Marek Baterowicz

21 Feb

Un poeta e amico polacco

 

Marek Baterowicz

   Marek Baterowicz è nato a Cracovia nel 1944. Ho avuto il mio primo incontro epistolare con lui quando stavo preparando la mia antologia di racconti brevi polacchi dal 1945 al 1985 circa, che fu poi pubblicata da Editori Riuniti nel 1988 con il titolo Viaggio sulla cima della notte. Gli scrissi informandolo di questo mio progetto, ma mi rispose di non aver ancora scritto un racconto breve e di essere soprattutto un poeta. Da allora, pur non essendoci mai incontrati, dura la nostra sincera amicizia “a distanza”.

   La sua odissea continua ancora oggi. Essa iniziò nel 1985 quando, dopo quattro anni di inutili tentativi, grazie al premio Circe Sabaudia, ottenne finalmente il sospirato passaporto che gli era stato rifiutato per la legge marziale polacca del 1981: l’Italia – da lui sempre ritenuta la sua seconda patria – gli aveva restituito la libertà. A Roma ha ricevuto riconoscimenti per le traduzioni dei poeti Montale, Saba e Ungaretti. Ha poi viaggiato attraverso la Francia e la Spagna, fino a raggiungere Sydney, dove vive tuttora. E’ autore di numerose raccolte di poesie pubblicate, oltre che in Polonia, in Australia, in Francia, negli USA e in Inghilterra, e di narrativa (racconti, un romanzo, e la novella Il manoscritto di Amalfi; ha collaborato anche con la rivista “Miscellanea” con saggi e poesie in italiano. In Italia una sua raccolta di poesie scelte è stata pubblicata dalla casa editrice Empirìa di Roma nel 2010, con il titolo Canti del pianeta, nella mia versione. Essa comprende prevalentemente le poesie composte durante le sue drammatiche peregrinazioni in diversi paesi, senza mai dimenticare la Polonia. Canti del pianeta è un libro aperto all’umanità intera. Il poeta diventa un “uomo planetario” che invita alla fraternità tra gli uomini.

   Ecco un suo lapidario ritratto, tracciato da un autorevole critico australiano: “indiscusso principe dei letterati polacchi residenti in Australia, grande erudito, conoscitore di culture straniere, lavoratore instancabile, pensatore-poeta, maestro di metafore filosofiche”. Un altro critico scrive: “ogni sua poesia è una entità intellettuale e artistica, creata in modo pressoché perfetto. La sua capacità di sintesi, l’eleganza dello stile, la disciplina verbale e la profondità filosofica – tutti questi aspetti concorrono a formare una creazione non comune”.

   Dopo tanti anni di lontananza, Baterowicz ha sempre la Polonia nel cuore. L’amore per la propria Terra infatti non si può cambiare con i luoghi e col tempo e, consapevole del suo destino di emigrato, il poeta cerca e ritrova la sua patria nei valori trascendentali, nel cosmo delle verità universali.

   Una peculiarità di Baterowicz da sottolineare, è il suo atteggiamento nei confronti del progresso. Nelle numerose lettere inviatemi in tutti questi anni, ricorre spesso il motivo del signor Retro, un personaggio-maschera, uno scettico del progresso tecnologico, perché esso distrugge ogni progresso dei valori spirituali. In una delle poesie della raccolta Canti del pianeta Baterowicz dice: “il signor Retro rinuncia al progresso, convinto che l’umanità sia andata già troppo lontano”.

   Pubblico qui, nella mia versione, sette poesie di Marek Baterowicz tratte da questo volume.

 

 

La canzone di squame di pesce

Dalla mia torre

fatta di sale marino

vedo la riva deserta

e le orme cancellate

dei tuoi piedi.

Tre barche da pesca

come vecchie tartarughe.

Il vento penetra

nelle reti strappate.

Sono solo e non so

se è il crepuscolo

o l’alba.

Un gabbiano mi porta nel becco

una canzone di squame di pesce.

 

*  *  *

I miei pensieri sono come poesie sparse,

rimaste nella mia vecchia casa –

non ho le forze per farne una nuova

e ho perso tanti manoscritti,

ho varcato sette frontiere

e tre oceani –

ma soltanto alla frontiera della patria

mi hanno aperto l’anima e guardato i denti,

i doganieri mi hanno tolto la bilancia,

e ogni lettera ha un peso specifico diverso

e in nessun dizionario troverò le differenze

in apparenza non essenziali; per fortuna il cuore

si è rivelato la migliore bilancia

e l’ho portato di nascosto fin qui

malgrado le perquisizioni e le fotocellule,

perciò vado avanti, con la speranza del paziente

che crede nel farmaco.

In mano però non ho la chiave

della porta degli anni passati

e non distinguo più la luce dall’ombra,

ed anche essa pian piano mi abbandona.

 

Isola Tiberina

La voce di un uccello che chiama la primavera,

solitario contrappunto alla melodia del Tevere

– dell’acqua che infrange contro il fondo sassoso

giare di canti – interroga il futuro.

Dal passato, che anch’esso detta le sue leggi,

giunge il ritmico grido delle legioni

che marciano sui ponti Cestio e Fabricio.

Il mio passo tenta di unirsi al loro

– mi precedono sempre di un lampo di spada.

Anche l’acqua è più rapida correndo immutabile verso il mare,

dove Nettuno possiede da secoli

la corona abbandonata dei cesari.

