Archivio | ottobre, 2012

Poeti polacchi

31 Ott

Caleidoscopio di poeti polacchi

 

   Inserisco qui molte poesie di poeti polacchi (in ordine alfabetico), da me tradotte casualmente e/o in diverse occasioni, nel corso degli anni. Questi poeti si aggiungono a quelli cui ho dedicato un post a parte nel mio blog. In tal modo in quest’ultimo troverete tutte le poesie nella mia versione, pubblicate a suo tempo nella antologia annessa alla “Guida alla moderna letteratura polacca” di Jerzy Pomianowski (Bulzoni, Roma 1973).

Edward Balcerzan

Evanescenze e riferimenti del fiume
(Rozkojarzenie rzeki)

Si riferiva per mezzo delle rive Vicino
alla prima ondata di movimenti tribali
che lo ricordavano per l’Impetuosità
anche nelle cronache orali
C’erano in esse anche penisole di reticenze

che cessavano a metà parola E secche con gli uccelli
che voltavano con le ali le pagine d’un libro futuro
le pagine del mondo
E gli alberi
che fluivano
sembravano un presentimento di Maiuscole
segnate non con l’oro ma col timbro di voce

Vi si posavano ciotole di bronzo
Non reperti ancora
ma già in frantumi

Si riferiva sorprendente tramite un filosofo
al tempo in generale
in quello pieno di pesci
i cui gorghi non sono tali ma inghiottiscono le zattere
i cui luoghi benché nel verde e nell’alveo di terra
sono così fluenti Come nelle lingue E così balbettanti

Questi erano riferimenti
ormai lontani

Soltanto in mare
aperto

si riferiva in modo esauriente
a distinti sorsi d’acqua dolce
alle monete gettate alla fonte
Ma erano riferimenti abbastanza sciolti
tra righe
di alghe
del fiume che si ramificava

Nel quale continuamente ondeggiava il villaggio
ricoperto di lampade tra i giardini come
una corazza

Un tempo negli occhi resi profondi
da una paura abissale
si riversava come mite Fiume della Dimenticanza

Adesso è nella mappa politica
un nervo
fratricida sotto la spinata linea dei confini
Ciò che nella poesia del fiume è un assurdo

Ciò che forma un altro romanzo-fiume

Zbigniew Bieńkowski  (1913-1994)

         

Varsavia

Costruita dal ricordo, dal sangue e dal dolore

di nuovo vedo il Tuo corpo e sento il Tuo passo.

Oggi il Tuo battito, anche se scuote il mio cuore,

non mi commuove così come un solo Tuo masso.

 

Ripeto il Tuo nome come unica preghiera

per le esecuzioni, i morti e la liberazione.

Oh sì, darò battaglia con ogni Tua maceria,

perché Tu sia vittoria, impeto e mattone.

 

Più spesso Ti sei nutrita di sete che di fame.

Non di terra ma di cielo il Tuo suolo è composto.

Un frammento delle Tue mura è un pezzo di pane,

e una goccia del Tuo fiume è il più grande conforto.

 

1945

 

 

Jacek Bierezin (1947-1993)

Emigrazione

Corsi molto per giungere in tempo alla nave ubriaca

che partiva dalla stazione orientale  alle 6.40

La valigia era pronta Avevo solo bisogno di qualche libro

come ogni uomo comune ma pensante

 

Che ha negato i rapporti causa-effetto della rivoluzione

nella sfera della coscienza della felicità e del bello

(leggi i libri Sankya: chi distingue considera

la felicità dell’uomo una sorte di sofferenza).

Niente mi legava a questa città

 

Alla mia domanda quanto l’India è distante

il vigile rispose annuendo

ma innanzi tutto mi rimproverò aspramente

di aver smesso di scrivere versi

privandolo in tal modo di vita interiore

 

Sulla strada i tram strepitavano allegramente

Sisifo rotolava il sasso Si trasportava il latte

Apparentemente tutto era normale

 

Noi come del resto ogni solito schiavo

che non supera i limiti dell’ordine imposto

avendo alle spalle l’esperienza di venti secoli

fingevamo che nulla fosse successo –

e aspettavamo la venuta dei nuovi barbari

 

Ieri  sera con verdetto della coscienza

mi son tolto il diritto all’isolamento interno

Non senza sforzo ho chiuso alle mie spalle la porta

pesante dell’unica impossibile uscita

 

Ho provato ad occuparmi  di consuete cose ed ho iniziato

raschiando tracce di sangue da centinaia di libri assassinati

Il modo tradizionale di vincere il senso di solitudine

che m’è noto da Fromm e dalla vita d’ogni giorno

questa volta è risultato vano (del resto l’avevo previsto)

 

Ho preso a leggere l’orario indeciso

se prestare attenzione agli arrivi o alle partenze dei treni

Tutto ciò accadde una sera d’inverno quando l’incertezza

delle parole mi si rivelò come verità

 

Ora correvo per giungere in tempo alla nave ubriaca

che partiva dalla stazione orientale alle 6.40

benché sapessi che non ci sono più navi ubriache

che certi viaggi come sempre non sono possibili

 

Il viaggio al termine della notte e del silenzio sapeva di sangue

ma dagli angoli sbucava senza posa la miseria della quotidianità

Non riuscivo ancora a capire sebbene sapessi molto

La penna torturata caparbiamente si rifiutò di deporre

Infine sgorgò la luce dalle vene aperte

 

1972

 

Janina Brzostowska (1897-1986)

                             In memoria dei fucilati

                                        a Varsavia

                               in viale Jerozolimski

                                      il 28. II. 1944

 

Passanti assorti

sulle tombe delle città bruciate –

e voi, ormai sorridenti,

pieni della grazia dell’essere!

Ricordatevi,

che come la luce

che al mattino  getta il primo chiarore

alla finestra

e risveglia

al nuovo giorno,

c’è

ogni giorno pulsante in noi con nuovo flusso

la vita.

Che è colloquio

di sguardi fino in fondo felici,

commozione

della bontà senza riserve,

che è amore.

E che è dolore immenso

e terrore delle mani

che si aggrappano alle sponde del carro

che porta all’esecuzione…

Che è desiderio:

di resistere!

di non morire!

Forse intuirete

l’impossibilità del commiato,

col quale si strappavano ai giorni dischiusi

nel mezzo delle questioni terrene,

diretti verso la morte.

L’impossibilità

in cui c’era tutto,

tutto ciò che è rimasto:

la Patria!

Marian Czuchnowski (1909-1991)

 

Donne e cavalli

 

Pestata dall’erba nuda correva la pianura.

Nel fiume donne sode e come il fuoco spavalde

bagnavan delle gambe i lunghi steli e le linfe calde

dei seni che pungevan la blusa sotto la maglia di lana dura.

 

Il ronzio dell’acciaio vestiva d’aroma la sera.

In basso le nebbie: del silenzio le morte cascate.

Sui colli giumente in calore, di terra odoranti e di sale,

             sull’ispido vento poggiavan le groppe sudate.

Fiutando il nudo del maschio spizzicavano con l’erba

             Il fresco, il profumo, la primavera.

 

1931

 

 

 

Tytus Czyżewski (1880-1945)

 

Primavera del 1917

 

                                       Alla memoria del poeta Apollinaire

 

Terra ho più volte invocato

oggi il sole è lo squarcio d’un gigante

già da tempo privo dei pugnali

Cesare Borgia il giullare scarlatto

l’ombra gobba di Riccardo III sul muro

guardano la fetta di luna che sporge

       dalla sacca sulle spalle

nella volta del cielo scorrono le rondini

i fiori primaverili sbocciano nei campi

le nubi si preparano alla scontro armato

vedo Alessandro il Grande

        dal mosaico pompeiano

le armate coi vessilli escono

        dalle trincee di Verdun

e lontano nelle nubi primaverili

si delinea l’elmo scuro d’artigliere

del tenente Wilhelm Kostrowicki

il treno blindato sfreccia nel cielo

il tuono primaverile scuote la terra

fino alle sue viscere bacate

fino al cuore messo a nudo dell’uomo

la tempesta piega un grosso albero

sfogliato là in mezzo ai campi

il verde esuberante della vite selvaggia

s’inerpica sul tronco annerito

 

 

 

Witold Dąbrowski (1933-1978)

 

Forse chissà Iddio…

 

Forse chissà Iddio ha l’aspetto d’un generale a riposo.

Ha organizzato tutto.

Or comandano altri, più giovani.

Ha smesso le medaglie, i nastrini, è superiore a questo.

 

Forse ogni mattina scrive le sue lunghe memorie

piene di rettifiche, chiarimenti e correzioni,

facendo più volte il punto della situazione,

e indicando l’ora esatta.

 

Non gli permettono di pubblicarle,

hanno elaborato una propria versione dei fatti.

 

Eppure vorrei leggerle quelle memorie.

 

1965

 

 

 Stanisław Grochowiak (1934-1976)

 

I puliti

 

Meglio la bruttezza

E’ più vicina al sangue

Delle parole quando radiografate

E tormentate

 

Essa incolla le forme più ricche

Salva con la fuliggine

Le pareti dell’obitorio

Nella gelità delle statue

Immette odore di topo

 

Perché ci sono persone così lavate

Che quando passano

Nemmeno un cane ringhierà

Benché non siano sante

E nemmeno quiete

 

1959

 

 

Paweł Hertz (1918-2001)

 

La gravosa lira

 

L’occhio brama il mondo, come una musa incostante,

Che dice parole vuote, pur con senno parlando,

La mano non ama alcuno, rimane incurante

E accarezza la bella fronte, l’ombra palpando.

 

Il sonno incline alla morte, l’amor che fa avanzare

Chiudendo i begli occhi, benché della strada ignaro,

Ma ecco la musa pone fine a questo errare

E togliendo la lira ti porge il lauro amaro.

 

Nato troppo tardi, troppo presto al fato cedi,

Troppo esiguo per gli angeli, troppo altero per la gente,

E la tua mano inquieta si sforza vanamente

Di toccar le corde d’oro, che solo in sogno vedi.

 

1938

 

 

 

Al poeta

 

Se mai creare un’opera fosse dato,

pur negli occhi un disegno scarno,

leggera come un bimbo greco addormentato

sopra una nuvola di marmo.

 

Ma tu non sei uno scalpello, o penna amata,

tu tremi tra le mie dita, incerta,

nella capitale, dagli azzurri estraniata,

che è per me come Troia deserta.

 

Qui il vento percuote con le sabbie d’oro,

e mira infallibile alla morte.

Non la creazione ardua, ma il bel lavoro

sopravviverà alla mia notte.

 

1938

 

 

Anna Janko (1957)

 

Non ho paura

di morire prima che tutto si avveri

prima che con i denti arrostiti dal sole

felicemente sazia

mi chiuda dietro la quarta tavola

e vada alle formiche

lasciando in alto una fila di bambini

e una nobile giustificazione non omnis

 

Non ho paura

che qualcuno mi aggradisca alle spalle

e non guardandomi il viso

(che forse potrebbe darmi una chance)

la finisca con me in nome di qualcosa

 

Non ho paura dei selvaggi

tra le affabili pieghe della cultura

muoiono solamente gli eletti dalla sorte

 

sono soltanto uno dei suicidi

anche se mi uccide qualcuno

incontrato per caso

 

Maria Kasterska (1894-1969)
NOLI ME TANGERE
Non toccare il mio dolore: esso dorme
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il suo letto ho rifatto
Del lavoro di ogni ora,
Spesso lo vede l’aurora
Chino su un foglio bianco,
E spesso un uccello
Con le soffici ali colpisce
Il vetro schiuso
Alla notte che finisce.
Non toccare il mio dolore: esso dorme
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’ho circondato
Di fiori, di belle armoniose parole,
Mento con un nastro di sogni colorato:
Quando di notte gli rispondo
Che torneremo nel paese della gioia
E a volte, senza più vigore,
Quasi credo in quel fiabesco mondo.
Non toccare il mio dolore: esso dorme
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parlami ad alta voce, allegramente,
Di’ ciò che vuoi, parla pure,
Ma sia sempre chiara la tua mente
E non svegliarmi con un brutto eco.
Guarda: come un piccolo riccio
Che punge in silenzio, con tormento,
Il dolore si è assopito nel mio cuore,
E perfino nel sonno lo sento.

 

Józef Nikodem Kłosowski (1904-1959)

 

Litania della Madonna di Częstochowa

 

Maria di Jasna Góra,

Vestita di piume argentate, o effige scura,

Da secoli i miracoli ti hanno reso famosa,

Del sole più bella, delle stelle più luminosa!

 

Scaccia la belva germana dai nostri focolari,

Arresta il fiume di sangue che scorre a Biłgoraj,

Restituiscici alle nostre case e ai nostri campi,

Prega per noi, Madre degli erranti!

 

Madonna Nera!

Scendi su questa terra sconvolta dalla bufera,

Nei villaggi travolti dalla famelica onda,

Dove la morte più dell’assenzio nei campi abbonda,

 

Dove la cieca soldataglia uccide i neonati,

Dove i bambini implorano dietro i reticolati!

O Mattutino, o fulgida stella dorata,

Prega per noi, o rosa profumata!

 

O Madre Afflitta,

Sotto la croce della sofferenza trafitta,

Speranza dei derelitti e iride dei dubbiosi,

Scendi tra quelli che gemono nelle prigioni,

 

Sorreggi il popolo schiacciato dall’orrida guerra,

Da’ alle ceneri dei martiri la pace eterna,

Fa’ che il nostro paese non grondi più di pianto.

Regina di Polonia, riparaci col tuo manto!

 

 

 

Per i quali giacigli, bottegucce e pigioni,

dimore estranee e grigie,

dovevano rimpiazzare ciò che era più caro:

il cielo sul mare di Genezareth.

 

Quello calpestato,

che nel lurido tugurio

pesando il pesce e il pane a etti,

quando il fucile

suona

sulla porta

come violino,

la sua pallottola – la sua morte aspetta.

 

Chi è caduto anche se una volta

picchiato col fucile,

chi sputava sangue in una fogna

quando si alzerà –

le selci della strada

riuscirà a strappare,

se colpire col pugno non basterà.

 

Chi è stato insultato,

schiaffeggiato,

quando toccherà la pietra,

quando la stringerà –

qualunque cosa accada,

non lo spaventerà più,

non lo spezzerà.

 

Non c’è nessuna scelta.

Ai massacrati,

ai torturatori

per l’ultima volta questa sera

brilli negli occhi il sole che tramonta.

 

Non aspettare la notte silenziosa

e non sognare il mattino che arriva…

Ma con la vendetta

gridare in risposta

alla violenza –

lanciare,

lanciare

anche una sola granata!

 

Tadeusz Kubiak (1924-1979)

 

Ghetto

 

Ai fiaccati, ai corrosi dalle fiamme,

ai massacrati in un cigolio di gelide armi,

la rabbia

ha serrato

le mani insanguinate

in pugni.

 

Ad una percossa, che si chiama Chaja,

ad uno soffocato, che era Salomone –

per i quali nessuna casa

in nessun paese

fu la loro casa.

 

Che mai in nessun portone

torneranno

e busseranno,

ma scorreranno nell’oceano furioso

fino in capo al mondo.

Per i quali giacigli. bottegucce e pigioni,

dimore estranee e grigie,

dovevano rimpiazzare ciò che era più caro:

il cielo sul mare di Genezareth.

Quello calpestato,

che nel lurido tugurio

pesando il pesce e il pane a etti,

quando il fucile

suona

sulla porta

come violino,

la sua pallottola – la sua morte aspetta.

Chi è caduto anche se una volta

colpito col fucile,

chi sputava sangue in una fogna

quando si alzerà –

le selci della strada

riuscirà a strappare,

se colpire col pugno non basterà.

Chi è stato insultato,

schiaffeggiato,

quando toccherà la pietra,

quando la stringerà –

qualunque cosa accada,

non lo spaventerà più,

non lo spezzerà.

Non c’è nessuna scelta.

Ai massacrati,

ai torturatori

per l’ultima volta questa sera

brilli negli occhi il sole che tramonta.

Non aspettare la notte silenziosa

e non sognare il mattino che arriva…

Ma con la vendetta

gridare la risposta

alla violenza –

lanciare,

lanciare

anche una sola granata!

Jalu kurek (1904-1983)

Pensando a mia madre

 

Canta la notte.

quasi avesse in gola mille uccelli,

notte dai lunghi capelli,

nuda.

 

Cieli afosi.

Afosi e tinnanti.

Il firmamento arde di stelle.

 

La notte scende nei varchi,

nello scuro orizzonte,

nei gelsomini fragranti.

 

Penso a te,

morta, ma sempre viva,

quando la notte si allunga e non s’interrompe.

Da te, o madre, volo

come foglia d’autunno verso la terra.

La vita come abito si logora.

Un ramo che cade.

 

Che il vestito si laceri, si strappi,

purché ti abbia fino all’ultimo

sulle labbra.

 

1957

 

Leopold Lewin (1910-1995)

 

Le Nuove Termopili

 

“Westerplatte si difende!” – avidamente ascolto il ronzio

Che esce dall’altoparlante come da un tumultuoso abisso,

E a un tratto il grido cresce con le onde dell’etere,

Che la guarnigione resiste ancora, che ancora si difende.

Quando cominceranno a mutarsi in storica polvere

E da questa polvere a creare i miti del nostro tempo,

E diranno che sono le Nuove Termopili

E che là perì un intero stuolo di Leònidi,

E quando sul litorale erigeranno una tomba

In onore dell’Ignoto Cavaliere del Mare,

Credendo che questa tomba raffigura la forza

Che difenderà il litorale polacco,

Quando, incantata dalla stupenda leggenda,

La nazione renderà loro l’onore dovuto agli eroi –

Tu non credere: essi vivono e vivranno in eterno,

Westerplatte si difende e mai si arrenderà!

