Il Villon di Odessa
Bagrickij Eduard (Dzjubin), nacque a Odessa il 14 novembre 1895 da povera famiglia ebraica. Pittore mancato per l’opposizione del padre, cominciò a scrivere versi perché «…tutta la mia aspirazione a diventare pittore si riversò nella poesia », come egli si espresse. Esordì come acmeista e autore di ballate romantiche. A partire dal 1915 cominciarono ad apparire nelle riviste di Odessa i suoi primi versi.
Isaak Babel, che considerava Bagrickij il François Villon di Odessa, scrive nei suoi “Ricordi”: « Quando era in vita ci diceva che la poesia è una cosa essenziale, necessaria, di ogni giorno…», e così lo ricorda da giovanetto: « Egli riversava sull’interlocutore una valanga di versi – suoi e di altri. Non mangiava come noi, il suo abbigliamento consisteva in una blusa e un paio di larghe brache, era chiassoso, ma con momenti di pausa. In quegli anni in cui l’uniformità era dettata dalle circostanze, Bagrickij somigliava a se stesso e a nessun altro…».
Walter Scott e Charles de Coster, Thomas Hood e Robert Burns, Robert Stevenson e Edgar Poe, l’ucraino Taras Ščevčenko e i canti epici russi, costituiscono il substrato culturale su cui si formò Bagrickij. L’ambiente letterario provinciale nel quale cresceva il giovane poeta, era pervaso di stati d’animo decadenti. Nelle opere del primo Bagrickij e dei suoi coetanei poeti, dietro gli orpelli esteriori e le immagini volutamente complicate, non c’era profondità di pensiero. In esse veniva idealizzato il medioevo, l’oriente esotico, si evitavano scrupolosamente gli scottanti problemi del tempo.
Era scoppiata la prima guerra mondiale, si avvicinava la rivoluzione, ma nei versi scritti da Bagrickij negli anni 1914-17 tutto era illusorio, irreale, avulso dalla realtà effettiva, immerso in un mondo di finzione e di esibizionismo letterario. Non capendo ancora molto dei nuovi tempi, ma già detestando il gretto mondo piccolo borghese, il giovane poeta sceglieva temi che esulavano dalla realtà. I suoi eroi erano i corsari, i condottieri romani, i coboldi e le esotiche creole. Ma, ricorda ancora Babel: « Con uno sforzo incessante, appassionato, l’estro della sua poesia cresceva. La passione racchiusa in essa si rafforzava, perché si rafforzava il lavoro di Bagrickij sul pensiero e il sentimento. L’amore per la giustizia, per l’abbondanza e l’allegria, l’amore per le parole sonanti e intelligenti – questa fu la sua filosofia. Egli svolgeva il suo eterno lavoro di rinnovamento virilmente, onestamente e apertamente…».
L’innovazione di Bagrickij consistette non solo nell’originale elaborazione dei temi poetici, ma anche nella ricchezza del linguaggio del verso. Il poeta esigeva la lotta alle costruzioni del linguaggio libresche e antiquate, le cacciava spietatamente dai suoi versi.
Con un lavoro creativo instancabile Bagrickij conquistò il dominio della parola, ciò che nella narrazione lirica gli consentì di unire il minuscolo allo smisuratamente grande.
Bagrickij accolse con entusiasmo la rivoluzione d’ottobre. Nel 1918, dopo un breve periodo sul fronte persiano, egli ritornò nella sua città natale, ove negli anni della guerra civile lavorò nella polizia rossa, dando la caccia tra gli altri a Miška Japoncik, un bandito di Odessa, prototipo del brigante Benja Krik di Babel. In questo periodo collabora anche alla Jugrosta, una diramazione per la Russia meridionale della agenzia telegrafica Rosta, e scrive proclami e versi di propaganda.
Negli anni 1921-24 Bagrickij collabora attivamente ai giornali di Odessa “Izvestja” e “Morjak”. In essi pubblica poesie su temi di attualità, versi lirici, traduzioni.
Bagrickij fu il principale poeta del gruppo “Pereval” (“Il valico”), considerato da Stalin un gruppo trockista, in quanto Trockij in “Letteratura e rivoluzione” aveva elogiato il poeta. Nel 1926 Bagrickij esce dal “Pereval” ed entra a far parte del “Literaturnyj Centr Konstruktivistov” (“Centro letterario dei Costruttivisti), che abbandonerà poi nel 1930, passando alla RAPP (“Associazione Russa degli Scrittori Proletari”).
