Archivio | luglio, 2013

La III Sinfonia di Beethoven

24 Lug

 

Busto in bronzo di Beethoven nel mio studio

Busto in bronzo di Beethoven nel mio studio

 Sulla III Sinfonia di Beethoven ho già scritto in uno dei primi articoli del mio blog. Oggi torno sull’argomento con la traduzione dal polacco di un testo tratto dalla raccolta di feuilleton musicali Spotkania z muzyką (Incontri con la musica, prima edizione 1956) dello scrittore, drammaturgo, saggista e pubblicista polacco Jerzy Broszkiewicz (1922-1993).

   Tra le sinfonie di Beethoven la terza (Eroica) è la mia prediletta, del resto lo era anche del grande compositore, prima che creasse la Nona. Quest’ultima è stupenda e grandiosa, un po’ troppo forse per i miei gusti, inoltre a me risulta piuttosto monotona, quindi preferisco ascoltare, senza stancarmi mai, l’Eroica – questo gioiello beethoveniano, un gioiello che fa vibrare l’anima, che esalta,  consola, sprona, commuove, e che mostra tutta la grandezza di Ludwig van Beethoven. Esistono molte “oneste” e molte belle esecuzioni di questa Sinfonia, ma ai buongustai in cerca di “leccornie” musicali segnalo l’interpretazione del celebre direttore, compositore, pianista, scrittore e pedagogo austriaco Felix Weingartner (1863-1942) con la Filarmonica di Vienna, registrata il 22 e 23 maggio 1936 (una settimana prima della mia nascita), vi assicuro che lascia…senza fiato!

 

                                           

Felix Weingartner

Felix Weingartner

 La “Terza”

 

   Era il 1812. A Teplice, località termale ceca, tornavano dalla passeggiata pomeridiana due celebri personaggi in cura. Un vecchio distinto dagli occhi di filosofo e i gesti di un diplomatico, e un uomo nel pieno delle forze, che parlava con voce stridula e dura, la voce dei deboli d’udito, smodato nei movimenti, sorprendente tuttavia per la forza degli occhi chiari e la testa leonina.

   Ed ecco che i due incontrano sulla loro strada la famiglia imperiale con tutto il seguito – l’imperatrice, il principe Rodolfo, le principesse, gli aiutanti guarniti di oro. Il più vecchio dei due uomini toglie immediatamente la mano da sotto il braccio del compagno, si leva il cappello, si tira indietro con dignità, ma anche con deferenza, sul bordo della strada. L’altro invece si calca ancor più il berretto sugli orecchi e con le braccia all’indietro prosegue tranquillo.

   Era uno spettacolo sorprendente – i principi stupiti e il seguito si fermano come facendo ala. L’arditezza del passante aveva capovolto tutte le regole del cerimoniale: l’imperatrice lo saluta per prima, e anche l’arciduca si affretta a inchinarsi.

   Egli invece dopo averli superati si ferma e, vedendo il compagno più anziano che saluta la corte con un inchino impeccabile, scoppia in una stridula risata. Poi a lungo si burla di quella riverenza degna di un consigliere di corte del granduca di Weimar – ma indegna di un artista. E l’artista, come anche il consigliere di corte, era Johann Wolfgang Goethe in persona.

   Goethe ascoltava le frecciate con un acido sorriso. Le considerava un segno di grossolanità e di eccessiva megalomania – e non le perdonerà mai a Beethoven.

   Fu lo stesso compositore a narrare questa storiella in una lettera a Bettina von Arnim. In fin dei conti l’ingenua gioia e l’ingenuo orgoglio sono anche divertenti. Il gesto repubblicano del signor Beethoven sicuramente aveva offeso non solo il consigliere di corte del granduca, ma anche la famiglia imperiale. Non molto tempo prima il principe de Rohan ordinò di bastonare Beaumarchais. Ciò avvenne tuttavia prima del processo al cittadino Capet. Mentre l’affronto di Beethoven ebbe luogo a Teplice dopo quel processo. Inoltre fu un affronto fatto da Beethoven – un compositore che viveva in modo stentato, con problemi finanziari, con una infermità e mille altre tribolazioni, ma un compositore la cui fama oscurava già allora lo sfarzo del trono.

   Il rigoglio della sua grandezza si verifica nei primi anni del secolo. Gli inizi di questo rigoglio risalgono a prima. Ma la vera esplosione avviene proprio allora. E’ rimasta racchiusa in una sinfonia in quattro tempi (Allegro con brio – Marcia funebre, Adagio assai – Scherzo – Allegro molto) in mi bemolle maggiore, con l’annotazione: per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo.

   Era il 1804.

   Proprio allora Beethoven senza curarsi dei criteri che stravolgeva, delle grandezze che colpiva e offendeva, entrò nella musica con il tema dell’Eroica, per iniziare un ordine nuovo. Ciò avveniva dopo il processo di Capet, dopo la rivoluzione francese – e proprio in stretto rapporto con essa. Il patos, la forza e la grandezza della rivoluzione, hanno fatto sì che un tema molto semplice costruito su un accordo di tre note sia giunto a una tale sommità. Questo piccolo tema era già scherzosamente risonato nell’ouverture dell’opera Bastien et Bastienne di Mozart. Qui invece la stessa serie di suoni è diventata quasi il grido battagliero di un’epoca intera – piena di drammi e scontri, battaglie e barricate. Le prime due sinfonie erano ancora signorili, eleganti, incipriate e acconciate.

   Ma poi Beethoven è diventato repubblicano. Ha guardato il mondo con occhi nuovi. Ha deciso di onorare con la sua arte l’eroismo della rivoluzione malgrado, e perfino contro, molte sue precedenti esperienze estetico-formali. La nuova filosofia, la nuova ideologia dell’artista gli suggerì un nuovo linguaggio musicale, gli impose una nuova costruzione del ciclo sinfonico e la nuova struttura del primo Allegro, ampliò la trasformazione fino a duecentoquarantasei battute, ispirò nuove idee di strumentazione.

   Non conosco nella storia della musica un esempio così stupefacente come la rivoluzione beethoveniana nella III Sinfonia.

   Il compositore qui è diventato un “creatore tendenzioso” – ha deciso di esprimere con la musica la sua idea, il suo rapporto filosofico col mondo. “Col berretto calcato sugli orecchi, le braccia all’indietro proseguì tranquillo”. Affermò che “il progresso e il coraggio sono lo scopo principale sia dell’arte, che della vita” (da una lettera di Beethoven).

   Beethoven “ha avuto inizio” dalle prime proprie battute. Ma il Beethoven che ha scritto un nuovo capitolo nella storia della musica, è nato proprio nella III Sinfonia. Poi sono venute le ouverture del Coriolano e dell’Egmont, il IV Concerto e l’Appassionata – eroismo e forza, progresso e coraggio, ecco le parole d’ordine. Con la nascita della nuova idea nasce la nuova estetica formale del compositore…Sì! “Tendenziosa” è la forma, la strumentazione, la creazione tematica e la tecnica delle variazioni, tutto: ogni frase, ogni tema, ogni motivo.

   Naturalmente l’esempio di Beethoven non rappresenta una regola. Ma è uno degli esempi più belli e più forti di funzione dell’idea in un’arte, a quanto pare così “formale” come la musica. E’ vero che la filosofia non riesce a mutare uno scarabeo in aquila,  – ma sicuramente riesce a trasformare un grande talento in un genio del progresso e del coraggio. Lo conferma la storia della III Sinfonia.

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

Jarosław Iwaszkiewicz e Caravaggio

22 Lug

 

   Nel mio blog ho già pubblicato alcune poesie di Jarosław Iwaszkiewicz (v. “Il poeta polacco che aveva l’Italia nel cuore”) e il racconto “Conegliano”, tratto dal suo libro Viaggi in Italia. Da questo stesso volume propongo oggi ai miei lettori le pagine dedicate a Caravaggio, nella mia traduzione.

 

   Tutte le volte che sono a Roma inizio la mia visita dei quadri di Caravaggio dalla chiesa di Sant’Agostino…Col passare degli anni si è stabilito tra me e questo pittore un rapporto intimo. Ricordo la delusione e il dispiacere provati in passato, quando al posto della Madonna dei pellegrini nella chiesa di Sant’Agostino e dei quadri nella chiesa di San Luigi dei Francesi, vedevo la scritta “in restauro”. Non solo perché per alcuni anni mi era impedito di ammirarli, ma anche perché dal “restauro” essi tornano orribilmente deturpati, con i colori chiassosamente vividi, e bisogna aspettare di nuovo qualche anno, perché quella tonalità rinnovata si smorzi, diventi meno invadente, e a volte purtroppo non serve aspettare e rimangono per sempre delle “strisce” bianche sui corpi delle figure rappresentate, sul raso dei loro abiti, e il quadro non torna più al suo originario splendore. Il restauro dei quadri è un incubo e sostanzialmente rovina il Caravaggio. Soltanto il Giovane col canestro di frutta degli Uffizi di Firenze può essere considerato un miracolo di restauro.

