hanno celato un burrone, il burrone ha commosso

le foglie.

 

Sono sfrecciati dardi piumosi, cannoni a lunga gittata.

La parola ha tagliato le labbra. I respiri hanno aperto le

finestre.

Nel pozzo l’acqua ha scrosciato. Le notti hanno svegliato

i canti.

I cavalieri sono accorsi sui cavalli. Gli sparvieri si sono levati

in alto.

Sono balenati coltelli e spade, picche e lance.

 

Mio Dio, perché ho schiacciato il sasso? 

 

* * *

Sono cieco, non vedo i colori,

sono sordo, non distinguo i suoni,

non ho il senso dell’equilibrio, non conosco il tatto

e il gusto.

Chi sono? Come chiamare l’albero che tocco?

Circondato dagli occhi dei nemici mi sollevo nello

spazio,

smarrisco le mani e la bocca, con un gesto fermo

la cabriolet

di mio nonno e mi sventolo coi sorrisi delle zie.

Che le zie ridacchino facendo l’eterno solitario,

anche così il merlo nella gabbia cinguetterà un’argentea

canzone.

 

A lungo ho imparato a guardare, a ritrovare sapori

e colori ,

a lungo ho imparato l’andatura spaziale.

Vi dico addio, tristezze e rumori, addio, goccia che

tintinni sul vetro.

Addio, invisibile vento che scuoti tutte le finestre

insieme.

Addio, stazioni, isole stupite, addio, ruote di treni

rombanti.

Vorrei recuperare il bastone di amareno di mio padre,

andrei a passeggio.

Pigre bisce, sazie tartarughe e agili lucertole,

radure assolate, sentieri chinati nelle felci,

porcino che cresce d’incanto, cervo che corre nelle

selve –

vengo da voi attraverso nevi, calure e piogge.

Vado nel paese in cui crescono parole verdi.

O mio diletto paese, ti offrirei una rosa

o una mia poesia, che non riuscirò mai a scrivere 

 

Vestiamoci di verde

Vestiamoci di pifferi, di schiamazzo e risate.

Vestiamoci di verde, freddo e tempeste.

Vestiamoci di sonagli, tamburi, flauti.

 

Vestiamoci di viaggi, nuvole e nebulose.

Vestiamoci di fuochi, tormente e di verde.

Vestiamoci di pesci, uccelli e animali.

 

Vestiamoci di cervi, di mari, di notti.

Vestiamoci di orchestre , di rabbia e dolcezza.

Vestiamoci di erbe, boccioli e api.

 

Ah, come ci vestiamo prodigalmente ogni giorno!

 

* * *

Monti possenti, boschi slanciati,

Io vi temo.

Dei vostri dirupi la paura mi opprime,

Mi sembra che dita di pietra

Mi tirino giù.

I vostri sentieri salendo ripidi

Mi scuotono ironicamente.

Non vi capisco, non comprendo,

Non conosco il vostro sublime tacere,

Dei fiumi che scorrono senza sosta sulle pietre.

Non so come chiamarvi.

Non so come mi chiamate.

Chi sono per voi,

Misera sabbia in cammino, che nobilmente

tollerate.

 

A mia moglie

 

Vorrei scrivere una poesia su di Te,

anche se la mia penna è più fragile delle nubi

passeggere,

anche se il mio sorriso è più luminoso delle mie

parole.

Vorrei paragonarti a tutto ciò che reca gioia.

Vorrei paragonarti a tutto ciò che vuol dire cura

serena.

Vorrei paragonarti a tutto ciò che vuol dire che vivo.

Mi rivolgo ai fiori, all’albero, mi rivolgo alle foglie,

mi rivolgo al soave fruscio del vento, perché diano

precisione

e un significato univoco ai miei pensieri.

Mi rivolgo a un sassolino del campo, perché mi insegni

a lodarTi tacendo.

Mi rivolgo alla rosa in fiore, perché mi sostituisca

con la sua bellezza.

Mi rivolgo a tutto ciò che canta e che gioisce.

Vorrei evitare parole elevate e sonanti.

Vorrei evitare i semplici detti da me pronunciati.

Vorrei che questo verso si mutasse nella mia bocca

e nei miei occhi.

 

Oh, se parlasse la luce che mi sveglia al mattino.

Oh, se parlassero le strade che abbiamo percorso

insieme.

Oh, se parlassero i colombi del nostro sangue con il

loro saggio affetto.

 

La mia poesia ogni giorno si avvicina a Te titubante.