 

Andrzej Mandalian (1926-2011)

 

Lamento per san Giorgio

 

San Giorgio non esiste Non è morto

Né trafitto dalla lancia né con la lancia in mano

Né vincitore né morto da prode Non sulla sella

Né gettato di sella Non fu

Sottoposto a dura prova dai pagani

Né venduto né condannato al martirio

Né immerso nel piombo nella pece nell’immondizia

San Giorgio non è mai esistito

San Giorgio non fu san Giorgio

 

Le deposizioni di testimoni degni di fede

Non permettono di stabilire l’identità

Si parla di subdole icone

Di leggenda fraintesa L’armatura non era un’armatura

Il cavallo non era un cavallo le gesta non erano gesta

La vergine presente al fatto è scomparsa senza tracce

L’occhio della provvidenza ammicca anziché rispondere

E non servono più le tavole dipinte

Le tele stillanti oro la pietra rozzamente scolpita

 

San Giorgio non esiste

Il canone della virtù cavalleresca fu creato

In circostanze sospette

Secondo alcuni da un paio di Zingari

Che vagabondavano con la luna e con la favola eterna

Secondo altri in una locanda da frati questuanti

Con le mani vuote certo ma col boccale pieno

Al servizio di qualche impostore vagabondo

 

La Chiesa accolse la notizia con la dovuta riserva

Ma il popolo la prese subito per buona

Il drago affollò le terre il cavaliere levò la lancia

Per difendere le caste fanciulle e i dolci neonati

Adesso è tutto un abbaglio una sembianza illusoria

Ben presto si saprà che il drago non sputava fuoco

Né sferzava con la coda E’ vero diamine

Il mondo non si compone più di quattro elementi

Il mondo finisce

S’adegua all’occhio ingannatore

Che scorge solo il multiforme anziché l’unità

Nessuno bada più alla liturgia ambrosiana

Nulla più vale la parola di papa Gelasio

 

San Giorgio è stato abolito

Tutto in regola

Nessuno più cavalcherà nei campi con la bianca armatura

Con la rossa croce

Nessuno più si mostrerà alle schiere presso Gerusalemme

Nulla rimarrà della leggenda nulla resterà delle gesta

Ma che accadrà della fanciulla

Fino a quando deve mantenersi casta

Che accadrà dei neonati

Fino a quando si riuscirà a tacere

In verità vi chiedo

Chi ucciderà il drago

 

Noi mansueti e poveri di spirito

Che facciamo fiduciosi  la pace umili misericordi

Sempre puri di cuore Noi che soffriamo

Noi che piangiamo che abbiamo fame e sete

Noi la cui salvezza è tutta in questa frase

La realtà è menzognera e la vita fallace

Strappandoci a brandelli gli abiti da lutto noi gridiamo

San Giorgio non esiste

Guidaci san Giorgio!       (1972)

Leszek Aleksander Moczulski  (1938)

 

*  *  *

 

Un caseggiato. Un sudicio spiazzo di fronte. Una panca sbilenca.

Senza intonaco. La tromba delle scale imbrattata di vernice.

Come se chi ha pitturato, ormai non sperasse più.

Che a difesa del diritto, che il riso dei bambini, che la verità

                                                                        cambierà qualcosa.

 

 

*  *  *

 

Non capisco questo dialetto.

Mi sento come uno straniero, quando con le parole che conosco

                                                                                               dall’infanzia,

gli atti di violenza vuoi

suddividere in giusti, meno giusti e ingiusti.

 

 

Tadeusz Nowak (1930-1991)

 

I cavalli di legno

 

Dalla frutta fluisce il buio.

Il fiume ha il ventre melmoso del pesce.

Solo dal mattatoio risplende il bue:

galassia sezionata in quarti.

 

E noi abbiamo i cavalli di legno

e dai ginocchi materni non scendiamo.

Si scontrano nel campo i capricorni,

scorre il bagliore – e nel giardino appare

incorniciato da un ramo di melo

il mongolo viso dell’inverno slavo.

 

E quando dei nostri padri soltanto

dai fiaschi narra tonando il sidro,

essi nelle giubbe color tabacco

ruotano dei propri corpi i meloni.

Indossan le vedove vesti nuziali.

E’ l’alba – tonfare di mele,

ravviare di chiome, tergere di mani

e addestrare di cavalli.

 

Dalla frutta fluisce il buio.

Si va spegnendo il pesce sezionato.

Nitriscono i cavalli nel solaio.

Le madri vanno in abito da lutto

sulle colline imbevute di fiele

e ci prendono sui loro ginocchi.

 

1959

 

Salmo del paradiso

 

S’indora sotto il melo il corpo nudo

Dai seni il frutto rotola ai ginocchi

Nella mia infanzia è già accaduto

ciò che han visto d’erbe e di bestie gli occhi

 

Andavo presso i meli nottetempo

con accetta corda sega e coltello

per vederli tremare di spavento

per darne in sogno ai nipoti il flagello

 

Dalla parrocchia dai suoi recisi meli

Adamo ed Eva fuggivano nei campi

io gli scrivevo come il Dio dei cieli

d’infernale veleno colmi canti

 

E fino in guerra d’un angelo alleato

stringevo un’enorme spada in mano

Oggi mi grida Cristo fucilato

invano o figliolo o angelo invano

 

Invano Giace l’arcangelo selvaggio

in trincea avvolto nel filo spinato

Eva sulle ferite il miglio ha cosparso

Adamo la spada in bacchette ha mutato

 

S’indora sotto il melo il corpo nudo

Dai seni il frutto rotola ai ginocchi

Nel grano sotto il melo è accaduto

Coprite all’erba e alle bestie gli occhi

 

 

 

L’amore

 

Non troverai sulla terra un amore tale,

Balbettante parole sventate e sconnesse,

Che il corpo impaziente non osa toccare,

Perché la mano non tremi per le carezze.

Ma vedevo chi le parole pronunciate

E falsi sospiri accoglieva, non sapendo

Che nelle parole c’è soltanto una parte

Di amore, e che l’altra parte è tormento.

Apprezzo l’amore che toglie il sonno agli occhi,

Per terminare una frase spezzata a metà,

Per il quale gli anni amati son troppo corti

E i secondi di attesa sembrano un’eternità.

Agnieszka Osiecka (1936-1997)

 

Gli amanti di Via del Sasso

 

Gli occhi hanno come li hanno tanti

per il cinema solo due lire

hanno pane e birra soltanto

e un freddo da morire

 

E gli amanti di questa mia città

anelli e fiori non danno

e gli amanti di questa mia città

chi sia Shakespeare non sanno

sono gli amanti di Via del Sasso

 

Sulle scale negli usci la sera

sfiorano quasi le mani crepate

così stanno fino all’aurora

vecchie le gonne e stracciate

 

E gli amanti di questa mia città

viaggiano solo sui tranvai

e gli amanti di questa mia città

temono sbirri e portinai

sono gli amanti di Via del Sasso

 

A un tratto un dì

le torce con sé

decisi vanno

così turpi è ver

 

Vogliamo Romeo

a tutti gridiamo

in Via del Sasso

mai più ritorniamo

 

Giulietta vogliamo

urlavan così

a noi Giulietta

siete porci sì

 

Vanno stormendo

a piena gola

amore straccione

la via sorvola

 

Poi il buio tornò

finì il chiasso

poi in Via torneranno

del Sasso.

 

Vedi piccola…

 

Avevi allora diciotto anni  quando in città giunse lui

aveva con sé più toppe che soldi

diceva di aver visto il mondo intero

sì non era delle tue parti

ciò che gli hai dato ha bevuto e mangiato

poi ti prese per moglie

      Vedi piccola com’è      

      tanto cuore tale gesto

      vedi piccola com’è

      tanto cuore tale gesto

Era sempre elegante

tre camicie al giorno

tu stiri e lui dorme

o fino all’alba se la spassa

quando al mattino tornava

benché ubriaco o arrabbiato

tu gioivi che era sano a salvo

e perché gli eri vicino

       Vedi piccola com’è

       tanto cuore tale gesto

       vedi piccola com’è

       tanto cuore tale gesto

In prigione poi egli finì

benchè non avesse ucciso

tu piangevi per la condanna

che ti separava da lui

andavi al cancello della prigione

ogni giorno un pacco o una lettera

qualcuno ti voleva anche sposare

ma tu non rispondevi nulla

       Vedi piccola com’è

       tanto cuore tale gesto

       vedi piccola com’è

       tanto cuore tale gesto

Passarono sette duri anni

poi egli uscì di prigione

di nuovo volevi dargli il cuore

ma lui ormai aveva un’altra

piangesti tutti i tuoi occhi

pensa a quanti anni hai

e lui ancora se la spassa

e lui è ancora giovane

       Vedi piccola com’è

       tanto cuore tale gesto

       vedi piccola com’è

       tanto cuore tale gesto.

 

Leon Pasternak (1909 – 1969)

 

Il prezzo dell’esistenza

 

Caduti sui campi di battaglia,

i combattenti della libertà

– non si alzeranno per accusare.

Presi dagli sbirri sulla strada,

messi al muro e fucilati

– non si alzeranno per vendicarsi.

Torturati e uccisi nei lager,

calpestati nelle prigioni

– non si alzeranno per giudicarci.

La terra guarirà le sue ferite,

città più belle risorgeranno,

sulle ceneri dei bruciati.

Chi comprenderà la debolezza

e la forza del condannato,

del suo grido davanti agli spari?

Seweryn Pollak (1907-1987)

 

Simplicio, peripatetico e inquisitore dell’eretico

chiamato Galileo Galilei

 

Se non parlerai come io ti comando,

non parlerai affatto. Puoi davanti allo specchio

spegnere tutte le luci e restare al buio,

puoi dire tutte le tue verità inventate

per la tua presunzione e per i balordi,

che volevano trarne una scienza inventata.

Circondati di specchi e parla a te stesso,

parla a cento giusti, ti prego non a dieci,

ma a cento – tu, tu uno in cento persone,

parlerai con te stesso a vuoto e al buio,

e nessuno udrà la tua voce, soffocata

dal tuo proprio respiro, dalla tua incertezza

e dal timore, che io ti chiuda la bocca.

Puoi non assicurarmi, che tu stesso hai visto.

Punire i blasfemi che spengono la luce

del cielo e vilmente ci strappano via la terra,

su cui brucano i popoli. Non pestare i piedi!

Sta’ fermo, ti prego, sii umile e dignitoso,

e forse un giorno ti sarà perdonato,

se ciò che dici darai al vento e affiderai

in silenzio alla quiete del firmamento.

 

 

Da Bełżec

 

Scricchiola sotto il piede un osso

per caso pestato –

se fin qui mi hai seguito,

che Tu sia lodato.

Dal fondo dell’umiliazione,

dal fondo del pentimento esclamo –

alla Tua grande famiglia appartengo,

alla Tua bruciata famiglia appartengo,

e questo è un osso del mio cranio.

Non la grazia della comprensione,

non l’oblio Ti chiedo,

ma che la mia ombra

io più non veda.

Che la memoria mi si svuoti,

lasciandomi soltanto:

quest’aria oggi così lieta,

quest’aria rosata,

in cui divampano quei fuochi.

 

 

 

 

 

 

Julian Przyboś (1901-1970)

 

Dalle ceneri

 

Vi estraggo –  come dall’orecchio dell’abisso,

sento le rovine:

la forma di tutti gli scoppi compressi in un istante,

non case – ma delle bombe le esplosioni fermate.

 

Il brusio e il rombo dei secoli

concentrato in un istante: la città quando crollava sui vivi:

l’avete raccolta nella vostra morte.

 

Nel portone bruciato

la faccia emersa di un sepolto in cantina:

l’oscurità.

 

Tra le colonne abbattute

l’acero fascia il braccio ferito

con la prima foglia di primavera;

dalle ceneri sopra di me

si erge l’albero: insegna della forza

vostra, di nessuno.

 

Sopra ad essa il tramonto: si è freddato dei bagliori degli

                                                                      incendi il bagliore.

 

1945

 

 

 

Feliks Przysiecki (1883-1935)

 

L’inizio di primavera

 

La tristezza s’annida nel cappotto liso,

Che sei solo lo dice il bottone mancante,

E nel buco della tua scarpa storta è inciso

Del tuo abbandono il romanzo stravagante.

 

La vita allude già dall’abito a brandelli

Alla sua vittoria sul cuore credulone,

E quando cammini, come benigni uccelli

Ti inseguon gli occhi delle misere persone.

 

Perché del tuo cappello la falda sdrucita,

Della cravatta vecchia la bravura altera,

Mostra un veterano sconfitto nella vita,

Che vaga come un esule in terra straniera.

 

Ma per togliere alla vita il tuo triste fasto,

Che come perla nera brilla misterioso,

Ti lancia soprannomi beffardi e con astio

L’istinto dei meschini, sempre doloroso.

 

Allora il tuo orgoglio giovanile e restio

Impone al tuo vestito bellezze regali,

Degne d’un poeta condannato all’oblio,

Ed offeso da tante sentenze brutali.

 

Allora la luna sulle vetrate e sui tetti

Il fasto dei regali festini ti porge…

Oh, sì! Fiero all’indietro il cappello metti,

Ecco, la folla ti saluta con le torce.

 

E il vento impetuoso delle notti d’aprile,

Che ristora come tersa e fredda corrente,

In omaggio alla tua speranza giovanile

Già il parco riempie d’un inno travolgente.

 

Ed ecco di nuovo i tuoi pensieri sprecati,

E il profumo di vecchie ridenti stagioni,

Scritti ingialliti, in soffitta fogli bucati,

Che l’oblio ha strappato dalle tue azioni.

 

Nei solai malandati ritorni esitante,

Dove la luna tra le tendine tarlate

Ti apre dei ricordi il teatro sgargiante,

Dove il sussurro udivi delle donne amate.

 

1921

Jan Rostworowski  (1919-1975)

 

Un bouquet per Emily

 

Su un filo d’erba non costruirai una città

non andrai con la nave nelle vene.

Com’è difficile essere uno stretto

tra mare e mare.

Emily Dickinson lo era.

 

*

Disse Geova: Condanno la nuvola.

La mia ira si abbatterà sulla nuvola!

 

Disse Emily: Signore,

lascia che io parli un po’ con la nuvola.

 

E caddero centomila gocce

dopo il loro segreto colloquio.

 

E ogni goccia sembrava buona

Allo stupito Geova.

 

*

Coprivano gli occhi gli angeli

quando un calabrone entrava in un giglio.

Non sapevano perché

uscì silenzioso come il ragazzo

quando si chiuse la finestra di Emily.

 

Oh stammi vicino

ma non entrare in me.

Ho paura della tua forma.

 

Se tu sarai il vero tu

se aprirai la vera porta

prima che la candela notturna finisca di ardere

porteranno via in una bara

tutti i miei versi.

 

*

Quante stelle sono necessarie

e quanti fiori

perché la bocca cessi di essere propria

Emily?

 

Basta una sola stella

e un solo fiore

sottobraccio alla notte

Emily.

 

*

Le mie braccia sono sottili

come corde d’un violino.

Suonalo Signore!

Suonalo Signore!

 

E se ne avrai abbastanza

prendimi saldamente per i capelli

e portami in cantina.

 

Poi allontanati lungo la via lattea

e dimenticami

per l’eternità.

 

 

 

Jarosław Marek Rymkiewicz  (1935)

 

Erotico fuori moda

 

E’ tempo ch’io chieda di nuovo

Il sospiro d’un ramo senza verde

Sulla mia povera testa ardente, sulla mia testa sobria.

Torcersi le mani e a lungo vagar nella nebbia serale.

 

Quella mossa con cui si accomoda i capelli,

Quella con cui si toglie il bracciale a ferro di cavallo,

Le labbra che potei solo guardare

E il fruscìo di foglie impaurite sotto i miei piedi.

 

Eccomi qui, ventenne,

Di fronte a cose non del tutto chiare,

Scrutando i vetri illuminati dell’amore,

Cercando asilo sotto il cielo bruno,

 

Qui, dove il viluppo del fumo avvolge il mio cuore,

Che ormai per sempre è come in una squallida vignetta:

Trafitto da una freccia e cinto di roselline.

 

1957

Władysław Schlengel (1912-1943)

 

Ascolta o Dio tedesco

come pregano gli Ebrei nelle case stravolte

stringendo in mano una sbarra o una mazza:

– Dacci, o Dio, una lotta cruenta,

concedici una morte violenta –

che i nostri occhi prima della fine

non vedano la scia dei binari,

ma dà la giusta mira alle mani,

perché s’arrossi la plumbea divisa.

Prima che le nostre gole si serrino

con un  sordo lamento… facci vedere

in quelle mani spavalde e sferzanti

il nostro stesso umano SPAVENTO!

 

Marek Skwarnicki  (1930)

 

Rifiuto

 

No, non avrete l’arte.

Nessuno eternerà i vostri volti

Nessuno esporrà le vostre emozioni

Nessuno le vostre pene avvertirà

e non canterà di voi nessuno.

Resterà solo un mucchio di carta

migliaia di telefoni muti

un diploma e una medaglia o le sanzioni

ricoperte di calce quattro pareti

le copie dei vostri atti di morte

e in fondo al cuore il defunto pudore.

 

No, non avrete l’arte.

 

Avrete soltanto la forza

che non sarà la vostra forza.

Potrete ordinare

sempreché un ordine vi daranno.

Avrete privilegi

più di tutti gli altri

ma essi affogheranno senza fine

nell’estranea burocratica noia.

 

E non avrete l’arte.

 

Essa è della vita la figlia povera

Essa è la difesa dal potere.