   Inizio dunque dalla Madonna dei pellegrini di Sant’Agostino, poi segue la cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi, quindi il Riposo durante la fuga in Egitto (il mio quadro prediletto) nella Galleria Doria, poi tutti i cinque o sei quadri della Galleria Borghese, sui quali sono stati già scritti interi volumi e infine la Conversione di san Paolo nella Basilica di Santa Maria del Popolo.

   Questo per quanto riguarda Roma. Agli Uffizi di Firenze visito il Giovane con canestro di frutta e il Sacrificio di Isacco, che è uno dei quadri più straordinari di questo pittore. Quando ero a Taormina, mi sono recato appositamente a Messina, per vedere nel locale museo due quadri di Caravaggio: l’Adorazione dei pastori e la Risurrezione di Lazzaro. Essi sono malamente conservati, forse hanno risentito del terremoto? Ma la Risurrezione di Lazzaro non ho saputo interpretarlo, come fanno gli studiosi tedeschi, che vedono in questo quadro un meraviglioso simbolismo. Infine a Palermo, presso l’Oratorio San Lorenzo, la stupenda, direi quasi “borghese”, Natività, l’ultimo quadro di Caravaggio prima della morte, lo guardai poco tempo prima che venisse rubato.

   La Deposizione dei Musei Vaticani non la guardo, perché non amo questo quadro. La linea geometrica del contorno ha qualcosa di arido, e la composizione qualcosa di molto artificiale.

   Artificiale forse è anche il Riposo durante la fuga in Egitto, ma il quadro in se stesso, l’idea stessa ha un grande fascino, ci sono tanti elementi extrapittorici, e dà tanto da riflettere sui confini tra pittura e poesia. Nelle collezioni del British Museum esiste un disegno di Giuseppe Cesari (Cavaliere d’Arpino) che raffigura lo stesso tema, nello stesso modo: san Giuseppe seduto e la Madre stanca china sul Bambino, nella stessa identica posa che si vede nel quadro di Caravaggio. Soltanto che Caravaggio ha aggiunto un angelo in piedi davanti a Giuseppe, con le ali iridescenti, che suona la viola, e a Giuseppe ha messo in mano il foglio con le note che egli mostra all’angelo con una dolce espressione del viso, mentre la Madre è allo stesso modo china sul Bambino, ma dorme cullata insieme al figlio dal suono dell’angelica viola. E tutto si trasforma, si crea una storia, un racconto, una poesia, la musica risuona nel quadro e il colore delle ali iridescenti dell’angelo integra la tonalità del quadro e la storia, che a raccontarla potrebbe sembrare banale e sdolcinata, ma diventa un quadro pittoricamente meraviglioso – con una mirabile divisione del piano, attraverso la linea delle spalle e delle ali dell’angelo. Già su questo quadro si può scrivere moltissimo, figuriamoci poi sulla cappella Contarelli!

   Quando ci sono stato l’ultima volta, incontrai davanti ai quadri due inglesi, fratello e sorella. Erano seduti su due sedie e ogni volta che s’interrompeva l’illuminazione dei quadri, mettevano nella cassetta un’altra moneta da cento lire. Restarono seduti a lungo, alla fine uno dei due mi cedette il posto. Stavamo seduti in silenzio, benché la cappella fosse colmata dal  grido del martirio di san Matteo, e non ci scambiammo neanche una parola. Ma ci univa lo stesso sentimento di ammirazione e di gratitudine per Caravaggio, e la “paura”, e il tremito” davanti a questo quadro così terribile e feroce…

   Lo spesso realismo di Caravaggio cessa di essere realismo; i suoi personaggi così vivi, veri, inseriti in un racconto, in una storia, densa di elementi letterari – presi singolarmente essi diventano le massime conquiste della pittura rinascimentale, le massime conquiste della pittura in generale.

   Velazquez a quanto pare trascorreva ore intere davanti alla Madonna dei pellegrini nella chiesa di sant’Agostino. Vedevo la gente in piedi per ore davanti alla cappella Contarelli nella chiesa di san Luigi.

   La scena del martirio di  san Matteo è una cosa del tutto incredibile. Praticamente il boia occupa l’intero quadro con il suo corpo nudo (e con il suo grido), rispetto al quale sparisce san Matteo disteso a terra, e sparisce perfino l’angelo, che è posato su una nuvola e che porge al santo la palma del martirio. Lo stesso nel quadro che raffigura la conversione di san Paolo, il vero protagonista del quadro è il possente sauro, che riempie interamente di sé lo spazio del quadro, e occorre molta luce e una osservazione molto attenta, per scorgere l’inverosimile espressione del volto del santo svenuto, al quale è apparso Dio.

   E’ sorprendente quanta attenzione abbia dedicato il pittore all’animale, rischiando in tal modo di distrarre lo spettatore, attratto dalla vista del cavallo, dalla composizione del quadro, cioè semplicemente egli potrebbe non scorgere il volto di Paolo, così come potrebbe non notare che l’unghia dell’indice della sua mano destra teso verso la luce – è spezzata. E il viso di Paolo è sovraesposto, ispirato, anche se lo vediamo di scorcio, è il viso di un uomo che giace a terra, posato sulle meravigliose pieghe del mantello color mattone.

   Ma posso perfettamente capire un certo turbamento degli spettatori romani, ai quali come “conversione di san Paolo” veniva mostrato l’enorme ritratto di un sauro che riempie interamente il quadro, e la cui lucentezza del manto dorato è resa con maestria e passione. A malapena vediamo in basso l’inconfondibile bel viso di Paolo, mentre davanti agli occhi abbiamo l’immagine di una bestia gialla, incredibilmente accorta: il cavallo solleva con cautela la zampa anteriore e guarda il protagonista con occhio saggio e comprensivo, l’espressione del suo muso è più sagace di quella del palafreniere che regge le sue redini e che sembra non rendersi affatto conto, perché mai si trovi lì. Ultimamente si è versato molto inchiostro, si sono consumate molte penne a sfera per scrivere sul Caravaggio. A volte si sceglie l’antico silenzio, il disprezzo di questo pittore, al posto di questi ragionamenti analitici, di queste psicoanalisi e dei più svariati modi di togliere allo spettatore il semplice gusto di guardare una pittura geniale. Lo storico dell’arte tedesco Herwarth Röttgen riflette a lungo sul gesto di Lazzaro risuscitato nel quadro custodito nel Museo Regionale di Messina. Ammetto che io, personalmente, ero così incantato dalla tempesta di glicine lilla, che fioriva nel grazioso cortile del piccolo museo, che il grigio e mal conservato (e forse anche malamente dipinto) quadro mi ha lasciato del tutto indifferente. Soltanto in una fotografia ho notato che Lazzaro, risvegliandosi dal sonno mortale, muove una mano, come se volesse fermare Cristo, e forma con l’altro braccio una croce. C’è in questo un significato simbolico intenzionale? Si tratta di una “trovata”? Nella Maddalena che osserva il volto del fratello morto tornato in vita, c’è un po’ dell’inutile verismo, che nel Martirio di san Matteo esplode con  autentica furia.

   Un particolare interessante: la radiografia di questo quadro mostra che la sua composizione era intesa in modo affatto normale. Il santo era situato in fondo, circondato dagli sbirri, e uno di loro si avvicinava a lui a spada tratta. Una composizione normale e “pacata”.

   Ciò che abbiamo oggi è spaventoso per la sua veemenza. Osservando il quadro più da vicino, vediamo che gli sbirri nudi sono tre. Ma dopo aver gettato Matteo a terra, due si sono voltati e hanno lasciato al terzo collega il compito di commettere il delitto. Uno si è rannicchiato in un angolo a destra del quadro e vediamo soltanto le sue spalle robuste, l’altro nell’angolo di sinistra, girato verso il primo, è spaventoso, coi capelli tagliati corti e appoggiato sulle mani, mostra allo spettatore le forti e terribili zampe di uno strangolatore.

   Un ragazzetto che sembra uscito dalla grande sala degli autoritratti della Galleria Borghese, grida anche lui. E’ lo stesso ragazzo che appariva anche nella parte dell’angelo (finché il quadro non fu rubato) nella Natività, dipinto a Palermo, dove Caravaggio si era fermato dopo le avventurose scappate a Malta. Si vede che il modello faceva parte del gruppo dei compagni fissi del grande pittore. O forse semplicemente egli lo aveva impresso nella memoria?

   Il grido del ragazzo spaventato, il triviale urlo del boia che uccide – si avvertono quasi fisicamente. Allo stesso modo grida Isacco sotto il coltello di Abramo alla Galleria degli Uffizi di Firenze – mentre l’angelo che trattiene la mano di Abramo e indica con il dito la vittima da sacrificare (metà maiale, metà capro), è classicamente, ironicamente bello, come una statua greca. Che ironia in questo quadro!

   Gli autoritratti della Galleria Borghese, eseguiti per il cardinale del Monte, terminano con il quadro che raffigura David con la testa di Golia, non molto tempo fa orribilmente restaurato. Sul tema di questo quadro gli studiosi hanno versato fiumi d’inchiostro (o forse soltanto di acqua). Essi si chiedono perché David con commozione e pietà guardi la testa recisa di Golia, che è l’autoritratto del pittore. Ma se le figure di giovani raffigurate da Caravaggio (con frutta o senza) sono autoritratti, allora anche David è il ritratto di Caravaggio da giovane, che con tristezza regge la testa di Caravaggio nell’età matura. E’ una metafora molto letteraria narrata in un linguaggio molto pittorico.

