Archivio | novembre, 2012

Andrzej Zaniewski

28 Nov

 

Andrzej Zaniewski

   Poeta, prosatore, autore di testi di canzoni, è nato a Varsavia il 13 aprile 1939. Debuttò nel 1957 con la poesia “Alle ragazze”, pubblicata nel supplemento “La nuova ondata” del giornale “La voce del litorale”. Nel 1958 entrò a far parte del guppo poetico “La scuola dei grafomani”, che era piuttosto un cabaret artistico-letterario. Nel 1964 terminò gli studi di storia dell’arte all’Università di Varsavia. Fu uno dei fondatori del club “Hybrydy” –  che per molti anni svolse il ruolo di centro culturale studentesco. Da esso emersero molti letterati, musicisti, artisti del teatro e del cinema. Nel 1967 uscì il suo primo volume di poesie, dal titolo “Davanti a me”, cui fecero seguito le raccolte “Il viaggio”, “Faccia a faccia”, “Poema odierno”, “La speranza arriva al crepuscolo”. Il suo romanzo più famoso è “Il ratto”, tradotto in più di 30 lingue; in Italia è stato pubblicato da Longanesi nel 1994 con il titolo “Memorie di un ratto” (trad. di Luca Bernardini). Ha ricevuto diversi prestigiosi premi per la sua opera letteraria. Lo scrittore e saggista Piotr Giedrowicz, che ha curato l’edizione delle “Poesie scelte” di Andrzej Zaniewski, publicata dalla casa editrice Ludowa Spółdzielnia Wydawnicza (Varsavia, 2007), scrive nella sua introduzione: “Trapela dalla sua poesia una profonda conoscenza della natura umana…L’opera dell’uomo non sempre nasce per grazia di Dio, e la storia non sempre è maestra di vita, gli uomini però invariabilmente, come avvoltoi, lottano per la preda. Nel mondo degli animali ciò è naturale e per certi versi necessario, ma tra gli uomini civili e civilizzati? Leggendo le poesie di Andrzej Zaniewski vale la pena, sia pure per un breve istante, riflettere anche su questo”. Di se stesso il poeta scrive: “Per tutta la mia vita creativa ho combattuto contro l’ideologia, la filosofia, la politica, le ambizioni, una grave malattia, infine contro il passato; tutto ciò appariva all’improvviso, come minaccia o come rammarico. Ho rivaleggiato anche, come altri, col Destino, la Predestinazione e la Storia. Spesso ho subito sconfitte…Fra lo scrittore e il lettore il filo dell’intesa spesso è più sottile di un capello. Mi chiedo quindi: bisogna lottare per essere uno scrittore conosciuto, a costo di complimentare il lettore, di mostrargli cenni di assenso, ovviamente il più delle volte camuffati, nascosti dietro più di una maschera, allo scopo di non procurargli dei complessi? O piuttosto bisogna non tirarsi indietro davanti a nessun tabù, non temere le scale e i vicoli bui, dire non ciò che da noi si aspetta, ma ciò che ci aspettiamo da noi stessi”?

 

Poesie di Andrzej Zaniewski tradotte da Paolo Statuti

 

Riflessioni femministe

La donna non è soltanto donna,

nella donna è nascosto un uomo,

e in lui una successiva donna, o un successivo uomo,

un secondo, un terzo, un quarto.

 

L’uomo nella donna può essere muscoloso, veggente,

vecchio o monello, attore o detective.

 

Alla donna non piace l’uomo in se stessa, non piace ufficialmente,

perché in realtà gli permette più di una donna mascherata

nascosta in lui.

 

L’uomo nella donna può essere ermafrodito,

narciso, campione di karatè, esibizionista,

lillipuziano o grande di cuore o boia

vergognoso della propria crudeltà.

 

La donna dunque è a un tempo se stessa,

uomo nascosto e successiva donna – fata

in un uomo sconosciuto.

 

Non è tutto.

 

La donna è anche un bambino,

in lacrime, urlante nell’uomo

o nella successiva donna, che gioca

a nascondino senza sapere con chi.

 

Il resto è un mistero.

 

* *  *

 

L’inquisitore non voleva essere inquisitore,

ma insegnante di lingue.

 

Il soldato non voleva essere soldato,

ma collezionista di orchidee.

 

Il boia sognava di veleggiare

verso i mari del Sud.

 

Il minatore aveva paura

del pozzo scuro dell’infinito.

 

Soltanto il poeta ad ogni costo

voleva essere poeta.

 

Che dramma!