“Duma pro Opanasa” (“Canto di Opanas”) è del 1926. In questo poema è descritta la tragica sorte di Opanas – un contadino ucraino che al tempo della terribile lotta di classe si sforza di rimanere neutrale, di difendere la sua piccola felicità personale. Ma egli passa dalla parte del brigante Machno, disertando l’Armata Rossa. Nestor Machno, ex maestro elementare, era un capo anarchico. Dopo il 1905 venne condannato all’ergastolo sotto l’accusa di rapine a mano armata – le cosiddette espropriazioni, cui ricorsero molti rivoluzionari per finanziare la loro attività. Erano famose, ad esempio, le rapine ai treni postali. Era la tattica degli utopisti anarchici, ma anche dei socialisti-rivoluzionari (non marxisti).
Machno, dopo l’ascesa di Kerenskij, tornò al suo paese natale Guljaj-Pole, formando una vera e propria armata a cavallo. Fu lui che inventò la tacianka, cioè un carro leggero a cavalli armato di mitragliatrice. Questo mezzo bellico divenne l’arma base della guerra civile russa e fu adottato anche da Budjonnyj e Čapajev. Machno assalì le grandi città e prese tra l’altro Dnjepropetrovsk, una città di duecentomila abitanti. Particolare curioso: egli non sapeva cavalcare. Aleksej Tolstoj descrive la sua entrata a Dnjepropetrovsk… in bicicletta, attorniato dalle sue guardie su splendidi cavalli. Machno era stato una volta alleato dell’Armata Rossa, con la quale per un certo tempo combatté contro i Bianchi; ma come partigiano anarchico era avversato dal nuovo potere. Lo sconfisse Grigorij Kotovskij (anch’egli ex-brigante), dopo una serie di durissimi scontri.
Narrandoci il destino di Opanas il poeta, a somiglianza di Ščevčenko, interrompe di continuo la narrazione epica con appelli lirici all’eroe, con esortazioni e, se occorre, anche con accuse dirette. L’ immagine del comunista Josif Kogan viene data dal poeta con la massima precisione. Kogan era commissario di un reparto di approvvigionamento (in russo “prodotrjad”). I comunisti più fedeli venivano messi a capo di questi reparti, ed anche Babel partecipò con uno di essi ad una spedizione sul Volga. I reparti confiscavano la “segala nascosta” e vendevano i prodotti più ricercati nelle campagne, usando la forma del baratto. Il “prodotrjad” appartiene al cosiddetto periodo del comunismo di guerra.
Sia quando il commissario conversa con i contadini, sia nell’ora terribile del pericolo, quando egli cade assieme ai suoi compagni nelle mani dei briganti, quando si separa dalla vita, Kogan si erge davanti a noi in tutta la sua purezza spirituale. Il commissario non pronuncia frasi tonanti. Modesto, quasi insignificante, egli viene contrapposto dal poeta ad Opanas e al capo Machno, a loro volta sfrenati, fulgenti di bellezza esteriore. Anche se per il disegno ricco di immagini e ritmico certe strofe relative a Opanas e Machno appaiono più vigorose di quelle semplici, sobrie, dedicate al commissario, Bagrickij mostra alfine la superiorità morale di Kogan nelle bellissime strofe della sua morte.
Il comunista Kogan sa di non avere scampo. Egli sa anche che Opanas – figlio di contadini – è stato ingannato ed è un cieco strumento nelle mani dei nemici del nuovo potere. Ecco perché Kogan è così nobilmente semplice e coraggioso nei suoi ultimi minuti di vita; ecco perché è così smarrito e suscita pietà l’uomo di Machno che lo uccide.
Nel “Canto di Opanas” la costruzione del linguaggio popolare e di quello antico preso dalle “byline”, sono organicamente fuse ed inserite in un disegno generale. Grande importanza hanno nel poema le ripetizioni proprie dei canti popolari. Meravigliose le descrizioni della natura ucraina. Nello spirito delle leggende popolari e del “Canto della schiera di Igor” il poeta cerca le rispondenze tra le immagini della natura e lo stato d’animo del cantore, con un drammatico effetto degli avvenimenti descritti.
Nel 1932 Bagrickij scrive “L’ultima notte” – stupendo poema in cui descrive lo sviluppo della coscienza di classe della giovane generazione, sulle spalle della quale ricaddero le prove più ardue. Ricordando i compagni caduti, il poeta parla a nome della sua generazione temprata dalla guerra e risollevata dalla rivoluzione.
Gorkij, affascinato dal “Canto di Opanas”, convinse Bagrickij a scrivere un libretto sullo stesso tema. Fu così che nel 1932 il poeta tornò al “Canto” componendo il libretto che verrà pubblicato per la prima volta sull’almanacco dello stesso Gorkij “God šestnadcatyj” (“Anno sedicesimo”), e musicato da V. Jurovskij. Babel scrisse la sceneggiatura per un film tratto dal “Canto di Opanas”.
