Archivio | settembre, 2019

Icchak Kacenelson (1886-1944)

18 Set

Icchak Kacenelson, nato nel 1886 e morto nel campo di concentramento di  Auschwitz nel 1944. Poeta, drammaturgo, pedagogo e traduttore ebreo. Scrisse le sue opere nelle lingue jidysz ed ebraica. Tra le mie carte ho ritrovato la mia vecchia traduzione dal polacco di questa sua struggente poesia, che ora pubblico col pensiero rivolto alla guerra scoppiata il 1 settembre di 80 anni fa e ai milioni di morti da essa causati.

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Mostrati, mio popolo, appari, solleva le braccia

Dalle fosse profonde, che fino all’orlo hai colmato di te

Mucchio su mucchio ricoperto di calce e arso dalla brace –

Alzati! Ed esci dagli strati più fondi della tua tomba!

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E accorre trafelato il giovane esploratore – ha le armi e

                                                                         le distribuisce.

Per me sono sono bastate. Non importa. E’ tutto per me,

Anche se non nella mia mano…Troppo tardi…tutto è in

                                                                                    ritardo…

No! Non è mai troppo tardi; l’ultimo degli Ebrei – se

E’ capace di uccidere l’assassino – il suo popolo difenderà!

Perché si può pur salvare anche un popolo trucidato…

Salvatevi, fratelli – dicevo, così parlai a loro.

E forse li ho confortati. Ho dato forza a loro e a me.

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Tra i Polacchi e i Tedeschi ricercavano i soldati della libertà,

Sui quali ricadeva la minima ombra, l’ombra tremenda del

                                                                                         sospetto

Di essere fedeli al popolo…E ancora di più caddero i Russi

Nelle città e nei villaggi. Quante tombe di partigiani!

Noi invece hanno ucciso diversamente, hanno ammazzato

                                                                   i bambini nelle culle

E quelli non ancora usciti dal grembo materno.

Ci hanno trasportati coi treni, destinazione – Treblinka,

E là, prima di asfissiarci, ci hanno detto:

“Spogliatevi qui. Mettete i vestiti tutti insieme

E le scarpe appaiate, lasciate tutto qui.

Queste cose vi serviranno ancora – i vestiti,

Le scarpe…Fra poco tornerete qui e vi riprenderete

                                                                 la vostra roba!

Siete stanchi dal viaggio – eh? Venite da Varsavia?

Da Parigi? Da Praga? Da Salonicco? Andate, vi aspetta

                                                                    un bagno caldo!”

E ne conducono mille alla camera, e altri mille

Aspettano nudi la morte dei primi mille.

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(Versione di Paolo Statuti)

Simon Cikovani (1903-1966)

5 Set

     Poeta georgiano. Negli anni 1944-1951 fu presidente dell’Unione degli scrittori georgiani. Negli anni 1954-1960 caporedattore della rivista socio-letteraria Mnatobi (La fiaccola). Fu uno dei leader della corrente dei futuristi georgiani. Aderì al “Blue Horns”, un gruppo di giovani simbolisti georgiani. Benché estraneo a ogni tematica proletaria, fece parte dei poeti del “Lef” e ne divenne il portavoce. Nel 1924 fu arrestato e rischiò di essere fucilato durante il Terrore Rosso, che seguì alla ribellione georgiana contro l’ordinamento sovietico. Tra il 1924 e il 1930 pubblicò tre raccolte di poesie che lo consacrarono come uno dei più originali poeti georgiani del XX secolo. Dal 1924 pubblicò il noto giornale futurista “H2SO4”, ma dal 1930 prese le distanze dal futurismo, dedicandosi maggiormente alla lirica patriottica e amorosa, ripudiando la sua creazione precedente, in particolar modo durante la Grande Purga del 1937, nella quale suo fratello fu fucilato. Praticò la lirica filosofica, riflessiva e paesaggistica. Nella sua creazione torna frequentemente la tematica polacca. Fu amato e tradotto da molti poeti russi, tra i quali ricordiamo Pasternak, Zabolovskij, Tarkovskij, Achmadulina, Evtušenko. Non conoscendo la lingua georgiana, mi sono servito delle loro versioni, dove sono conservate le rime degli originali. Ma in questo caso io le ho evitate di proposito, perché esse costringono a modificare in parte il testo tradotto, ciò che è certamente accaduto nelle versioni dal georgiano al russo, e ho voluto evitare di modificarlo ulteriormente.