 

 

 *  *  *

 

Tanto parlavi mamma del sole

forte e buono

stupendo e giusto

 

Per molti anni

su molte strade

guardavo come sorge e tramonta

 

Per molti anni

in milioni di finestre

a dispetto del grigiore

catturavo i raggi che perforavano le nuvole

e raccoglievo il ferro vecchio dell’iride

 

Per molti anni

vedevo sui volti

disperazione e amarezza

odio e paura

 

Tanto parlavi mamma del sole

e gli uomini intorno alzano contro se stessi

i suoi raggi

 

 

 

*  *  *

 

Madre di Dio, proteggi i giovani uccelli

e proteggi i vecchi uccelli, e proteggi noi

che proteggiamo gli uccelli che riposano,

e proteggi il nostro amore per il chiasso su di noi,

e i nostri sogni sugli uccelli,

le nostre deboli ali, quelle maldestre

e quelle che portano in alto.

 

Madre di Dio, proteggi gli uccelli che volano dovunque,

e i nidi nascosti nel muro, e quelli visibili

da lontano, e difendi gli uccelli appena nati e aiuta

quelli malati, affamati, infreddoliti.

 

Madre di Dio, proteggi i giovani uccelli, che con coraggio

sperimentano le proprie forze e gli uccelli maturi

ma smarriti, che hanno perso

l’orientamento in volo.

 

Don Chisciotte si pulisce gli occhiali

 

Ti fermi davanti ai mulini a vento. Te lo aspettavi

che ce ne sarebbero stati tanti, da colmare il giorno

e la notte, e il mattino, di nuovo fino alla sera?

Non ne hai abbastanza di scontrarti

con la tempesta, col ronzino, perfino col tuo scudiero?

E per chi ti batti?

Per una donna paffuta,

che forse dorme non solo con te?

Per i suoi capricci, perché vuole un cavaliere

con lo scudo e la corazza, con lo sguardo stralunato?

Ti abbaglia con le giarrettiere, e tu in ginocchio

le giuri eterno amore, e poi a cavallo!

Ronzinante rauco ti porta lentamente

nello spazio immaginato. Sancio Pancia sbadiglia,

sognando una birra fredda e un cetriolo. E tu

insegui fantasmi, cerchi maghi,

dai la caccia a chi non esiste, lotti per le idee…

Ti deridono poveri e ricchi,

e ti ordinano di pagare ovunque e per tutto,

spietati e inflessibili di fronte alla tua debolezza.

 

Ma quando ormai sei completamente avvilito,

sconfitto, percosso, vicino al suicidio, solo

senza amici, senza ombra della donna nella quale confidavi…

Quando pensano che ti hanno sconfitto, che

la stanchezza ti ha tolto le forze…Tu ti pulisci le spesse lenti,

così, semplicemente, come se nessuno ti avesse mai sconfitto,

ti sollevi, esci, sali sul tuo ronzino

e con la lancia punti le schiere di mulini

all’orizzonte

 

*  *  *

 

Poveri cani degli innamorati!

Tristi e impotenti stanno accovacciati, borbottano.

 

Si annoiano, scodinzolano, aspettano che finisca

il lungo bacio.

 

Ma gli innamorati vedono soltanto se stessi,

e ascoltano soltanto il proprio polso.

 

Poveri cani degli innamorati nelle passeggiate serali

borbottano lamentevoli e scontenti,

a volte danno uno strattone al guinzaglio o

ti toccano con la zampa.

 

Allora l’egoista grida: – Fermo! Giù!

E il cane piange rannicchiato tra i piedi.

 

Ti prego…Anche se ti lusinga il miraggio dell’amore,

pensa un po’ anche al tuo cane.

 

*  *  *

 

Il muro, davanti al quale stiamo

è sempre più alto.

 

Non è vero: le nostre forze calano

– per questo ci sembra che il muro cresca.

 

Ci illudiamo:

il giorno seguente ci darà forza,

riusciremo a superarlo.

 

Aiutami, cara, a diventare un uccello,

aiutami a diventare una nuvola,

aiutami a diventare una foglia

di un albero morto.

 

Non facciamoci illusioni:

Il muro, davanti al quale aspettiamo,

sono le nostre ombre

al tramonto del sole.