Il 16 febbraio 1934, ammalatosi per la terza volta di polmonite, Bagrickij moriva; aveva 38 anni e non aveva fatto che una piccola parte di ciò che avrebbe potuto. « Quando Bagrickij morì, – ricorda lo scrittore Jurij Oleša, – uno squadrone di cavalleria scortava il suo feretro ». Ma anche dopo morto il poeta restò vittima delle purghe staliniane. La sua poesia venne considerata sospetta, trattata freddamente e messa nel dimenticatoio per molti anni. Le sue opere furono riedite solo dopo la guerra.
Vittorio Strada che di Bagrickij ha magistralmente tradotto, tra l’altro, “L’ultima notte” e “Febbraio”, in un punto del suo bel saggio introduttivo a queste traduzioni, parlando del “Canto di Opanas” dice: « La lingua, doviziosa d’inflessioni folcloriche, viva di voci del parlato popolare, animata da movenze dell’epos russo antico e da reminiscenze poetiche ščevčenkiane, fa del “Canto”, fuso in una compiuta unità di ritmo, una prova assai bella della poesia sovietica, e dissuade la traduzione.
Lascio questa mia versione-tentativo al giudizio dei lettori e della critica. Per la prefazione mi sono parzialmete servito del saggio di V. Azarov inserito nella edizione della “Biblioteka poeta” – E.G. Bagrickij, Stichotvorenija (Poesie), Leningrad 1956. Tengo anche a precisare che l’edizione che presento oggi nel mio blog è sostanzialmente diversa da quella uscita nella “Fiera Letteraria” nel lontano 1972, cioè esattamente 40 anni fa. Infine vorrei segnalare a qualche editore interessato a questo periodo della storia russa, che questa mia versione del “Canto di Opanas” di Eduard Bagrickij fa parte di un trittico sulla rivoluzione, assieme agli altri due poemi da me tradotti: “I dodici” di A. Blok, inserito anch’esso con alcune modifiche nel mio blog e pubblicato dalla “Fiera Letteraria” nel 1971 e “La perquisizione notturna” di V. Chlebnikov, già pubblicato dalla rivista “Rassegna sovietica” nel 1990.
CANTO DI OPANAS di E. Bagrickij
Versione di Paolo Statuti
I gajdamaki han seminato
La segala in Ucraina,
Ma non loro l’han falciata.
Ed ora che faremo?
T. Ščevčenko: “I gajdamaki”
1
Dei vigneti sui pendii
Frusciano le foglie,
Dove da Balta Panko
Per la steppa corre.
La lappa punge,
La segala geme,
Il Grande Carro la via
Tra le stanghe gli tiene.
Il Carro la via gli addita
Nel buio splendore –
Per le colonie opulenti
Del tedesco fattore.
Opanas non sbagliare,
Attento, senza fretta,
Vedi il nero colbacco
Della vedetta?
Con la coscienza sporca
Da Balta fuggisti,
Da Stol il colono andavi,
Da Machno finisti!
Ha Machno i capelli lunghi
E folti fin sulle spalle.
– E tu da dove giungi,
Da quale parte?
Qui da noi sei capitato
Per amore o per forza?
– Capo, Balta ho lasciato
E da Stol andavo.
Ah, l’offesa fu cocente,
La rabbia mi rode!
Son fuggito dalla gente
Del giudeo Kogan…
Per pendii e dirupi
Kogan fruga come i lupi,
Ficca il naso nelle case
Più guarnite!
Guarda a destra e a sinistra,
Sbuffa stizzito:
“Togliete dalla fossa
La segala nascosta!”
E chi si ribella –
Finirà come un rifiuto –
Non gridare, fratello,
O sei fottuto!..
Per la palude già scorre
Sangue e sudore –
Il fucile non m’attira,
Sono un lavoratore!
Ehi, capo,
Dimmi, sii buono,
Dove trovo la tenuta
Di Stol il colono?
– Stol? Quale?
Quello rosso e butterato?
Giace dietro il cascinale,
Steso ammazzato…
La vita dura avrai
Com me. Bada, però,
Se indietro tornerai –
La testa ti bucherò!
Un cappotto a Opanas
Del panno più fino!
Date anche a Opanas
Del novello vino!
Gli stivali inchiodate
Col ferro battuto!
Berretto e fucile a lui date
E sia il benvenuto!
Con te andremo più lungi –
Per mille tragitti!..
Ha Machno i capelli lunghi,
Son fluenti e fitti…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Opanas, la nostra sorte
La sciabola avvicina –
Guljaj-Pole romba forte
Per tutta l’Ucraina.
Ucraina! Madre mia!
Segala matura!
Opanas con Machno
Avrà la vita dura.
Ucraina! Madre mia!
Segala matura!
Prima eravam cosacchi,
Ora banditi e così sia!
