Archivio | Maggio, 2022

Natal’ja Petrovna Kugusheva

24 Mag

    

Natal’ja Petrovna Kuguševa nacque a Mosca il 24 settembre 1899 in una famiglia principesca che possedeva proprietà nelle province di Penza, Tambov, Tula e Ufa. Trascorse l’infanzia a Mosca, secondo le sue stesse parole, “in quartieri e case particolarmente eleganti”. Non si sa con certezza in quali circostanze cadde da bambina, lesionando la spina dorsale e restando gobba per tutta la vita.

     Nel 1917 terminò il ginnasio a Mosca e fu subito preda della vita letteraria cittadina. Lo scrittore Veniamin Kaverin la ricorda così: “Una ragazza triste e gobba con occhi insolitamente grandi, che si diceva fosse figlia di un principe – una vera poetessa”.

     Nelle memorie sui primi anni ’20, la poetessa Nina Serpinskaja ricorda il cinguettio piacevole e melodioso di Natal’ja Kuguševa, mentre un’altra poetessa e traduttrice che fu moglie di Sergej Esenin, Nadežda Vol’pin, ricorda di Natal’ja “il talento, il bel viso, i tristi occhi azzurri e una voce affascinante leggermente ovattata”.

     Conosceva Sergej Esenin, Boris Pasternak, Rjurik Ivnev, Aleksej Kručonych, Tichon Čurilin. Già nel 1918 fu ammessa nell’Unione dei Poeti Russi, e nel 1920 entrò a far parte del gruppo letterario Laboratorio Verde, esibendosi in concerti di poesia. Nello stesso anno fu membro del gruppo poetico dei ljuministi, fondato da Veniamin Kisin, Dmitrij Majzel’s e Nikolaj Reščikov.

     In quel tempo Natal’ja scrive: “Vado raramente all’Unione – mi annoia. Studio l’esperanto e mi tormenta la malinconia. Odio me stessa e mi sento male fisicamente. Perché tanti mi amano, ma la mia vita privata non trova quiete? Sento la mia mediocrità, qualunque cosa dicano di me. È come se l’anima fosse crocifissa, assetata e implorasse almeno una goccia di acqua viva…Tutto mi annoia, davvero l’intera vita passerà così? Vago da un angolo all’altro e non riesco a ritrovarmi in nessun luogo. Mi guardo allo specchio e odio il mio volto…”.

     Dalla metà degli anni ’20 le sue poesie, pubblicate fino a quel momento in poche antologie, spariscono quasi del tutto. Due libri da lei preparati per la stampa, non videro mai la luce. Solo nel 2011 è uscita in Russia la sua raccolta Giorni arrugginiti (Poesie 1919-1941), Ediz. L’Acquario. Una poesia stampata nel 1929 nella miscellanea “Villa letteraria” fu l’ultima pubblicazione della sua vita.

     Il suo primo marito fu lo scrittore autodidatta Michail Sivačov. Il matrimonio a quanto pare fu abbastanza felice, anche se non si sa molto della vita di Natal’ja in quel periodo. Rimasta vedova nel 1937, si sposò nuovamente con l’ingegnere Guido Gavrilovič Bartel, un sostenitore della cremazione e autore della monografia Funerale col fuoco. Questo secondo matrimonio fu più felice del primo, ma nell’estate del 1941, essendo Bartel tedesco, fu mandato in esilio nel Kazachistan e Natal’ja, da moglie fedele, lo seguì. Furono sistemati in un insediamento di fattorie collettive, vicino a Karaganda. Un mese dopo la poetessa scrisse a un’amica a Mosca: “Guido lavora nei campi. Riceve un chilo di pane. I soldi sono finiti… Dormiamo su un pancaccio. Non c’è un tavolo. Abbiamo comprato due sgabelli, su di uno mangiamo, ma non mi perdo d’animo. Leggo molto, soprattutto poesia, Guido ha portato con sé le opere dei migliori poeti. Ama Blok quanto me e ci rallegriamo con lui…”.