 

*  *  *

Diciamo: Polonia – cioè tu ed io

e il bosco per cui andiamo               

radiografato dal sole

il boschetto dei bronzi di quercia e di bianco-betulla

le spighe d’erba chine sul nido dell’allodola

 

Diciamo: Polonia – cioè tu ed io

e i muri delle fabbriche

fruscianti come rive

d’un mare immaginario

e le linee dell’alta tensione

che volano fino alle nuvole

e legano tra loro i bianchi orizzonti

 

I nostri sguardi s’intrecciano nei cespugli

dove i fringuelli a primavera suonano i loro canti

e nelle nuvole girano eternamente i falchi

dove le bianche pietre

come ossa gettate via

segnano la strada percorsa

e la strada davanti a noi

 

Tali sono gli orizzonti dei nostri destini

quotidiani sentieri di riflessioni e piani

noti eppure sempre segreti

consueti eppure continuamente nuovi

passaggi nella storia

strade infinite

sogni di uomini che bramano la pace

 

Tali sono i nostri frutti migliori

buoni e caldi

assolati amati

frutti – pensieri

frutti compiuti

frutti di mani e frutti di occhi

mele di primavera e quelle più tardive

che maturano alle soglie dell’inverno

staccate dalla mano e conservate

come antichi testi o raccolte di poesie

 

La Polonia è l’orizzonte davanti a noi

dove ognuno ha la sua croce

silenziosa sperduta vecchia

la memoria

– una barca condotta sull’acqua profonda

 

La Polonia è la nostra strada attraverso i giardini

attraverso i cigli delle rocce

e le rive agitate

– la strada che conduce in noi stessi

 

Andiamo

Andiamo

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

Małgorzata Hillar: la poetessa uccisa dall’amore

21 Nov

 

 

Małgorzata Hillar

   Nacque a Piesienica il 19 agosto 1926. Quando debuttò sulla rivista “Nuova cultura” richiamò su di sé l’attenzione di molti critici, che all’inizio l’accusarono di superficialità, mediocrità dei mezzi espressivi e immaturità. Il volume “La brocca di argilla” tuttavia fu acclamato dalla Associazione dei Librai Polacchi come il miglior debutto dell’anno 1957. Le successive due raccolte poetiche “Preghiera al timo. Poesie erotiche” (1959) e “Gocce di sole” (1961) dimostrarono però che Małgorzata Hillar era una vera poetessa. La definirono la “nipote di Różewicz” (v. Articolo e poesie in questo stesso blog) e “principessa della fantasia”. Creò un suo proprio stile. Diceva: “Per scrivere una poesia a volte bisogna salire su un’alta scala appoggiata al sole…”. Scriveva con grande spirito di osservazione. Amava il finale a sorpresa e come sfondo delle sue confessioni liriche aveva scelto la natura. L’amore è il leitmotiv dei suoi testi.

   Dopo la guerra si iscrisse alla facoltà di diritto e filosofia dell’Università di Varsavia, ma dovette interrompere gli studi per motivi di salute. Nel frattempo traduceva poeti cubani e russi. Tra gli ammiratori del suo talento c’era anche il critico e poeta Zbigniew Bieńkowski. Scrisse di lei in modo lusinghiero. Nacque l’amore. Nel 1960 la poetessa lo sposò, diventando la sua compagna nel bene e nel male. Seguì un altro successo letterario – “Aspettando Dawid”, dove emerge il suo femminismo maturo e il suo istinto materno, con la descrizione dei sentimenti che accompagnano la donna durante la gravidanza e il parto. Con l’andare del tempo però la temperatura dell’unione andò scemando. Andarono entrambi negli USA con una borsa di studio ottenuta dal marito, ma dopo il ritorno accadde ciò che la Hillar temeva più di tutto: la separazione, avvenuta nel 1970. Il marito aveva trovato la felicità al fianco di un’altra poetessa. Małgorzata è distrutta. Il suo ultimo respiro poetico è la raccolta “Poesie”, dove donne abbandonate, smarrite, ferite come soggetto lirico, vagano nel silenzio, pronte a tutto, perfino al suicidio. Come lei stessa. La depressione si aggrava. La sua vita non ha più senso. Vuole dimenticare l’intera biografia, lo sconforto e il mancato amore da parte delle persone più care. Sprofonda nell’alcolismo. Non si cura di niente, neanche di se stessa.  Non scrive. Si sta distruggendo. Nel 1985 entra a far parte di un gruppo di Alcolisti Anonimi. Ricomincia a scrivere, sollecitata dagli amici di questa comunità. La prima poesia del periodo di astinenza appare sulla rivista “Integrazione”. Sogna di pubblicare una raccolta dedicata al figlio, dal titolo “Poesie per Dawid”. Scrive l’introduzione al volume “Pronta a risuscitare”, che uscirà dopo la sua morte avvenuta a Varsavia il 30 maggio 1995.