 

 

Stanisław Ryszard Stande  (1897-1937)

 

Il provocatore

 

                                                                 Z. U.

 

Nelle sedute spara parole come alle pernici

I fatti setaccia con fredda argomentazione

con le dita scava in aria la fossa ai nemici

compagno Callisto è il suo soprannome

 

fonda circoli e gruppetti in tutto il vicinato

trabocca d’energia e ovunque si fa vedere

con le mazze del lavoro pesta il tempo sbiancato

finché i cuori s’inchineranno e otterrà il potere

 

una giunta allora organizzerà segretamente

darà bombe in un giorno di festa nazionale

e stenderà un piano d’attentato al presidente

a conoscenza di più d’un capo ministeriale!

 

sui duri marciapiedi getterà folle avvilite

su aguzze siepi di calci e baionette innestate

sparerà lui stesso sul muro delle divise

formerà coi corpi umani aiole colorate

spiattellerà l’alloggio di quelli un tempo amati

busserà la polizia di notte a mille porte

furtivamente li condurranno ammanettati

avranno i volti pallidi e un’ombra sulla fronte

 

e quella stessa notte al Chat Noir lui berrà

metterà banconote nel corsetto alle puttane

e in omaggio alla repubblica si sgolerà

urlando l’inno nazionale!

 

la mattina tornando a casa udrà un secco schianto

vibrerà mostruosamente la vettura fermata

per l’ultima volta vedrà gli ex compagni e intanto

la canna del revolver lo guarderà stralunata

 

1925

 

 

Elżbieta Szemplińska 

 

Il corpo

 

Arduo è il giorno per gli amanti dopo la lite.

Arduo ed aspro come tendaggi per caso strappati.

Né parola né sguardo chiudon le ferite,

e piangon soli fino al mattino, dall’odio spossati.

Ardua è la vita di quelli che il caso congiunge.

Ardua è la morte in due, ardua è la vita e il conforto:

l’ombra lotta con l’ombra, un cuore l’altro punge,

e se voglion del pane, il coltello lo taglia storto.

Nella notte gelida, in un angusto letto,

ognuno con sé sotto la coltre-lamiera, lontani,

separati, con lo stesso brivido nel petto,

sotto la propria ascella ognuno scalda le sue mani.

 

E quando il freddo è più intenso, furtiva si scuote l’amante,

e strisciando pian piano, scaltra, tremante,

timida, raggiunge sul lenzuolo ghiacciato

il limite tra caldo e freddo, il bordo del corpo amato.

Ha paura d’avergli sottratto il calore,

lo guarda mentre dorme senza più vigore,

come luna assopita, lontana e silente,

tra nuvole e coltri di latte effervescente:

avvia congiure col corpo. Prende a toccarlo

sulle mani e sulle gote, senza svegliarlo,

supplica e sussurra con le labbra frementi:

dormi…fa freddo…non tradirai? Non menti?…

 

Non credendo alla sua gioia trema in segreto,

e tremando piange e in sé il caldo dell’uomo attira…

E il corpo come una bestia è mansueto.

Il corpo non si adira.

 

 

Irena Tuwim  (1899-1987)

 

Dialogo con la fantesca

 

Nessuno notò. Solo la fantesca,

Quando tornai in albergo a tarda ora.

Lavava le scale. Sbirciò. Sapeva.

Si torse le dita: “Signora!”

 

Sul grembiule asciugò le mani,

Mi sistemò le coltri all’istante,

Stremata, nera Madonna italiana,

Poi sul letto mi adagiò ansimante.

 

Aprì gli occhi – come due mari –

Con voce rotta disse all’improvviso:

«C’era qui una. Pure giovane. Gli occhi aveva chiari

E a lei, signora, somigliava nel sorriso».

 

Portò le  mani al florido seno:

«Ah, era un sorriso senza amore!

…Poi dovemmo abbattere la porta…Fa pena pensare…

…Al filo del ventilatore…

 

Dovemmo sotterrare il grazioso corpo,

I capelli di seta, il caro volto…»

«Certo non amava il mondo, se ha potuto…»

«Forse il mondo non l’amava molto?»

 

1930

 

 

Rafał Wojaczek  (1945-1971)

 

Ti parlo piano

 

Ti parlo così piano come un luccichio

E fioriscon le stelle sul prato del mio sangue

Nei miei occhi è la stella del tuo sangue

Parlo così piano che la mia ombra svanisce

 

Sono un’isola fresca per il tuo corpo

che cade di notte come goccia ardente

Ti parlo così piano come nel sonno

il tuo sudore sulla mia pelle brucia

 

Ti parlo così piano come un uccello

all’alba il sole cala nei tuoi occhi

Ti parlo così piano

come lacrima che scolpisce una ruga

 

Ti parlo così piano

come tu fai con me

 

1967

 

Patria

 

Madre saggia come torre di chiesa

Madre più grande di Romana Chiesa

Madre lunga come transiberiana

E vasta come il deserto del Sahara

 

Madre pia come il foglio del partito

E bella come i vigili del fuoco

E paziente come un inquisitore

E dolorante come nel parto

 

E autentica come uno sfollagente

Madre buona come un gotto di birra

Seni di madre due vodke devote

 

E premurosa come un barista

Madre sacra come Regina di Polonia

Madre estranea come Regina di Polonia

 

 

Versetto per Miron Białoszewski

 

Ascoltare fino alla sordità

Affissarsi fino alla cecità

Affannarsi fino all’ultimo fiato

Assorbirsi fino alla distruzione

Ah, assanguarsi – fino al sole!

 

Amare fino alla repulsione

 

1970

 

 

Wiktor Woroszylski  (1927-1996)

 

Franz Kafka

 

Quando Franz Kafka scriveva le sue storie non erano esse

lo specchio della realtà Nacque e visse

nella più mite delle tirannie e quando essa cessò nella più

decorosa delle democrazie borghesi dell’Europa In un mondo

così inadatto all’Apocalisse che inghiottito

da essa non smise di stupirsi Nella città ove tuttora

si può trovare traccia di tutti quelli che ci vissero

prima dell’Apocalisse Anche

di Franz Kafka Ecco

la casa dove nacque Di qui la fantesca

lo accompagnava a scuola spaventandolo Qui

lavorava nella società di assicurazioni e non osò mai

prendersi due giorni di permesso per recarsi

dalla sua amata Questa

è la tomba di famiglia dei Kafka Ecco lì tutte

le case soltanto da alcune

cade l’intonaco Gli abitanti

mostrano anche il vecchio pozzo che descrisse

in uno dei primi racconti e l’interno della chiesa

del romanzo Ma

se in ciò che scrisse si volesse trovare l’immagine

del mondo in cui passò la vita sarebbe

ingiusto e questo rispettabile mondo avrebbe il diritto

di sentirsi offeso giacché non fu

tale Fu

più sereno e più semplice Per fortuna

si cominciò a leggere Kafka assai più tardi quando il corpo del mondo

s’intrufolò in ogni sua parola inventata recuperando

il ritardo e gemendo di dolore

 

1969

 

 

Jerzy Zagórski  (1907-1984)

 

Abiterai una casa di legno…

 

Abiterai una casa di legno e ci starai bene.

Una scatola di travi di pino. Di nodi tramata.

La foresta lambirà la veranda, alla tua portata.

Abiterai una casa di legno e ci starai bene.

 

Come fumo fluisce all’alba la nebbia dal prato.

Il mondo è una piana negli occhi di vetro offuscato.

Di giorno l’iride sul bosco. Non ti verrà vicino,

se ne andrà oltre il sipario degli alberi di pino.

 

Da tutto ciò ch’è più prossimo e che si può abbracciare,

è nata l’idea di patria, e poiché ci son cose

più distanti, sono nate altre idee più tristi e preziose,

che quanto è più buio tra noi, tanto più sembran brillare.

 

Nebbia. Fumi. Nuvole. O notte, quando serena appari,

forse allor ci sorvola la densità delle galassie,

affinché guardando, e credendo a quelle limpide masse,

della tua profondità si resti sempre ignari?

 

Quel che di giorno è un prato, di notte un nero abisso diventa,

sul quale non sai cosa splenda: deserto, sogno o tormenta.

Dagli alberi cresce il fruscìo dei pipistrelli, e tra la gente

c’è l’amore oscuro – e dal timore proprio lui difende.

 

Amore rapace e tenero. Invano per nome lo chiami,

invano in forma di bulbi e d’animali lo scolpirai,

perché lui ci lega a sé, ma lo spirito non s’unirà mai,

benché spirito e amore sian sparsi nel fumo e negli astri lontani.

 

1937

 

Salmo

(frammento)

 

Città diletta, città scarnita,

Strade dalla lotta divelte…

Sempre una nuova ferita

L’occhio sulle vostre pietre legge.

 

Presso piazza Krasiński rabbiosi

I cannoni colpivano il ghetto.

Guizzavano le creste dei fuochi

Da ogni muro, da ogni tetto.

 

Uomini induriti e spietati

Gelidamente guardano intorno –

I cuori da tempo gelati

E immersi in un buio profondo.

 

Fluisce degli spari il chiasso

Assieme al fumo da Muranów:

Come grigiastra nebbia in basso,

Come gialla nube lontano.

 

O sole dei bambini sgozzati

E gettati nel fuoco orrendo,

Sei una macchia di sangue rappreso

Nel fumo bruno dello spavento.

 

La Madonnina masoviana

Pallida in volto e disperata

Come trepida popolana

Guarda dall’angolo della strada.

 

Sta lì dietro il vetro della nicchia

Di fronte al bagliore crescente:

Mostra le mani inerme e afflitta –

Non ha più fulmini…non ha più niente.

 

1943

 

 

 Adam Ziemianin  (1948)

 

Dall’orto

 

io newton di un piccolo villaggio

insegno alle mie mele a cadere

non lontano dal melo

 

ed ecco l’aurea renetta solennemente

siede nelle pieghe

del manto regale

e i meli silvestri rullano

nella stanza della servitù

 

ma più di tutto mi preoccupa

la grigia renetta

atterrita dal buffone

del re con il racconto

della sorella che peccò in paradiso

 

non riesco a persuaderla

che il paradiso non sarà più

 

 

Antifona dell’angelo custode

 

angelo di dio mio custode

col cinturino sotto il mento

tu mi sei sempre accanto

pur se le ali nella giberna celi

 

estate autunno e inverno

stammi alle calcagna

fa che sempre il mio corpo zoppo

senta il tuo sguardo sereno

 

non lasciare che sosti sul predellino

non farmi sporgere troppo

se offendessi un derelitto

agisci su di me con dolce persuasione

 

del tuo sorriso d’altri mondi

non posso fare a meno

perché grazie ad esso non tremo

quando attraverso la strada

 

mattina giorno e notte reggi

governa me proteggi

e difendi il mio corpo stremato

e accompagnami

semmai al commissariato

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marina Cvetaeva (1892-1941)

25 Ott

 

 

Marina Cvetaeva

*  *  *

Con gli occhi rivolti a terra

Vai, a me somigliante.

Anch’io li ho abbassati!

Fermati, o viandante!

 

Leggi – un mazzetto di viole

E papaveri spiccato –

Che mi chiamavo Marina

E quanti anni m’han donato.

 

Non pensare – qui c’è una tomba,

E ch’io possa apparirti, adesso…

Io stessa troppo amavo

Ridere se non è permesso!

 

E il sangue scorreva in me,

I miei ricci eran ghirlande…

Viandante, anch’io ero!

Oh, fermati un istante!

 

Cogli un selvatico rametto

Di rosse bacche per te, –

Della fragola di cimitero

Una più dolce non c’è.

 

 

Non tenere la testa china,

Lascia il tuo cupo pensiero.

A cuor leggero pensami,

Dimenticami a cuor leggero.

 

Sei tutto inondato di luce!

Sei in una polvere d’oro…

– Oh, che non turbi il tuo cuore

La mia voce dal sottosuolo.

 

Koktebel’, 3 maggio 1913

 

 

*  *  *

Più capiente d’un organo e più sonoro d’un tamburo

Di’ – una volta per sempre:

“Oh” – quando va a stento, “ah” – quando va a meraviglia,

“Eh” – quando non si riesce!

Ah dall’empireo e oh dal campo arato

E ammetti, o poeta,

Che oltre a questi ah, oh,

Nella musa altro non trovi.

La più satura rima

Dell’intimo, il tono più basso.

Così – davanti a Sulamite che arrossiva

Ah! Esclamò Salomone.

Ah – il cuore che si spezza,

La sillaba nella quale si muore.

Ah – il sipario d’un tratto calato,

Oh – un collare da tiro.

Cercatore di parole, drudo verbale,

Scoperto rubinetto di parole!

Eh, sentissi una volta almeno –

Che ah di notte da un bivacco polovesiano!

E s’è piegato, è balzato come belva,

Nei muschi, in una pelliccia sonora…

Ah – è un intero campo gitano!

E con la luna in alto!

Ecco un puledro che mostra i denti a modo suo,

Nitrisce, pregustando la corsa.

Ecco, s’imbatte in un teschio di cavallo,

E ordina Olèg un canto

A Puškin! E – ardendo nel volo –

Nelle eroiche tenebre –

Inarrestabili esclamazioni della carne:

Oh! Eh! Ah!

23 dicembre 1924

*  *  *

Tu ed io da nessuna parte siamo andati –

Son divenuti penuria tutti i mari!

Chi possiede un pugnetto di denari –

Un oceano non potrà mai comprare!

 

L’eterno cibo asciutto della povertà!

L’estate, come crosta, stringere si dovrà!

Il mare in secca s’è mutato:

La nostra estate – altri hanno ingoiato!

 

Per chi scoppia di grasso: il grasso è “l’orpello”,

E non solo il burro mangia, ma anche il cervello

Nostro – nei poemi, sonate, nei cieli grigi:

Cannibali nelle mode di Parigi!

 

Voi che ci gustate: un franco per l’ingresso.

Oh, mostro, come con acqua da toilette adesso

La bocca sciacqui – con un canto eterno!

Siate maledetti – per tutto il mio disonore:

 

Stringervi la mano, quando il pugno prude, –

Con le cinque dita e i cinque sensi pure –

A ricordo del buon sentimento –

Sulla vostra faccia un autografo metto!

 

Parigi 1932 – 1935

Indizi

Come se avessi portato una montagna–

Dolore in tutto il corpo!

Io l’amore lo riconosco dal dolore

Lungo tutto il corpo.

 

Come se in me un campo avessero sezionato

Per qualunque temporale.

Io l’amore lo riconosco dalla lontananza

Di tutti e di tutto qui vicino.

 

Come se una tana in me avessero scavato

Fino al fondo, dov’è la pece.

Io l’amore lo riconosco dalla vena

Che geme lungo tutto il corpo.

 

Da una corrente d’aria come da una criniera

Sono stata avvolta, o Unno:

Io l’amore lo riconosco dalla rottura

Delle corde più fedeli

 

Della gola, – dei meandri della gola

La ruggine, il sale vivo.

L’amore lo riconosco dalla glottide,

No! – dal trillo

Lungo tutto il corpo!

 

29 novembre 1924

*  *  *

Io ricordo il primo giorno, l’infantile bestialità,

La divina confusione del languore e di un sorso,

Tutta la spensieratezza delle mani, tutta la durezza del cuore,

Che come pietra cadeva – e come falco – sul petto.

 

Ed ecco – adesso – tremando di compassione e di ardore,

Una cosa sola: ululare come un lupo, una cosa sola: cadere ai piedi,

Abbassare gli occhi – capire – che per la voluttà il castigo –

E’ l’amore brutale e la passione del forzato.

 

1917

 

Indizi terrestri

 

Così, nella parca alacrità dei giorni,

Così, nella difficile eccitazione per lei,

Dimenticherai l’amichevole trocheo

Della tua virile amica.

 

L’amaro dono della sua severità,

E con lieve timidezza l’ardore celato,

E quell’impatto senza fili,

Che ha nome – lontananza.

 

Tutte le antichità, tranne: da’ e mio,

Tutte le gelosie, tranne quella, terrena,

Tutte le fedeltà, – ma come Tommaso

Che non crede nella lotta mortale.

 

O mio femmineo! Con la canizie dei padri:

Quella fuggitiva non prendere sotto il tetto!

Evviva il levogrudyj kov

Dei saccenti estremi!

 

Ma forse nei cinguettii e nei conti

Stanco delle eterne femminilità –

Ricorderai la mia mano  senza diritti

E la virile manica.

 

La bocca che non esige preventivi,

I diritti che non seguono,

Gli occhi che non dirigono le palpebre,

Che indagano: la luce.

 

1922

 

*  *  *

 

Le foglie dell’albero si dileguano,

Delle rose e del tè?

No, dall’umile biondezza

Dell’abito di lei, della sua seta…

 

I rami nell’acqua si chinano,

Verso le alghe e le macchie ruggine?

No, – senz’anima, senza intenzione

Le braccia di lei abbandonate.

 

La resine si sono versate nell’erba, –

In quelle o nei campi del cuculo?

No, – sulle guance e sulle stuoie

Le lacrime di lei, – che tristezza!

 

Maestro, se tu non fossi così occupato,

E guardassi il chiarore!

Allora nel vuoto di memoria –

Le albe di lei: gli occhi di lui!

 

1922

 Inclinazione

L’orecchio materno attraverso il sonno.

Io ho per te l’inclinazione dell’udito,

Dello spirito – per te sofferente: brucia? Sì?

Ho per te l’inclinazione della fronte,

 

Del corso montano di un fiume.

Io ho per te l’inclinazione del sangue

Al cuore, del cielo – alle isole dei piaceri.

Ho per te l’inclinazione dei fiumi,

 

Delle palpebre…La chiara inclinazione dell’estasi

Al liuto, della scala ai giardini, di un ramo

Di salice a una fila di paletti…

Io ho per te l’inclinazione di tutte

 

Le stelle alla terra (attrazione familiare

Delle stelle verso una stella!) – L’attrazione di un vessillo

Verso i lauri delle tombe sofferte.

