
Natal’ja Petrovna Kuguševa nacque a Mosca il 24 settembre 1899 in una famiglia principesca che possedeva proprietà nelle province di Penza, Tambov, Tula e Ufa. Trascorse l’infanzia a Mosca, secondo le sue stesse parole, “in quartieri e case particolarmente eleganti”. Non si sa con certezza in quali circostanze cadde da bambina, lesionando la spina dorsale e restando gobba per tutta la vita.
Nel 1917 terminò il ginnasio a Mosca e fu subito preda della vita letteraria cittadina. Lo scrittore Veniamin Kaverin la ricorda così: “Una ragazza triste e gobba con occhi insolitamente grandi, che si diceva fosse figlia di un principe – una vera poetessa”.
Nelle memorie sui primi anni ’20, la poetessa Nina Serpinskaja ricorda il cinguettio piacevole e melodioso di Natal’ja Kuguševa, mentre un’altra poetessa e traduttrice che fu moglie di Sergej Esenin, Nadežda Vol’pin, ricorda di Natal’ja “il talento, il bel viso, i tristi occhi azzurri e una voce affascinante leggermente ovattata”.
Conosceva Sergej Esenin, Boris Pasternak, Rjurik Ivnev, Aleksej Kručonych, Tichon Čurilin. Già nel 1918 fu ammessa nell’Unione dei Poeti Russi, e nel 1920 entrò a far parte del gruppo letterario Laboratorio Verde, esibendosi in concerti di poesia. Nello stesso anno fu membro del gruppo poetico dei ljuministi, fondato da Veniamin Kisin, Dmitrij Majzel’s e Nikolaj Reščikov.
In quel tempo Natal’ja scrive: “Vado raramente all’Unione – mi annoia. Studio l’esperanto e mi tormenta la malinconia. Odio me stessa e mi sento male fisicamente. Perché tanti mi amano, ma la mia vita privata non trova quiete? Sento la mia mediocrità, qualunque cosa dicano di me. È come se l’anima fosse crocifissa, assetata e implorasse almeno una goccia di acqua viva…Tutto mi annoia, davvero l’intera vita passerà così? Vago da un angolo all’altro e non riesco a ritrovarmi in nessun luogo. Mi guardo allo specchio e odio il mio volto…”.
Dalla metà degli anni ’20 le sue poesie, pubblicate fino a quel momento in poche antologie, spariscono quasi del tutto. Due libri da lei preparati per la stampa, non videro mai la luce. Solo nel 2011 è uscita in Russia la sua raccolta Giorni arrugginiti (Poesie 1919-1941), Ediz. L’Acquario. Una poesia stampata nel 1929 nella miscellanea “Villa letteraria” fu l’ultima pubblicazione della sua vita.
Il suo primo marito fu lo scrittore autodidatta Michail Sivačov. Il matrimonio a quanto pare fu abbastanza felice, anche se non si sa molto della vita di Natal’ja in quel periodo. Rimasta vedova nel 1937, si sposò nuovamente con l’ingegnere Guido Gavrilovič Bartel, un sostenitore della cremazione e autore della monografia Funerale col fuoco. Questo secondo matrimonio fu più felice del primo, ma nell’estate del 1941, essendo Bartel tedesco, fu mandato in esilio nel Kazachistan e Natal’ja, da moglie fedele, lo seguì. Furono sistemati in un insediamento di fattorie collettive, vicino a Karaganda. Un mese dopo la poetessa scrisse a un’amica a Mosca: “Guido lavora nei campi. Riceve un chilo di pane. I soldi sono finiti… Dormiamo su un pancaccio. Non c’è un tavolo. Abbiamo comprato due sgabelli, su di uno mangiamo, ma non mi perdo d’animo. Leggo molto, soprattutto poesia, Guido ha portato con sé le opere dei migliori poeti. Ama Blok quanto me e ci rallegriamo con lui…”.
Tuttavia, questa vita relativamente tollerabile non durò a lungo. Il 5 gennaio 1942 Bartel fu arrestato dal NKVD di Karaganda. La cartolina che la poetessa inviò a Mosca comunicando l’arresto, è piena di lacrime: “Il dolore mi uccide. Mi hanno tolto Guido e non so niente di lui…Per il momento mi faccio forza, non piango… ma non temere, lotterò con me stessa fino all’ultimo…”. Purtroppo Bartel fu condannato a 10 anni in un campo di lavoro forzato e morì nel maggio del 1943. Natal’ja lo apprese solo tre anni dopo. I suoi tentativi di tornare a Mosca furono vani. Formalmente non c’erano ostacoli, in fondo aveva seguito il marito di sua volontà, una zia di Mosca era pronta a registrarla presso di sé, ma la macchina punitiva sovietica non lasciava facilmente libera la vittima finita nei suoi ingranaggi. La poetessa restò nell’inferno del Kazachistan per ben 14 anni. Le sue lettere testimoniano la sua sofferenza: “Bisogna avere un’anima forte e resistente al fuoco per sopportare questa esistenza…A volte mi sembra che tutti siano morti e io sia rimasta sola tra la neve in enormi distese, su una piccola isola”.