   Małgorzata Hillar amò e soffrì molto. Dietro il velo della poesia celava la paura della solitudine e il bisogno di sicurezza emotiva. Dopo la separazione viveva come lontano dal mondo. Qualcuno l’ha definita “poetessa in fuga”. Viveva immersa nel suo dolore e nel caos spirituale, che voleva esprimere gridando, o distruggere completamente nell’ebbrezza dell’alcol.

   “Poetessa-icona, leggenda della seconda metà degli anni ’50 e inizio ’60. La sua poesia “Noi della seconda metà del XX secolo”, diventò il manifesto della sua generazione e uno dei testi più popolari tra la gioventù. “Immergersi nella gioia spontanea, arrendersi ai tremiti del cuore, desiderare ardentemente e attendere la felicità – ecco gli elementi salienti della sua poesia. Amore, emozioni erotiche, maternità, spontaneità – tutto ciò costituisce il linguaggio di una poetessa che protesta contro le false barriere della cultura e della civiltà” – scrive il poeta e critico Aleksander Nawrocki.

 

 

 

Poesie di Małgorzata Hillar tradotte da Paolo Statuti

 

Io creatura selvatica

 

Io creatura selvatica

temo le parole

fredde dure indifferenti

 

Temo

i sorrisi acidi

le occhiate frivole

le alzate di spalle

 

Quando ero bambina

scrivevo le poesie in soffitta

perché non ridessero

 

Per ore e ore pensavo

come poter guarire

la zampetta malata di una rana

che sedeva nel fosso

 

Oggi come allora

chiedo mani che accarezzano

Parole calde e morbide

come lana di pecora

 

 

 

 

 

Lui non sapeva

 

Lo salutava

dal balcone

con la mano ardente

 

Correva

alla porta

 

Gli porgeva

il suo petto

 

Si addormentava

sulla sua spalla

 

Quando usciva

anche lei usciva

 

Quando tornava

anche lei tornava

 

Lui si stupiva

Si rallegrava

 

Non sapeva

che lei aveva paura

degli alberi uccisi

trasformati in mobili

e del pavimento

che la guardava

ironicamente con le fenditure

socchiuse

 

Noi della seconda metà del XX secolo

 

Noi della seconda metà del XX secolo

che disintegriamo l’atomo

che conquistiamo la luna

ci vergognamo

dei teneri gesti

degli sguardi amorevoli

dei caldi sorrisi

 

Quando soffriamo

storciamo

noncuranti la bocca

 

Quando arriva l’amore

alziamo sprezzanti

le spalle

 

Forti cinici

con gli occhi ironicamente

socchiusi

 

Soltanto a tarda notte

con le tende

ermeticamente tirate

ci mordiamo le labbra dal dolore

moriamo d’amore

 

 

 

 

 

Fragola di bosco

 

Se tu fossi vicino

ti darei

questa prima fragolina

 

Direi

prendi mio caro

questa è una goccia di sole

 

Tu sei lontano

e la fragolina ha la forma

di una lacrima

 

L’amore

 

E’ l’attesa

del crepuscolo del cielo

del verde dell’erba

di una carezza delle ciglia

 

L’attesa

dei passi

dei fruscii

delle lettere

del bussare alla porta

 

L’attesa

di un esaudimento

di una durata

di una comprensione

 

L’attesa

di una conferma

di un grido di protesta

 

L’attesa

del sonno

dell’alba

della fine del mondo

 

Il nido

 

Ogni notte

lei si addormentava

nel sicuro nido

delle sue braccia

che impediva l’accesso

ai rapaci uccelli

della solitudine

 

Lui la ritrovava

tra i neri rami

del sonno

per dire

che era

per lei

 

Nella notte

più nera

lei abbandonò

il nido sicuro

delle sue braccia

e si smarrì

nell’oscurità

 

Adesso

tra gli alberi notturni

alle taccole che dormono

i caldi nidi

invidia

 

Il gufo

 

Intirizziti

sotto la nicchia sulla strada

di notte

quando le viole tremano

dal freddo

si avvolgevano strettamente

nel calore delle proprie braccia

 

Il vento faceva cadere

dalle loro teste le stelle

che si erano posate

sui capelli come brina

 

Invidiavano la Madre di Dio

guardava ascoltava

uscì dalla nicchia

chiedeva loro di seguirla

 

andarono per fossi

pieni di gialle calte

attraverso recinti

di filo lunare

lungo il verde stagno

 

Fino al fienile

caldo e dorato

come paglia

 

La Madre di Dio

un gufo urlante

tolse dal tetto

 

Se ne andò sorridente

con il gufo indignato

sotto il braccio

 

Innamorata

 

Percorre la strada

come ballando

a un saggio di danza

 

Sorride

al bambino nella carrozzina

al passero

che ha perso la coda

 

Quei pallini sul vestito

pensa

hanno il colore dei suoi occhi

 

Dalla mattina ripete

il nome più caro

ed esce di casa

con una calza sola

 

 

Posso?