Io ho per te l’inclinazione delle ali,

 

Delle vene…L’attrazione del gufo verso una cavità,

L’attrazione dell’oscurità verso il capezzale

Di una bara, – gli anni sai mi sforzo di addormentare!

Ho per te l’inclinazione delle labbra

 

Alla sorgente…

 

28 luglio 1923

 Scrivevo sulla lavagna

Scrivevo su una lavagna di ardesia.

E sulle stecche scolorite del ventaglio,

E sulla sabbia del fiume, del mare,

Coi pattini sul ghiaccio, con l’anello sui vetri, –

 

E sui tronchi che hanno centinaia d’inverni,

E, infine, – perché a tutti fosse noto! –

Che tu sei il prediletto! Il prediletto! Il prediletto! –

Ho firmato – con l’arcobaleno del cielo.

 

Come io volevo, perché ognuno fiorisse

Nei secoli con me! sotto le mie dita!

E dopo, chinata la fronte sul tavolo,

Con una croce ho cancellato – il nome…

 

Ma tu, nella mano di un copista corrotto

Stretto! tu, che il cuore mi pungi!

Da me non tradito! interno dell’anello!

Tu – ti salverai su un libro d’oro.

 

18 maggio 1920

*  *  *

Tu cammini verso il Sole al Tramonto,

Tu vedrai la luce serale,

Tu cammini verso il Sole al Tramonto,

E la tormenta spazza via le impronte.

 

Sotto le mie finestre – impassibile –

Tu passerai nel silenzio della neve,

Devoto di Dio o mio prodigio,

Silenziosa luce dell’anima mia.

 

Io nella tua anima – non annegherò!

Salda è la tua strada.

Nella mano, pallida di baci,

Non conficcherò il mio chiodo.

 

E per nome non chiamerò,

E non tenderò le mani.

Il santo volto di cera

Adorerò soltanto da lontano.

 

E, sotto la lenta neve restando

M’inginocchierò nella neve,

E nel tuo nome santo

Bacerò la neve della sera –

 

Là, dove con passo maestoso

Tu sei passato in un silenzio tombale,

Luce sommessa – immagine gloriosa –

Onnipotente signore dell’anima mia.

 

2 maggio 1916

 Versi

 

I versi crescono, come le stelle e le rose,

Come la bellezza – vana in una famiglia.

E alle corone e alle apoteosi –

Una risposta sola: «Come ho tutto questo?»

 

Noi dormiamo – e, da lastre di pietra,

In quattro petali un ospite del cielo.

O mondo, afferra! Ai cantori – in sogno – si svelano

La formula del fiore e la legge della stella.

 

14 agosto 1918

Angelica

D’una buia cappella, dove l’organo geme,

Della vicinanza d’una immagine soave!…

Della gioia terrena m’è estraneo l’uragano:

Io sono Angelica.

 

Un quieto canto all’unisono risuona,

La linea delle finestre è confusa,

La mia vita dominano, come sogno,

Le volte armoniose.

 

Il mio sguardo nell’infanzia è fuggito là,

Esso dalle città è tormentato.

Mi annoiano le parole e un salone sfarzoso,

Il mondo – che noia!

 

Qualcuno alla Vergine un cero ha acceso,

(Aspetta di guarire una donna inferma?)

Ecco perché tra di voi io taccio:

In tutta me stessa sono diversa.

 

Dolce è la stanchezza delle braccia abbandonate,

Ogni sofferenza qui mi è lieve.

L’edera scura abbraccia come un amico

Le vecchie pietre;

 

Bianco e rosa, qui è fiorito già

come un mandorlo il vilucchio…

La gioia non serve. Del mondo non ho pietà:

Io sono Angelica.

 

 1910

 

 D’inverno

Di nuovo cantano dietro i muri

I gemiti delle campane…

Alcune strade tra di noi,

Alcune parole lontane!

Nella nebbia già dorme la città,

Già è sorta la falce d’argento,

Il tuo bavero la neve

Di stelle ha ricoperto.

Feriscono i richiami d’un tempo?

Le ferite dolgono lungamente?

Eccita nuovo e lusinghiero,

Uno sguardo splendente.

 

Per il cuore egli (castano o azzurro?)

Conta più delle sagge pagine!

La brina imbianca

Le frecce delle ciglia…

Tacciono esausti dietro i muri

I gemiti delle campane.

Alcune strade tra di noi,

Alcune parole lontane!

 

La luna scende chiara nelle anime

Dei libri e dei poeti,

Si sparge la neve

Sul tuo soffice colletto.

 

1910

 

 Preghiera

Cristo e Dio! Io voglio un prodigio

Adesso, quando il giorno spunterà!

La vita per me è come un libro,

Oh, fammi morire, abbi pietà!

 

Tu saggio non dirai severo:

– “Sopporta, l’ora non è arrivata”.

Tu stesso mi hai donato troppo!

Lo voglio subito – va bene ogni strada!

 

Voglio tutto: con l’anima d’un gitano

Andare cantando a rapinare,

Per tutti soffrire al suono d’un organo

E come un’amazzone lottare;

 

Condurre i bambini attraverso l’ombra,

Leggere le stelle in una torre nera…

Perché sia folle – ogni giornata,

Perché sia leggenda il giorno di ieri!

 

Amo la croce, la seta e gli elmetti,

L’anima mia non è un’orma perenne…

Tu m’hai dato l’infanzia – meglio d’una fiaba,

Fa’ ch’io muoia ora – diciassettenne.

 

Tarusa, 26 settembre 1909

 

 Dalle quattro alle sette

 

Nel cuore, come in uno specchio, c’è un’ombra,

E’ noioso stare sola – e con la gente…

Lentamente il giorno si allunga

Dalle quattro alle sette!

Dalla gente non andare – mentiranno,

Al crepuscolo ognuno è crudele.

Ho voglia di piangere. Le dita

Hanno annodato il fazzoletto.

Se offenderai – perdonerò.

Ma non farmi soffrire!

– Io mi affliggo immensamente

Dalle quattro alle sette.

 

1910

 

Saluto dal vagone

 

Più forte è il rombo, alto come una casa,

Per l’ultima volta ondeggia il vagone,

Per l’ultima volta…Andiamo…Arrivederci,

O mia invernale visione!

 

Mio sogno invernale, mio sogno buono,

Io portata via da te dal destino.

Così hanno deciso! Non mi serve il sogno

Né un fardello nel mio cammino.

 

Nel chiasso del treno credere a un miracolo

E verso vaghi giorni lontani andare.

Il mondo è così vasto! In esso

Ti potrò forse dimenticare?

 

Il buio del vagone come un peso sulle spalle,

Nel treno la nebbia irrompe come torrente…

Amico mio lontano – tutte queste parole

Ci illudono solamente!

 

Perché un nuovo paese? Ovunque noia,

Stesso riso e luccichio del firmamento,

E là, come qui, il tuo quieto gesto

Sarà per me un dolce tormento.

 

9 giugno 1910

 

A Byron

 

Io penso all’alba della Vostra gloria,

All’alba dei Vostri giorni,

Destato dal sonno come demone

E come dio per gli uomini.

 

Penso a quando i Vostri sopraccigli

Si unirono sulle faci degli occhi,

A come la lava dell’antico sangue

Si sparse nelle Vostre vene.

 

E penso alle dita – così lunghe –

Nei capelli ondulati,

E agli occhi nei viali e nei salotti

Che Vi hanno sospirato.

E ai cuori, che – troppo giovane –

Voi non aveste il tempo di leggere,

Ai tempi, quando sorgevano le lune

E a onore Vostro crescevano.

 

Io penso a una sala semioscura,

Al velluto, incline alle trine,

A tutti i versi che ci saremmo detti

Voi – a me, io – a Voi.

 

Io penso ancora al pugno di polvere

Rimasto delle Vostre labbra e degli occhi…

A tutti gli occhi che sono nelle tombe.

Ad essi e a noi.

 

Jalta, 24 settembre 1913

 

A Majakovskij

 

Più alto delle croci e dei tubi,

Battezzato nel fuoco e nel fumo,

Arcangelo dal passo pesante –

Salve nei secoli, Vladimir!

 

Egli cocchiere e cavallo,

Egli capriccio e ragione.

Sospirò, sputò sul palmo:

– Resisti, gloria da tiro!

 

Cantore di prodigi di piazza –

Salve, superbo e sporco,

Che la pesante pietra hai scelto

Sdegnando il diamante.

 

Salve, rombo di selci!

Ha sbadigliato, si è vantato – e di nuovo

Rema con le stanghe – l’ala

D’un arcangelo da tiro.

 

18 settembre 1921

 

Dialogo di Amleto con la coscienza

 

– Ella è sul fondo, dove sono fango

E alghe…A dormire in esse

E’ andata, – ma non c’è il sonno là!

– Ma io l’ho amata,

Come quarantamila fratelli

Amare non possono!

        – Amleto!

 

Ella è sul fondo, dov’è il fango:

Il fango!…E l’ultima corolla

E’ emersa sui ceppi lungo il fiume…

– Ma io l’ho amata

Come quarantamila…

         – Meno,

Tuttavia, di un solo amante.

 

Ella è sul fondo, dov’è il fango.

– Ma io…

          (perplesso)

         l’ho amata??

 

5 giugno 1923

 

*  *  *

O mia fedele scrivania!

Grazie che il tronco, come magia,

In tavolo per me trasformato,

Un tronco vivo sia restato!

 

Con la corteccia viva e sulle ciglia

Il gioco delle giovani foglie,

Con le lacrime di resina viva

E le radici fin dove il suolo arriva!

 

17 luglio 1933

 

 

 Prova di gelosia

Come si vive con un’altra, –

E’ più facile, sì? Un colpo di remo! –

Lungo la linea costiera

Più presto è passato il ricordo

 

Di me, isola fluttuante

(Nel cielo, non sull’acqua)?

Anime, anime! – ti siano sorelle,

Non amanti!

 

Come si vive con una donna

Semplice? Senza divinità?

La sovrana dal trono

Deposta (e da quello sei sceso),

 

Come vivi – molto occupato?

Hai freddo? Ti alzi bene?

Con il dazio dell’eterna banalità

Come te la cavi, poveraccio?

 

“Frenesie e agitazioni –

Basta! Prenderò una casa in affitto”.

Come si vive con una qualunque –

O mio diletto!

 

Più naturale e gustoso

E’ il cibo? Ti rimpinzi – non ti lamenti…

Come vivi con una simile –

Tu che hai calpestato il Sinai?

Come si vive con una estranea,

E’ di qui? Sincero – ti è cara?

La vergogna con le briglie di Giove

Non ti frusta la fronte?

 

Come vivi – la salute –

Può andare? Ti va di cantare?

Con la piaga dell’eterna coscienza

Come te la cavi, poveraccio?

 

Come va con la merce

Del mercato? L’affitto è caro?

Dopo i marmi di Carrara

Come vivi con la polvere

 

Del gesso? (Da un blocco scolpito

Dio – e del tutto frantumato!)

Come vivi con la millesima –

Tu che hai conosciuto Lilith?

 

Delle novità del mercato

Sei sazio? Ora cieco alle magie,

Come vivi con una donna

Terrena, senza il sesto

 

Senso?..

Su, senza finzioni: sei felice?

No? In un baratro senza profondità –

Come si vive, mio caro? E’ più dura?

Come lo è per me con un altro?

19 febbraio 1924

 

 

 Il poeta

3

Che devo fare, cieca e figliastra,

In un mondo dove ognuno è paterno e vedente,

Dove le scomuniche sono come terrapieni

Della passione! Dove il pianto

E’ chiamato raffreddore!

 

Che devo fare, per costola e mestiere

Corista! – come linea! abbronzatura! Siberia!

Tra le mie chimere – come lungo un ponte!

Con la loro imponderabilità

In un mondo di pesi.

 

Che devo fare, cantante e primogenita,

In un mondo, dove il più nero è grigio!

Dove l’estro si conserva come in un termos!

Con questa smisuratezza

In un mondo di misure?!

 

22 aprile 1923

 

 

La mia poesia già così lontana…

La mia poesia già così lontana,

Che non sapevo ancora quanto vale,

Sgorgata come un getto di fontana,

Come scintille di un fuoco artificiale.

In un santuario entrata irruente,

Tra sogno e incenso, come diavoletti,

Poesia così giovane e sofferente,

– Versi mai ancora letti! –

Di polvere coperta e disseminata

Là dove nessuno mai la prenderà,

La mia poesia, come un vino pregiata,

Una sorte migliore riceverà.

1913

 

Sotto la carezza di un plaid di felpa

Sotto la carezza di un plaid di felpa

Rievoco ciò che ieri ho sognato.

Ma cos’era? – Di chi la vittoria? –

Chi la sconfitta ha riportato?

Su tutto ho riflettuto ancora

E ripensando provo dolore.

In ciò per cui non ho parole

Era nascosto l’amore?

Chi cacciava e chi era la preda?

Tutto maledettamente non chiaro!

Cos’ha capito facendo le fusa

Il mio gatto siberiano?

In questo duello di riluttanze

In quale mano era la palla soltanto?

Il cuore di chi, il Vostro o il mio

Correva così tanto?

Eppure – che c’era in questo?

Perché tanta voglia e dispiacere?

Non lo so: ho vinto forse?

Ho perso? Lo potrò sapere?

1914

*  *  *

Quando guardo le foglie che volano,

E si posano sull’acciottolato,

Sparse come da un pittore,

Che finalmente termina il quadro,

Io penso (a chi piace ormai il mio aspetto,

La mia aria trasognata?),

Che così gialla e arrugginita,

Sulla cima c’è una foglia simile – dimenticata.

Ottobre 1936

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

Anna Achmatova (1889-1966)

25 Ott

 Anna Achmatova tradotta da Paolo Statuti

 

Anna Achmatova

*  *  *

Oggi è la Vergine di Smoleńsk,

L’azzurro incenso sull’erba si sparge,

E fluisce il canto funebre,

Non triste oggi, ma sereno.

E portano le rubiconde vedovelle

Al cimitero i figlioletti

A vedere le tombe paterne,

E il cimitero – un boschetto d’usignoli,

Dal chiarore del sole ammutolito.

Abbiamo portato alla Madonna di Smoleńsk,

Abbiamo portato alla Santissima Madre

Sulle mani in una bara d’argento

Il nostro sole, nel tormento estinto, –

Aleksandr, candido cigno.

 

Agosto 1921

 

*  *  *

Son venuti a prenderti all’alba,

Dietro di te andavo, come dietro a un morto,

Nella buia stanza piangevano i bambini,

Tra le sante figure il cero s’è sciolto.

Sulle tue labbra il freddo della piccola icona.

Sulla fronte sudore di morte…non scordare!

Così come con le mogli degli strelizzi,

Sotto le torri del Cremlino mi udrai urlare.

 1935

 

Il distacco

1

Non le settimane, non i giorni – gli anni

Si separavano. Ed ecco finalmente

La freddezza della libertà

E la bianca corona sulle tempie.

 

Non più tradimenti, né sotterfugi,

E fino all’alba non senti come

Scorre il torrente di prove

Della mia incomparabile ragione.

 

2

 

E come sempre accade nei giorni del distacco,

Lo spettro dei primi giorni ci ha bussato,

E col bianco sfarzo dei suoi rami

Ha fatto irruzione il salice argentato.

 

A noi, frenetici, amareggiati e alteri

Che non osiamo alzare gli occhi da terra,

Ha cantato un uccello con voce beata

Come un tempo ci custodimmo a vicenda…

1940 – 1944

 

* * *

Qui di Pushkin l’esilio cominciò

E di Lermontov l’esilio finì.

Qui è il profumo dell’erbe montane,

E solo una volta di vedere mi riuscì

Sul lago, nell’ombra densa del platano,

Prima di sera, nell’ora amara,

Il lampo degli occhi inquieti

Dell’immortale amante di Tamara.

 

1927, Kislovobsk

 

 La Musa

 

Quando di notte aspetto il suo arrivo,

Onori e libertà – tutto è vano.

La vita sembra attaccata a un filo,

Davanti a lei con lo zufolo in mano.

 

Ed ecco entra. Scostata la tenda,

Mi guarda. Negli occhi ha un balenio.

Le chiedo: “Hai dettato tu a Dante

Le strofe dell’Inferno?” Risponde: “Io”.

 1924

 

 

La poesia che segue mostra tutta la femminilità e la passionalità della grande poetessa russa. La scrisse nel 1911 quando aveva ventidue anni. Nel 1910 aveva sposato il poeta Nikolaj Gumiljov. Nella poesia si tratta di lui?

 

Strinsе le mani sotto la scura veletta…

 

Strinsе le mani sotto la scura veletta…

“Perché oggi hai quel viso sbiancato?”

– Perché di amara tristezza

Io senza pietà l’ho ubriacato.

Come scordare? Egli uscì vacillando,

La bocca dal dolore storta…

Io corsi, quasi volando,

Gli corsi dietro fino alla porta.

Ansimando gridai: “E’ stato tutto

Uno scherzo. Morirò se te ne andrai.”

Sorrise tranquillo e tremendo

E disse: “Rientra, o ti raffredderai”

1911

 

La musica

A D.D. Shostakovich

 

In essa una magica fiamma arde,

E nei miei occhi lembi sfaccettati.

Essa soltanto parla con me,

Quando gli altri se ne sono andati.

Quando l’ultimo amico più non guarda,

Nella mia tomba mi sta vicino

E canta come il primo temporale,

Come si parlano i fiori di un giardino.

 1958

Frammento dal „Poema senza eroe” (1962)

 

Presa da una paura tremenda

E della vendetta il termine conoscendo,

Abbassati gli occhi asciutti

E torcendosi le mani, la Russia

Davanti a me a oriente andava.