2
A Guljaj-Pole gran rumore
Per la tremenda danza –
D’Opanas il saltatore
Con orgoglio avanza.
Opanas – che figurino!
Il colbacco felpato,
La pelliccia d’un rabbino
A Gomel ammazzato.
La pelliccia sbottonata –
Accidenti che calura!
La giubba rubata
E’ d’inglese fattura.
Sulla frusta balena
La schiuma del corsiere;
La pistola alla catena
D’un sacro doppiere.
Opanas il nostro destino
Nella nebbia è finito –
Vuoi fare il contadino,
E sei un bandito!
Andrai per la strada aperta,
Finirai in un portone;
Cacciare ebrei e comunisti –
Ad ogni occasione!
Machno vola come il vento
Nella nebbia della sera,
Sulla carrozza del convento
Con l’insegna nera.
Con gemito-geme Guljaj-Pole
Per la tremenda danza –
D’Opanas il saltatore
Con orgoglio avanza.
3
Si è raccolto poco pane –
Le carrette non son piene.
Cena Kogan nel casale –
Mangia erbe e miele.
Nel casale cena Kogan,
Il latte si versa,
Con parole bolsceviche
Coi mugichi conversa:
– Francamente, confessate,
Senza sotterfugi,
Quanta vodca distillate
Nei vostri rifugi?
E la semina? E la tassa?
Non crepano i buoi? –
Per le strade ora passa
Machno con i suoi…
Volan focosi i cavalli,
Le teste protese.
Opanas osserva
Le verdi distese.
Una grigia mezzanotte
Si levò sui briganti,
Là – lontano a frotte –
Lumini brillanti.
Intorno i cani latrano,
E cantano i galli.
Gli avamposti entrano
Già dentro i villaggi.
Oltre il muro della chiesa
Il ferro ha cigolato:
– Kogan più non vedrai:
Ormai è circondato! –
Cani del fondo, ballate
Con l’acciaio sonante:
Han preso Kogan,
Come un principiante.
Nella steppa grigia,
Dritto spedito,
Han portato Josif Kogan
Da Machno – il bandito.
Machno scosse il capo pian piano,
Lo fissò aspramente,
Fece un gesto con la mano,
Senza dire niente.
L’ora triste della morte
Per Kogan è sonata,
Ché la strada d’Opanas
Con la sua s’è incontrata!..
Opanas si fece avanti,
E fiero lo guarda:
– Salve, compagno Kogan,
Prego, fatti la barba!
4
Dei pioppi profuma l’aria
Il bianco stuolo…
Ucraina, madre cara,
Ucraina – Usignolo!..
Nella tua steppa spaziosa
Il lupo s’annida,
Sibila la salsòla
E la cornacchia grida…
Sorge il sole battagliero
Sulla strada della steppa,
Sono in due sul sentiero –
Opanas e Kogan.
Sulla soglia ardente
La calura fuma e scioglie;
Il commissario Kogan
I panni si toglie…
Inondò il suo bianco corpo
Il sole ridesto;
– Prendi, Panko. Quando spari,
Prenderai il resto!
Un paio di pantaloni
Ti lascio in ricordo –
Eppur fummo commilitoni,
E andavam d’accordo!.. –
Sorge il sole battagliero,
Il granturco asciuga,
Soffia il vento furioso
E Opanas accusa:
– Dietro ai buoi un tempo andavi,
Come soldato
Ti cimentavi,
E un tal boia sei diventato? –
E nel ballo distesa
Piange la regione:
– Opanas! Opanas!
Boiaccio! Boiaccio! –
Un corvo senza tetto
Sotto una nube stride:
– Battersi con un poveretto,
E’ azione da vile! –
E ulula la distesa,
Dal Dnjestr al Bug,
Con le bestie, l’erba e la pietra:
– Boiaccio! Boiaccio!.. –
Non fissare Opanas negli occhi,
Spietato sole,
Egli è triste, è come ubriaco,
Uccidere non vuole…
E’ stanco
Dei lamenti e del calore.
Si volta:
– Ho tre colpi soltanto
Nel caricatore…
Il sangue per un villano
E’ una pena…
– Scappa lontano –
Sparerò alla schiena!
Non cadrai al primo sparo,
Va’ con Dio!.. –
Kogan con un riso amaro,
Gli occhiali s’aggiusta:
– Opanas, lavora bene,
Sparami con stile.
Un comunista non deve
Scappare come un vile!
Davanti le chiane
Nella nebbia avvolte,
A destra – le case germane,
A manca – le scolte!