 

Dici

le parole non esprimono

 

Ti guardo

tristemente

 

Io conosco parole

che come l’atropina

dilatano le pupille

e cambiano il colore del mondo

 

Dopo di esse

non si può più andar via

Posso darti me stessa

se non sai

dire

cosa provi

quando ti dono la bocca?

 

Preghiera al timo

 

I giorni sono lenti

come formiche rosse

che portano sul dorso

l’afoso peso dell’estate

 

In basso sul terreno

arde

con una fiamma viola

il timo

 

Con la fronte premuta su di esso

prego

 

Non sfiorire ancora

 

Tra poco

egli tornerà

e fra i tuoi ardenti fiori

mi porgerà con le labbra

un mondo ondeggiante

 

Preghiera

 

Madre di Dio con la corona di carta

inquilina della fredda chiesa

Regina del silenzio d’argento

Fuga dagli sguardi curiosi

Protettrice di parole morbide come narcisi

Patrona dei nostri baci

Testimone dei giuramenti più belli

 

Ogni giorno vengo da te

benché sappia

che la nostalgia non attenuerai

la separazione non accorcerai

 

Che sai tu dell’amore

tu celeste e di gesso

che perfino tuo figlio

hai concepito in modo irreale

 

Pompea

 

Pensava

di sicuro farò in tempo a fuggire

 

Correva in via dell’Abbondanza

coi sandali ricamati

con un mazzo di chiavi

con un vaso d’argento

panciuto come il suo ventre

Così la sorprese

l’ardente diluvio

vestendola interamente

per molti secoli

con un abito di pietra infocata

 

Nessuna scultura renderebbe

con tale fedeltà

il tormento

del suo volto

lo spavento delle mani

che proteggono il ventre

 

Sua sorella

col bambino in grembo

nella città di Hiroshima

morì rapida

come la civiltà

del XX secolo

 

Di lei

nemmeno una traccia nell’aria

è rimasta

 

Nella città di Varsavia

contro l’insensato vulcano

contro il cieco atomo

porto avani

il pesante ventre

 

La torre della pazienza

 

Lei si trasformava

in torre della pazienza

nella cui ombra

lui riposava

in porta della saggezza

varcandola entrava

in un giardino di luce

 

Lei si mutava

in soffice pecora

per le mani di lui

in un grillo

che suona le ciglia

in una mela

per le labbra di lui

 

Lei era

il torrido vento

che attizza la fiamma

in cui lui si tuffava

il fiume impetuoso

che trascina cielo e terra

 

Lei si tramutava

in albero del silenzio

che genera il sonno

in dalia

che rischiara le tenebre

in uccello

che porta il giorno

 

Diventava uno specchio

perché lui vedesse

come era perfetto

un cestino

dove lui celava la solitudine

diventava la terra

per la quale lui andava

sulla luna

 

Quando lui partiva

lei si mutava

in se stessa

interamente coperta

con la pesante ombra di lui

 

Come il sole

 

Vivi in me

come in una cesta chiusa

nella quale non posso guardare

eppure io stessa

ti ho permesso di starci

 

Sei diventato indipendente

e intollerante

 

Per favore

trasloca

ho poco spazio con te

Rimani

contro la mia volontà

 

Mi spingi

coi piccoli talloni

coi piccoli gomiti

 

Mi trasformi

senza il mio permesso

senza la mia partecipazione

in un boccia panciuta

 

Di notte con timore

mi tocco il ventre

Dico

no

Grido

no

Sei come un’alluvione

inevitabile

Come un fuoco

indomabile

Come un terremoto

Come il sole

 

 

 

 

Grazie, o Signore

 

che mi hai dato

nella vecchiaia

il dono di stupirmi

che quando tocco l’albero

piantato sotto la mia finestra

non dico

non è che un comune castagno

ma sussurro incantata

è un miracolo

 

e quando si avvicina a me

una piccola creatura

non affermo

non è che una semplice bambina

la mia nipotina

ma penso stupita

è un miracolo

 

Vorrei

che guardandomi allo specchio

donna che invecchia

che così spesso non amo

potessi dire con gioia

è un miracolo che sono qui

 

 

 

 

Dici

 

Dici

Se stessimo insieme

la mattina ti porterei

i panini e il latte

Avremmo

in comune la porta

la luce

la notte

 