Ma dietro di me dal mistero illuminata

E la ”Settima” chiamata,

A un banchetto inaudito si affrettava,

Racchiusa in un quaderno di note,

La celebre Leningradese

Nell’etere natio tornava.

(C) by Paolo Statuti

 

L’ultimo brindisi

Bevo alla casa in rovina,

Alla mia vita crudele,

Alla solitudine in due

E anche a te voglio bere –

Alla labbra che hanno tradito,

Alla sguardo così spesso glaciale

A ciò che Dio non ha salvato,

Al mondo volgare e brutale.

 

Il poeta

Penserai, anch’esso è un lavoro –

E’ una vita spensierata:

Captare qualcosa nella musica

E dire per celia: è una mia trovata.

E l’allegro scherzo di qualcuno,

Avendo riposto in poche righe,

Giurare che il povero cuore

Geme tra le lucenti spighe.

E poi ascoltare dal bosco,

Dai pini, muti dall’aspetto,

Finché il velo di fumo

Della nebbia ha tutto coperto.

Prendo a sinistra e a destra

Con la coscienza in pace,

Un po’ dalla vita astuta

E tutto – dalla notte che tace.

Estate 1959, Komarovo

Preghiera

Dammi amari anni di mestizia,

Di affanno, insonnia, ardore penoso,

Toglimi la prole e la cara amicizia

E del canto il dono misterioso –

Così nel Tuo rito Ti prego, o Signore,

Dopo tanti giorni di vita dolente,

Perché il nembo sulla Russia di queste ore

Diventi una nube di gloria rilucente.

1915

Il salice

                E la decrepita polvere degli alberi.

                Pushkin

In un silenzio-trina sono cresciuta,

in una fredda stanza del secolo nuovo.

Non m’era cara la voce dell’uomo,

quella del vento non m’era sconosciuta.

Amavo l’ortica e della lappa il frutto,

ma il salice d’argento più di tutto.

E, riconoscente, con me è vissuto

tutta la vita, coi suoi rami piangeva

e di sogni l’insonnia pervadeva.

E – strano! – non m’è sopravvissuto.

Là il tronco sporge, diversi da quello –

altri salici ora dicono qualcosa

sotto il nostro cielo. Io taccio…

come se fosse morto un fratello.

Io vivo in modo semplice e saggio…

Io vivo in modo semplice e saggio,

Guardo in alto il Cielo pregando,

Vago a lungo prima di sera,

L’inutile angoscia spossando.

Quando fruscia nel borro la lappa

E il grappolo del sorbo appassisce,

Io compongo versi gioiosi

Sulla vita stupenda ma che finisce.

Io torno. Mi lecca la mano

Il gatto, mormora e alletta,

E si accende d’un fuoco sgargiante,

Sul lago, della segheria la torretta.

Solo a volte il grido della cicogna

Che tronca il silenzio si sente.

E se alla mia porta tu busserai,

Mi sembra che non sentirò niente.

8

Alla morte

Visto che devi venire – perché non ora?

La vita mi pesa e ti aspetta.

Ho spento la luce e aperto la porta

Per te, così prodigiosa e schietta.

Prendi per questo l’aspetto che vorrai:

Penetra come proiettile infìdo,

O avvelenami coi fumi del tifo,

O entra furtiva come esperto bandito,

O con la storiella da te inventata,

E che fino alla nausea rammento,

Perché io scorga la sommità del berretto turchino

E il custode pallido di spavento.

Niente più m’importa. L’Enisej scroscia,

La stella polare mostra il suo splendore.

L’ultima paura offusca

Degli amati occhi l’azzurro bagliore.

19 agosto 1939, casa sul Fontanka

I tre autunni

I sorrisi dell’estate io vedo confusi

E d’inverno non troverò segreti,

Ma osservavo quasi senza errore

Tre autunni in ogni anno compresi.

Il primo come disordine festivo

Per dispetto all’estate di ieri,

Come pezzi di notes – di foglie un turbinio,

E l’odore del fumo come dolce incenso,

Intorno – umido e sgargiante, un luccichio.

E prime a danzare sono le betulle,

Indossata la veste trasparente,

Scosse le lacrime fugaci su una vicina

Oltre la siepe prontamente.

Ma ciò accade – appena iniziato il racconto.

Un solo minuto – ed ecco sornione

Giunge il secondo, incurante, come coscienza,

Fosco come aerea incursione.

Tutte sembrano più bianche e più anziane,

È devastata l’estiva intimità,

E la marcia lontana delle trombe dorate

Nella profumata nebbia scorre e va…

E nelle fredde onde del suo incenso

È racchiusa la volta arcana,

Ma il vento si leva, si spalanca –

E a tutti è chiaro: fine del dramma,

E non è il terzo autunno, ma la morte che chiama.

6 novembre 1943

Tashkient

Con la musica

La polonése di Chopin di nuovo sta passando,

O mio Dio! – quanti ventagli

E tenere labbra e sguardi chinati,

Ma è vicino e fruscia il tradimento.

L’ombra della musica alla parete è balenata,

Ma il verde lunare non ha turbato.

Oh, quante volte io qui mi freddavo

E qualcuno orrendo alla finestra mi salutava.

……………………………………………….

E’ orribile lo sguardo di statue senza nasi,

Ma vattene e non lottare per me,

Non pregare per me così amaramente.

……………………………………………….

E la voce del tredicesimo anno

Di nuovo grida: sono qui, di nuovo tuo…

Non m’importa la libertà, né la gloria,

Troppo io so… ma tace la natura

E ha soffiato l’umidità sepolcrale.

(C) by Paolo Statuti

Ernest Bryll

23 Ott

 

   Poeta, prosatore, drammaturgo, autore di testi di canzoni, traduttore, diplomatico. E’ uno dei maggiori poeti polacchi viventi. Nel suo sito internet si presenta così: Vive a Varsavia con la moglie e due figlie, con il suo labrador “Guinness” e il gatto da tetto-irlandese. Lo conobbi trent’anni fa nella sua villetta di Varsavia. Ricordo che mi impressionai alla vista del suo enorme cane – un vero colosso e, anziché la solita scritta “attenti al cane” lessi “cane buono”. Ancora adesso egli usa questo appellativo. Siamo quasi coetanei, io sono più giovane solo di un anno. E’ nato a Varsavia il 1 marzo 1935. Nel 1957 si è laureato in filologia polacca presso l’Università di Varsavia. Come poeta ha debuttato nel 1958 con la raccolta Wigilie wariata (Le vigilie di un pazzo). Co-redattore di molte riviste letterarie, ha lavorato nel cinema come direttore artistico e con la TV come autore di sceneggiature per serial di successo. Dopo il 1980 – impegnato nella vita culturale indipendente. Direttore dell’Istituto di Cultura polacca a Londra (1971-74), ambasciatore della Repubblica Polacca in Irlanda (1991-96). Ha ricevuti numerosi prestigiosi premi, tra cui nel 2006, in occasione del venticinquesimo anniversario del “Settimanale Solidarność”, la Croce di Commendatore delle Rinascita Polacca e nel 2009 il premio della Città di Varsavia.

   Scrive Jarosław Fezan nel “Dizionario degli Scrittori Polacchi” (Wydawnictwo Zielona Sowa, Cracovia, 2004): “La creazione di Bryll, radicata nella tradizione barocca e plebea, appartiene alla corrente demistificatrice, polemica nei confronti della visione romantica della storia polacca e dell’identità nazionale. Negli anni ottanta appaiono in essa accenti metafisici e patriottici”. Ha pubblicato più di 30 raccolte di poesie, più di 20 drammi (inclusi oratori e musical) ed è autore di numerosi testi di canzoni di successo. Ha tradotto poesie irlandesi e ceche.

Poesie di Ernest Bryll tradotte da Paolo Statuti

 

Ballata degli alberi

E benché tagliati con le seghe

E benché allineati tra loro

Nessuno dirà

– Non si possono uccidere gli alberi –

 

Ecco di nuovo sono con noi

Nella buia città

Sgabelli dalle gambe cervine

Tavole di armadi mugghianti di vento

Credenze di spessi pini

Credenze che sono come bisonti

Rinchiusi fra terribili pareti

 

Nessuno dirà

– Non si possono bruciare gli alberi –

Nuovi boschi sorgeranno nei forni

Fulmini di abeti nel temporale

Muscolosi olmi

 

Nessuno dirà

– Amate il pavimento –

Ma imbiancano di ranno

I pavimenti – i soli delle nostre dimore

 

Ecco di nuovo sono con noi

Torturati dai taglialegna

 

Di straziati con le seghe è il tavolo

Ma stringetevi alla tavola la sera

– Già battono le ali i rami che volano in cielo

I tarli bussano come se tu recitassi una piccola “ave”…

 

1960

 

La barba

…E fa’ che gli assassini si ritengano più giusti

del supremo areopago. In primo luogo

inducili a indossare barbe finte. Tra i ricci arruffati

che danno ai ceffi la dignità di Giove

gli ordini scorrono più lenti – incerti, filtrati

sugli alabastri dei baffi. Nell’Olimpo non è permesso

scoprire i canini.

 

                              Che loro stessi

coltivino in futuro quell’albero insigne

che l’albero dia buoni frutti, che innestino

qualità sempre nuove. – Coinvolti

in un rituale addensantesi, coperti di foglie

ornati di fiori già perdono la forza

della semplicità, la forza con cui da sotto l’unghie

si scava coi denti il sangue raggrumato.

 

                                 Già mentono

e timorosi mentono. Cancellano le tracce

dei delitti che li hanno generati. Già son divelti

privati del principio. Adesso a mo’ di coltellata

conficca loro nella schiena un’ala d’angelo.

 

                                  Intorpiditi

dalla linea del trono, nella morsa delle corone

non si avvedranno ormai di quel ridicolo piumaggio; poi

gli abiti sempre più pesanti, le pieghe di marmo…

Finché frullando come aquile e seminando fulmini

Inciamperanno nella barba mancando l’astuto bersaglio.

 

1962

 

 

 

Turismo

 

   In ogni nostra famiglia c’è almeno un fucilato.

Chi presso il tronco d’una forca, chi trova palpando

come un cieco ciò che in nessuna guida è scritto…

– Un turismo sgraziato. Invece del Colosseo

un pezzo di ciotola, un’asse bruciacchiata,

una chiazza sul muro.

 

   Ci vorrebbero dei fondi,

copertine a colori, pellicole spiritose,

per stimolare quello che striscia a fatica

tra le secche dei verbali. O un esperto fiorentino

– lascia che insaporisca questo coscio crudo,

che inventi una sbobba in cui la puzza di rapa

e la cenere sian gradite.

 

   Perché dovremmo vergognarci

– se sarà gustoso, se stuzzicherà l’appetito

di tutti quelli che verranno qui per compatirci,

per rappezzare poi le nostre quattro zolle

sulla pancia dell’Europa…

 

   Continuamente restiamo

nell’atrio dei supplementi, nell’immondizia,

ove sono sparsi i teschi ormai così sforacchiati

– inadatti alle riflessioni dei principi danesi…

 

1966

 

 

 

 

 

 

Mtatsminda

 

Proprio là – bevendo vino – ho veduto

morir la patria:

            La perfezione

inacidirà nel più banale

nel più aggrinzito nel più provinciale

tanto da non reggere al gran ciclone

che sulla terra sprizza…

             Chissà dove in etnografia

vivremo, e nei dizionari solinga

seccheran la foglia della mia lingua

– Qualche esperto riuscirà tuttavia

a riscavare poi fuori dal gruppo

– A raschiare il sangue con l’unghia colta –

quasi spento il polso

              Forse toglierà un pidocchio

– Uno di quelli ch’hanno invaso la Sacra Volta

E questo sarà tutto…

 

Tbilisi, Caucaso, 1969

 

*  *  *

L’essermi celato a lungo negli arbusti dell’ironia

E’ in me una fenditura, un’ulcera non guarita

 

L’essere stato come un centauro – metà uomo metà animale

Mi vieta di credere in ciò che in me è umano

 

Emergo dalla macchia e le tenebre abbandono

E ho paura del cielo su di me spalancato

 

E torno e di nuovo sporgo la mia testa di uomo

E fuggo mentre il sole cuoce il mio riccio deretano.  (1981)

C’è?

 

C’è un traduttore della lingua dei vivi in quella dei morti

E dei morti in quella dei vivi – quando vogliono il disprezzo

O l’amore trasmettere, o un avvertimento?

C’è. Ma cambia

Sempre nuove traduzioni

Nuovi chiarimenti e nuovi accordi

Perché si accordano i vivi con i morti

– Come sarebbe più facile se si logorassero

Un po’, non del tutto, le parole troppo in profondo

Incise sulle tombe. Ci sarebbe una quiete più gradita

Se si cancellassero un po’, sì, si offuscassero un po’

– Perché ormai mancano le forze sono morti. Ci mancano le forze

Dobbiamo impiegare più miti traduttori

Esperti di significati. Allora si vedrà

Se in modo liscio si compone il perdurare dei morti

Con le chiacchiere quotidiane

Preghiamo – Accorri

Angelo della Morte. Sii anche Angelo

Della Vita comune. Siedi a tavola con noi

Anche qui è come al cimitero. Ascolta i fatti

Oscuri, di ogni giorno. Poi li trasmetterai

Nelle parole eterne adesso inefficaci

Per i nostri sogni e desideri

Ma ora mangia. Bevici sopra

Perché da noi se ci bevi sopra la lingua si snoda

Ma cosa abbiamo bevuto?

Meglio neanche pensarci

 

 

 

 

 

 

Perché ti chiudi la porta alle spalle…

 

Perché ti chiudi la porta alle spalle

Così in fretta affinché nessuno faccia in tempo

Ad entrare in casa con te

Eppure dietro la finestra

Un angelo volteggia

Ascolta davvero è il Tuo Angelo

Dunque perché deve aspettare sotto la pioggia

Egli dal cielo è mandato proprio

Per vegliare fedelmente sull’uomo

Tale è su di lui la legge divina

Che vivere senza di te non può

Batte sui vetri con le ali

Fallo entrare – che viva con noi

Perché ti chiudi la porta alle spalle

Hai paura delle correnti d’aria?

Che il vento rimbombi come musica

E ci tiri fino in cielo

 

Parlano sempre di Icari…

 

Parlano sempre di Icari – benché è Dedalo che arrivò,

come se le tenui penne perse dall’ala

la magra gamba del fanciullo rivolta al cielo

– volesse dire tutto. Come se per difesa

ci avessero dato il coraggio di uno sciame di falene

che sfrigola intorno a una lampada…

– Se

conosciuta la morbidezza della cera sappiamo raggiungere

le rive prescelte – ci evitano nel canto.

Così come evitano l’uomo o si meravigliano

che non guardi gli Icari…

Breughel, che è incanutito

a capire la gente, i loro occhi ha distolto

dagli altissimi drammi. Sapeva che non dobbiamo

incantarci con gli Icari, nè rattristarci per la caduta

– sia pure la più alta…

– Ma afferrare ciò che è nostro.

– Dedalo, per salvare Icaro, è tornato?

 

Ballata del prato

 

Tutta la notte con una ragazza andavo come su un prato

Ed eravamo così reciproci

Che intorno si fece più quieto, più soffice, più scuro

Come se fossimo stretti in un boccio

 

A un tratto lei gridò con tutto il caldo corpo

Batté come un uccello le ali

La notte aprì i suoi petali su di noi

La ragazza volò via – e io dietro a lei

 

Adesso giaciamo un po’ ansimanti

Ma già pensando a un nuovo volo

 

La notte ci pulsa sommessa sotto la schiena

Con l’odore del sudore, dell’erba, della smielatura…

 

 

Ci dividono

 

Ci dividono, aggiungono, riducono alla radice perfino

A volte elevano a potenza. Credono

Che loro stessi siano potenza. Usano agili

Macchine del fare. L’antico pallottoliere

Dove anche lì bisogna toccare, spostare

Disporre, togliere, trasferire i popoli

Da una fame all’altra? ha già terribilmente nauseato

 

Adesso negli uffici non sentirai il ticchettio

Delle macchine che scrivono ordini segreti

C’è silenzio? E prima come se un mitra

Sparasse a raffiche. Subito

Lasciava una traccia, banali errori di lettere

Come rozze tombe

 

Sono arrivati i computer

Prendono la colpa su se stessi

Le loro sincere deposizioni

Dal più rigido disco della memoria

Chi decifrerà

Come?