     Tuttavia, questa vita relativamente tollerabile non durò a lungo. Il 5 gennaio 1942 Bartel fu arrestato dal NKVD di Karaganda. La cartolina che la poetessa inviò a Mosca comunicando l’arresto, è piena di lacrime: “Il dolore mi uccide. Mi hanno tolto Guido e non so niente di lui…Per il momento mi faccio forza, non piango… ma non temere, lotterò con me stessa fino all’ultimo…”. Purtroppo Bartel fu condannato a 10 anni in un campo di lavoro forzato e morì nel maggio del 1943. Natal’ja lo apprese solo tre anni dopo. I suoi tentativi di tornare a Mosca furono vani. Formalmente non c’erano ostacoli, in fondo aveva seguito il marito di sua volontà, una zia di Mosca era pronta a registrarla presso di sé, ma la macchina punitiva sovietica non lasciava facilmente libera la vittima finita nei suoi ingranaggi. La poetessa restò nell’inferno del Kazachistan per ben 14 anni. Le sue lettere testimoniano la sua sofferenza: “Bisogna avere un’anima forte e resistente al fuoco per sopportare questa esistenza…A volte mi sembra che tutti siano morti e io sia rimasta sola tra la neve in enormi distese, su una piccola isola”.

     Le uniche cose che la sostennero in quegli anni furono la corrispondenza e le poesie, che dopo una lunga pausa aveva ripreso a scrivere: “Ho molte poesie e la cosa più triste è che se io muoio andranno perse. Qualcuno ci accenderà la stufa… Molte di esse sono mediocri, ma ce ne sono di abbastanza buone, mi dispiace per loro, più di ogni altra cosa nella vita”.

     Nel 1956 le permisero di tornare e si stabilì a Malojaroslavez. Terminò i suoi giorni quasi cieca in una casa di cura nella stazione di Kicino della ferrovia Gor’kij vicino Mosca, il 22 aprile 1964.

     Ho scoperto questa poetessa per puro caso. Le sue poesie mi hanno subito affascinato e invogliato a tradurle. E lasciatemi esprimere una considerazione. Le poetesse dell’epoca d’argento non sono soltanto Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, che peraltro io adoro e ho tradotto, ce ne sono anche altre, come ad esempio Varvara Monina e soprattutto Natal’ja Kuguševa che, per ironia del destino, sono rimaste inspiegabilmente e ingiustamente nell’ombra. Un’ombra che a mio avviso dovrebbe essere rimossa, perché anche la loro creazione venga letta e studiata. Il mio piccolo contributo io l’ho dato con questo post.

PS. Per questa biografia della poetessa mi sono servito di un testo trovato in internet nel sito russo Yandex.

Poesie di Natal’ja Kugusheva tradotte da Paolo Statuti

Valzer folle

Chi può prevedere come si svolgerà la partitura

Sotto la bacchetta di un maestro folle?

Il mondo corre. Giri sempre più frenetici

E i passi si confondono, storditi dall’orchestra.

E solo stracci di valzer insopportabili,

Vibrando, sventolano come nastro incenerito,

E il mondo corre. Si strappano via le stelle,

Lo sfrenato vola nel gridare degli strumenti.

Chi può prevedere come si svolgerà la partitura,

E gli accordi del folle valzer chi li ha creati?

Il mondo corre. Giri più frenetici,

Ma i  fagotti di ferro sono i più sfrenati.

1919

In cenci di parole, come nel mantello di Amleto…

In cenci di parole, come nel mantello di Amleto.

Nascondersi e fuggire. Ma da te fuggirai?

L’autunno piange come tromba di rame

Sui tristi uccelli dei campi deserti.

E si trascinano le ronzanti ore

Sotto i dardi delle grevi piogge di foglie.

Si adagiano con uno stile denso e freddo,

Ma della loro pace il cuore si rallegra?

Mi piega il peso delle parole non dette,

E i chiari giorni non salveranno la pace.

Il vento spruzzerà con un remo dorato

Le sonore catene delle mie giornate?…

1920

Con un cesello di bronzo parlare della vita…

Con un cesello di bronzo parlare della vita,

Con una parola severa i secoli inchiodare,

Perché non l’uomo custodisca la sorte,

Ma le stelle, riflesse nelle righe.

Il nome divino dell’amato

Come offerta sgozzare sull’ara dei giorni,

E le antiche Gerusalemmi

Bruciare nel fuoco dal roveto acceso.

Pesanti volumi di storie paterne

Celare sotto le pietre di strade cittadine,

Con la celeste tuba del secolo ripeteranno

Non i fatti polverosi, ma il verso colato nel  bronzo.

Sui trionfi delle nostre anime i posteri porranno

                                                            il loro vessillo,

Porteranno l’anima, non la croce del pellegrino,

E frammenti bruciati di bibbie

Non chiameranno al tremendo giudizio divino.

Sui Cristi morti erigeranno un monumento,

E delle stelle cadute il grano il cuore beccherà,

Nel sangue e nel chiasso delle arene umane

Il pensiero una solida punta tornirà.