Ma ci dividono

le chiavi

le scale

le abitazioni

gli occhi di un uomo

gli occhi di una donna

perfino il salice piangente nel cortile

sotto il quale non possiamo baciarci

 

Dici

Sei per me

come il sole che sorge

 

per vederlo

volto le spalle alla gente

 

 

 

 

Girasoli

 

In un vaso nero

sul pavimento

sono come piccoli soli

 

Vengono per rischiarare

i cupi giorni della tristezza

 

quando se ne vanno

attraverso la bianca soglia

della brina

li desidero

sull’orlo

del vaso vuoto

 

Allora arriva

il rosso van Gogh

 

Se vivessi

dice

te li presterei

ogni inverno

 

 

 

 

 

 

 

Il ricordo delle tue mani

 

Quando ricordo

la carezza delle tue mani

non sono più una bambina

che si pettina tranquilla

sistema le pentole di coccio

sul ripiano di pino

 

Impotente sento

le fiamme delle tue dita

che accendono la nuca le spalle

 

Resto così a volte

a metà giornata

sulla bianca strada

e copro la bocca con la mano

 

Non posso mica urlare

 

Euridice

 

Risvegliava per lei la segala notturna

perché sfiorasse i suoi fianchi

 

La vestiva

di nero odore

di trifoglio

 

Mutava i suoi capelli

in fiamme

 

Quando la fecero sprofondare

nell’Ade

non le andò dietro

 

Fuggì

chiudendosi le orecchie

alla sua invocazione

di aiuto

 

Quando tornò

toccò i suoi capelli

 

Non si erano mutati in fiamme

 

Erano come erba morta

 

Disse

Non sei Orfeo

Sei un prestigiatore

che tira fuori i conigli

da un orecchio

 

 

Il sacco della vita

 

In esso

allega

il frutto del seno

 

Una grande prugna livida

umana

impigliata

in steli violacei

 

Elastico

si allunga

si allarga

si tende

come un arco semicircolare

come la volta

dei santuari romanici

 

S’ingrossa

di giorno

in giorno

 

Unica vera

fonte dell’infinito

 

Il sacco della vita

 

Attraverso epidemie

fame

guerre

porta in sé l’inizio del mondo

 

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Julia Hartwig

19 Nov

 

 

Julia Hartwig

 E’ nata a Lublino il 14 agosto 1921, quest’anno ha quindi compiuto 91 anni. Il suo debutto risale al 1938, quando cioè aveva appena 17 anni. Prese parte alla II guerra mondiale come staffetta dell’Armata Nazionale. Al tempo stesso frequentò i corsi di filologia romanza e polacca presso l’Università clandestina di Varsavia. Negli anni 1947-1950 soggiornò in Francia, grazie a una borsa di studio del governo francese, lavorando nel contempo nell’Ambasciata polacca a Parigi. Nel 1954 sposò il poeta e scrittore Artur Międzyrzecki (v. articolo e poesie in questo stesso blog). Insieme a lui trascorse alcuni anni negli USA (1972-1974). A gennaio del 1976 sottoscrisse il “Memoriale101”, in segno di protesta per le progettate modifiche antidemocratiche della Costituzione polacca. Negli anni 1986-1991 fu membro attivo di “Solidarność”.

   Questa poetessa, che il premio Nobel Czesław Miłosz definì “la grande dama della poesia polacca”, occupa un posto di primo piano e a se stante nella letteratura polacca contemporanea. Nei suoi versi arguti, raffinati, sempre tesi alla comprensibilità da parte del lettore, spesso alla gravità abbina l’ironia, allo sconforto – la gioia di esistere, alla tangibilità dei sensi – la visione onirica. Cos’è la poesia per Julia Hartwig? E’ la descrizione del mondo, è il prendere nota di esso. E’ dare un nome a ciò che si è visto: un volto scoperto nella folla, una persona (come quella vecchia donna notata una domenica pomeriggio su una panchina lungo l’East River). Un elemento del paesaggio ancora inosservato. I numerosi ricordi di viaggio: uno scoiattolo al Regent Park, un villaggio al confine spagnolo, dove sulla terrazza di una vecchia casa su un pendio “una ragazza con la cuffietta bianca serve succulente trote, una località in Portogallo, dove “in un caffè debolmente illuminato e con le pareti scrostate/gli scrittori sorseggiano il vino/nella vicina taverna qualcuno canticchia sul palco un fado/dalla scura collina si vedono le vacillanti luci di Lisbona”. E’ un prendere nota della realtà: con affetto, con una chiarezza lungi da esperimenti formali, anche se a volte ai limiti tra veglia e sogno. E’ un prendere nota con la speranza di scoprire qualche altro significato nascosto o non ancora capito fino in fondo.