Poesie di Simon Cikovani tradotte da Paolo Statuti

Smettiamo  un istante di parlare

Smettiamo un istante di parlare,

che anche la pioggia dica qualcosa

e tra i muti rametti del gelso

lavi gli occhi a un uccello assonnato.

Là, vicino agli occhi e alle guance,

un prezioso rabesco è già tessuto –

i bachi avvolgono la seta

ai polsi delle belle fanciulle.

Trema tutta l’esca dorata,

grazie al bel tempo

la giovinezza così lontana è vicina,

così fresco è il senso di libertà.

Brilla così col tuo volto infantile!

Sai, mi piace in queste tempeste

come stanno sull’uovo perlaceo

le cicogne nei nidi allagati.

Il mandorlo è sfrondato e bagnato!

La pioggia imbratta e lava la strada –

essa allude che non sono

tanto vecchio, quanto sono giovane.

Senti? – nei muti rametti del gelso

la voce dell’uccello è più fresca e acuta.

Smettiamo di parlare un istante,

solo un istante smettiamo di parlare.

Sul lungofiume

Io alle sette cammino – come al solito –

sul lungofiume, diretto a casa,

e il subdolo venditore di sigarette

mi guarda a lungo e pensoso.

Sta all’angolo con la sua bancarella,

mi fissa e non batte ciglio.

Vada al diavolo, vecchio strampalato.

Che cosa sa, a cosa allude?

Oh, davvero egli sa che io,

uomo rispettabile e di famiglia,

in casa, nella mia casa vuota,

sono afflitto da stranezze e dubbi?

Sfregherò un cerino – una fiammella

grezza sorgerà. La guardo ardere

e i miei pensieri errano sul Kura,

come greggi che cercano da bere.

I frassini che Važa ha piantato

li ho portati in una valle profonda,

la mia tenerezza è entrata nelle radici

e ha donato loro fiori in abbondanza.

Ho temprato il cuore in un forno nostrano,

il cuore è diventato irascibile e impetuoso. –

E tuttavia a volte fino alle ultime forze

ho lavorato – bufalo solitario.

O vecchiaia annulla il tuo verdetto

e la fiducia dell’infanzia non tradire.

Lascia intatti i miei recinti,

gli alberi di còrniole non tagliare.

Lascia che mi rimbocchi le maniche.

La giovinezza mi ha sfinito –

ancora vivo, ancora l’erba cresce,

ancora amo, e i versi ancora scrivo.

La conchiglia marina

Io, come Shakespeare, userò un monologo

in onore di una conchiglia trovata in terra.

Tu hai servito un giovane mare,

ora riproducimi il suo suono.

No, un antico cranio non lo toccherei.

In esso è segnata la tristezza eterna e umana.

Ma nella conchiglia rivivono i suoni

morti nelle profondità marine.

Essa come una cella ha ospitato i rombi

e il fruscio dei vessilli, furioso e colorato.

E bisbigliano i suoi labbri semichiusi,

e lo stesso Rioni parla con me.

O conchiglia, la tua profetica voce

vorrei trovare nel mio cuore,

per porre il sale dei mari e i canti umani

sotto un’ala di madreperla.

E conservare tra gli altri rumori –

quello caro dell’infanzia, chiaro nel silenzio.

Che sia così. E con la stessa forza

che esso risuoni e vegli in me.

Che la tua coppa versi i suoni

e di essi tutto sia sempre ricolmo.

Che mi rallegri – come una stella

rallegra uno stanco mandriano.

*  *  *

L’ombra prima della sera  

si allunga e giace sul terreno,

il giorno che si spegne

fugge via senza ritorno.

Queste strofe le ho scritte

non sul tavolo con la penna,

ma con un dardo di sole al tramonto,

seduto su una selvaggia roccia.

*  *  *

Nel gocciolio si sente il crepitare

Delle ali spiegate dei pavoni,

Il loro iridescente luccichio

Appare in azzurri baleni.

Alla pioggia rivolgiamo tutti i sogni.

Sulla strada ci addossiamo alle case.

Nella calca apriamo gli ombrelli,

Affollati sotto i platani restiamo.

*  *  *

Giornata piovosa. La forra di Cecenia.

Il cigolio di un carro. Brandelli di nubi.

I fuochi delle centrali elettriche

Da qualche parte nella notte fonda.

Con tormento dei vicini ho cominciato

A fumare tabacco molto forte.

Per scrivere con successo, in fondo,

Ho bisogno di un buon appiglio.

(C) by Paolo Statuti