   Nel caso di Caravaggio appunto non si sa dove termina la pittura e dove inizia la letteratura. Le storielle letterarie di Caravaggio sono spesso inspiegabili e le chiarisce soltanto il linguaggio della pittura. Ad esempio, perché lo sbirro che decapita san Matteo è nudo ed è così diabolicamente bello?

   Non dimenticherò mai l’impressione provata, allorché visitai per la prima volta la cappella Contarelli. A quel tempo non sapevo ancora che Caravaggio è il più grande pittore rinascimentale che si possa incontrare a Roma.

 

(C) by Paolo Statuti

 I quadri di Caravaggio citati da Iwaszkiewicz:

Caravaggio:  Risurrezione di Lazzaro

Caravaggio: Risurrezione di Lazzaro

Caravaggio: Sacrificio di Isacco

Caravaggio: Sacrificio di Isacco

Caravaggio: Natività (rubato e mai più ritrovato)

Caravaggio: Natività (rubato e mai più ritrovato)

Caravaggio: Giovane con canestro di frutta

Caravaggio: Giovane con canestro di frutta

Caravaggio: David con la testa di Golia

Caravaggio: David con la testa di Golia

Caravaggio: Madonna dei pellegrini

Caravaggio: Madonna dei pellegrini

Caravaggio: Adorazione dei pastori

Caravaggio: Adorazione dei pastori

Caravaggio: Riposo durante la fuga in Egitto

Caravaggio: Riposo durante la fuga in Egitto

Caravaggio: Deposizione nel sepolcro

Caravaggio: Deposizione nel sepolcro

Caravaggio: Conversione di san Paolo

Caravaggio: Conversione di san Paolo

 

Caravaggio: Martirio di san Matteo

Caravaggio: Martirio di san Matteo

Una fiaba zigana

15 Lug

 

Illustrazioni delle favole zigane, opera della nota illustratrice polacca Olga Siemaszko (1911-2000) Quella relativa alla favola qui pubblicata è la terza da sinistra in alto.

Illustrazioni delle favole zigane, opera della nota illustratrice polacca Olga Siemaszko (1911-2000) Quella relativa alla favola qui pubblicata è la terza da sinistra in alto.

 

   Nel lontano 1985 tradussi per la casa editrice e/o di Roma una bella raccolta di fiabe zigane intitolata “Il rametto dell’albero del sole” dello scrittore e poeta polacco Jerzy Ficowski. Per i bambini (ma forse non solo per loro) dei miei lettori ho scelto la fiaba La scatola incantata, nella quale si narra in modo fantasioso e poetico come è nato il violino e con esso la musica zigana.

 

La scatola incantata

   Al confine di un’abetaia con un faggeto vivevano, durante l’estate, dei poveri Zingari. D’inverno si trasferivano coi loro fagottelli in un vecchio mulino abbandonato, per avere un tetto sulla testa nelle giornate di gelo. A primavera tornavano al confine dell’abetaia con il faggeto e là, su una radura, piantavano la loro tenda piena di toppe e sfilacciata dai venti.

   Erano in due: lo Zingaro e la Zingara, sua moglie. Benché fossero già trascorsi sette inverni e sette primavere, estati e autunni, essi non avevano bambini e desideravano tanto avere un figlioletto. Un giorno la Zingara andò nell’abetaia in cerca di pigne. Le raccoglieva da terra e le metteva in un grande fazzoletto, raccoglieva e volgeva lo sguardo intorno. Vedeva lungo stretti viottoli, strettini come un’unghia, una lunga fila le formiche, che portavano dei bianchi involti in cui dormivano i loro bambini – le piccole formichine. «Fortunate formiche!…» sospirò la Zingara e riprese a raccogliere le pigne. Vedeva in un cespuglio di ginepro un fringuello che porgeva con il becco nere mosche ai suoi piccini. «Fortunato fringuello!…» sospirò la Zingara e riprese a raccogliere le pigne. Vedeva un riccio che portava a spasso quattro piccoli riccetti. «Fortunato riccio!…» sospirò la Zingara, quindi si mise il fazzoletto pieno di pigne sulle spalle e tornò alla sua tenda al confine dell’abetaia con il faggeto. Versò in terra le pigne e accese un grande fuoco, perché cominciava a rinfrescare; il vento soffiava e dall’abetaia giungeva un brusio, mentre dal faggeto – un fruscio. La Zingara si sedette vicino al fuoco e accanto a lei si sedette lo Zingaro.

   – Non c’era alcun bisogno di accendere un fuoco così grande, – disse lo Zingaro alla moglie. – Per noi due ne sarebbe bastato uno molto più piccolo.

   – Sì, è vero, – rispose la Zingara. – Ma se avessimo dei bambini, starebbero seduti attorno al fuoco e il calore basterebbe per ognuno. Allora non mi dispiacerebbe gettare tutte insieme nel fuoco le pigne dell’abetaia.

   Le pigne bruciavano creando un grande fuoco. Le rosse fiamme battevano le ali dorate, come se volessero volare via. Ma non potevano. Quando il falò si spense, lo Zingaro e la Zingara andarono a dormire nella tenda e fecero entrambi lo stesso sogno: sognarono un figlioletto – un marmocchio dai capelli neri.

   All’alba la Zingara si svegliò e andò col suo fazzoletto nel faggeto a raccogliere la faggina, con cui faceva bellissime collanine, infilando un pelo di coda di cavallo nelle piccole noci di faggio. Poi vendeva le collanine al mercato, perché facevano passare il mal d’ossa a quelli che le portavano al collo. Di faggina ce n’era in abbondanza, ma la Zingara ne raccolse appena tre manciate. Aveva visto una donna che guardava dalla cavità di un vecchio faggio. Era l’anima dell’albero e si chiamava Matuja. Si sporse dalla cavità e disse alla Zingara:

   – Non aver paura di me, sono l’anima di questo albero e non ti proibisco di raccogliere le piccole noci di faggio. Dimmi ciò che desideri, e io esaudirò ogni tuo desiderio.

   – O anima del faggio! – disse la Zingara spaventata. – Vorrei avere un figlioletto.

   – Avrai un figlioletto, – rispose Matuja. – Fa’ ciò che ti dirò. Quando andrai in paese a predire il futuro, cerca una zucca e allorché l’avrai trovata, staccala dalla radice e portala nella tua tenda. Ricorda però che la zucca deve essere grande e matura come la luna quando sorge. Svuotala, versaci il latte e poi bevilo fino in fondo, fino all’ultima goccia. Se farai questo ti nascerà un bambino bello e fortunato. E quando sarà cresciuto, che vada in giro per il mondo a cercare la fortuna che gli è predestinata. Perché non debba girare a mani vuote, ti do questa piccola scatola di legno di faggio, che un giorno forse gli potrà essere utile…

   Così dicendo, Matuja diede alla Zingara una scatola di legno e scomparve, e in un batter d’occhio la cavità dell’albero si coprì di corteccia di faggio.

   Tutta contenta la Zingara tornò di corsa alla sua tenda al confine dell’abetaia con il faggeto, e corse così in fretta, che lungo la strada perse metà della faggina raccolta. Portò dal villaggio una panciuta zucca, la svuotò, ci versò dentro un pentolone di latte di capra, che aveva ricevuto in cambio di una collanina contro il mal d’ossa. Bevve il latte fino all’ultima goccia, come le aveva ordinato Matuja. Aspettando la nascita del figlioletto, era così assorta nei pensieri, che per errore infilava nelle piccole noci di faggio i suoi capelli. Se ne accorse solo quando le collanine si spezzarono e le minuscole noci si sparsero sul muschio. Cominciò allora a infilarle di nuovo, ma per distrazione prese un filo di ragnatela, che era ancora più sottile e fragile del capello. Le piccole noci volarono via in tutte le direzioni, ma la Zingara non si afflisse per questo, perché una grande gioia regnava al confine dell’abetaia con il faggeto; era venuto al mondo un piccolo Zingarello.

   Lo Zingaro e la Zingara lavarono il marmocchietto nel ruscello che  aveva la sorgente nel faggeto e scorreva fino all’abetaia, e ancora oltre, fino al mare, che era al di là di essa. Fattogli il bagno, gli misero nome Bachtalo, che vuol dire Fortunato.

   Da quel momento accanto al fuoco sulla radura si riscaldavano in tre – lo Zingaro, la Zingara e lo Zingarello. E ciascuno aveva la sua porzione di caldo. I genitori del piccolo erano felici, ma poveri. Vissero un anno dopo l’altro, soffrendo il freddo e la fame. La Zingara non aveva di che vestire il figlioletto nei gelidi mesi invernali, quando si trasferivano, come sempre, nel vecchio mulino abbandonato. Passarono gli anni ma, chissà perché la profezia di Matuja ancora non si  avverava e il ragazzo era fortunato solo di nome.