A piacimento…

 

2009

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Osip Mandel’stam (1891 Varsavia – 1938…)

19 Ott

 Poesie di Osip Mandel’stam tradotte da Paolo Statuti

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Vladimir Majakovskij (1893-1930)

16 Ott

Vladimir Majakovskij

Poesie di Vladimir Majakovskij tradotte da Paolo Statuti

A tutta voce
(Во весь голос)

(Prima introduzione al poema)

Egregi
compagni posteri!
Scavando
nello sterco impietrito
del presente,
studiando le tenebre odierne,
voi,
forse,
chiederete anche di me.
E, forse, dirà
il vostro erudito,
con la mente
piena di questioni,
che viveva da qualche parte un tale
cantore dell’acqua bollita
e nemico acerrimo dell’acqua corrente.
Professore,
togliti gli occhiali-bicicletta!
Io stesso racconterò
del tempo
e di me dirò.
Io, fognaiolo
e portacqua,
dalla rivoluzione
richiamato,
io per il fronte ho lasciato
i signorili giardini
della poesia –
capricciosa megera.
Che giardino guarda e ammira,
figlia,
la casa,
pulisci
e stira –
io da sola l’ho piantato,
solo io l’annaffierò.
Chi versa strofe dai catini,
chi spruzza
dalla bocca –
leziosi Mitrejki,
saccenti Kudrejki –
come raccapezzarsi!
Per la melma non c’è quarantena –
mandolinano tutto il giorno:
«Tara-tena, tara-tena,
ten-n-n…»
Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove scatarra la tubercolosi,
dove un teppista abbraccia una puttana
e la sifilide impera.
Anch’io
della propaganda
ho le tasche piene,
anch’io
potrei scrivere
romanze su di voi, –
è più redditizio
e più allettante.
Ma io
me stesso
ho domato,
e con il piede pesante
ho schiacciato la gola
della mia canzone.
Ascoltate,
compagni posteri,
l’agitatore,
lo strillone-caporione.
Soffocando
i torrenti della poesia,
io avanzerò
tra volumi di liriche,
da vivo
ai vivi parlando.
Verrò da voi
in un futuro comunista,
non come
il melodioso bardo eseniano.
La mia poesia giungerà
attraverso i crinali dei secoli
e attraverso le teste
dei governi e dei poeti.
La mia poesia giungerà alla meta,
ma essa vi giungerà,
non come una freccia
lanciata da Cupido a sorte,
non come arriva
a un numismatico una consunta moneta
e non come arriva la luce delle stelle morte.
La mia poesia
con la fatica
sfonderà la mole degli anni
e apparirà
ponderosa,
rude,
visibile,
come ancora oggi
è visibile l’acquedotto,
eretto
dagli schiavi di Roma.
Nei tumuli di libri,
di versi seppelliti,
ritrovando per caso la ferraglia delle strofe,
voi
con rispetto
prendetela in mano,
come vecchia
arma fatale.
Io
l’oreccchio
con la parola
non sono avvezzo a carezzare;
il delicato orecchio di ragazza
nei riccioli
dal doppio senso sfiorato
non arrossirà.
Dopo aver disteso in parata
le mie pagine-plotoni,
io passerò
il fronte delle strofe.
I versi stanno
pesanti come piombo,
pronti anche alla morte
e alla gloria immortale.
I poemi sono morti,
canna contro canna
dei titoli puntati
e squarciati.
L’arma
del genere
preferito,
è pronta
a lanciarsi con un grido,
s’è irrigidita
la cavalleria delle facezie,
avendo alzate delle rime
le lance acuminate.
E tutte
le truppe fino ai denti armate,
che venti anni nelle vittorie
hanno passato,
fino all’ultima
pagina
io affido a te,
proletario del pianeta.
Il nemico
della classe operaia –
è anche il mio nemico,
giurato e di vecchia data.
Ci hanno chiesto
di andare
con la bandiera rossa
anni di lavoro
e giorni di fame.
Noi aprivamo
di Marx
ogni volume,
come in casa
propria
apriamo le persiane,
ma anche senza lettura
noi sapevamo
da che parte andare,
contro chi lottare.
A noi
la dialettica
non l’ha insegnata Hegel.
Essa al suono delle lotte
nei versi è penetrata,
quando
sotto le pallottole
i borghesi fuggivano da noi,
come noi
un tempo
fuggivamo da loro.
Che
dietro ai geni
come vedova sconsolata
si trascini la gloria
in una funebre marcia –
muori, o mio verso,
muori, come semplice soldato,
come ignoti
all’attacco sono morti i nostri!
Io sputo sopra
il bronzo dei monumenti
io sputo sopra
il viscido marmo.
Grondiamo di gloria –
noi tutti noi, –
che il nostro
monumento comune
sia il socialismo
eretto
nelle lotte.
O posteri,
controllate i galleggianti dei dizionari:
dal Lete
emergeranno
i resti di parole
come «prostituzione»,
«tubercolosi»,
«blocco».
Per voi
che
siete sani e destri,
il poeta
leccava
gli sputi dei tisici
con la ruvida lingua del manifesto.
Con la coda degli anni
io divento la somiglianza
di mostri
fossili con la coda.
Compagna vita,
su,
presto bruciamo,
bruciamo
in cinque anni
il resto dei giorni.
A me
neanche un rublo
hanno portato i versi,
di ebano
non è arrivato un mobile in casa.
E tranne
una camicia fresca di bucato,
dirò sinceramente,
a me non serve niente.
Entrato
Nella Commissione di Controllo
dei luminosi
anni che verranno,
io sulla banda
di poeti
scrocconi e furfanti
solleverò
come tessera bolscevica,
i miei
libri di partito –
tutti quanti.

1929-1930

Il violino e un po’ nervosamente

Il violino coi nervi tesi, supplicando,
a un tratto scoppiò in pianto
così infantilmente,
che il tamburo non resse:
“Bene, bene, bene!”
E lui stesso si stancò,
non finì di ascoltare il violino,
sgattaiolò in fretta
e se ne andò.
L’orchestra estraneamente guardava
il violino che si sfogava nel pianto
senza parole
senza tempo,
e solo chissà dove
uno stupido piatto
strepitava:
“Cos’è?”
“Com’è?”
E quando il flicorno –
cornoramato,
sudato,
gridò:
“Scemo,
piagnone,
asciugati!” –
io mi alzai,
barcollando, mi arrampicai tra le note,
tra i leggii curvi per lo spavento,
chissà perché gridai:
“Mio Dio!”,
mi buttai al collo di legno:
“Sai una cosa, violino?
Noi ci somigliamo tremendamente:
ecco anch’io
urlo –
ma non so dimostrare nulla!”
I musicisti ridono:
“S’è invischiato e come!
E’ venuto dalla fidanzata di legno!
Che testa!”
Ma io – me ne frego!
Io – sono un bel tipo.
“Sai una cosa, violino?
Dai –
Vivremo insieme!
Sì?”

Veramente a voi non prudono ambedue le scapole?

Veramente

                    a voi

                              non prudono

                                                       ambedue le scapole?

Se

      dal cielo

                      l’arcobaleno

                                             pende

o

    è azzurro

                      senza una sola toppa –

davvero

                a voi

                          non prudono

ambedue

                   le scapole?!

Davvero non si vuole,

                                        che da sotto le bluse,

dove prima

                      c’era la gobba,

gettato via

                     il peso

                                  delle camicie-fardello,

si distendano

                         un paio di ali?!

Oppure

               la notte quando

                                              le stelle si accendono

e le Orse

                  tutte

                             si arrampicano –

davvero non fa invidia?!

                                             Davvero non si vuole?!

Si vuole!

                 Ad ogni costo!

Si sta stretti,

                        e in cielo

                                          la vastità –

                                                               un buco!

Alzarsi in volo

                           verso i villaggi degli dei!

Presentare

                     al Signore delle schiere

                                                                 un ordine

                                                                                     di sfratto

dell’Ufficio Centrale per gli Alloggi!

Kaluga!

               Perché ti sei cinta con un prato?

Dormi

             in una fossa del terreno?

Tambov!

                  Kaluga!

In alto!

              Come passeri!

Bene,

            se ha deciso di sposarsi:

battere l’ala –

                           e

                                oltre duecento province!

Strappò

                una piuma

                                     allo struzzo –

e la rese

                in dono

                               alla fidanzata!

Saratov!

                 Perché hai sgranato gli occhi?!

Incantata?

                      Da un punto d’uccello?

In alto –

                come rondine!

Bene

           così

                    lavoro pulito:

Sera.

           La sera vuole scagliarsi contro la porta.

Roma.

             Frustare

                             a Roma un fascista –

e

    un’ora dopo

                            di ritorno

                                               al samovar

                                                                    a Tver’.

O semplicemente:

                                   guardi,

                                                 l’alba è spuntata –

e cominci

                   a gara

                                a rincorrere e rincorrere.

Ma…

           la gente – un popolo

senz’ali.

La gente

                 creata

                              secondo un cattivo piano:

la schiena –

                       e nessun profitto.

Comprare

                    un aereo ciascuno –

questo soltanto

                              resta.

E cresceranno

                            la coda,

                                           le piume,

                                                             le ali.

Il petto

              appunta

                              per qualsiasi volo.

Staccati da terra!

                                Vola, squadriglia!

Russia,

              spicca il volo come flotta aerea.

Presto!

             Perché,

                            tesati come una pertica,

da terra

                ammirare

                                   la volta celeste?

Perforala,

avio.

 1923

Sentite un po’!

Sentite un po’!

Ma se le stelle si accendono –

significa – servono a qualcuno?

Significa – qualcuno le vuole?

Significa – quegli sputacchi per qualcuno sono perle?

E, soffocato

nelle bufere di polvere meridiana,

si precipita da dio,

teme d’essere in ritardo,

piange,

gli bacia la mano nerboruta,

prega –

che ad ogni costo in cielo ci sia una stella! –

giura –

che non sopporterà quel tormento senza stelle!

E dopo

cammina inquieto,

ma tranquillo in apparenza.

Dice a qualcuno:

“Allora adesso non c’è male?

E’ passata la paura?

Sì?!

Sentite un po’!

Ma se le stelle

si accendono –

significa – servono a qualcuno?

Significa – è necessario

che ogni sera

sopra i tetti

ci sia almeno un stella?!

 1914 

E voi potreste?

In un attimo ho unto la mappa del trantran

con la vernice versata dal bicchiere;

ho mostrato sopra a un piatto di gelatina

gli zigomi obliqui dell’oceano.

Sulla scaglia di un pesce di latta

ho declamato gli appelli di nuove labbra.

E voi

potreste

sonare un notturno

su un flauto di grondaie?

 

1913

Al diletto se stesso,

queste righe dedica l’autore

Quattro.

Pesanti, come un colpo.

“A Cesare quel che è di Cesare – a dio quel che è di dio”.

E a uno

come me,

dove ficcarsi?

Dove ho pronto il mio giaciglio?

 

Se fossi

piccolo,

come un oceano, –

sulle punte delle onde starei,

con la marea vezzeggerei la luna.

Dove trovarmi

una diletta come me?

Una così non entrerebbe nell’esiguo cielo!

 

Oh, se io fossi indigente!

Come un miliardario!

Cos’è per l’anima il denaro?

In essa c’è un avido ladro.

Alla sfrenata orda dei miei desideri

non basta l’oro dell’intera California.

 

Se balbettassi

come Dante

o Petrarca!

L’anima accendere a una sola!

Coi versi ridurla in polvere!

E le parole

e il mio amore –

un arco di trionfo:

solennemente,

senza lasciar traccia passeranno in essa

le amanti di secoli interi.

 

Oh, se io fossi

quieto,

come il tuono, –

frignerei,

tremando stringerei il vecchio eremo della terra.

Se io con tutta la sua potenza

tuonerò con la mia enorme voce, –

le comete si torceranno la mani ardenti,

gettandosi giù per disperazione.

 

Io con i raggi degli occhi rosicchierei le notti –

oh, se io fossi

oscuro come il sole!

Ho tanto bisogno

di abbeverare col mio splendore

il seno smunto della terra!

 

Passerò,

la mia amata trascinando.

In quale notte

delirante,

sofferente

da quali Golia sono stato concepito –

io così grande

e che non servo a niente?

1916

 

Non capiscono niente

Entrò dal Barbiere, disse – tranquillo:

“Siate gentile pettinatemi le orecchie”.

Il barbiere rasato subito diventò aghiforme,

la faccia si allungò come in una pera.

“Pazzo!

Buffone!” –

danzavano le parole.

Gli insulti turbinavano tra i guaiti,

e a lu-u-u-u-ngo

una testa sogghignava

staccandosi dalla folla, come un vecchio ravanello.

 

1913

 

Alle insegne

 

Leggete libri di ferro!

Al flauto d’una lettera dorata

accorreranno aringhe affumicate

e navoni dai riccioli d’oro.

 

E se con gaiezza canina

roteranno le costellazioni “Maggi” –

l’ufficio dei convogli funebri

manderà i propri sarcofaghi.

 

Quando, cupo e lacrimoso,

spegnerà i segni dei lampioni,

innamoratevi sotto un cielo di bettole

dei papaveri delle teiere di faenza!

 

1913

 

Tu

 

Sei giunta –

risoluta,

al mio ruggito

per la mia statura,

e gettato uno sguardo

hai visto solo un ragazzo.

Hai afferrato,

hai rapito il mio cuore

e semplicemente

hai preso a giocare con esso –

come una bambina con la palla.

E ciascuna –

come vedendo un prodigio –

la dama che restò di stucco

e la vergine fanciulla.

“Amare uno come quello?

Uno così si avventerà!

Deve essere una domatrice.

Deve venire dal serraglio!”

Ma io esulto.

Il giogo –

non c’è!

Stordito dalla gioia,

saltavo,

ballavo come un pellirossa alle nozze,

tanto ero allegro,

tanto ero leggero.

 

1919

 

La blusa del bellimbusto

 

Io mi cucirò neri calzoni

di velluto della mia voce.

Una blusa gialla di due metri di tramonto.

Lungo il Nevskij del mondo e le sue lucide parti,

andrò col passo di un Don Giovanni e di un bellimbusto.

 

Che la terra gridi, effeminata e tranquilla:

“Tu vai a violentare le verdi primavere!”

Io urlerò al sole, con un ghigno insolente:

“Sul liscio asfalto mi piace grandeggiare!”

 

Non perché il cielo è blu,

e la terra mi è amante in questo lindore festivo,

io vi dono versi, allegri, come burattini

e pungenti e necessari, come stuzzicadenti!”

 

Donne che amate la mia carne, e la ragazza

che mi rivolge lo sguardo come a un fratello,

lanciate i vostri sorrisi a me, il poeta, –

io li cucirò come fiori sulla mia blusa di bellimbusto!

 

1914

 

 

 

Commiato

 

In macchina,

                     cambiato l’ultimo franco.

– A che ora per Marsiglia? –

Parigi

               corre,

                             accompagnandomi

in tutta

               l’impossibile bellezza.

Accedi

                agli occhi,

                                     brodaglia del distacco,

il cuore

                spaccami

                                     col sentimentalismo!

Io vorrei

                 vivere

                              e morire a Parigi,

se non ci fosse

                           una terra simile –

                                                           Mosca.

 

1925

 

E’ passata l’una…

 

E’ passata l’una. Dovresti andare a letto.

La Via Lattea scorre argentea nella notte.

Non ho fretta; con telegrammi lampo

Non ho motivo di stancarti e turbarti.

E, come essi dicono, l’incidente è chiuso.

La barca dell’amore s’è infranta contro la fatica del giorno.

Adesso tu ed io siamo pari. Perché dunque il fastidio

Di bilanciare le reciproche sofferenze e ferite?

Guarda ciò che la quiete posa sul mondo.

La notte copre il cielo in omaggio alle stelle.

In ore come queste, ci si alza per parlare

Agli anni, alla storia, a tutto il creato.

 

1930

 

 

 

 

 La nuvola in calzoni

Prologo

La vostra mente,

sognante sul cervello rammollito,

come grasso lacché sopra un unto divano,

io provocherò contro un pezzo di cuore insanguinato;

a sazietà befferò mordace e villano.

 

Nell’anima non ho un solo bianco capello,

e la decrepita dolcezza è assente!

Stordito il mondo con la forza del mio canto,

vado – bello,

ventiduenne.

 

O teneri!

Voi l’amore sui violini ponete.

L’amore sui timpani pone un buzzurro.

E come me, rovesciarvi non potete,

per diventare labbra sole e soltanto.

 

Vieni ad imparare –

da un salotto di batista,

impiegata-modello d’una angelica lega.

 

Che le labbra sfogli tranquilla,

come una cuoca il libro di cucina.

 

 

 

 

 

Se volete –

sarò furioso di carne

– e, come il cielo, mutando i toni –

se volete –

sarò perfettamente tenero,

non uomo, ma – nuvola in calzoni!

Non credo a una Nizza floreale!

Da me di nuovo sono celebrati

gli uomini giaciuti, come un ospedale,

e le donne, come proverbi logorati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 (C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

Tadeusz Borowski

15 Ott

 

Tadeusz Borowski

   Prosatore, poeta, critico, pubblicista. Nacque a Żytomierz in Ucraina il 12 novembre 1922. Nel 1926 il padre fu arrestato dalle autorità sovietiche per la sua vecchia appartenenza alla Organizzazione Militare Polacca e condotto nella Carelia Russa. Quattro anni dopo la madre subì la stessa sorte del marito e fu deportata in Siberia. I due figli – Juliusz e Tadeusz, più giovane di 4 anni, furono rispettivamente ospitati da un collegio e da una zia. Nel 1932 il padre fu liberato e poté ricongiungersi ai figli. La madre invece tornò in Polonia due anni dopo. La famiglia Borowski si stabilì a Varsavia. Nel 1940 Tadeusz terminò il liceo clandestino. Cominciò a lavorare nel magazzino di una impresa edile e contemporaneamente iniziò gli studi di filologia polacca presso l’Università clandestina di Varsavia, dove conobbe la sua futura moglie Maria Rundo. A febbraio del 1943 fu condotto nel campo di concentramento di Auschwitz, dove si trovava anche la sua fidanzata Maria, e dove lavorò come infermiere.