La mia poesia ogni giorno si aggira a distanza della

mano tesa

e non osa dichiararsi, e paziente aspetta.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

Zuzanna Ginczanka

3 Feb

 

Zuzanna Ginczanka

Zuzanna Ginczanka

 

Nacque a Kiev il 9 marzo 1917. Il suo vero nome era Sara Polina Gincburg. E’ considerata una delle più geniali poetesse del ventennio tra le due guerre. Nella sua opera si richiama allo Skamander e alla poesia di Leśmian (numerosi neologismi), alla poetica dell’avanguardia e dei futuristi. Debuttò nel 1931 a 14 anni con la poesia Il banchetto delle vacanze, pubblicata nella rivista della sua scuola. In casa si parlava russo, ma lei imparò la lingua polacca come autodidatta. Studiò pedagogia nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Varsavia. Dal 1936 collaborò col settimanale satirico Spilli, dove pubblicava le pungenti satire contro il crescente antisemitismo e contro il fascismo. Nello stesso anno uscì la sua unica raccolta di poesie I centauri. Trascorse i primi anni della guerra a Lwów, dove lavorò come contabile e dove sposò il critico d’arte Michał Weinzieher. Fu una strana unione, perché di fatto Ginczanka era legata al grafico Janusz Woźniakowski.

Nel 1942 una certa Chominowa, proprietaria dell’edificio dove la poetessa abitava, la segnalò come ebrea alla polizia tedesca. Fortunatamente riuscì a fuggire e si rifugiò a Cracovia, ma nell’autunno o nell’inverno del 1944 qualcuno informò la polizia che una sua vicina di casa aveva un aspetto decisamente ebreo. Fu arrestata dalla gestapo. Pensò di finire ad Auschwitz, ma venne fucilata nel cortile della prigione dove era rinchiusa, soltanto qualche settimana prima dell’arrivo dell’Armata Rossa a Cracovia. Aveva appena 27 anni.

Il messaggio artistico di Ginczanka è la “gioia eroica” della stessa esistenza, anche se contrassegnata dall’inquietudine esistenziale e dalla diversità (senza tregua la poetessa, nei versi e nella vita, sottolineava la sua diversità, il suo isolamento derivante dalla sua origine ebrea, e la sua intransigenza nel descrivere le esperienze della donna in genere e di una ebrea in particolare). Scrive Izolda Kiec: “Donna emancipata, libera da stereotipi, ribelle, non aveva bisogno della raccomandazione maschile per esistere nel mondo della cultura. Ma dietro le apparenze di questa indipendenza e l’entusiasmo degli uomini per i suoi versi e la sua bellezza, si celava anche un dramma, che poteva pienamente esprimersi soltanto nella sua poesia malinconica e ricca di motivi androgini”.

Dopo la guerra la sua poesia fu a lungo ignorata dalla critica. Negli anni ’50 uscì una sua raccolta di poesie, ma con notevoli ingerenze da parte del promotore della stessa. La prima monografia apparve soltanto negli anni ’90. 44 dei suoi versi più rappresentativi figurano nel libro pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Biuro Literackie, nel settantesimo anniversario della morte, a cura del poeta Tadeusz Dąbrowski, dal titolo Ascensione della Terra. Nella presentazione Dąbrowski scrive: “Anche se ha lasciato soltanto un volumetto e alcune decine di poesie sparse nelle riviste e nei manoscritti, la sua creazione può dirsi conclusa (i poeti sentono in modo misterioso quanto tempo è loro rimasto). Realmente sentiva l’approssimarsi della guerra? Si dice che Gombrowicz, tornando un giorno a casa dallo Zodiaco, uno dei principali punti di ritrovo della bohème di Varsavia, abbia detto a Ginia (così gli amici chiamavano la poetessa) che per quella guerra imminente bisognava necessariamente procurarsi del veleno. E lei si mise a ridere”.

In Italia nel 2011 è uscita una raccolta di poesie di Zuzanna Ginczanka dal titolo Un viavai di brumose apparenze, a cura di Alessandro Amenta, Austeria Editore. Inoltre nel 2014, in occasione del settantesimo anniversario della morte, la TV italiana ha trasmesso un bel documentario sulla vita e la creazione della poetessa dal titolo La poesia spezzata, realizzato da Alessandro Amenta e Mary Mirka Milo.