Le uniche cose che la sostennero in quegli anni furono la corrispondenza e le poesie, che dopo una lunga pausa aveva ripreso a scrivere: “Ho molte poesie e la cosa più triste è che se io muoio andranno perse. Qualcuno ci accenderà la stufa… Molte di esse sono mediocri, ma ce ne sono di abbastanza buone, mi dispiace per loro, più di ogni altra cosa nella vita”.
Nel 1956 le permisero di tornare e si stabilì a Malojaroslavez. Terminò i suoi giorni quasi cieca in una casa di cura nella stazione di Kicino della ferrovia Gor’kij vicino Mosca, il 22 aprile 1964.
Ho scoperto questa poetessa per puro caso. Le sue poesie mi hanno subito affascinato e invogliato a tradurle. E lasciatemi esprimere una considerazione. Le poetesse dell’epoca d’argento non sono soltanto Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, che peraltro io adoro e ho tradotto, ce ne sono anche altre, come ad esempio Varvara Monina e soprattutto Natal’ja Kuguševa che, per ironia del destino, sono rimaste inspiegabilmente e ingiustamente nell’ombra. Un’ombra che a mio avviso dovrebbe essere rimossa, perché anche la loro creazione venga letta e studiata. Il mio piccolo contributo io l’ho dato con questo post.
PS. Per questa biografia della poetessa mi sono servito di un testo trovato in internet nel sito russo Yandex.
Poesie di Natal’ja Kugusheva tradotte da Paolo Statuti
Valzer folle
Chi può prevedere come si svolgerà la partitura
Sotto la bacchetta di un maestro folle?
Il mondo corre. Giri sempre più frenetici
E i passi si confondono, storditi dall’orchestra.
E solo stracci di valzer insopportabili,
Vibrando, sventolano come nastro incenerito,
E il mondo corre. Si strappano via le stelle,
Lo sfrenato vola nel gridare degli strumenti.
Chi può prevedere come si svolgerà la partitura,
E gli accordi del folle valzer chi li ha creati?
Il mondo corre. Giri più frenetici,
Ma i fagotti di ferro sono i più sfrenati.
1919
In cenci di parole, come nel mantello di Amleto…
In cenci di parole, come nel mantello di Amleto.
Nascondersi e fuggire. Ma da te fuggirai?
L’autunno piange come tromba di rame
Sui tristi uccelli dei campi deserti.
E si trascinano le ronzanti ore
Sotto i dardi delle grevi piogge di foglie.
Si adagiano con uno stile denso e freddo,
Ma della loro pace il cuore si rallegra?
Mi piega il peso delle parole non dette,
E i chiari giorni non salveranno la pace.
Il vento spruzzerà con un remo dorato
Le sonore catene delle mie giornate?…
1920
Con un cesello di bronzo parlare della vita…
Con un cesello di bronzo parlare della vita,
Con una parola severa i secoli inchiodare,
Perché non l’uomo custodisca la sorte,
Ma le stelle, riflesse nelle righe.
Il nome divino dell’amato
Come offerta sgozzare sull’ara dei giorni,
E le antiche Gerusalemmi
Bruciare nel fuoco dal roveto acceso.
Pesanti volumi di storie paterne
Celare sotto le pietre di strade cittadine,
Con la celeste tuba del secolo ripeteranno
Non i fatti polverosi, ma il verso colato nel bronzo.
Sui trionfi delle nostre anime i posteri porranno
il loro vessillo,
Porteranno l’anima, non la croce del pellegrino,
E frammenti bruciati di bibbie
Non chiameranno al tremendo giudizio divino.
Sui Cristi morti erigeranno un monumento,
E delle stelle cadute il grano il cuore beccherà,
Nel sangue e nel chiasso delle arene umane
Il pensiero una solida punta tornirà.
1921
* * *
Io di te scrivo. E so che queste mie righe
Un giorno qui di me faranno a meno
E saranno un libro con la copertina nera,
Un libro triste sull’amore terreno.
E ricorderai il giaco di rame settembrino
E la freschezza che odora di rose,
E il tintinnio di rame dei rami
Nelle mattine semplici e maestose.
E di me ricorderai gli occhi e le labbra,
Il mio amore e i miei guai,
Della mia anima i peccati,
E tutto scuserai, amerai e capirai.
Non morirò. Con gli occhi di questo libro
Vedrò un dolce e terribile mondo;
Sentirò dei tram lo sferragliare
E della città il ronzio profondo.
E come compagna tenera e attenta
Passerò per la tua vita intera,
E sapranno i posteri sconosciuti
Il mio amore per te com’era.
Passerà il tempo su traverse di punti neri,
Scorreranno le pagine – tempo ferrato, –
Ma di una dolce lirica più diafano è il fresco, –
Come di un vecchio vino il gusto è più stimato.