Meglio perder la vita qui,
Con un colpo abietto!.. –
Solo uno sparo s’udì
Nella muta steppa,
Kogan sussulta appena,
Un breve grido si sente,
Su un fianco si piega,
Cade lentamente…
Sulla fronte un grumo
Per il colpo mortale,
Dietro gli occhiali –
Freddo e vuoto spettrale…
Dal Mar Nero sulle strade
Va la polvere danzando,
Nella polvere Kogan giace
Gli occhi sbarrando…
5
Ove il Dnjestr largo scorre,
E la strada è grande,
Urla dalle forre
Kotovskij – il comandante.
Sotto l’occhio del comando
La valle si stende,
Come zucchero il manto
Del suo stallone splende.
Alza una gamba il corsiere,
E l’altra mette a terra,
Quasi saggiando a dovere
La via della steppa.
Dall’erto burrone,
Per la china, come ondata,
Volan gli squadroni
Dritti sulla strada…
Musi levigati,
Forti e arditi,
Ben equipaggiati
E ben nutriti.
Giran le teste gli stalloni,
La coda al vento tesa:
Vanno a caccia gli squadroni,
E Machno è la preda.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La segala sulle rive
Nessun fruscio diffonde –
Dietro i carri furtive
Si celano le bande.
In una ruvida tenda,
La vodca bevendo,
Con l’atamàn il portainsegna
Sta discutendo:
– Ai bolscevichi
Battaglia diamo.
Aggira i reggimenti,
Il tuo ordine aspettiamo!.. –
Colpì il tavolo veemente
L’atamàn raggiante,
E in terra batté furente
Il piede pesante:
– Bene, prima dello scontro –
Doppia razione a tutti,
Bene, prima dello scontro
Date fondo alle botti!
Perché s’incollino le mani
Alla mitragliera,
E veda occhi di nibbio
Sotto la visiera!
Perché sul fiume sia scorta
Una polvere tremenda,
E il più nero sconforto
Kotovskij prenda!.. –
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La nebbia cala nei fossi,
Saette ogni momento,
Latrano le volpi rosse
Verso l’accampamento.
Tra i muggiti del toro
Il sonno è agitato:
A mezzanotte un demone
La rovina ha svelato.
E dietro i sogni del contadino,
Dietro i carri bruni,
Dietro le ali corvine,
Dietro l’erba della steppa –
Bagnandosi di amara ombra,
Si levò sul mondo intero
Il sole della nuova lotta –
Il sole battagliero…
6
Ecco, le mani afferrano
Le sciabole ricurve,
I cavalli s’impennano,
E – via! – come un turbine.
Si distendono i cavalli
Lungo la strada –
Verso i carri,
Verso i musi dei buoi.
Sopra i carri il vento passeggia,
Forte e battagliero,
Davanti a tutti primeggia
Kotovskij sul destriero…
La sciabola affilata
Brilla con forza dirotta,
Sulla testa rasata
La rossa berretta.
Seguono le spalle
L’equina danza…
E a lui incontro
Opanas avanza.
– Cavalluccio, vola,
Con forza, sempre avanti,
Di lama o di pistola
Perirà il comandante!.. –
Si scontrarono furiosi,
Cavalli appaiati,
Come ruscelli sinuosi
I ferri incrociati…
Al comandante l’animo
Bellicoso avvampò,
E la sciabola di Opanas
Con impeto spezzò.
La sciabola getta via,
Le ciglia aggrotta:
– Ora mostra la tua maestria
Coi pugni, fatti sotto! –
Kotovskij ha la mano allenata,
Di furia invaso,
Gli sferra una mazzata
Dritta sul naso!.. –
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Opanas, che ti prende?
La testa ti pende…
Ti sei girato, hai vacillato,
Nell’erba sei piombato…
Sotto l’occhio sinistro
Hai un livido bistro…
Supino e muto
Sei caduto…
Opanas, la sorte severa
Sul campo si avvera!..
7
Balta – bella cittadina,
Cittadina egregia:
Qui è più dolce dell’uva
La rossa ciliegia.
Nel cacio, nei meloni –
Il sonoro giorno di fiera;
Un ragazzo disperde i piccioni
Dalla torre dei pompieri…
Opanas nella vasta steppa
Non pensavi mai
Che attraverso Balta
Da qui passerai;
Che con lo sguardo ti seguiranno
Le campagnole rattristate,
E che al quartier generale
Prenderai legnate…
Oh, distese d’Ucraina –
Amara sorte!..
Corridoi a non finire,
E in essi – porte.
E nel corrodoio impolverato
D’un casale solitario
Opanas viene condotto
Per essere interrogato.
L’inquirente, senza fretta,
Com’è suo costume –
Gli offre una sigaretta,
Poi accende e fuma:
– Cittadino, vi prego,
Con me siate sincero.
Da tempo scorrazzate
Con Machno, è vero?
Rispondete anche
Senza timore:
Di quante sciabole e tacianche
Machno dispone?