   Trascorsero così venti anni. Una mattina Bachtalo uscì presto dalla tenda, si accomiatò dai genitori e se ne andò per il mondo in cerca di fortuna. Prese con sé la piccola scatola di faggio per la buona sorte e un bastoncino per difendersi dai cani rabbiosi. Attraversava i boschi, sceglieva strade tortuose, e gli animali che incontrava nella macchia gli suggerivano amichevolmente in quale parte del mondo fosse meglio andare. Perché Bachtalo viveva in armonia con gli animali fin dalla più tenera età e capiva i loro più diversi linguaggi: il volpino e il lupesco, lo scoiattolano e il tassese. Bachtalo andava per i boschi ma, benché cercasse in terra, nel cavo degli alberi e sui rami più alti, non riusciva a trovare la sua fortuna in nessun luogo. Finché un giorno un vecchio tasso gli disse che doveva andare a sud. Perché lì viveva un ricco re dei boschi che aveva promesso di rendere felice colui che avesse fatto qualcosa che il mondo non aveva ancora visto.

   – E in qual modo questo re lo renderà felice? – chiese Bachtalo.

   Il vecchio tasso rispose:

   – Il re ha promesso di dare sua figlia in moglie e metà del suo regno a un prode giovane. Io stesso avevo pensato di tentare la fortuna. Se la cosa mi fosse riuscita, avrei ottenuto la principessa e molti sudditi. Ma ci ho rinunciato, perché ormai sono troppo vecchio e le orecchie mi sono diventate completamente grigie. Tu, Bachtalo, sei giovane, – aggiunse il tasso, – e dovresti provare. Forse riuscirai a esaudire il desiderio del re, diventando così il marito di sua figlia… Dirigiti a sud.

   – D’accordo. Ti ringrazio, – disse Bachtalo e partì. Attraversò una abetaia e un faggeto, una selva di pini e un’altra di aceri, finché arrivò in una vasta radura, dov’era la capitale del re dei boschi. Al centro di essa spiccava la grande tenda rossa in cui viveva il re con la sua figliola. Bachtalo entrò nella tenda reale e disse:

   – Sono lo Zingaro Bachtalo. Sono giunto, o re, per esaudire il tuo desiderio…

   Ma senza tanti complimenti, i servitori del re lo buttarono fuori dalla tenda, perché il sovrano era occupato ad ascoltare il fruscio del bosco, e quindi non aveva tempo.

   – Sappi, – disse un servo allo Zingaro, – che ogni giorno dalle cinque alle sette il re ascolta il fruscio del bosco e perciò non può essere disturbato. Torna domattina presto.

   Bachtalo andò a cercarsi un giaciglio nel bosco e pensò che avrebbe dovuto vedere la principessa, prima di trovarsi di nuovo davanti al re.

   La luna stava spuntando sul bosco, panciuta e grande come una zucca, e illuminava il lago, dove proprio in quel momento la figlia del re dei boschi stava facendo il bagno. Bachtalo pensò che era molto bella, e non si sbagliava, perché era bella davvero.

   La mattina seguente Bachtalo si recò dal re e gli disse:

   – Ho sentito, o re, che vuoi dare tua figlia in moglie a colui che farà qualcosa che il mondo ancora non ha visto. Sappi dunque che io voglio sposare tua figlia, dimmi soltanto ciò che devo fare.

   Udite quelle parole il re andò su tutte le furie e gridò:

   – Ma cos’hai in quella testa?! Mi chiedi cosa devi fare? Lo sai bene che darò mia figlia soltanto a colui che creerà una cosa tale, che nessuno ne ha mai vista una simile! Per questa stupida domanda finirai in prigione!

   In quello stesso istante gli piombarono addosso i valletti del re e il povero Zingaro finì in una buia fossa sotto le radici di una vecchia quercia. Chiusero la fossa con una pesante pietra e Bachtalo restò solo al buio. E anche se ci spuntava una qualche luna, sottoterra essa doveva essere certamente nera, perché non si vedeva affatto. Le talpe andavano da Bachtalo per riscaldarlo con la loro calda pelliccetta. Bachtalo non riusciva a vedere neanche loro in quella oscurità, ma le aveva riconosciute dalla voce, perché conosceva il talpese.

   Non si sa da quanto tempo si trovava lì, quando all’improvviso il sotterraneo s’illuminò di una luce dapprima verdognola e poi bianca, e al ragazzo apparve Matuja. Aveva lunghi capelli argentei come un ruscello.

   Gli si rivolse sussurrando, e in un primo momento Bachtalo pensò che non fosse un sussurro, ma il vento, o qualcuno che sopra la sua testa raccoglieva le fascine e le pigne nel bosco. Ma un istante dopo Bachtalo cominciò a capire le parole sussurrate da Matuja. Ed esse erano:

   – Non aver paura e non affliggerti, Bachtalo. Uscirai di qui e sposerai la figlia del re dei boschi. Sono Matuja e prima ancora che tu venissi al mondo ho promesso che avresti avuto fortuna. Sono venuta per mantenere la promessa. Hai sempre con te la piccola scatola di legno di faggio, vero?

   – Ce l’ho, – rispose Bachtalo socchiudendo gli occhi per la troppa luce, – ma non mi è servita a niente. Ho raccolto ossicini di pipistrello, che portano fortuna, e li ho messi nella scatola. Ho colto il quadrifoglio e ho messo dentro anche quello, ma si è seccato ed è finito in polvere. E la fortuna non s’è mai vista.

   – Non affliggerti, Bachtalo, – riprese a sussurrare Matuja. – Ce l’hai un rametto di faggio?

   – Ce l’ho, – rispose Bachtalo, – e non mi è servito a niente, perché non ho incontrato nessun cane, da cui mi sarei dovuto difendere. Ma anche se l’avessi incontrato e cacciato via, – questo avrebbe forse significato avere fortuna?

   – Non affliggerti, – rispose Matuja. – Prendi una ciocca dei miei capelli e tagliala.

   Bachtalo lo fece, e lei disse ancora:

   – E adesso fissa una parte della ciocca sulla tua scatola e la parte restante legala al bastoncino di faggio. Da questo momento la piccola scatola allieterà o rattristerà la gente, secondo il tuo desiderio.

   Matuja si mise la scatola sul palmo della mano, se l’accostò alla bocca e ci rise dentro sottovoce. Poi cominciò a piangere e qualche sua lacrima cadde nella scatola.

   – Adesso prendi il bastoncino e passalo avanti e indietro sui miei capelli che hai fissato sulla scatola.

   Bachtalo provò a fare come lei diceva ed ecco che dalla scatola cominciarono a fluire dolcissime note. Matuja scomparve. Nel sotterraneo era tornato il buio, ma Bachtalo non smetteva di suonare. All’inizio suonò un adagio triste. Lo sentirono nelle profondità della terra le cieche talpe e pensarono: è giunto l’autunno, le tristi nebbie vagano sopra il bosco e le foglie dorate cadono nelle pozzanghere. Ma poi Bachtalo cominciò a suonare un allegro vivace che riscaldò l’aria nel sotterraneo; si sentivano gli uccelli svolazzare e il cinguettio di migliaia di piccole gole.

   D’un tratto la fossa della prigione si rischiarò. Bachtalo pensò che fosse tornata Matuja, e che quella fosse la sua luce. Ma no! Era la luce del giorno. Il re dei boschi aveva udito il suono e aveva ordinato ai suoi servitori di togliere la pesante pietra e di far uscire il prigioniero dal sotterraneo.

   Quando Bachtalo si trovò davanti al re gli disse:

   – Guarda, o re, e ascolta! Ecco una cosa che il mondo non ha mai visto e non ha mai udito.

   E comiciò a suonare con la sua piccola scatola. Iniziò con una triste melodia. Il re scoppiò a piangere e dalle sue lacrime – come dopo la pioggia – spuntarono centinaia di funghi. Poi suonò un’allegra canzone. Il re sorrise e assieme a lui sorrisero i cortigiani, la famiglia reale e il bosco intero. Il sorriso più bello però era sul viso della principessa, e in quel medesimo giorno sulla radura del re vennero celebrate le nozze. Bachtalo condusse con sé la madre e il padre dal confine del faggeto con l’abetaia, e tutti insieme mangiarono, bevvero e fecero festa per tre giorni. E Bachtalo suonò le più allegre canzoni. Il re dei boschi smise di ascoltare i fruscii del bosco dalle cinque alle sette, perché la musica della scatola incantata era cento volte più bella di ogni fruscio.

   Ed è così che venne al mondo il violino.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

Aneddoti

13 Lug

 

 

   Aneddoti scelti e tradotti dal polacco da Paolo Statuti:

 

Johann Wolfgang Goethe un giorno scrisse a un suo amico una lettera-fiume. Alla fine nel postscriptum aggiunse: “Egregio signor conte, mi scuso per la lunghezza della lettera, ma non avevo il tempo per scriverla più breve”.

Qualcuno chiese a Georg Christoph Lichtenberg, scienziato e satirico tedesco:

– Potrebbe spiegarmi la differenza tra il tempo e l’eternità?

– Purtroppo è impossibile. Per la verità io ho abbastanza tempo per spiegare, ma a lei non basterebbe l’eternità per capire.

Una volta chiesero ad August Rodin, come nasce una scultura come opera d’arte.

– E’ molto semplice – rispose lo scultore. – Bisogna prendere un blocco di marmo e togliere da esso tutto ciò che è superfluo.