1921

*  *  *

Io di te scrivo. E so che queste mie righe

Un giorno qui di me faranno a meno

E saranno un libro con la copertina nera,

Un libro triste sull’amore terreno.

E ricorderai il giaco di rame settembrino

E la freschezza che odora di rose,

E il tintinnio di rame dei rami

Nelle mattine semplici e maestose.

E di me ricorderai gli occhi e le labbra,

Il mio amore e i miei guai,

Della mia anima i peccati,

E tutto scuserai, amerai e capirai.

Non morirò. Con gli occhi di questo libro

Vedrò un dolce e terribile mondo;

Sentirò dei tram lo sferragliare

E della città il ronzio profondo.

E come compagna tenera e attenta

Passerò per la tua vita intera,

E sapranno i posteri sconosciuti

Il mio amore per te com’era.

Passerà il tempo su traverse di punti neri,

Scorreranno le pagine – tempo ferrato, –

Ma di una dolce lirica più diafano è il fresco, –

Come di un vecchio vino il gusto è più stimato.

1923

Addio, amica, La sera è asciutta e chiara…

                                         A Marianna Jampol’skaja

Addio, amica. La sera è asciutta e chiara,

Le foglie arrugginite risuonano,

Annoiandosi, la musica scende dagli alberi,

E dell’orizzonte il bracciale infocato

Si è chiuso freddamente. L’ora austera

E maestosa sul mondo è giunta.

Addio, amica. Guardami negli occhi –

Lì c’è lo stesso freddo, lo stesso fuoco,

Come se tutti i secoli, tutte le vite, tutti gli amori

Io avessi assorbito in un’anima sola

E quest’anima che porto lungo la vita

In quest’ora io la consegno a te.

18 dicembre 1923

Lo stravagante

Non la vita, ma solo così:

Messi una sedia e un tavolino,

Lo stravagante si siede.

Pensieroso e a capo chino.

Respira la polvere dei libri,

Respira il silenzio, e inoltre

Soltanto il pendolo

Gli è compagno la notte.

La città batta pure ai vetri

Con lo stivale ferrato.

Le granate del maltempo

Esplodano pure con boato –

Non varcheranno le pareti.

Non giungeranno fin lì –

Lo stravagante siede da un pezzo

E resterà seduto così.

23 giugno 1926

Il poeta

Il banale strumento dei poeti lirici –

L’inchiostro con l’acqua allungato.

E un mucchio di sonetti incompiuti

Di polvere densa e grigia ammantato.

I topi classici vivono in un angolo,

Come lui affamati. E dal soffitto

Piove sul letto, ma lui è sempre

Spensierato e da Cupido trafitto.

Alle Muse e all’estrosa Cipride

Brinda il cuore come un boccale,

E scrive sulle offese amorose

Un arguto e pungente madrigale.

Quando lo spleen (al poeta ben noto)

Pende su di lui, come nebbia di Londra –

Lui lascia l’inutile luce e un’angoscia

Filosofica a un tratto lo inonda.

Rivede del mondo la saggia grandezza,

E nell’arcana quiete delle ore notturne,

Come l’uccellatore, ricorda il canto

Di un uccello e sente il moto di nubi taciturne.

Preda del presagio di un prodigio,

Dagli occhi umani protegge con cura

Lo stemma dei poeti – Rosa, Croce e Scudo,

Il Sacro Graal e dei cavalieri l’armatura.

Prologo al poema “Oggi”

Il nostro verso risuona come folle aria di tamburello,

Avendo sparse campanelle di gioia a caso.

Non importa chi ameremo nei versi,

Su chi si stenderà l’arco celeste.

Non è repressa la nostra via dall’orbita del mondo

E non ci sono confini.

Cantano le ore. I secoli cambiano i ritmi.

Non importa in quale paese nascere,

Sotto quali leggi.

Mosca. New York. Calcutta. Nizza –

Tutto ci è noto.

E noi trapasseremo coi versi, come con un ariete,

Le pareti terrene.

Ecco veniamo coi migliori doni

E con un corpo saggio.

E nelle piazze che si contendono le gole

E nei fori delle finestre

Getteremo manciate di doni preziosi

Sulla soglia della gente.

Così più forte, o verso, suona e canta, o nostro tamburello,

Col veleno di strofe sonore su qualche destino.

Guardate. Siamo arrivati. Vi abbiamo portato, o gente,

Le gioie e il dolore dei doni più preziosi.