Paolo Statuti

 

Poesie di Zuzanna Ginczanka tradotte da Paolo Statuti

 

   Tra le poesie di Zuzanna Ginczanka la più nota è forse Non omnis moriar. Essa ha avuto un ruolo insolito come opera letteraria, in quanto la poetessa vi indicò il nome della delatrice che la segnalò ai nazisti, e in tal modo il testo servì come prova nel processo contro quest’ultima e altri suoi persecutori. Ginczanka era molto bella, ma a causa dei suoi tratti semitici – capelli e occhi scuri, carnagione olivastra, volto affilato – doveva nascondersi ed era braccata dai delatori. Riuscì a salvarsi dall’episodio che descrive nella poesia, ma la volta successiva la fortuna le voltò le spalle. In Non omnis moriar ci sono alcuni riferimenti alla celebre poesia Il mio testamento di Juliusz Słowacki, scritta a Parigi tra il 1839 e il 1840, in cui il fiero e solitario poeta romantico si accomiata dai suoi successori, pregandoli di prendersi cura dell’unica eredità da lui lasciata – la sua fama postuma. Ginczanka ironicamente affida ai suoi persecutori i suoi beni terreni.

Non omnis moriar…

Non omnis moriar – i miei fieri beni,

I prati delle mie tovaglie, i saldi armadi,

Gli ampi lenzuoli, le coperte preziose

E gli abiti resteranno dopo di me.

Non ho lasciato qui nessuna eredità,

Le semitiche cose il tuo fiuto rintracci,

Chominowa (1), audace moglie di una spia,

Delatrice svelta, madre di un folksdojcz (2).

Siano utili a te e ai tuoi, non ad estranei.

Voi miei cari – non sono parole vuote.

Vi ricordo, e quando arrivarono gli szupo (3),

Anche voi vi siete ricordati di me.

Che i miei amici siedano con le coppe alzate

E brindino al mio funerale e a ciò che avranno:

Kilim e arazzi, piatti, candelabri –

Bevano tutta la notte, e all’ultima stella

Comincino a cercare gioielli e oro

Nei divani, materassi, sotto i tappeti.

Oh, come lavoreranno bene e in fretta,

Nugoli di crine di cavallo e di fieno,

Nuvole di cuscini e piumini squarciati,

Le mani piumose diventeranno ali;

Il mio sangue la stoppa e le piume incollerà

E così alati in angeli si muteranno.

(1) Chominowa – Zofia Chominowa, proprietaria dell’edificio dove abitava Zuzanna Ginczanka, durante il suo soggiorno a Lwów negli anni 1939-1942. La Chominowa e suo figlio Marian furono accusati di delazione nei confronti della poetessa. Nel processo svoltosi a Varsavia a novembre del 1948, Marian Chomin fu assolto. Zofia Chominowa invece fu condannata a quattro anni di reclusione.

(2) folksdojcz – durante l’occupazione hitleriana era così chiamata una persona di origine tedesca (spesso non vera), la quale godeva di vari privilegi, rispetto alla restante popolazione polacca.

(3) szupowcy (in tedesco Schutzpolizei) – funzionari della polizia tedesca destinati alla pacificazione delle popolazioni nei paesi occupati.

Il ritorno

 

Ha già smesso di rombare la cascata. Calma si appressa la corrente

con larga onda di sollievi. Una nube intorpidisce all’alba.

Rotolano invisibili bocce di lontani pianeti,

le api dai nettàri succhiano il caldo fluido miele.

Da dove viene questo chiarore? Da là. Profuma il giovane bosco,

un torrente di bianca luce scorre e fruscia,

e streghe sedicenni saltano e cercano

nell’erba gli uccellini caduti questa notte dai nidi.

Nel bosco entra Minerva, dea della saggezza matura,

che viene dall’esperienza, che l’ordine introduce,

volge l’occhio sereno alle acque che hanno smesso di rombare,

si aggiusta sull’abito un mazzolino di viole dell’Olimpo

e dice:

“Una tenda a fiori getta sulle cose segrete,

nelle quali non puoi scorgere il profilo dei significati occulti.

Rassegnati alle apparenze. Stringiti forte al mondo

non con comprensione faticosa, ma con l’amore che ristora.

Accelera il tuo solenne ritorno alle vecchie verità

al suono delle trombe d’ottone, al fischio dei flauti,

al suono dei tamburi. Basta che il male sia chiamato male,

e già sai che cosa evitare, risuona il rombo dell’orchestra.

Torna ai cordiali abbracci del tenero amore famigliare,

alla lunghe strette di mano della bella e salda amicizia,

ai pensieri devoti e modesti, agli svaghi spensierati,

al lavoro incessante intorno a un’opera meritevole.

Infine da oggi non cercare un grande amore per il marito:

non ci sono evidenti indizi per riconoscerlo.

Scegli un abile giovane e prestagli un tenero giuramento,

e la fiamma salterà dalla bocca infiammabile al cuore”.

Delicati paesaggi distesi come laghi,

fonti provenienti dai sogni hanno sommerso tutti gli abissi.