Parlate calmo e a tono,
Pensate un tantino –
Quanti viveri ci sono
Nel suo magazzino?
Conoscete le zone
Dove porta la sua armata?
– Conoscevo un cavallo,
La sciabola e le briglie!
Come la steppa vibrava
Non si può raccontare:
Ucraina, ti sentivo
Sotto i cavalli pulsare!
Nel frastuono delle ruote,
Con la gola riarsa,
Ricordo Gajsin e Žitomir,
Balta e Vapnjarka!..
Poi l’audacia mi accecò,
Per Dio, porco mondo!..
… Una cosa non scorderò,
Come Kogan è morto…
Per sempre resterò privo
Della diletta strada,
Perché il corpo di Kogan
Me l’ha sbarrata…
Scuoti la zucca, capitano,
Scrivi ciò che dico:
E’ questa la mano
Che Kogan ha ucciso!..
Perisci, Guljaj-Pole,
Segala matura!.. –
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Opanas, nella nebbia è avvolta
La nostra ventura!..
8
Opanas, coraggio, suvvia,
Un po’ d’allegria!
Oh, non griderai, non scalpiterai,
Non esulterai!
Non estrarrà la spada
La tua mano fiaccata.
E’ l’ultima sera
Della tua carriera.
Opanas il destino
T’ha sbarrato il cammino.
Che senti? Che rimiri?
Che sai? Che respiri?
Notte arida, calura,
La fienaia è scura.
Luce fioca sotto il tetto –
Ehi, sta’ dritto!..
Ecco, appare sulla soglia
Di Kogan la spoglia.
La chioma bella com’era
E le guance di cera…
Con un freddo sorriso:
– Salve, amico!
Là dove volle il fato
Io t’ho ritrovato!
Opanas, il destino
T’ha sbarrato il cammino…
Epilogo
Sconvolsero l’Ucraina
Anni tempestosi.
Si acquietarono
I fiumi tortuosi…
Io non so dove giacciono
Le ossa di Opanas:
Forse sotto un verde salcio,
O in un cimitero egli sta…
Guazza nelle acque del Dnjestr
L’anatra azzurrina,
Sulla tomba di Kotovskij
La gloria cammina…
Più non giunge dalla steppa
Degli zoccoli il fragore:
Sulle ossa sventurate –
La segala in fiore.
Sulle ossa azzurreggia
Il gorgo del cielo;
Va dell’armata rossa
Un fante in congedo…
Si ferma e guarda pensoso
Con gli occhi turchini
Un masso eroso
Da scrosci continui.
Ti abbassi e ti sollevi,
O pietra come l’onde:
Sul palmo un bianco teschio
E un buco sulla fronte.
E dirà, percorso
Da un freddo di morte:
– Hai guardato l’arma negli occhi,
Sei morto da uomo forte!
E andrà nel vortice dell’afa,
Per l’infocata pianura,
Nell’Ucraina rinata,
Nella segala matura…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Anch’io trovi nella steppa
Una fine gloriosa –
Dove Kogan morir seppe,
Ed ora riposa!..
1926
Inno a Majakowskij
O uro furente dal fulgido cilindro –
i tuoi occhi vetrigni volgi lentamente attorno,
ai tubi che come mani afferrano le nubi
al sudicio asfalto, sommerso dai rifiuti.
Campione universale vestito d’arancio,
hai percosso la terra col tacco fucinato,
ed essa s’è librata negli spazi infuocati
e corre più veloce, più veloce, più veloce…
Divino sibarita dal corpo di bronzo,
che osservi nella coppa-smeraldo della Terra,
sospesa sui falò dei secoli,
come lievitano e scoppiano i popoli.
O Condottiero di Città furiosamente latranti al sole,
quando superbo la strada percorri,
si stendono le case sull’attenti,
volgendo a destra i loro tetti!
Io, infragilito dai piumini dei secoli,
ti tendo la mia mano morbida e curata,
e tu la serri nella morsa del tuo palmo,
così, che sulla bianca pelle restan tracce d’azzurro.
Io, che disprezzo il Tempo Moderno,
e cerco l’oblio nell’algebra e nella storia,
chiaramente vedo con occhi tuttavia ispirati,
che presto, presto spariremo come fumo.
Rispettoso mi tiro in disparte e dico:
“Salute a te, Majakovskij!”
1915
L’uccellatore
Uccellare – ardua fatica:
degli uccelli impara gli usi,
quando migrano ricorda,
varie voci devi fare.
Vaga a lungo per le strade,
dorme sotto gli steccati,
eppur Didel è beato,
caccia e canta in libertà.
Sul sambuco, tutto solo,
fuì…fuì…s’ode l’usignolo,
tin…tin…le cince sul pino,
il fringuello fa toc…toc.