*  *  *

Caro, mio caro, l’autunno

Il corno ha sonato forte.

Cielo e terra ha dipinto Vrubel’

E condannato a morte.

Caro, mio caro, già il sole-falco

La sua preda attende.

E la sera piume scarlatte

Per l’oracolo, solerte prende.

Caro, mio caro, il cui arco

A guardia di frecce roventi sta,

Verso quali paesi la via

L’altrui mira ci mostrerà?

Caro, mio caro, l’autunno

Ci suona un corno sventurato.

E il tamburello di rame del vento

Tra le strade ha indugiato.

Ti chiamerò in silenzio…

                                              Dedicata a R.

Ti chiamerò in silenzio. E forse

Giungerà l’ora, quando –

All’incontro a lungo atteso

Andrò, lo sguardo non chinando.

E tutte le vie saranno aperte

E forse io ricorderò,

Secondo l’antico sanscrito,

Il filo metafisico di un po’

Delle mie lontane incarnazioni

Sulla terra natale e rattristata –

Medusa, pesce, pianta

E una lucertola al sole adagiata.

C’era l’anima. Nelle caverne di notte

I primi fuochi ardevano già.

E l’uomo, uno dei primi,

Apparve nell’irsuta oscurità.

E poi, lentamente e a fatica,

L’uomo, passo dopo passo andava,

Ma a un’ora di ansia stupenda

L’anima di alzò da terra e volava.

Così l’uomo udì la voce divina

E nacque Dio sulla terra inquieta –

Da oriente condusse alla soglia

Dei Magi e dei pastori la cometa.

E saggiamente il ricordo,

Suggellato e casto,

Il cammino dall’ameba al gorilla

E dal gorilla a Cristo è rimasto.

1 giugno 1947

(C) by Paolo Statuti

Varvara Aleksandrovna Monina (1894-1943)

17 Mag

    Questa poetessa dell’epoca d’argento, praticamente sconosciuta anche agli specialisti, nacque a Mosca il 27 ottobre 1894. Si diplomò presso il ginnasio privato francese “E.E. Constant” nel 1914 ed entrò nella facoltà di Storia e Filosofia dei Corsi Superiori Femminili, ma per vari motivi, anche di salute, dovette lasciarla. La sua prima raccolta manoscritta risale al 1914 ed è intitolata Anemoni (simbolo cristiano della sofferenza. La macchia rossa sul fiore rappresenta il sangue di Cristo e la tripla foglia rappresenta la Trinità) ispirata dall’omonimo quadro del pittore polacco V.A. Kotarbinski (1849-1922), del quale la poetessa aveva una riproduzione.

     Amava particolarmente Lermontov. In gioventù era attratta dai temi del dolore e della morte. La ragione è da vedersi anche nella morte in guerra del fidanzato Jakov Gordon nel 1919. Appresa la tragica notizia Varvara disse alla  cugina e intima amica, anche lei poetessa, Olga Michalova: “Non mi ucciderò. Che melodramma sarebbe: la poetessa si è impiccata. Ma morirò, appassirò naturalmente, senza fare resistenza”. E così fu. Malata e sofferente, Varvara divenne l’ombra di se stessa.

    Non alta, esile, capigliatura vaporosa, occhi castani, un viso incantevole. Non aveva bisogno di abbellimenti. Estranea alla civetteria, poteva camminare con enormi stivali di feltro, indifferente al suo aspetto esteriore. Voce melodiosa, andatura elegante. “Cos’hai che ti rende così speciale?” – le chiedevano gli ammiratori, – “Niente, niente”, – rispondeva. Eppure era consapevole del suo fascino particolare.

    Aveva il culto del capriccio. “Io voglio fare di ogni esame un gioco. È terribile che non mi piaccia niente”.

    Era sposata con Sergej Bobrov (1889-1971), poeta, scrittore, traduttore e matematico, uno dei fondatori del futurismo russo. Con lui ebbe due figlie, Marina e Ljubov’. Il matrimonio durò diversi anni, malgrado i continui tradimenti del marito e una estrema povertà.

    Molte sue poesie sono apparse in antologie uscite nella seconda metà degli anni ’20 del secolo scorso. Esse erano bene accolte. Giudizi positivi furono espressi anche da Eduard Bagrickij (1895-1934) e Boris Pasternak (1890-1960)

    Durante la sua vita furono pubblicate le sue traduzioni delle poesie del lettone Jan Rainis (1865-1929). Ha tradotto anche i racconti di Jean Cocteau e le poesie di Charles Baudelaire.