Navigano su di essi. E’ il ritorno con la bandiera sull’albero,

per le cose che ho superato o non ho notato in tempo –

ed ecco ricordando gli avvisi vedo e vedo intorno

le cose piene di armonia, di luci, di forme stupende

e di preziosa temperanza. Nessuna burrasca si avvicina,

l’onda è piatta come vetro. E ormai non si frangerà. Quiete.

Meditazioni

 

Pegaso oggi mi tiene il broncio

e senza di me è fuggito nell’aldilà,

sono sola e considero

di questo mondo i problemi –

mi sono cacciata negli intricati

dubbi della Scolastica:

ti amo perché sono stupida,

o istupidisco perché amo?

Verginità

 

Noi…

Caos di nocciòli trasandati dopo la pioggia

profumo di polpa delle grasse nocciòle,

le mucche partoriscono nell’aria afosa

nelle stalle splendenti come stelle. –

O ribes e frumenti maturi

o succulenza pronta a sgorgare,

o lupa che allatti i piccoli,

occhi di lupa dolci come gigli!

Scolano le resine destinate al miele,

la poppa della capra pesa come zucca –

– scorre il bianco latte come l’eternità

nei templi del seno materno.

E noi…

…nelle ermetiche –

come termos di acciaio –

stanzette color pesca

impigliate fino al collo nei vestiti

facciamo

discorsi

culturali.

Chiarimento a margine

 

Polvere

non sono

e polvere

non tornerò.

Non sono scesa

dal cielo

e in cielo non salirò.

Sono io stessa il cielo

come solaio di vetro.

Sono io stessa la terra

come fertile terreno.

Non sono fuggita

da nessuna parte

e non ci

tornerò.

Oltre a me stessa non conosco altra distanza.

Nel gonfio polmone del vento

e nella calcificazione delle rocce

devo

me stessa

qui

dispersa

ritrovare.

 

Da cosa si riconosce l’amore…

 

Da cosa si riconosce l’amore? Dalla segreta eccitazione

che ti prende, quando incontri la rotonda pendenza della spalla,

sette volte più dolce di altre? O anche dagli abiti alati

che ricami col filo e nei quali intrecci i fiori,

per mostrarti bella e degna della fiamma nell’occhio?

Oppure dalla fedele abitudine dei passi fusi tra loro

e dei respiri armonizzati e della mano che incontra

sempre una mano pronta, quando brama di essere toccata?

O forse dal sollievo con cui dal turbamento

torni alla normalità, come alla patria, verso cui veleggiano i vascelli

di ritorno da un viaggio assai lungo? Oppure dal fatto

che griderai, trafitto dal tradimento, balzerai su,

cadrai di nuovo, di nuovo balzerai su e griderai,

e il corpo ti si fiaccherà come colombo trafitto da freccia piumata?

Da cosa si riconosce l’amore? Uniti in un forte abbraccio

stanno sgomenti, con il corpo troppo vicino, e tacendo cercano i segni.

Due statue immobili sotto una nube che scorre, sull’acqua, dove due trote

rincorrono il riflesso di una nuvola o l’intera notte, fino al mattino,

inseguono il segno del Capricorno, del Leone, dei Pesci e dell’Ariete.

L’abbraccio li ha uniti sotto la nube, sull’acqua. A che titolo?

Rispecchiati nel torrente impetuoso esaminano con calma la questione.

Ecco gli occhi negli occhi, ecco sulle bocche gli occhi

ed ecco la bocca sulla bocca. Come riconoscerlo? Da cosa?

Da quegli abiti alati, da quegli

abiti alati che ricami col filo e nei quali intrecci i fiori?

Uno toglie il segno della Bilancia, una volta dal torrente e una dal cielo,

e dice con grande tristezza: – Dal fatto che non ha bisogno di un segno.

Anno 1938

Epitaffio

 

… E quando attraverso la buia foresta la buia valle scorreva,

scivolando sulle testuggini, sprofondando negli alti formicai,

saltando in scroscianti torrenti, cadendo sul muschio rincorrevo

il tuo inafferrabile sorriso, che era balenato nella nebbia.

… Del tuo viso non è rimasto niente. Niente – solo i tratti composti

nel viso accessibile all’occhio, nell’ossatura del tuo viso di un tempo.

Le nuvolette delle analogie, spaventate dal vento, sembrano essere

calate dai tratti come dalle montagne, perché io possa scorgerle.

… Tale dunque è il tuo sorriso: le azzurre fregate dei ricordi,

le rosee fregate dei sogni, dapprima distese per il volo,

lo celavano con le loro vele. Tale dunque è la tua fronte! Le tempie!

La bocca! L’immagine dell’amore fino ad oggi copriva le tue labbra.

(C) by Paolo Statuti