   Tra le sue opere ricordiamo in particolare le raccolte di poesie e di prose poetiche: Pożegnania (Addii, 1956), Wolne ręce (Mani libere, 1969), Dwojstość (Duplicità, 1971), Czuwanie (Veglia, 1978), Chwila postoju (Un attimo di sosta, 1980), Obcowanie (Compagnia, 1987), Czułość (Tenerezza, 1992), Zobaczone (Visto, 1999), Nie ma odpowiedzi (Non c’è risposta, 2001), Błyski (Lampi, 2002), Gorzkie żale (Amari lamenti, 2011); le monografie letterarie: Apollinaire (1962), Gérard de Nerval (1972); i diari: Dziennik amerykański (Diario americano, 1980) – un meraviglioso libro sull’America, Zawsze powroty. Dziennik podróży (Sempre ritorni. Diario di viaggio, 2001); le traduzioni della poesia francese (tra gli altri: Rimbaud e Apollinaire). Insieme al marito ha realizzato l’antologia di poeti americani Opiewam nowoczesnego człowieka (Canto l’uomo contemporaneo, 1992). Julia Hartwig ha scritto anche saggi e libri per bambini. Ha ricevuto diversi importanti premi letterari e i suoi libri sono stati tradotti in molte lingue, tra cui l’italiano. La poetessa è deceduta in Pennsylvania il 14 luglio 2017.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Poesie di Julia Hartwig tradotte da Paolo Statuti

 

*  *  *

    Il bambino nella carrozzina tende le mani alle foglie che cadono fitte.

   Ancora non sa che vanno a zigzag tra esse vaporosi defunti, vampiri, ragnatele di silfidi dell’estremo oriente portate qui in viaggio, innominati fantasmi dai molti occhi.

   Attraversano a nuoto il giardino autunnale, tirandosi dietro una striscia di primi rigidi soffi.

   Si riscaldano agli ultimi raggi, felici del calore.

 

Il prato

 

Voglio chiamare questo prato

senza parole prendete questo quadro da sotto le palpebre

sì e anche questo profumo prendete

e non sbagliate la musica

là c’era una sinfonia per archi di erbe

dei temi un giallo e lilla bouquet musicale senza pecche

eine kleine tagesmusik

delicata nei varchi del respiro

e passi passi come in sogno

e inoltre passi così lucidi

come se la testa fosse una bella calcolatrice

o una lucente tromba che un sensato sole suona

così cogliere i fiori di un amore impetuoso

così nel sorriso andare incontro

così dare in eterno questo inchino del monte

l’ombra che cade nella valle la scultura di un pendio

la bramosia il presentimento della fine

così morire nel profumo di trifoglio e di fieno

nelle apparenze delle nebbie negli incensi dell’umidità

asfissiata accecata dalle torture della luna

chiamo ma chi mi sentirà

colui che qui dopo di me morirà di ammirazione

dunque inutilmente voglio dare questo prato

un prato sempre diverso

un prato sempre diverso

ah

 

Tutte le volte che incontro

 

   Cherubini e serafini, capisco. Ma da dove arrivano in giardino  quei grassi corvi, sotto i quali il ramo si piega?

   Mi meraviglia ogni passero che salta come su una molla, mi meraviglia ogni gatto errante.

   Oh, misterioso mondo intermedio, dunque ancora duri?

   Tutte le volte che incontro faccia a faccia un cane, che ritto a zampe larghe mi fissa con quello sguardo di attesa e insistente, non posso fare a meno di pensare che per il mio abuso del linguaggio, per le vanterie e il falso tono, è stato punito col mutismo.

 

Il mio proprio

 

   E’ magro il mio angelo custode. Non vuole né mangiare né bere.

   Mi cade di mano il cucchiaio, quando lo guardo, rovescio sul tavolo il tè.

   E’ anche orribilmente vestito. Difficile mostrarsi in sua compagnia, semplicemente non sta bene.

   E’ anche taciturno, e forse perfino analfabeta. Guarda con indifferenza la mia biblioteca, non fa uso del bagno.

   A volte scribacchia qualcosa sulla parete, o fa rime senza senso, oppure salta, battendo la testa contro il soffitto e scorticandosi i ginocchi.

   Ma è pur sempre l’angelo, il mio proprio angelo, quindi mi piace e non ne voglio un altro.