Una volta chiesero a Stanisław Lentz, pittore polacco, se avrebbe rinunciato più facilmente alle donne o al vino. L’artista rispose:

– Dipenderebbe dall’annata del vino e dall’annata delle donne.

Il pittore ritrattista Stanisław Ignacy Witkiewicz (Witkacy) un giorno chiese a un cliente:

– Le piace il suo ritratto?

– Se devo essere sincero, non è un capolavoro dell’arte.

– Ma nemmeno lei è un capolavoro della natura! – esclamò l’artista irritato.

Un giovane poeta portò a Voltaire una sua ode intitolata “Ai posteri”. Voltaire lesse l’ode e disse:

– Non c’è male, ma temo che non giungerà mai all’indirizzo indicato.

Qualcuno chiese a Heine, cosa avesse fatto prima di pranzo.

– Ho letto una poesia che ho scritto ieri e ho aggiunto una virgola.

– E dopo pranzo?

– Ho riletto la stessa poesia e ho tolto la virgola, perché mi è sembrata inutile.

Un artigiano si recò a casa di Balzac e chiese di essere pagato per un lavoro che gli aveva fatto. Balzac gli spiegò che non aveva soldi e lo pregò di tornare in un altro momento. L’artigiano allora s’innervosì e cominciò a gridare:

– Quando vengo per i soldi, lei non è mai in casa, e quando finalmente ce la trovo, lei non ha i soldi!

– E’ del tutto ovvio – disse Balzac. – Se avessi i soldi non starei certo in casa.

Andersen era molto trasandato nel vestire. Un giorno uno gli chiese malignamente:

– Quel misero oggetto sulla sua testa lei lo chiama cappello?

Il grande scrittore di favole senza battere ciglio rispose tranquillamente:

– E quel misero oggetto sotto il suo cappello lei lo chiama testa?

Una sera Bernard Shaw giunse al teatro un po’ in ritardo, a spettacolo già iniziato.

Lo pregarono di raggiungere il suo palco e sedersi senza far rumore.

– Perché, gli spettatori già dormono? – chiese Shaw.

Un giorno si recò da Thomas Mann uno scrittore principiante. Lesse a Mann alcuni suoi lavori e gli chiese un parere.

– Lei dovrebbe leggere molto – disse Thomas Mann. – Leggere, leggere, leggere quanto più possibile.

– Perché?

– Se lei leggerà molto, non avrà il tempo per scrivere – rispose Mann.

Un banchiere chiese a Vernet un disegno. Il pittore in cinque minuti fece un piccolo disegno e disse:

– Il suo prezzo è 1000 franchi.

– Come! 1000 franchi per un disegno, per fare il quale lei ha impiegato solo cinque minuti?

– Sì – rispose Vernet – ma io ho impiegato 30 anni della mia vita, per imparare a fare questi disegni in cinque minuti.

Quando Degas era già un pittore affermato, giunse al suo studio un ammiratore del suo talento. Non vedendo alle pareti nessun quadro del maestro, chiese:

– Perché non appende qualcuno dei suoi quadri?

– Amico mio – rispose Degas – non posso permettermi di comprare dei quadri così costosi.

Una volta Cézanne trascorse la notte in un alberghetto. Il giorno dopo il proprietario gli chiese:

– Come ha dormito? Penso non troppo bene, per via del materasso piuttosto duro, vero?

– Ha ragione – rispose l’artista – ma di notte mi sono alzato dal letto un paio di volte, per riposare un po’.

I primi concerti di Händel a Londra non ebbero successo e questo preoccupò gli amici del compositore. Händel li tranquillizzò:

– Non vi preoccupate! Nella sala vuota la musica risuona meglio.

Quando a Johann Sebastian Bach morì la moglie, si sciolse in lacrime, si coprì il viso con le mani e si sedette disperato. Poco dopo giunse uno degli amici e si offrì di occuparsi del funerale, ma aveva bisogno di denaro. Bach come al solito disse:

– Per i soldi rivolgiti a mia moglie.

Un giovane voleva diventare allievo di Beethoven. Quando eseguì davanti al maestro la composizione per pianoforte che aveva scelto, il grande musicista dichiarò:

– Lei deve suonare il pianoforte ancora a lungo, finché non si accorgerà di non sapere niente.

Un giorno si presentò a Rossini un giovane con due grossi plichi sotto l’ascella e disse:

– Il direttore dell’orchestra mi ha promesso di eseguire una delle mie due sinfonie, vorrei fargliele ascoltare, maestro, per sapere quale è la migliore.

Il giovane si siede al pianoforte, e Rossini accanto a lui. Dopo una ventina di battute Rossini si alza, chiude il quaderno e dando al giovane una pacca sulla spalla, esclama:

– La seconda, ragazzo, la seconda!

Gounod scrisse sulla porta di casa: “Chi mi visita mi fa un onore, chi non mi visita mi fa un piacere”.

Il famoso tenore austriaco Leo Slezak una volta interpretava il Lohengrin. L’opera termina con il protagonista che si allontana su una barca trainata da un cigno. L’aiuto regista però, dette il segnale troppo presto e la barca si allontanò senza Lohengrin. Slezak costernato gridò verso le quinte:

– Quando parte il prossimo cigno?

Un giovane chiese a Mozart come si scrive una sinfonia.

– Per la tua età è ancora presto. Meglio cominciare con delle ballate – rispose il compositore.

– Ma lei ha cominciato a scrivere sinfonie quando aveva soltanto dieci anni! – protestò il giovane.

– Sì, ma io non ho chiesto a nessuno come si fa – replicò Mozart.

Conrad Roentgen un giorno ricevette una lettera, nella quale una certa persona gli chiedeva di inviargli un po’ di raggi e le istruzioni come usarli, perché non aveva tempo per recarsi dallo scienziato personalmente. Roentgen rispose: “In questo momento purtroppo sono sprovvisto di raggi. Desidero però farLe osservare che la spedizione è una faccenda estremamente complicata. Sarebbe già più semplice se Lei mi spedisse la sua cassa toracica”.

Al fisico tedesco Otto Hahn chiesero cosa pensasse della metafisica.

– La metafisica – rispose ridendo lo scienziato – è la ricerca di un gatto nero in una stanza buia , dove non c’è neanche l’ombra di un gatto.  

Una volta chiesero a Einstein in che modo avvengono le scoperte che trasformano il mondo. Il grande fisico rispose:

– In un modo molto semplice. Tutti sanno che non è possibile fare certe cose. Ma per caso si trova un qualche analfabeta che non lo sa. E proprio lui fa le scoperte.

Quando al celebre compositore di operette Franz von Suppé un direttore d’orchestra fece notare che un motivo della sua nuova opera si trovava già in Beethoven, il compositore replicò:

– E con ciò?  Forse per lei Beethoven non è sufficientemente bravo?

Il pittore polacco Jan Cybis trovandosi a Parigi, entrò in un albergo dove voleva fermarsi e chiese il prezzo delle stanze.

– Al primo piano 50 franchi, al secondo 35 e al terzo 20.

– Grazie – rispose il pittore –  questo albergo per me è troppo basso.

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

Bisogna incendiare il Louvre?

10 Lug

 

 

   Di Karol Stromenger (1885-1975) ho già tradotto e pubblicato in questo blog il feuilleton “Il Requiem di Mozart”. Oggi propongo ai miei lettori il testo iniziale del suo libro “Feuilleton musicali”, pubblicato nel 1970.

 

Bisogna incendiare il Louvre?

(a mo’ di introduzione)

 

   Fino alla II guerra mondiale esisteva in Olanda un premio annuale di una fondazione privata, un premio per la migliore poesia… in latino! I candidati erano pochi: uno specialista già da molti anni era sempre lo stesso vincitore. Ritirava il premio come una rendita annuale fissa, “sicura come una pensione”, come dicevano…un tempo. Evidentemente poche persone ormai amano i gusti degli antichi umanisti; la composizione di poesie latine è diventata un’occupazione inattuabile. Il poeta di oggi ritiene che ai nostri giorni scrivere poesie in latino sarebbe come indossare la toga e truccarsi da Orazio, e che l’imitazione degli antichi stili sarebbe uno sport bizzarro, uno scherzo letterario, tipo parodia “à la manière de…”

   Diversamente ragiona il pubblico profano. Si sentono sempre affermazioni quali: “oggi non scrivono più così!”, “ah, bei tempi quando vivevano e creavano quelli come…” (segue una sequela di grandi nomi), “…e perché oggi nessuno scrive come…?” (esempi). E non è facile rispondere a queste domande a persone che non vogliono ascoltare il passo della storia che avanza inesorabilmente. Una questione a parte è se il progresso nell’arte conduca a un miglioramento, o non rappresenti piuttosto un regresso. Tuttavia i felici ritorni – dal declino ai periodi aurei – non sono una questione di sano orientamento o di buona volontà. Sono piuttosto chimere nate nelle teste degli ingenui. “Perché oggi nessuno compone come Beethoven o Chopin? – quelli come loro oggi non li abbiamo più, generazione infrollita…” ecc. Per rispondere a simili domande bisognerebbe far capire a chi chiede che le stesse sono mal formulate.