Didel prende la bisaccia,
tira fuori tre richiami –
un richiamo ad ogni uccello
egli or dedicherà.
Fff…nel fischio di sambuco,
suona il fischio di sambuco, –
dalla scorza del sambuco
l’usignolo cinguettò.
Soffia nel fischio di pino,
sibila il fischio di pino,
e sul pino dalle cince –
cascatelle di din…don.
Didel prende la bisaccia,
tira fuori il suo richiamo
di betulla – più leggero,
più sonoro non ce n’è.
Prova il tono dolcemente,
fff…nel foro melodioso, –
la betulla ad alta voce
a cantare cominciò.
Ed udita quella voce
della pianta e dell’uccello,
sulla betulla a margine
il fringuello si sentì.
Ed oltre la vicinale,
spento il frastuono dei carri,
sullo stagno verde d’erba
Didel le reti posò.
Davanti a lui, verde sotto,
turchino e azzurro sopra,
come un grande uccello il mondo
risonando volò via.
Se ne va felice Didel
col bastone e la bisaccia
nell’Harz, dal bosco coperto,
lungo il Reno se ne va.
Tra i querceti di Turingia,
tra i sambuchi di Westfalia,
tra il luppolo di Bavaria,
tra le pinete del Pfalz.
Marta, Marta, vano è il pianto
se va Didel per i campi,
se agli uccelli Didel fischia
spensierato più che mai!
1918
Till Ulenspiegel
Un mattino eran schiuse le porte
della cucina, ed uno spesso fumo
usciva. E in cucina c’è ressa:
il cuoco rosso e sudato si terge
il viso col grembiule bucato,
dà un’occhiata alle tazze e alle pignatte
sollevando i coperchi di rame,
sbadiglia e aggiunge dell’altro carbone
nel fornello che arde ugualmente.
Lo sguattero col cappello di carta,
ancora nuovo dell’arduo mestiere,
sale la scala verso gli scaffali,
trita cannella e noce moscata,
con le mani inesperte confonde
le spezie, e tossisce per il fumo
che s’insinua nel naso e negli occhi
quando scende…
E il cielo è così terso.
Il grido delle rondini si fonde
col brontolio del rame sul fornello;
si lecca i baffi una gatta, e prudente
sotto le sedie quatta s’avvicina
a un pezzo di bue rivestito
di uno strato leggero di grasso.
Cucina-Regno! Chi non esaltò
il tuo fumo azzurrino sulla carne,
e il vapore sulla zuppa dorata?
Senti? Il gallo che, forse, domani
sarà sgozzato, canta raucamente
un lieto inno a un’arte così bella,
la più difficile e fantasiosa…
In questo giorno vago per la strada
guardando i tetti e versi leggendo, –
negli occhi il barbaglìo del sole, e gira
la mia testa inquieta ed ubriaca.
E nell’azzurro fumo mi rammento
del vagabondo che, forse, come me,
per le strade di Anversa girava…
Poteva tutto e non sapeva niente,
come un cavaliere senza spada,
come me, egli, forse, aspirava
l’allegro fumo della taverna;
e, chissà, anche lui stuzzicava
la carne affumicata, – e avidamente
la densa saliva mandava giù.
Ed era il giorno dolce e sereno,
e il vento come il palmo d’una madre
i riccioli arruffati dimenava.
E, appoggiandosi contro una porta,
forse, il gaio pellegrino, come me,
con voce confusa componeva
le parole d’un canto inesistente…
Ma è sufficiente? Fate che la sorte
aggiunga al vagabondo il dissoluto,
e affamato stia presso le cucine
a sentir l’odore dei piatti altrui,
fate che mi si logori il vestito
e gli stivali s’aprano sui sassi,
e impari a comporre le canzoni…
Ma è sufficiente? Voglio qualcos’altro…
Oh, come quel viandante possa andare
per il paese, e dietro ad ogni porta
come un’allodola fischiare – ed ecco
oda in risposta il canto del gallo!
Cantore senza liuto, disarmato,
accoglierò i giorni come coppe
ricolmate di miele e di latte.
Quando m’assalirà la stanchezza
ed il mortale sonno inizierò,
fate che sulla tomba si disegni
il mio stemma: un pesante bordone,
un uccello e un cappello a larghe falde.
E si scriva: “Qui giace sereno
uno che non sapeva piangere”.
Viandante! Se ti son cari il vento,
la natura, la libertà e i canti, –
digli: “Riposa tranquillo, compagno,
molto cantasti, dormi ora, è tempo!”