1923
Addio, amica, La sera è asciutta e chiara…
A Marianna Jampol’skaja
Addio, amica. La sera è asciutta e chiara,
Le foglie arrugginite risuonano,
Annoiandosi, la musica scende dagli alberi,
E dell’orizzonte il bracciale infocato
Si è chiuso freddamente. L’ora austera
E maestosa sul mondo è giunta.
Addio, amica. Guardami negli occhi –
Lì c’è lo stesso freddo, lo stesso fuoco,
Come se tutti i secoli, tutte le vite, tutti gli amori
Io avessi assorbito in un’anima sola
E quest’anima che porto lungo la vita
In quest’ora io la consegno a te.
18 dicembre 1923
Lo stravagante
Non la vita, ma solo così:
Messi una sedia e un tavolino,
Lo stravagante si siede.
Pensieroso e a capo chino.
Respira la polvere dei libri,
Respira il silenzio, e inoltre
Soltanto il pendolo
Gli è compagno la notte.
La città batta pure ai vetri
Con lo stivale ferrato.
Le granate del maltempo
Esplodano pure con boato –
Non varcheranno le pareti.
Non giungeranno fin lì –
Lo stravagante siede da un pezzo
E resterà seduto così.
23 giugno 1926
Il poeta
Il banale strumento dei poeti lirici –
L’inchiostro con l’acqua allungato.
E un mucchio di sonetti incompiuti
Di polvere densa e grigia ammantato.
I topi classici vivono in un angolo,
Come lui affamati. E dal soffitto
Piove sul letto, ma lui è sempre
Spensierato e da Cupido trafitto.
Alle Muse e all’estrosa Cipride
Brinda il cuore come un boccale,
E scrive sulle offese amorose
Un arguto e pungente madrigale.
Quando lo spleen (al poeta ben noto)
Pende su di lui, come nebbia di Londra –
Lui lascia l’inutile luce e un’angoscia
Filosofica a un tratto lo inonda.
Rivede del mondo la saggia grandezza,
E nell’arcana quiete delle ore notturne,
Come l’uccellatore, ricorda il canto
Di un uccello e sente il moto di nubi taciturne.
Preda del presagio di un prodigio,
Dagli occhi umani protegge con cura
Lo stemma dei poeti – Rosa, Croce e Scudo,
Il Sacro Graal e dei cavalieri l’armatura.
Prologo al poema “Oggi”
Il nostro verso risuona come folle aria di tamburello,
Avendo sparse campanelle di gioia a caso.
Non importa chi ameremo nei versi,
Su chi si stenderà l’arco celeste.
Non è repressa la nostra via dall’orbita del mondo
E non ci sono confini.
Cantano le ore. I secoli cambiano i ritmi.
Non importa in quale paese nascere,
Sotto quali leggi.
Mosca. New York. Calcutta. Nizza –
Tutto ci è noto.
E noi trapasseremo coi versi, come con un ariete,
Le pareti terrene.
Ecco veniamo coi migliori doni
E con un corpo saggio.
E nelle piazze che si contendono le gole
E nei fori delle finestre
Getteremo manciate di doni preziosi
Sulla soglia della gente.
Così più forte, o verso, suona e canta, o nostro tamburello,
Col veleno di strofe sonore su qualche destino.
Guardate. Siamo arrivati. Vi abbiamo portato, o gente,
Le gioie e il dolore dei doni più preziosi.
* * *
Caro, mio caro, l’autunno
Il corno ha sonato forte.
Cielo e terra ha dipinto Vrubel’
E condannato a morte.
Caro, mio caro, già il sole-falco
La sua preda attende.
E la sera piume scarlatte
Per l’oracolo, solerte prende.
Caro, mio caro, il cui arco
A guardia di frecce roventi sta,
Verso quali paesi la via
L’altrui mira ci mostrerà?
Caro, mio caro, l’autunno
Ci suona un corno sventurato.
E il tamburello di rame del vento
Tra le strade ha indugiato.
Ti chiamerò in silenzio…
Dedicata a R.
Ti chiamerò in silenzio. E forse
Giungerà l’ora, quando –
All’incontro a lungo atteso
Andrò, lo sguardo non chinando.
E tutte le vie saranno aperte
E forse io ricorderò,
Secondo l’antico sanscrito,
Il filo metafisico di un po’
Delle mie lontane incarnazioni
Sulla terra natale e rattristata –
Medusa, pesce, pianta
E una lucertola al sole adagiata.
C’era l’anima. Nelle caverne di notte
I primi fuochi ardevano già.
E l’uomo, uno dei primi,
Apparve nell’irsuta oscurità.
E poi, lentamente e a fatica,
L’uomo, passo dopo passo andava,
Ma a un’ora di ansia stupenda
L’anima di alzò da terra e volava.
Così l’uomo udì la voce divina
E nacque Dio sulla terra inquieta –
Da oriente condusse alla soglia
Dei Magi e dei pastori la cometa.
E saggiamente il ricordo,
Suggellato e casto,
Il cammino dall’ameba al gorilla
E dal gorilla a Cristo è rimasto.
1 giugno 1947
(C) by Paolo Statuti