   E tuttavia esse si ripetono ostinatamente, oggi più spesso che mai, nei riguardi dell’arte, della letteratura, della musica pura e applicata.

   Alla vecchia radio di Varsavia un giorno scrisse un radioascoltatore, suggerendo di sostituire i mediocri testi delle canzoni moderne con testi nell’antico polacco, ad esempio le Frasche di Kochanowski o le poesie di Wacław Potocki. Non so come quel signore accolse la risposta, che in effetti molti testi brutti e scadenti potevano e dovevano essere sostituiti con testi di buon livello, ma che in generale e in pratica era impossibile di punto in bianco sostituire Hemar (1) con Omero. Se quell’ascoltatore fosse stato un radioattaccabrighe di razza e d’ingegno, avrebbe potuto ribattere con alcuni argomenti, come ad esempio: perché la radio non mette alla berlina la banalità delle canzoni e per mezzo della satira non effettua un “risanamento” dei testi? Sarebbe perfino un tema gradito per i programmi radiofonici. Inoltre avrebbe potuto dire che i cantanti francesi oggi si rifanno a Ronsard, e gli italiani ai poeti del trecento, che l’intero Rinascimento italiano – non fu forse uno stupendo ritorno? Non dite che ciò significherebbe soltanto rimuginare il pensiero e l’arte dell’antichità – quale benedetto moto intellettuale e artistico ha dato il Rinascimento!…E qui la risposta dovrebbe risalire più profondamente alla storia dei movimenti intellettuali, dovrebbe sottolineare che, dopo secoli di oscurantismo e di barbarie, la scoperta dei giacimenti dell’antica cultura ha potuto fecondare e rianimare la maestria e il pensiero dei posteri…che era una situazione particolare…

   Sempre esistono situazioni particolari – in ciò appunto risiede il senso della storia. Eppure non crediamo che oggi – o in futuro – la gente proverebbe entusiamo a scrivere poesie in latino, che si riunirebbe nelle “Arcadie” letterarie, dove ogni membro del club potrebbe esibirsi con il nome di un pastore di Teocrito, oppure che si metterebbe a piantare giardini con Virgilio nella mano. L’arte non è un ballo in costume, dove si può indossare un frac ricamato del bisnonno, con il jabot e la parrucca a treccia – è difficile mostrarsi così tutti i giorni. Qua e là di tanto in tanto si riesce a ridestare un nuovo interesse per qualche antica tecnica o pratica artistica, si scoprono recessi stilistici e dimenticati vicoli della bellezza. Ma passare dal ruolo di utente a quello di creatore secondo il vecchio stile – significherebbe andare contro la corrente del tempo, sarebbe una mascherata, una mistificazione. Solo che…questa nostra corrente della contemporaneità (artistica) può a volte sembrarci debole, perfino in via di estinzione. E allora il pietismo verso l’arte antica avrà sempre il sapore di una fuga dalla attualità, il sapore di una stanchezza della contemporaneità o di insensibilità per le attuali grazie e per gli incerti favori dell’arte dei nostri tempi.

   Anni fa il mensile parigino “L’Esprit Nouveau” rivolse ai lettori una domanda argutamente formulata: “Bisogna incendiare il Louvre?” Le risposte indicavano che i lettori rispondendo al sondaggio avevano giustamente capito che si trattava di una domanda paradossale, cioè non avevano preso la stessa troppo alla lettera. (Temo che da noi sarebbe successo proprio così). Si trattava in pratica di considerare se, generalmente parlando, le ricchezze accumulate dell’arte antica non soffocassero la giovane arte, non la intimidissero e non la opprimessero sotto il peso della autorevolezza. Cioè: l’antica magnificenza non getta un’ombra oscura in cui l’arte odierna non può svilupparsi, quasi fosse impacciata dalla “sleale concorrenza” degli antichi capolavori salvati e selezionati? Niente di più facile che dare una simbolica bastonata in testa perfino al miglior ritrattista dei nostri giorni, dicendogli che è “lontano mille miglia da Velazquez”.

   Al sondaggio del mensile parigino risposero diverse persone. Alcune dicevano: certamente, bisogna incendiare il Louvre, perché è meglio essere se stessi sia pure con un patrimonio modesto, che sentirsi un tardo nipote che si accolla la problematica eredità dei secoli. Altri dicevano: eppure si può imparare molto dagli antichi maestri. Altri ancora argomentavano: l’incendio del Louvre non servirebbe, si potrebbero anche incendiare tutti i louvre (musei, gallerie) del mondo, ma resterebbero sempre gli antiquari e i collezionisti. Un lettore dimostrò che l’idea di “incendiare il Louvre” aveva già una sua storia, perché ad esempio Luigi XIV si era dimostrato un futurista, quando senza ritegno e senza pietà aveva eliminato l’arte del suo predecessore Luigi XIII; allo stesso modo si comportò Luigi XV nei confronti del XIV, e Luigi XVI: per ciascun Luigi soltanto l’arte del tempo in cui regnava era “vera”, e tale sembrava alla società artistica della sua epoca. Soltanto nel secolo XIX si iniziò a fare un bilancio tra il patrimonio dei secoli e l’arte corrente, forse anche viva, ma senza uno stile e senza una particolare tendenza. Nacque allora il pietismo per il patrimonio dell’antichità e la sua tutela, nacque il museo statale…

   Anche noi conosciamo un po’ questa musica: il vandalismo che scaturisce dalla cieca fiducia nella proprie forze creative. Ricordiamo infatti come Marinetti, fondatore del futurismo italiano, annunciava i suoi programmi massimalistici: incendiare Firenze, Venezia ecc., affinché la nuova Italia non fosse un antiquariato, ma il fiorente giardino della nuova arte. I suoi manifesti del resto erano teorici e peculiari del periodo precedente la I guerra mondiale. Perché l’immergersi nei radicalismi verbali apparteneva a un’epoca senza storia. Come poteva allora irritare gente senza alcun futuro ad esempio…il premio per la migliore poesia in latino!

   Oggi vediamo queste cose un po’ diversamente. Estraniarsi dalla storia? Coltivare il malfamato storicismo? Probabilmente sarà la vita a decidere quanta storia possiamo reggere sulle spalle, e quanta ne occorre. “La vita decide” – ma anche questa è soltanto una formula, un “aureo pensiero”, cui si ricorre quando non si può risolvere una questione. Quindi assumiamo il ruolo di uno spettatore che osserva come la fregata della storia avanza nella corrente della vita, osserviamo il gioco delle onde che ritornano…

   Anatole France nelle sue deliziose Les opinions de M. Jérôme Coignard descrive una divertente scena, quando il vecchio abate, libero pensatore malgrado la sottana, presenta al suo allievo il quadro di un radicale miglioramento del mondo. L’allievo, atterrito dalle visioni delle autorità costituite e degli ordinamenti calpestati, esclama: “Ma sarebbe il caos totale! L’anarchia!” Al che il vecchio abate dopo un attimo di riflessione risponde tranquillamente: “Di tanto in tanto fa bene colpire col piccone un vecchio muro – ciò mette in agitazione i vermi e predispone gli inevitabili declini”.

   Occorre molta cultura storica franceiana, per usare un così sagace linguaggio. Un galante radicale – un fenomeno che rinfresca più del premio per la poesia in latino e di un nuovo lauro per l’abilità in una lingua morta.

   Anche la musica ha i suoi “louvre” – con il suo passato artistico. Felici le epoche, così piene di propria vita artistica, così convinte della esuberanza della propria arte, da poter respingere, dimenticare, disconoscere il passato né proprio né di altri. E fa pensare il fatto che nel campo della musica soltanto il secolo XIX abbia cominciato a praticare a fondo lo storicismo. Questo secolo ha circondato di venerazione i monumenti della musica, li ha protetti nelle pubblicazioni critiche dalla deformazione, li ha risuscitati nella prassi concertistica – è diventato il secolo dei conservatori d’arte e degli archivisti, ciò che del resto non impedì affatto alla maggior parte dei musicisti (soprattutto gli interpreti) di vivere esclusivamente secondo lo stile della loro epoca. Ma…, ma alla fine…

   Oggi ogni musicista intelligente, ogni colto melomane in un modo o nell’altro fa i conti con il cosiddetto retaggio dei secoli. Prendiamo ad esempio Stravinskij: oltre ai Contrappunti di Stockhausen, egli amava gli antichi stili – sia l’opera rinascimentale, che l’opera buffa italiana, nonché la musica dei suoi predecessori russi, ad esempio Čajkovskij…

   Sì ogni musicista intelligente – a Est o a Ovest – ha oggi  generalmente parlando un qualche rapporto con il passato musicale, in esso trova i propri antenati e i propri eletti – e non brucia il Louvre (musicale), le cui raccolte lo interessano, lo appassionano, dalle quali può imparare qualcosa, sapere qualcosa…Del resto non bruciando i louvre musicali, li si può “degradare” a sussidi scientifici, a programmi scolastici. Molti nostri musicisti conoscono i classici solo in quanto “bollati” dalla scuola, dai ricordi scolastici e dalla propria istruzione. E quelli che uscendo dalla scuola non conoscono e non conosceranno mai il passato musicale – o più esattamente la letteratura musicale nel più ampio piano del proprio interesse disinteressato, quelli che non conoscono e non capiscono le grandi opere – possono recitare la parte di “progressisti a buon mercato”! Da molto tempo conosciamo quei giovani iconoclasti che incendiano i louvre con la propria indifferenza, ma sappiamo che essi non rappresentano un pericolo né per la cultura musicale, né per il progresso, di cui restano innocui tifosi.