L’Isola Tiberina salpa allora verso la sorgente del fiume

come nave che mi porta fino alla prima goccia

del sangue di Remo.

                                                              Roma, 1973

*  *  *

Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,

        lo carica –

e ascolta il ticchettio del meccanismo,

che impassibile spinge avanti

         le lancette e i secondi

(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)

girando sempre nello stesso punto,

lungo la divina forma del cerchio,

eppure senza sosta andando oltre,

tirandosi dietro folle di manichini –

che si accalcano in marcia,

illusi dalla chimera del Domani,

la quale appare come nuova stella,

scoperta nella vecchia volta celeste –

ma misurata senza la bussola…

Il signor Retro rinuncia al progresso,

convinto che l’umanità sia andata già troppo lontano.

 

Venezia

                                            A mia figlia

Il suono qui è luce,

riflessa sugli specchi della pioggia,

è stelo e fiore,

reciso dal movimento dell’archetto,

luna nel prisma della finestra

e perla che rotola sui gradini del Ponte di Rialto.

Il suono è anche ombra,

nebbia e corda del sole sull’acqua,

quando una chitarra risuona sulla laguna,

i colombi nelle gondole

ferme sotto il ponte,

su di esso un leone con la criniera come foglie d’autunno,

sul tetto della basilica i cavalli

saltano sulla scacchiera del mondo.

Nel vicolo di balconi

si ode un madrigale di secoli orsono

– composto forse da Gabrieli?

le voci si levano sull’acqua,

superiamo una figura con la maschera

– ombra nella tunica luminosa –

stregata in un perenne sorriso

come un affresco bizantino

la città dei tre elementi

– e il quarto è mistero e arte,

la portano in alto i leoni alati

e le chiare sillabe di un mottetto

 

Oh, ascolta fratello…

Oh, ascolta fratello del pianeta Terra

come cantano le stelle

per noi tutti lo stesso canto ripetono

e la stessa luce donano a me e a te,

ascolta come il tema della fuga cosmica

incava e penetra tutte le galassie,

come s’inerpica ed erra nelle voci di quelli

che divenuti polvere o nirvana

non si sperdono, perché sono già oltre la terra e

il corpo.

Guarda come in fondo alla luce spumeggia l’eterno

essere

e come il cosmo vibrante si riversa nelle tue

vene…

Ecco il tuo vero canto,

senza dissonanze e senza tempeste,

sopra il pianeta ondeggiante e disteso

sui fili invisibili della ragnatela

che è questa viuzza dell’Universo,

diletta e abbandonata dal Creatore,

ma contraddistinta nel Suo testamento

nel caso Lui stesso non ritrovasse la strada

che porta a noi (Satana Gli strappò la bussola di mano

secoli fa

e cade andando alla deriva tra stelle e pianeti

come arpa d’oro dalla corde spezzate),

ascolta dunque fratello come cantano le stelle

per noi tutti lo stesso canto ripetono

qui, dove perduriamo presi

come nelle reti del Grande Pescatore,

illusi dalla promessa del giudizio finale,

che saggiamente sazia i desideri insoddisfatti.

 

Il ritratto di Pompei

Taci. Salvata dal fuoco del vulcano

– in quale lingua le tenui lettere scrivi?

Una missiva o un verso incide la tua mano?

Latino? Greco? E quali chimere ravvivi?

Oltre la lava il tuo sguardo si protende,

e in esso la città morta è racchiusa

– la luna d’ambra nei tuoi occhi risplende,

e la luce lunare con l’ombra s’è fusa –

la tabula gelosamente nascondi

e celi il tuo nome, i pensieri, il dolore,

saggiando con le labbra lo stilo acuminato,

prima che esso nella cera affondi

e la sciolga con la fiamma del cuore –

sei l’ape e il fiore di un antico prato.

 

DON  CHISCIOTTE

Tutto ad ogni modo è relativo

– non è vero bella Dulcinea?

A volte odori di aglio, a volte di tuberosa,

ora indossi una rozza gonna, ora sei frusciante di merletti

– sia che  porti un diadema, o un cappello di paglia,

sia che cavalchi un mulo, o inforchi un destriero

in ogni caso io ti adoro, o signora dei sogni miei,

a te rendo omaggio, vassallo delle tue sembianze,

io – Don Chisciotte, errante cavaliere della Mancia,

dolendomi che non fui io l’artefice delle tue bianche ginocchia,

né delle tonde braccia, della cornice leggiadra del volto bruno.

E la pena porto nel cuore, Cavaliere dalla Trista Figura.

 

I mulini son forse giganti con cento braccia?

Le taverne – castelli con alte torri?

Le contadine – principesse travestite?

Le bacinelle – elmi ammaccati negli scontri?

Un branco di pecore – un drappello a cavallo?

– cos’è illusione, e cosa – verità?

Il calpestio dei montoni è forse un rullo di tamburi?

I monaci in viaggio – soldati di Mambrino?

Le dame chiuse nella carrozza – vittime dell’empio mago?

 

Sancio Panza vaneggia,

tutto vede al contrario!

E’ un semplicione, nei libri non frequente,

un nonnulla può confondergli il cerebrum.

Perdonatelo, rispettabili signori e dame,

non gli è facile capire la bella teoria della relatività!

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

  

   

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