   Debuttò nel 1942 con la raccolta di poesie catastrofiche Gdziekolwiek ziemia (Dovunque la terra). La successiva raccolta – Arkusz poeticki (Foglio poetico), uscì nel 1944. Il 1 maggio 1945 riacquistò la libertà. Dopo la guerra soggiornò a Monaco e nel 1946 tornò in Polonia, dove sposò Maria Rundo. Iniziò la sua collaborazione come prosatore e critico con la stampa comunista. Nel 1948 entrò nel Partito Polacco Unificato dei Lavoratori.  Nello stesso anno uscirono i volumi di racconti legati ad Auschwitz – Kamienny świat (Mondo di pietra) e Pożegnanie z Marią (Addio a Maria). Negli anni successivi si impegnò attivamente come divulgatore dell’ideologia comunista. Dal mese di giugno 1949 al mese di marzo 1950 lavorò presso l’Ufficio Stampa Polacco a Berlino, ufficialmente come capoufficio della sezione culturale, ma in realtà come collaboratore del controspionaggio militare. Il 26 giugno gli nacque la figlia Małgorzata. Il 1 luglio visitò la moglie in ospedale. Il giorno dopo fu ricoverato con sintomi di avvelenamento da gas e da sonniferi. Morì il 3 luglio 1951 a Varsavia. Aveva 29 anni. Probabilmente si trattò di suicidio. Tra i motivi del tragico gesto non si escludono il disinganno nei confronti del comunismo e la depressione a causa del ruolo svolto come propagatore del’ideologia. Si pensa anche ad una infelice relazione sentimentale. La morte di Borowski fu un trauma per il mondo letterario polacco, paragonabile al suicidio di Majakovskij 21 anni prima. La leggenda fece di lui la prima vittima del proprio passato comunista.

Da: Wikipedia, l’enciclopedia libera.

 

Poesie di Tadeusz Borowski tradotte da Paolo Statuti

 


Canto

Su di noi – la notte. Sul volto stellare

assordito dai bellicosi gridi,

quale futuro potrà mai ricordare

i vincitori e noi – gli asserviti?

Il deserto, la steppa e del mare il viso

calpestiamo, tuona una fucilata,

vanno gli iloti, dei vincitori il grido

e la turba di circensi affamata.

Un canto, la fede dei paria aggiogati,

il segno nemico scosso dal vento,

un metro, un braccio, talleri scheggiati,

e le bilance sempre in movimento.

Non invano il piede la pietra calpesta,

non invano gli scudi, l’armi leviamo,

il braccio gagliardo, la fronte ridesta

e nella lotta arrossiamo la mano.

Non invano il sangue il petto colora,

son sbiancate le labbra, i visi rappresi:

il canto dei paria echeggerà ancora

e di nuovo il mercante userà i suoi pesi.

Su di noi – la notte. Le stelle ardono,

soffoca il cielo mortalmente violaceo.

Vecchi rottami dopo noi resteranno

e dei posteri il sordo riso mordace.

1942

 

*  *  *

Lo so, all’improvviso si aprirà il cerchio

del nostro amore. Il movimento brusco

della mia mano ti spaventerà –

allora te ne andrai. Ogni cosa

che hai toccato, perfino il soffio

d’aria, che veniva dalla porta,

che aprivi lentamente –

mi rammenteranno te,

quasi fossero una corda, che

passando accanto, tu avessi urtato…

E con quale suono fremerò

io, che ti ho avuta nelle braccia?

1943-1944

 

Alla fidanzata

Il cielo coperto di assi, l’orizzonte – una parete umidiccia,

nel bosco dietro il reticolato, gonfio di corrente come fiumana,

si culla il verdeazzurro del fogliame, zufola a tratti la cincia

e il vento spruzza sulle foglie l’azzurra cenere umana.

E’ bello il quadro dell’estate. Come variopinte montagne

di abiti estivi di percalle è il sorgere e il calare del sole.

File di oche vagabonde volteggiano sopra gli stagni

e volano sui pascoli dal robusto salubre odore.

La terra si apre come palmo. Laggiù oltre le vedette

c’è il bosco plumbeo, e nel bosco le rosse fragole profumate,

e in mezzo agli alberi verde-argento le arancioni casette

come un tenue disegno, il sereno, gli scherzi, le risate.

Com’è strano l’amore, dei nostri cuori silenzio e tempesta,

che come rami nel torrente, ci ha gettati nel mondo e ci trascina.

Ecco siamo come bimbi smarriti in un’enorme foresta,

come i bimbi della fiaba la casetta sulle zampe di gallina.

Ma cos’è la paura dell’uomo e il torrente di sangue scoraggiato,

se si deve guardare la notte, come un mugghiante bagliore di brace,

si raggruma la corrente nelle vene e pulsa di sangue il reticolato,

e bruciano le pire umane come mucchi di torce di ragia.

Sfilano i cortei di persone. I vagoni, le camere e il gas.

Per l’acqua, per un sorso d’aria vendono oro ai soldati.

Ecco leggenda, incubo e favola in noi si compiono già

e i posteri non crederanno e di noi saranno nauseati.

Ecco un blocco stipato di carne umana soffocante,

di vivente cenere umana. Comune è la ciotola e la branda,

comuni sono paura e speranza, calura e pioggia sferzante,

e allo stesso modo tremano le mani sul litro di brodaglia.

Ed ecco, esaltatore dell’uomo, giaccio sulla branda della baracca

e nelle dita afferro, come volo d’uccello, leggenda e mito,

ma invano guardo negli occhi umani cercando una traccia.

Ormai soltanto pala e terra, uomo e di brodaglia un litro.

Ormai soltanto il corpo dell’uomo. Ormai soltanto cenere,

ormai soltanto la mole del cielo, traboccante dagli occhi.

Ecco, siamo giunti, estranei l’un l’altro, dall’Europa intera

e seguiamo la stessa strada – per il bosco, per la terra dei morti.

Ormai soltanto il corpo dell’uomo. Copro con le mani il viso

e sento il corpo estraneo. Lo sento come elemento non mio.

Il lirismo si culla in me, come uccello ferito che ardisce

e prima di sfinirsi – chiama, e prima di cadere – cerca un addio.

Ecco il flemmone e il tifo, ecco la camera e il gas,

ecco il fuoco e la cenere – il corpo ignoto al vento.

Ecco nascere l’epos, il tragico tempo chiama.

Copro con le mani il viso. E taccio. Sì, Maria, sto vivendo.

1949

 

* *  *

Così il tuo volto mi si dissolve

e scompare in me come orizzonte,

da cui bisogna allontanarsi. La tua voce,

i tuoi occhi, il sorriso fuggevole

come il vento, quando lambisce il volto,

ancora trema in me e come uccello,

che così lieve e cauto

nell’aria ardisce, quasi

fosse un respiro – vola via da me,

si dissolve e scompare. Invano –

tu sai che il nero del vetro notturno

come la mia vita d’un tempo guardo,

ma tu là non ci sei più. Soltanto

la nebbia, che sale in alto…

1954

 

*  *  *  per il diario

… e forse bisogna alla sorte futura

darsi come pietra dai monti rotolare

e vedere il mondo come una scultura

con gli occhi morti di pietra può guardare

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Artur Międzyrzecki

13 Ott

 

Artur Międzyrzecki

   Poeta, prosatore, traduttore, critico letterario. Nacque e morì a Varsavia rispettivamente il 6 novembre 1922 e il 2 novembre 1996. Nel 1942 si arruolò nell’armata del gen. Anders e combatté a Montecassino e a Bologna come ufficiale dell’artiglieria. Dopo la guerra iniziò gli studi a Bologna, e terminò la facoltà di giornalismo a Parigi. Nel 1950 tornò in Polonia, dove iniziò la sua attività letteraria come poeta, prosatore, traduttore delle letterature francese e inglese e critico letterario. Fu co-redattore delle riviste “Świat”, „Poezja” e „Nowa Kultura”, di quest’ultima diresse la sezione poesia negli anni 1956-1958. Nel 1954 sposò la poetessa Julia Hartwig. Negli anni ’50 Międzyrzecki – come altri noti poeti polacchi (ad es. Broniewski, Gałczyński, Brzechwa, Szymborska, Woroszylski, Ważyk) pagò il suo tributo, che a mio avviso spesso era più forzato che spontaneo, al realismo socialista, con poesie propagandistiche inneggianti al comunismo e ai suoi leader. Dal 1959 membro del PEN Club polacco. Dal 1968 collaborò con la Radio Polacca come autore di radiodrammi e come pubblicista. Negli anni 1970-1974 assieme alla moglie soggiornò negli USA, dove tenne conferenze nelle università. A gennaio del 1976 Artur Międzyrzecki protestò contro la modifica alla costituzione approvata dal partito, che sanzionava il ruolo guida di quest’ultimo in Polonia, nonché la permanente e inviolabile alleanza con l’Unione Sovietica, e fu uno dei firmatari del manifesto “Memorial 101”. Negli anni 1980-1981 – esperto nella Commissione Cultura di Solidarność per la regione Mazovia, e dal 1987 al 1990 – membro del Comitato Cittadino presso Lech Wałęsa. Dal 1991 fino alla morte fu presidente del PEN Club polacco e vice-presidente del PEN mondiale. Tradusse tra gli altri: Apollinaire, Rimbaud, Baudelaire, Mandelstam, Aragon, Auden, Cummings, Lundkvist. Nel 1992 assieme alla moglie curò un’antologia della poesia americana dal titolo Opiewam nowoczesnego człowieka (Canto l’uomo moderno).

   Come poeta Międzyrzecki debuttò nel 1943 con la poesia Namiot z Kanady (Una tenda dal Canada). Fin dall’inizio i suoi versi furono legati alla tradizione e alla storia della cultura europea. La lingua di cui Międzyrzecki si serve è la lingua della poesia classica, si sentono in essa le voci dei grandi della letteratura. Scriveva come se volesse abbracciare l’intera realtà. Il linguaggio individuale e unico del soggetto lirico si fonde con gli echi del passato, richiamati dalla memoria, si amalgamano con la lingua della comunità umana. Fu uno scrittore illustre, attento alle trasformazioni della cultura, ai destini umani soprattutto nei tempi difficili, sempre sicuro della vittoria della ragione e dell’ordine sul caos.

   Nel 2006 è stato pubblicato dalla casa editrice “a5” il volume Wierse 1946-1996 (Poesie 1946-1996), che comprende un cinquantennio di creazione poetica di Międzyrzecki. Questa raccolta è stata curata dal premio Nobel Wisława Szymborska. Nella sua introduzione al volume la poetessa scrive: “Artur. Lo leggevo sempre, lo vedevo di rado. Una volta gli dissi che se avessi avuto un fratello, avrei voluto che fosse come lui. Sbottò a ridere e chiese perché. In primo luogo – risposi – perché sarebbe un fratello su cui poter fare affidamento, e in secondo luogo, perché potrei camminare fiera come un pavone, per essere la sorella di un poeta così illustre”.

Tra le sue opere ricordiamo le raccolte di poesie:

Namiot z Kanady (Una tenda dal Canada, 1943)

Noc noworoczna (La notte di Capodanno, 1953)

Noc darowana (Una notte regalata, 1960)

Piękne zmęczenia (Belle stanchezze, 1962)

Selekcje (Selezioni, 1964)

Zamówienia (Ordinazioni, 1968)

Wygnanie do rymu (Esilio alla rima, 1977)

Wojna nerwów (Guerra dei nervi, 1983)

Koniec gry (Fine del gioco, 1987)

Wiersze dawne i nowe (Poesie vecchie e nuove, 1992)

Racconti:

Opowieści mieszkańca namiotów (Racconti di un abitante di tende, 1957)

Powrót do Sorrento (Ritorno a Sorrento, 1959)

Śmierć Robinsona (La morte di Robinson, 1963)

Schizzi letterari:

Poezja dzisiaj (Poesia oggi, 1964)

Dialogi i sąsiedztwa ( Dialogi e vicinanze, 1970)

Wiek mentorów (Il secolo dei mentori, 1979)

Il dramma in 3 atti Ekspedycja (Spedizione, 1966) e il romanzo

Złota papuga (Il pappagallo d’oro, 1970).

 

Poesie di Artur Międzyrzecki tradotte da Paolo Statuti

 

I miei folli amici

I miei folli amici

Ignoravano gli Impressionisti

Non furono troppo felici

E sono rozzi artisti

I miei folli amici

Ravenna non l’ha mitigati

Indifferenti tra i rigori

Del mondo Non vengono a patti

E quando han scoperto i fiori

Sul tamburo li han posati

 

La mia folle generazione

Non mostra eccessivo tatto

Non si cura dell’opinione

Non conosce l’educazione

Smorza le cicche sotto il tacco

 

Han fatto tardi altre esperienze

Incerti con le belle arti

Sorridendo affettuosamente

Li trattava coi guanti

Di Roma e Pechino la gente

 

I miei folli amici

Hanno un posto sulla terra

Come schegge han messo radici

Sono stati mitraglieri in guerra

Dai capi furono traditi

 

E allor? Si vedono ai concerti

Mozart su loro si china

Giovanili occhi lucenti

Veglieranno come prima

Li accecherà il sole nascente

 

I folli amici miei

Così imprudenti e distratti

Ormai così disillusi

Che provo per loro pietà

In mezzo alla comoda Europa

 

Di cui sì poco resterà

Quando si avvierà il carosello

E quando la folla attratta

Da lucifero e dal porcello

Fremente di gioia urlerà

 

1960

 

Si fa per dire

 

Si fa per dire che i libri restano

Scripta manent

Si fa per dire e occorre dirlo

In nome della speranza che la libera mente

Vince alfine ogni tirannia

Ma non è una verità assoluta

Non immaginiamo neppure

Quanti ne distrussero i barbari

E quanti ne distruggeranno ancora

 

Solo grazie a Demetrio di Falero

Abbiamo raccattato gli avanzi

Della tavola dei Sette Saggi

Solo grazie ai bibliotecari alessandrini

Conosciamo almeno i titoli delle opere perdute

Benché non di tutte e non ovunque

Ci sono libri smarriti per sempre

Bruciati nascosti e mai ritrovati

Ci sono frammenti consunti pagine strappate esemplari a brandelli diatribe storpiate

 

E quelli non scritti per paura

Pensieri non espressi

Assemblee di grida mute

Fievoli tremiti delle coscienze quando il cavallo di Caligola nitrisce nel senato

E quando il vecchio poeta ripete di continuo:

E’ notte

E’ notte

E’ notte

 

Si fa per dire che i libri restano

Giungono i tempi in cui il sagace Seneca

Consola soltanto la certezza che il mondo andrà in rovina lo stesso

E nel fuoco girerà

Tra le fiamme sconfinate

Ma è una magra consolazione

Per gli uomini liberi

Benché adatta forse ai prigionieri e di conforto

Ai condannati sbattuti tra i campi di concentramento

Né là né altrove tuttavia

Riusciremo a contare i nostri Socrati uccisi

I nostri Prometei accusati di rapina

E non sapremo mai

Chi realmente morì sugli Appennini

Quale diciottenne Mickiewicz

Non sollevò la testa dalla rivolta di Varsavia

E se mai le sue Ballate fece in tempo a scrivere

 

(Dal ciclo Il fiume delle streghe, 1968-1969)

 

Si vorrebbe fare qualcosa

Si vorebbe fare qualcosa ma non si sa cosa

Si vorrebbe andare in qualche luogo ma non si sa dove

Si vorrebbe salvare qualcosa ma non si sa come

Ci si vorrebbe assopire e svegliare ma non si sa quando

E si vorrebbe dimenticare il balordo

Che mi identificherà con questo monologo

1979

 

Lapide

Al cadaverico sole nel rimprovero insistente

D’essersi promessa al nero principe degli antipodi

D’essersi alleata con cento cialtroni che a richiesta

Falsano le vicende nella cronaca dei popoli

Clio – la morta storia – giace qui tristemente

E chiede un sospiro e una breve prece attende

1981

 

 

Le tre di mattina

Telefona mia madre

E’ tanto che non ci vediamo

Perché

Dice: – potresti

Almeno telefonare

Far vedere che mi pensi

Dico: – mamma

Chiamo in continuazione

Nessuno risponde

Dice: – forse il numero è sbagliato

Controlla nel calendario

Dico: – la settimana prossima

Potremmo venire

Se vuoi

Dice: – ma certo!

Sono così curiosa

Di vedere come siete

Devi essere cambiato

Dopo tanti anni

1993

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

   

Jerzy Liebert

11 Ott

 

  Poeta, prosatore, critico. Nacque a Częstochowa il 24 luglio 1904. Nel 1925 si iscrisse alla facoltà di filologia polacca all’Università di Varsavia, ma due anni dopo dovette abbandonare gli studi per difficoltà materiali e per l’aggravarsi della tubercolosi. Fu vicino al gruppo “Skamander”, anche se non aderì ad esso, e strinse amicizia soprattutto con Jarosław Iwaszkiewicz. Dal 1921 cominciò a pubblicare liriche, racconti, recensioni e schizzi letterari su riviste quali “Skamander”, “Wiadomości Literackie” e „Pamiętnik Warszawski”. Autore di liriche religiose e filosofiche, fu uno dei più illustri poeti cattolici del periodo tra le due guerre.

   Creò un proprio stile lirico, rivelando una straordinaria sensibilità verso il mondo circostante. La sua creazione ruota essenzialmente attorno a due tematiche principali: la prima è la religione cristiana. Liebert mostra la figura di un uomo in continua conversione, con i suoi momenti di fede, ma anche di dubbi e perplessità, di un uomo che cerca, trova e perde Dio. La seconda tematica è l’esperienza del dolore, della malattia e la morte . In particolare la sua malattia, che egli spesso tratta ironicamente, costituisce una ricca fonte di esperienze e d’ispirazione. Morì a 27 anni, a Varsavia, il 19 giugno 1931.

 

Poesie di Jerzy Liebert tradotte da Paolo Statuti

 

Risposta

Il volo degli uccelli seguendo sulla città calmo

Maestoso moto, sublime e concorde,

Sempre più alto della volta,

Guarda, la loro ala batte ritmicamente

E al gran silenzio – in gran silenzio mira,

E infine nell’azzurro si trasforma.

Dunque quando mi chiedi, perché la mia parola

Esce sottovoce dal cuore e in cadenza

Cade presso il trono di Dio –

Guarda i colombi che volano sotto il cielo

E di questa quiete ricolma le strofe ardenti,

E capirai tutto, mia cara.