 

 

(1) Marian Hemar (1901-1972), poeta, satirico, commediografo, drammaturgo, traduttore della poesia e autore di testi di canzoni. (N. d. T.)

(C) by Paolo Statuti

Il Requiem di Mozart

6 Lug
Wolfgang Amadeus Mozart (ritratto eseguito da Paolo Statuti)

Wolfgang Amadeus Mozart (ritratto eseguito da Paolo Statuti)

 

 

   Dal volume „Feuilleton musicali” del pubblicista e critico musicale polacco Karol Stromenger (1885-1972) ho tradotto questo testo per i miei amici melomani.

 

Il Requiem di Mozart

   E’ il 1791, anno della morte di Mozart, l’inizio della leggenda della sua ultima composizione – il Requiem. In quello stesso anno erano nate molte altre straordinarie creazioni: due opere liriche, l’ultimo concerto per pianoforte, il Concerto per clarinetto, numerose composizioni di circostanza, come: canti, cori massonici, danze scritte d’ufficio per i balli di corte, e perfino pezzi per una specie di organetto chiamato orgelwalze – segno che il compositore era sempre a corto di contanti. Tuttavia nella sua situazione finanziaria, anche se disastrosa, si prospettava ora un miglioramento. Continuava il grande successo dell’ultima opera Il flauto magico – forse finalmente egli avrebbe smesso di dibattersi nei debiti e nelle scadenze dei pagamenti. Le sue facoltà mentali non vengono meno neanche per un attimo, e saranno attive fino all’istante della morte.

   Fino a quel momento le difficoltà esistenziali non avevano influito direttamente sulla creazione di Mozart. Nei periodi di maggiore inquietudine e di disastro finanziario, erano nate opere classicamente equilibrate, come le ultime tre sinfonie, sorprendenti per ricchezza artistica e perfezione formale. Vita e opere sembravano seguire binari diversi, che si incontrano ora al cospetto della morte – il Requiem è appunto la summa vitae del moribondo.

   L’organismo di Mozart, strapazzato per molti anni, non regge più. Davanti al compositore spaventato dall’approssimarsi della morte, si apre il vuoto, ma egli lo colmerà con la sua passione infusa nel Requiem. Di nuovo il lavoro assorbe le forze del morente, e la sua ultima creazione – “il più bel canto funebre”, resterà l’incompiuto poema della morte. Dove finisce la parte autentica, e dove iniziano le aggiunte effettuate da una mano diversa? Qui si apre un terreno di appassionate discussioni: quali parti del Requiem sono di Mozart, e quali sono completate da F. X. Süssmayer? La leggenda accompagna le dispute. Non si sa quanto ci sia di vero in alcuni particolari relativi alla nascita dell’opera, ma non si possono ignorare nemmeno gli incerti dati biografici, bisogna prenderli in considerazione, anche se a volte ci siano dubbi sulla loro veridicità.

   Nell’estate del 1791, quando Mozart era impegnato nella composizione del Flauto magico, riceve la visita di un misterioso personaggio. Vestito di grigio, magro – consegna una lettera nella quale gli si chiede se accetta di scrivere una messa funebre, e in quanto tempo potrebbe terminarla. Si chiede anche di precisare il suo onorario. Mozart stabilisce un compenso di 50 ducati, senza fissare una precisa data di consegna. Alcuni giorni dopo il misterioso messaggero appare di nuovo, paga la somma richiesta dal compositore e promette anche di versare una somma uguale al momento della consegna del lavoro. Al tempo stesso prega Mozart di non cercare di scoprire il nome del committente. Il sensibile compositore doveva essere affascinato dalla misteriosità della commissione, doveva considerare il “grigio messaggero” come un inviato della morte, e dirà poco dopo – di scrivere il Requiem “per se stesso”. Questa affermazione poteva significare che scriveva l’opera per un proprio impulso creativo, e non soltanto perché gli era stata richiesta.

   Già da alcuni anni non aveva composto grandi opere sacre. Adesso provava un “vago desiderio”. Poco tempo prima aveva scritto un breve poetico canto-preghiera: l’Ave verum. Non era un ritorno alla religiosità, perché il rapporto di Mozart con la religione, alla quale peraltro era stato diligentemente educato, col tempo era divenuto piuttosto una questione di estetica, e la sua fede “si era smarrita nella vita e nel mondo” – come egli stesso ebbe a dire. Mozart avverte gli stati d’animo religiosi più come artista, che come credente. Conosce lo stile sacro meglio di Haydn – cattolico praticante, che tuttavia nelle composizioni sacre non si esprime al massimo della sua creatività.

   Mozart infonde nella messa funebre la sacralità e il misticismo del testo. Sulla sua drammatica immaginazione agisce la medioevale poesia del “dies irae”, il testo liturgico si intreccia con la sua personale paura della morte, la tradizione religiosa – con la sua propria esperienza di vita. E’ possibile che non sapesse e che non cercasse di sapere da dove fosse arrivata la commissione del Requiem, ma essa giungeva così a proposito, in quel particolare momento della sua vita! Mai nessun teatro, nessuna corte gli avevano affidato un compito di tanta attualità.

   La vita fugge. Nell’estate non c’è tempo di scrivere il Requiem. Gli stati cechi hanno ordinato a Mozart un’opera lirica per celebrare l’incoronazione dell’imperatore Leopoldo a Praga. Questa ordinazione, malignamente ritardata dalla cancelleria della corte viennese, arrivò all’ultimo momento e l’opera La clemenza di Tito dovette essere scritta in appena diciotto giorni. In essa sono evidenti i segni della fretta, malgrado l’aiuto dell’allievo di Mozart, F. Süssmayer. Al ritorno da Praga Mozart si dedicò subito al Requiem. Lavorava con passione, ma era depresso. Era tormentato dalla creazione e completamente immerso in essa, finché non perse le forze e bisognò metterlo a letto. Nella seconda metà di novembre le sue condizioni di salute peggiorarono al punto di dire a Costanza: “…devo morire proprio adesso, che potrei cominciare a vivere tranquillamente”. Le persone che assistono Mozart vedono che il lavoro sul Requiem lo sfinisce e quindi gli tolgono la partitura, ma ciò non fa che accrescere la sua inquietudine. Fornisce indicazioni a Süssmayer su come e cosa terminare nel Requiem, dove manca qualcosa, dove l’abbozzo richiede una elaborazione.

   Intanto di giorno in giorno si consolida il successo del Flauto magico, il teatro incassa una somma cospicua, ma il compositore non riceve niente, non può reclamare il suo compenso. Già da alcuni giorni è inchiodato a letto. Il 4 dicembre chiede di portargli la partitura del Requiem, per continuare a scrivere. Erano presenti  amici e musicisti – cantarono le parti già pronte dell’opera. Cantarono fino a Lacrimosa dies illa – parole in quel momento terribilmente simboliche. Il giorno seguente Mozart muore.

   In breve si chiarisce l’enigma della commissione del Requiem. Il “messaggero della morte” vestito di grigio era l’economo del conte Welsegg. Nella sua corte nei pressi di Vienna egli disponeva di una piccola orchestra e, per onorare la memoria della defunta moglie, voleva eseguire una messa funebre. Amava passare per musicista. Non di rado chiedeva ai suoi conoscenti compositori di dargli una copia dei manoscritti e a volte aggiungeva ad essa la scritta: “composizione del conte Welsegg”.  Praticava questi plagi soltanto in forma privata, per una sciocca vanità, del resto abbastanza innocua. Non volendo, ebbe il merito imperituro di aver commissionato il Requiem a Mozart. Non fu il geniale ispiratore, ma piuttosto lo strumento del caso, un po’ come la mela che, cadendo dall’albero, suggerì a Newton l’idea della gravitazione universale.

   Costanza voleva portare a termine la composizione. Dopo lunghe esitazioni e tentativi affidò il lavoro a Süssmayer, il quale svolse abilmente il difficile incarico, con tatto e con il dovuto rispetto per il maestro, secondo le sue indicazioni scritte e orali. Il conte ricevette la partitura, nella quale erano scritti da Mozart l’Introitus (“Requiem aeternam”) e il Kyrie eleison. A cominciare dal Dies irae la partitura era scritta da Süssmayer, la cui calligrafia era così straordinariamente simile a quella di Mozart, che l’intero manoscritto consegnato poteva sembrare l’opera autentica di quest’ultimo.

   Süssmayer affermò che le parti finali: Sanctus, Benedictus e Agnus Dei – erano state composte interamente da lui – ciò che oggi si ritiene conforme al vero. Ma le parti precedenti, cioè il Dies irae e l’ Hostias furono una elaborazione di un abbozzo di Mozart, in cui erano indicate le voci dei cantanti, gli interludi orchestrali, ed era sempre segnato il sostegno armonico (basso cifrato). Le parti di questo abbozzo nascevano non secondo l’ordine prescritto per la messa funebre, con ciò si spiega il fatto che Lacrimosa è l’ultima parte tracciata da Mozart – il suo manoscritto si interrompe proprio a metà di questa parte.