 

Essere

 

Essere nell’uccello che vola

Nello squalo quando porta una persona salvata

e poi col dovuto rispetto la risputa

Essere la scintilla che accende la chioma di una quercia

Essere gli occhi dell’acqua I diti della sabbia

Il flessibile braccio della fiamma

Accendendomi avendo freddo Avendo freddo riscaldare

Risuscitare ciò che abbiamo soffocato col proprio peso

Dal marciume tirar fuori l’immediata linea di un fiore

Disgregarmi in cenere Non dire addio

 

Il gatto Maurizio

 

Lo chiamano ladrone gangster lestofante e spillatore

discolo e attaccabrighe

Disturba durante i pasti salta sulla tavola

e fruga tra bicchieri e bicchierini

strappa i pacchi con il cibo porta nel musetto uno storno catturato

che voleva visitare a piedi il prato davanti casa

e ha pagato con la vita questa incauta passeggiata

Esige irrevocabilmente di entrare o uscire dalla stanza o dalla cucina

si azzuffa rabbiosamente coi gatti del vicinato

lanciando al tempo tesso spaventosi urli da belva della giungla

Non lusinga nessuno ed è inflessibile nelle sue voglie

indifferente agli ordini e alle carezze

sì alle carezze perché non considerando la sua natura

lo vezzeggiano e lo stringono al petto

incantati dalla sua armoniosa andatura e dagli agili balzi

gli danno i bocconi migliori e lo fanno dormire nei propri letti

Dunque non per le virtù e il carattere è un premio l’amore

e non per l’ubbidienza e nemmeno per la lealtà

ma per il fascino e l’arroganza

per la vita in se stessa in tutta la sua evidenza

Grande infatti è in noi il bisogno di amare

 

Invito

Distenditi accanto a me.

Come volpe con volpe, uccello con uccello,

quando echeggia il grido del gufo.

Ci invadi la saggezza del silenzio,

la saggezza del calore, la saggezza dell’addio

a lungo

prima dell’attimo di andarsene.

Giacendo vicini guardiamo nella notte.

Si chineranno a noi i quattro lati del mondo

e i viandanti dell’oscurità ci porranno davanti

i doni, i rimedi e i talismani tanto desiderati.

Semplicemente

Tutto arriverà al momento giusto

ma non il tempo della rinascita delle prime speranze

e dei primi amori

né il perdurare in parole di ciò che ti passa per la testa come vento

e a volte è il presentimento di qualche importante verità

ma fugge via veloce come per burla

Arriva tuttavia il momento irrevocabile

in cui a tua volta cominci a perdere tutto ciò che amavi

e tutti quelli che se ne vanno da qui

senza rivelarti se vanno via delusi

Arriva questo momento

e tu lo accogli senza vergogna né umiltà

ma così semplicemente

Novembre

Le gambe immobili dei salici sull’acqua

mentre i rami immersi vorrebbero scorrere via

qualcuno invisibile suona il flauto

ma sul ponte non si vede nessuno

A che scopo tornare qui dopo anni

e come sopportare questo equilibrio di bellezza

questo vasto cielo che sulle spalle reggono

le distinte case dell’Isola di San Luigi

Sul fiume naviga un battello con lieve ronzio

un acrobata prova un difficile salto sulla riva

vibra la pelle toccata dal sole

e un blando respiro dell’aria ti accompagna

attraverso novembre e la sua scia di foglie

Non parlare di ciò che qui hai lasciato

non parlare di ciò che ricordi

in questo fiume sono annegati migliaia di cuori

con la nebbia dei ricordi si potrebbe spartire un continente

Fedeltà

Altri conquistatori si uniscano a giovani maghi come

Ulisse con la seducente Circe.

Io esalto colui che seduto al capezzale di una paralizzata,

le canticchiava un motivo un tempo cantato insieme, sperando

che il suono svelasse loro uno spazio più chiaro nella melma dell’oblio.

Non ha dimenticato quando in ginocchio con un tremito baciava

la sua mano tesa, e lei gli stava davanti come un pioppo, con la testa

in una nuvola di capelli, mirabilmente assente e già allora congedandosi

da lui per sempre.

Il primo grado di pazzia

Gettare via tutto, diventare contadini,

cingersi di un bosco, attingere l’acqua del lago,

allontanarsi da mille logore parole,

attraverso le quali il senso scivola via come da un setaccio,

trovare un luogo vergine dai mattini affascinanti,

rinchiudersi in una bianca cella, ritrovarsi

o perdersi condannandosi forse

a ore di paralizzante accidia conventuale.

L’identità? Infischiatene.

Guardando indietro, ricordando le proprie convinzioni e i casi,

dillo anche tu – come si può parlare qui di identità.

 

 

 

 

 

(C) by Paolo Statuti