Ritorno
Chi d’una conchiglia udì la canzone,
dalla riva nella nebbia andrà;
a lui darà pace e ispirazione
l’oceano che il vento cingerà…
Chi ha conosciuto il fumo azzurrino
che sull’acqua levarsi appare,
affronterà l’ingrato cammino,
la strada sonora del mare…
Così anch’io…
La mia penna scriveva,
la mente creava,
e cantavo;
ma ecco l’autunno giungeva,
e il vento tra i rami echeggiava…
E laggiù, sulla spaziosa riva,
con la sabbia l’onda si scontrò,
il sale qua e là spruzzò via,
un gabbiamo al vespero gridò…
Verrà la noia oppure non verrà –
che importa!
Non sarò più com’ero…
Per me canta l’audacia marinara,
per me crepita il fuoco costiero…
Di buon mattino
lascerò il villaggio.
Melone e pane nel fagottello, –
oggi non sono
il poeta Bagrickij,
son marinaio d’un greco battello…
Il vento fresco bolle come birra,
il cuore già batte con forza…
Si rivolta la carta come vela,
come l’albero la penna si rafforza…
Quest’autunno di nuovo ho capito
la povertà della mia poesia;
non andartene dal patrio lido,
dall’acqua iridata
non andar via…
Solo nel mare
la mia furia è un ciclone,
solo nel mare
il canto è sfrenato.
Fa presto, vento dell’ispirazione,
il battello ha un fianco inclinato…
1924
Pane nero e fedeltà femminile
Pane nero e fedeltà femminile
non ci permette un certo mal sottile…
Il ferro e la pietra han gli anni temprati,
l’assenzio perenne ha i fiumi colmati, –
sulle labbra il suo amaro pregnante…
Non siam per il coltello,
la penna deprime,
zappar non è bello,
la gloria ci opprime:
siam come l’orpello
di vecchie piante…
Un po’ di vento,
di settentrione –
e noi cadiamo.
La strada di chi or percorriamo?
Chi attraverserà la nostra ruggine?
Le giovani trombe ci calpesteranno?
Le stelle altrui su di noi spunteranno?
Noi – di vecchie querce il conforto perduto…
Col freddo randagio il conforto attizziamo…
Nella notte voliamo!
Nella notte voliamo!
Come stelle mature andiamo alla cieca…
Su di noi risuonano le giovani trombe,
su di noi l’altrui costellazione incombe,
su di noi strepita l’altrui bandiera…
Un po’ di vento,
di settentrione –
ardete dietro a loro,
correte dietro a loro,
inseguitele,
per i campi vagate,
nelle steppe cantate!
Dietro il bagliore accecante delle lame,
dietro il picchiare del ferro nelle tane,
dietro le trombe nei boschi annegate…
1926
I contrabbandieri
Tra i pesci e le stelle
la chiatta sta andando:
tre greci a Odessa
con il contrabbando.
A destra ci son,
sull’abisso piantati,
papà Satyros,
Janaki, Stavraki.
E il vento – che sferza!
Che fischio assordante!
E il flutto – che spinte
sul fondo squillante!
Risuonino i chiodi
e l’albero introni:
– Buona fortuna! Successo, affaroni!
E gli astri diffondino
In gran quantità:
preservativi,
calze e rari cognac…
Ah, vela greca!
Ah, Nero Mare!
Ah, Nero Mare…
– Di malaffare!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E’ mezzanotte –
prudenza e attenzione.
Tre doganieri!
Vento e buio pesto.
Tre doganieri,
sei occhi,
rumore –
una lancia a motore…
Tre doganieri!
Furbone fa piano!
Lascia la lancia
nel mare pagano, –
perché l’acqua
sotto la poppa risuoni:
– Forza, ladroni!
Successo, affaroni!
Perché la benzina
nei tubi avanzi,
e nelle corbe un folle
ballo danzi.
Oh, notte stellata!
Oh, Nero Mare!
Oh, Nero Mare!
– Di malaffare!
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Oh, anche a me
nel buio sia dato
tra i baffi sbuffare,
a poppa sdraiato,
e gli occhi alle stelle
sul bompresso inclinato,
la voce spezzare
col gergo del mare,
e nel vento freddo
io pure distingua
del motor della ronda
gli scioglilingua!
Oppur, meglio ancora,
cacciare il predone
con la pistola,
nel denso nebbione…
E il vento sentire,
giù per le vene
e tra le stelle,
ove volan le vele…
E a un tratto incontrare
a poppa seduto
nel buio fitto
un greco baffuto…
Pulsa nelle vene
e spazza la via,
gioventù senza fondo,
furia mia!
Come stelle si sparga
il sangue umano,
come un proiettile
il mondo affrontiamo,
perché strepiti
il popolo dei flutti,
e il canto rabbioso
la bocca deturpi, –
e nello spazio orrendo
soffocando cantare:
– Oh, Nero Mare,
magnifico mare!…
1927
(C) by Paolo Statuti