Giugno 1924

 

La messa di mezzanotte

                                               A mio fratello

Gli uccelli come campanelle si godono il canto –

Cristo è nato per noi e nuovi giorni verranno.

Dalle rive della Vistola fino alla Grotta

Con gli uccelli sono giunti i caprioli in frotta.

Lo scoiattolo mostra i denti e osserva in alto

Due colombi che nuotano nel cielo di cobalto.

E i fiori, benché sia inverno e il freddo l’abbia gelati,

Portano la mirra, l’incenso e calici dorati.

Anche i pavoni sono giunti da paesi lontani ,

Per comparare le piume con le angeliche ali .

E il Bambinello triste guarda la porta e attende

Di vedere l’uomo fra tutta quella gente…

1925

 

Musica mattutita

 

Lontano e così leggero,

Il vento culla alberi e cielo,

Gli uccelli l’azzurro dalle gole

Spandono a gocce nella quiete.

 

Il silenzio come vaso colmo

Fino all’orlo di dolce fluido,

Versa l’azzurro nei calici

Dell’acacia e del gelsomino.

 

L’azzurro si fonde con l’argento,

Sprizza un intenso aroma,

Gratta agli uccelli le linguette

E nuove gocce suonano.

 

1925

 

A mia Madre

Sotto la tua custodia, o Madre, come in una grand’ombra,

Per la quale cedo le frescure di tutta la flora.

Aumenta il mio amore per te, e in te si ristora,

Come un albero che nella terra le radici affonda.

Il mio petto si solleva assieme ai tuoi sospiri,

E il sonno dai miei occhi si dilegua coi tuoi affanni –

E’ così, ciò che i giorni hanno preso ci rendono gli anni.

Di nuovo udendo la tua voce nei pensieri sprofondo.

Come uno strepito mi placo, come la sera scendo

Nel tuo sguardo cercando in te salvezza dal mio mondo,

Di nuovo seguo con la mano l’amata linea del volto,

E trovando sotto le dita scolpita la tristezza,

Ormai non chiedo più nulla, nulla più rispondo…

1925

 

La taverna di Jurgow

Torna indietro, meglio fare un metro in più,

Pur se il vento ti può accecare –

Davanti alla taverna, laggiù,

Mia cara, per bere non ti fermare…

Dai bicchieri un demonio sbucherà,

Un demonio livido – tenore.

Din! sul vetro – pien di lacrime sarà,

E lui piange, con nota sempre maggiore…

Din! sul vetro, ferma il tempo con un do

E dall’eterno – tu ben sai –

Singhiozzerà! Con me una volta ancor,

Berrai, mia cara, berrai.

 

Guarderai…- il tenore non c’è più,

L’ultimo tono sul tavolo indugia,

E dal bicchiere un altro Belzebù

S’affaccia ottuso…in fronte – una ruga.

Lui ti fissa e un’idea gli verrà –

Languido un zigzag ti taglia il cervello…

Din! sul vetro – il mio volto apparirà!

Non bere, non cader nel tranello!

– Oh, sei tu, tu mio caro? – Dindin! –

Il tetto aperto, i muri incrinati,

La stanza sprofondata, e un nero abisso è lì.

Or gracchierà l’oblio da tutti i lati…

Solo il valzer del demonio piangerà,

Dolce valzer che non si può scordare!

Primo  p a s,  secondo  p a s, terzo  p a s,

E oltre i muri potrai scivolare…

Marzo 1928

 

Notte divina

Fino a quando opprimermi vuoi tu,

Cielo impeciato – farmi paura?

Tu che dispensi piaghe e virtù,

O divina spia oscura!

Dove il tuo invito mi ripeti –

Col canto del gallo a mezzanotte?

La stanza invadi dai vetri

Come Isoppo della notte?

Mi svegli, minacci spietato –

Che vuoi tu dalla mia vita frale?

O buio Senso del Creato,

Dimmi ciò che per te vale.

Dal cielo catramato arriva

La tua voce acuta, roteando.

Perché, forza vendicativa,

M’insegui i sogni turbando?

Sai bene, non da oggi è in ballo

Questa lotta tra noi insensata…

Basta! Ora basta! Taccia il gallo,

Malvagia creatura alata.

Dicembre 1928 e Settembre 1929

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

Tre fiori del verso polacco recisi dalla falce della guerra

9 Ott

 

 

Krzysztof Kamil Baczynski

 

Krzysztof Kamil Baczyński

   Nacque a Varsavia il 22 gennaio 1921. Poeta. Nel 1943 iniziò gli studi di filologia polacca all’Università clandestina di Varsavia, e nello stesso anno si arruolò nell’Armia Krajowa (Armata Nazionale). Terminata la Scuola per Allievi Ufficiali fu destinato al battaglione “Zośka” e successivamente al “Parasol”. Collaborò con le riviste clandestine “Płomienie” (Fiamme) e „Droga” (La strada). Nella sua breve vita pubblicò le seguenti raccolte di poesie: Zamknięty echem (Chiuso come l’eco, 1940), Dwie miłości (Due amori, 1940), Modlitwa. Matce (Preghiera. A mia madre, 1942), Wiersze wybrane (Poesie scelte. 1942), Arkusz poetycki n. 1 (Foglio di poesia n.1, 1944). Dopo la guerra uscirono tra l’altro: Śpiew z pożogi (Canto dell’incendio, 1947) e Utwory zebrane (Raccolta di opere, 1961).

   La sua poesia, malgrado i forti legami col tempo di guerra, ha un respiro universale. Temi frequenti sono l’anima e la psiche dell’uomo, la riflessione sulla giovinezza e sulla maturità, la ricerca dei valori fondamentali della vita adulta. Krzysztof Baczyński spesso nei suoi versi usa il plurale, parlando a nome suo e della sua generazione. Mostrò la guerra piena di immagini oniriche e simboliche, nella sua furia distruttrice dei valori morali finora esistenti. Il tono della sua poesia è differenziato: accanto a poesie riguardanti le esperienze belliche, troviamo anche quelle indipendenti da esse, ricche di speranza e di bellezza.

   Fu ucciso il 4 agosto 1944, a 23 anni, in una piazza di Varsavia, durante l’Insurrezione. Stanisław Pigoń, storico della letteratura polacca, dopo aver appreso la notizia della morte di Baczyński, disse: “E’ una nostra peculiarità combattere il nemico coi brillanti…”

Tre poesie di Krzysztof Kamil Baczyński tradotte da Paolo Statuti

Di nuovo erriamo nel caldo paese…

Di nuovo erriamo nel caldo paese

e nel prato-malachite dei marosi.

Gli uccelli al ritorno muoiono

tra gli aranci agli incroci.

Sui prati grigio-violacciocca

una fuga di arcate il cielo stende.

Le palpebre assorbono il paesaggio,

sulle labbra il sale si rapprende.

La notte porge al mare la sua chioma,

di sera nei flussi delle rade.

L’estate suona come morbide pere,

dal vento, come da ortica scottate.

Davanti alle fontane perlacee

la notte spande delle stelle il grano.

Di nuovo erriamo nel caldo paese,

di nuovo nella calda terra erriamo.

1938

Aprirò per te il cielo aurato…

Aprirò per te il cielo aurato

ov’è il filo quieto del candor,

e il cielo come guscio smisurato

di suoni, scoppierà per ancor

vivere nelle foglie di raso,

nel canto dei laghi e dell’occaso,

finché l’alba uccellinea scoprirà

il suo latteo cuore.

Muterò per te la terra dura

nel volo leggero del pappo,

estrarrò l’ombra dalla natura,

l’ombra che s’arcua come un gatto,

col pelo lucente tutto avvolgerà

nelle tinte del turbine, e porrà

nell’ordito d’un piovasco.

E dell’aria i ruscelli frementi

come fumo da un casolare

muterò per te in viali fiorenti,

nel fluido canoro delle chiare

betulle che intoneranno il canto –

come viole prese dal rimpianto –

d’un fervido alveare.

Soltanto, questo mio sguardo svuota

del vetro penoso – figura

dei giorni, che i bianchi teschi ruota

per l’accesa dal sangue radura.

Soltanto, il tempo storpiato trasforma,

i sepolcri con il fiume adorna,

della lotta la polvere togli,

di questi anni folli

polvere scura.           (1943)

 

Elegia

 

Nuvole volatili, vele di slanci, degli alberi amiche

nelle volte celesti.

La testa si china sulle mani ruvide, testa dolente,

bramano le braccia.

L’uccello che vola sotto di voi è il mio cuore,

scuro, alto.

Come posso fuggire verso i boschi dorati all’angoscia,

uccelli-nuvole?

Come posso tornare pieno di tristezza, non ultimato,

nel vostro volo e fluidità?

I palmi forati, la croce mi segue,

della morte il dovere.

Così questa argilla non plasmata si accumula, le pietre,

le città bruciano.

Son io forse la propria tomba sulla terra,

la propria speranza?

Silenziose nuvole! di nuovo mi superate, luci scorrenti,

ombre lontane.

Vi chiamerò fede. Voi mi chiamerete carcassa di tristezza,

bara, uomo.

 

(Settembre 1942)

 

 

 

 

 

 

Jozef Czechowicz

 

Józef Czechowicz

 

   Nacque il 15 marzo 1903 a Lublino. Poeta, prosatore, drammaturgo, critico, traduttore. Nel 1920 prese parte alla guerra polacco-bolscevica. Studiò all’Istituto di Pedagogia Sociale a Varsavia e lavorò presso l’Istituto per Ciechi e Sordi. Fu uno dei creatori e redattori della rivista letteraria d’avanguardia di Lublino – “Reflektor”, dove debuttò come prosatore con Opowieść o papierowej koronie (Racconto di una corona di carta, 1923). Nel 1930 si recò a Parigi con una borsa di studio del governo polacco, ma dovette tornare a Lublino a causa di una malattia agli occhi. Negli anni ’30 fu uno dei principali poeti e animatori della seconda Avanguardia. Nelle sue opere espresse le inquietudini catastrofiche e metafisiche degli anni tra le due guerre. Subì l’influenza del surrealismo e del simbolismo, ma restò fedele alla tradizione della poesia romantica polacca (Norwid, Słowacki) e popolare. Nel 1939 iniziò la sua collaborazione con la sezione letteraria della radio polacca, scrivendo diversi radiodrammi. Fu il primo traduttore polacco di T. S. Eliot. Morì il 9 settembre 1939, nono giorno di guerra, a Lublino, durante un bombardamento. Aveva 36 anni.

Tra le raccolte di poesia ricordiamo: Dzień jak co dzień (Un giorno come ogni giorno, 1930), Ballada z tamtej strony (Ballata di quelle parti, 1932), Stare kamienie (Vecchie pietre, 1934), W błyskawicy  (Nel lampo, 1934), Nic więcej (Niente di più, 1936), Nuta człowiecza (Nota umana, 1939).

 

Tre poesie di Józef Czechowicz tradotte da Paolo Statuti

 

Nei pressi della stazione centrale di Varsavia

 

dalle finestre bagliori

nel nichel il buffet regnava

la fontanina dei fiori

verso il soffitto sprizzava

 

ondeggian là le tendine

sfondo all’ombra dei grassoni

nell’alba avvolta di brine

e nell’ora dei lampioni

 

alcolica sinfonia

fughe di verdure e pane

sonate nell’agonia

serpeggia una viva fame

una fame latra sputa

un’altra spezza le dita

una terza cosa fiuta

nell’androne intimorita

 

facce della fame irsute

dai molti occhi diversi

son le lune decadute

di abbandonati universi

 

tossiscono sopra il pelo

di una sciarpa logorata

 

per esse io vi rivelo

Gerico sarà annientata

 

(1939)

 

 

Rimpianto

 

la testa che imbianca e splende come doppiere

quando trasvolano i nastri argentei dei venti

porto nelle profondità

delle stradine capinere

trillano è poco va’

 

andare guardando sogni festini scene

di sinagoghe i vetri in frantumi

fiamme fameliche grosse gomene

fiamme d’amore

nudi

 

udir dei popoli affamati la furia

che dal pianto d’ogni affamato è diversa

annotta sul mondo si sente

vicina la rossa mungitura

dopo il diluvio ardente

chi sei sarà la nostra richiesta

 

mirabilmente per tutti noi moltiplicato

sparerò a me stesso e morirò più volte

io dentro il solco con l’aratro

io tra i codici giurista

dal grido gas soffocato

io assopita nel timo

e bambino torcia umana

e colpito nei portici

e incendiario impiccato

io nera croce nella lista

 

o mietitura di rombi e di lampi

 

potrà il fiume togliersi la ruggine del sangue dei fratelli

prima che i pilastri delle città si risolleveranno

giungerà allora un turbine di uccelli

un’ala frullerà la testa sfiorando

va’ va’ oltre

 

(1939)

 

Nel paesaggio

 

il fruscio dei castagni in basso il canto marino

si spengono al crepuscolo le candele degli alberi in fiore

la strada nel bosco in faccia al sole s’indora doppiamente

di fruscio e di sera scuriscono i recessi

dondolandosi come erba rigogliosa

le ragazze snelle sui cavalli

 

 

un colle all’incrocio dei viottoli

là una cappellina fresca come corallo

nella penombra una croce là un angelo

gli ex voto abbandonati dei pescatori

una stagione dimenticata da tempo

in un vaso spezzato è ammuffita la morte dei papaveri

 

il mare mormora i castagni

i cavalli con gli zoccoli intorbidano l’oro sull’acqua

di quelle che vanno una ha alzato la mano

e dà il segnale movendolo in aria come remo

perché è rimasto presso la cappella un puledro smarrito

ha guardato dentro ha toccato col morbido labbro la porta

ha nitrito puerilmente in alto non si sa che cosa

 

 

 

 

 

Tadeusz Gajcy

 

Tadeusz Gajcy

 

   Nacque a Varsavia l’8 febbraio 1922. Poeta, prosatore, drammaturgo, critico letterario. Dal 1941 studente di filologia polacca all’Università clandestina di Varsavia. Fu co-fondatore e redattore del mensile letterario “Sztuka i Naród” (Arte e Popolo), dove publicò molti suoi articoli. Raccolte poetiche: Widma (Spettri, 1943). Grom powszedni (Fulmine quotidiano, 1944). Nel 1952 uscì una raccolta di sue opere. Cominciò a scrivere già sedicenne, ma in seguito distrusse i suoi versi giovanili. Negli anni 1938-1939 comincia a trattare seriamente la sua poetica. E’ evidente in essa il desiderio di capire il mondo in senso filosofico, il destino e la vita dell’uomo. Prevale un tono riflessivo, pessimistico, a tratti ribelle, ma non mancano accenti positivi. Ciò che soprattutto distingue la poesia di Gajcy da quella di altri poeti di quel periodo è il modo diverso, unico di descrivere la brutale realtà della guerra. Le sue opere abbondano di insolite metafore, di ardite associazioni con la lingua corrente. Morì a 22 anni il 16 agosto 1944  nell’Insurrezione di Varsavia durante un bombardamento, assieme al suo amico poeta Zdzisław Stroiński. 

 

 

Due poesie di Tadeusz Gajcy tradotte da Paolo Statuti

 

La notte

 

Forse in un vano sonno, nel ricordo

giaccio alla luce, che come corallo

ruota giù veloce? Ecco l’istante

in cui le ombre dei fiori nell’onda

lesta nuotano gravi come carpe

sotto la luna d’argento. Un insetto

è un uomo, un uccello ogni animale,

quando il cielo col suo tocco ci desta

come corde o ci acquieta e si nasconde

scuro sotto la palpebra pesante.

 

Che io rammenti: sono uguale al chiarore

rosato, che trasforma lo spazio

in un albero d’improvvisi colori.

Che io comprenda: uguale a una raffica,

quando nell’aria leggera procede

come campana dalla fredda quiete.

Che io dica: sono uguale a me stesso

giacendo come un’isola nel sonno,

quando il cielo è bianco come un foglio,

e la terra continuamente irreale

 

e il tenue abbozzo dei fiori sul fondo

si rassoda in pietra, in cereo osso;

ed io nel mio inutile ricordo

al chiaro volto dell’infanzia mi accosto:

la luna sopra una massa di nubi

e il vento dei colombi sopra il bosco,

l’acqua gioiosa, il fremito d’un pesce

tra le bianche ninfee. Eppure lo so:

inutile è il ruscello del cuore,

non sarò uguale ai sogni che ha percorso.

 

Ma la notte mi aspetta ancora, simile

alle notti in cui il corallo della luce

si attenuava. E l’ombra sulle nubi

è la mia ombra come d’un gigante,

eppure la mia mano è umile

ed è disteso il fragile corpo.

Che io rammenti: in un rametto

di fumo è la patria, in una fiammata,

e dalla neve d’una nube coperto

io sono uguale a questa terra avara.

 (1944)

Stigma

Da quando la mia lingua come lucherino

cinguetta avaramente, e da quando

la mano carica di scrittura giace

come spiga in una zolla – una nuvola rapida

si sporge con l’orlo splendente

e il cielo duttile dando agli occhi

dice:

          ogni giorno le campane nel chiarore cantano

trema nella terra il nastro dei semi,

perché la mano dell’uomo nello spavento

è come la notte o il marmo pesante.

E tu simile ai destini delle piante

vanamente guardi, i colori peschi

perché soltanto a noi, non all’uomo

è dato l’eterno, libero inseguimento.

Da quando la tavola davanti a me morta

s’è innalzata minacciosa, il cielo ha coperto

e nel vetro splendente dorme l’inchiostro

come goccia di mare o l’ombra d’un labbro,

da quando la penna come sonno trascurato

ha toccato la mano con la lingua melodiosa

svolgiamo con noi stessi un dialogo oscuro:

il mortale io e l’eterna nuvola.

 

         

 

 

(C) by Paolo Statuti