   La controversia sulla autenticità del Requiem non sarà mai del tutto risolta, perché oltre al rammentato abbozzo della partitura, esistevano anche appunti con le note, che – a detta di Costanza – Mozart consegnava a Süssmayer. Naturalmente esistevano importanti indicazioni orali. Né la grafologia, né la “critica dello stile” risolveranno l’enigma della paternità. Süssmayer era un compositore ottimamente istruito dal suo maestro, e i tratti mozartiani nel Benedictus e nell’Agnus Dei si possono spiegare o prosaicamente: in quanto l’allievo accolse le indicazioni scritte da Mozart, o misticamente: in quanto inserito nella particolare atmosfera di un’opera non sua. Solo la parte finale è una ripetizione delle iniziali Introitus e Kyrie, con parole diverse.

   Il Requiem di Mozart fu eseguito per la prima volta a Vienna nel 1792, con la partitura ancora una volta redatta da Süssmayer, come “autentica” opera di Mozart. Il promotore, il conte Walsegg, da quel momento scompare nell’ombra della storia, e l’opera quale “testamento musicale di Mozart”, ammirata come la sua ultima grande composizione, resta a documentare l’ispirazione e l’arte del geniale musicista.

   L’arte qui si rifà alla tradizione, a volte arcaizzando, ad esempio nel Rex tremendae maiestatis, dove l’influenza di Haendel è evidente. Al tempo stesso tende al futuro – anticipando l’armonizzazione del romanticismo. Grazia raffaellesca – ma con profonde ombre! Fascino della scuola napoletana, e accanto ad essi il contrappunto protestante  nella sublimazione cattolica. Un mosaico di stili, una varietà di afflussi della tradizione – eppure il Requiem è un’opera di una omogeneità assoluta, è il commovente dialogo di Mozart con la morte.

 

(C) by Paolo Statuti

 

Musica consolatrice

5 Lug

La musa Polimnia

La musa Polimnia

 

   Jerzy Waldorff-Preyss (1910-1999) (v. nel mio blog il suo testo “Arturo Toscanini”) termina il suo libro “Ósme sekrety Polihymnii” (Gli ottavi segreti di Polimnia) con un capitoletto intitolato “Musica consolatrice”. Lo propongo nella mia traduzione ai lettori del mio blog amanti della musica.

 

                                               Musica consolatrice

   Prima di terminare questo libro, dobbiamo porci una domanda molto importante: possiamo dire di sapere già tutto sulla musica? Oh no! Essa è come un oceano, sul quale la nave della nostra conoscenza è appena una minuscola barchetta tra le onde che scorrono attraverso i secoli. Ho voluto soltanto costruire per voi una barchetta sufficiente a farvi entrare nel più bello degli oceani. Ora continuate a navigare da soli.

   La navigazione non è una cosa semplice. Essa richiede cuore e coraggio per far fronte ai venti e superare notti angosciose, prima che all’alba appaiano all’orizzonte isole di una nuova smagliante bellezza. Per questo vorrei ancora mettere nelle vostre mani una bussola, affinché non andiate alla deriva e non vi scoraggiate.

   Cosa era e cosa è la musica? Come orientarsi tra i suoi molteplici tesori? Cosa aspettarsi da essa?

   Quando si concluse il medioevo e l’umanità stanca di severi precetti cominciò  a cercare altre strade verso il futuro – gli artisti e i filosofi risalirono agli antichi modelli. Rinacquero il pensiero e la bellezza dell’antichità. L’uomo e i suoi problemi tornarono in primo piano, e si avvertì la necessità di trasformare “i cupi fanatici del medioevo” in illuminati rappresentanti dell’umanesimo. La fase intermedia doveva essere la moderazione dei costumi – una nuova estetica, nuovi canti e danze. Dunque la musica durante il rinascimento svolse il ruolo di arte moderatrice e nobilitante i costumi..

   Spostiamoci nel tempo e nello spazio. Siamo due secoli dopo, in Germania.

   Non subito l’umanesimo doveva dare gli attesi risultati; il progresso incontra strade spinose. Intanto l’Europa è spietatamente distrutta dalla guerra dei trent’anni. La popolazione della Germania è ridotta a un terzo, regnano le malattie e la fame, quando nella piccola città di Eisenach nasce nel 1685 Jan Sebastian Bach. Trascorse una giovinezza difficile e anche i suoi futuri contatti coi protettori non andarono sempre per il meglio. Quando richiese con troppa insistenza il suo compenso al principe di Weimar, quest’ultimo ordinò…di rinchiuderlo nella segreta. Nel 1746 Federico il Grande di Prussia pubblicò la sua opera “Regole per condurre le guerre”. Una delle sue principali tesi diceva: “Il soldato dovrebbe temere più il suo ufficiale che il nemico”.

   Bach agli inizi della sua vita fu testimone delle terribili conseguenze delle guerre dinastiche asburgiche, mentre alla fine dei suoi giorni poté osservare il nascente imperialismo prussiano. Eventi che non inducevano certo all’ottimismo. Eppure la musica di Bach splendeva di serena e salda fede nell’uomo e nella vittoria della bellezza e del bene sulla bruttezza e sul male.

   Proseguiamo. Bach è già scomparso da mezzo secolo, quando in Francia scoppia la rivoluzione. Il re abdica, il potere – almeno così sembra agli osservatori del tempo – è nelle mani del popolo. In una città francese di provincia uno sconosciuto ufficiale – Rouget de Lisle – sulla scia dell’entusiamo scrive l’unico capolavoro musicale della sua vita – la “Marsigliese”. Questo inno sarà da allora per molti anni il simbolo delle lotte per la libertà, in grado di trascinare le masse alle azioni più eroiche.

   Ma la fede dei rivoluzionari francesi in una imminente era di perfezionamento dell’uomo, doveva deludere allo stesso modo in cui un tempo aveva deluso gli umanisti. Erede della rivoluzione non fu il popolo, ma la borghesia. Essa prese il potere, si scelse il suo re ed egli lanciò il motto: “arricchitevi!”. Seguirono decenni, per i quali l’unico valore diventò il denaro. L’epopea di quei tempi è descritta nella “Commedia umana” di Balzak. Spietati borghesi si scagliavano gli uni contro gli altri, lottando per cariche, prestigio e rendite. I figli avvelenavano i genitori, per avere prima l’eredità. Amore e fedeltà furono messi da parte, con l’oro si comprava e si vendeva tutto.

   Da quei giorni si levò tuttavia una voce più forte dell’ululato di quelli che correvano dietro alla prosperità: la musica di Beethoven. Un bisbetico accigliato ricordava che le lotte dello spirito sono più importanti delle quotazioni in borsa, che lo sviluppo dell’umanità si realizza attraverso la ricerca di nuovi ideali, e non della ricchezza.

   La Polonia era in una situazione particolare. Per più di un secolo era esistita la nazione, ma non lo stato. Divisi in tre parti, vanamente lottavamo per l’unificazione e l’indipendenza. I migliori figli della Polonia finivano in Siberia, riempivano le prigioni degli Asburgo e degli Hohenzollern, e i diplomatici dei tre invasori assicuravano il mondo che in Polonia regnava il silenzio e la calma. Una calma assoluta, dopo la liquidazione delle insurrezioni, un silenzio quasi mortale, se non fosse stato rotto dalla musica. Le polacche e le mazurche di Chopin lottavano senza sosta per l’indipendena polacca.

   Oggi alcuni sono propensi ad affermare che la musica ha fatto il suo tempo e che è formalmente finita. Che non troverà una nuova lingua per parlare alla gente dei nostri tempi. E’ un’affermazione ingenua, come se qualcuno si ostinasse a dire che la donna moderna non può provare e suscitare amore, perché ha smesso di indossare gli abiti con la strascico.

   La musica doveva mutare il suo linguaggio, ogni epoca infatti ha un suo nuovo modo di esprimersi nell’arte. Ma l’influenza della musica sui cuori umani resterà immutata, finché anche un solo cuore umano batterà sulla Terra.

   Separandomi da voi, cari lettori, vorrei trovare un qualche appellativo per la musica, affinché essa vi resti familiare. Il riformatore sociale e religioso tedesco Martin Lutero, la chiamò “musica consolatrice”.

   Penso che, qualunque sia la vostra sorte, sia essa segnata dai successi o dalle sconfitte, sia che siate circondati dagli amici o siate soli, che stiate lottando o riposando, l’avrete sempre al vostro fianco, fedele e immutabile compagna della vita – la musica consolatrice.

   E per congedarci lasciamo ancora per un attimo la parola a Konstanty Ildefons Gałczyński:

 

Stringiamoci alla musica,

la musica è il nostro festino,

amiamo le trombe e gli archi,

l’oboe, il cembalo e il clarino.

 

C’è in casa un candeliere

con una scarlatta candela:

essa serve per i concerti,

al suono essa la luce lega.

 

La gioia come seria danza

scorre intorno pian piano.

E la candela illumina

il volto di Jan Sebastiano.

 

(C) by Paolo Statuti