    La cugina Olga Michalova (1898-1978), nelle sue memorie Compagni di Lettere scrive:

    …Ricordo una serata  in cui Varvara si esibì alla Casa Herzen e alcuni giudizi. “Se parlassi oggi, sarebbe puro patos”, – ha iniziato il suo commento il poeta Ezra Levontin. Il poeta e scrittore Ivan Rukavišnikov ha sottolineato i risultati formali. Qualcuno l’ha definita “la migliore poetessa dell’URSS”. Il poeta e critico Ivan Aksjonov ha trovato in Monina una indiscussa originalità, mentre Pasternak ha esclamato: “La cosa migliore di te è l’impressionismo”. Alle serate del poeta, prosatore e critico Georgij Obolduev, Varvara Monina aveva un successo personale costante. Il poeta Ivan Pul’kin ha detto: “ Ci sono molte parole calde nella poesia russa, ma questo calore è del tutto particolare”. Gli elogi, piacevoli, non le montavano la testa. Era sempre esigente con se stessa”.

    Quando iniziò la guerra non partì con le figlie, ma restò nella sua nativa Mosca, dove morì il 9 marzo 1943 di meningite tubercolare.

    Nel 2011 sono uscite a Mosca tre sue raccolte in un volume intitolato Brivido di naufragio lirico. Particolarmente apprezzata è raccolta Il grillo e la luna.

    Sfortunatamente non ho trovato nessuna sua fotografia.

Poesie di Varvara Monina tradotte da Paolo Statuti

Sia come nell’infanzia: calore e sopore…

Sia come nell’infanzia: calore e sopore,

E a guardia di fuori: la pacifica neve,

Che dissuade i ladri dal rompere il vetro,

E solo quando l’aurora spunta il sole riceve.

E di nuovo il cuore ricorderà i cantucci

E i palchetti sul pianoforte, e anche il piano,

E i sanguinari tiratori lettoni

A un tratto spariranno lontano.

Sia come nell’infanzia: i libri trascurati,

Le unghie sporche, i bucati rari,

Non sapere cos’è vivere e morire,

E chiudere, turbandosi, i diari.

luglio-agosto 1918

Delirio col Golgota

Noi non viviamo – noi litighiamo

Con Dio, con la terra, con le sparatorie,

Usando ogni gioia, ogni dolore,

Ogni sorte.

Hai confuso crudeltà e tenerezza, o Dio,

Il respiro, come argento, hai contato.

E un milite , – allora – simile a Te,

Con Te ci trafiggeva il costato.

Ma mi ricorderò di Te, morendo,

Di baciare il tuo respiro per ogni gente,

Perché a tutti la notte di fuoco

Balli sulla ruota nuovamente.

1919

Due conchiglie – le mie orecchie…

Due conchiglie – le mie orecchie,

Due coralli rosa sul petto,

Due tristi pesciolini rossi – le labbra,

E le lacrime – il sale degli amati mari.

Per me il vento ha mutato il rombo in voce

E ha vinto con una rete di fuoco,

Affinché l’uomo amasse la scorrevole figura

Della erede dei re marini.

Oh, occhi azzurri – giovane – fidanzato!

Come l’aria nella conchiglia, soffiami un verso,

Mi è dolce conoscere la musica terrena, –

Ma l’acqua era la mia patria,

La sabbia – il creatore. Con te per sempre.

E se no – che io diventi di nuovo un’onda…

1919

*  *  *

Sul sonoro corpo del pianoforte,

Dove un giaciglio di elegie è posato,

Tutto il cielo dal latrato della luna –

Dell’insonnia –  di un cane è frazionato.

Visibilmente aperto: il giardino

Nel pianto di betulle vaga,

Il giardino in rivoli, nel godimento,

Agli occhi delle ruote salta!

Visibilmente aperto: su sciocchezze,

Tenerezze, su certe mani, –

Agli occhi salta – lui stesso.

E a un tratto, cessata l’immortale

Pace, a un tratto, in movimento,

Tu tendi la mano alla prima

Tenerezza e –

                       Il mio amico

Michail Jur’evič Lermontov,

Il sogno attraversando,

Innervosito,

La pipa del Mašuk* accende.

*Montagna del Caucaso a forma di cono, ai piedi della quale sembra che  si svolse il duello mortale di Lermontov il 15 luglio 1841.

1923

Che sappiamo come, eccitata dall’odore…

Che sappiamo come, eccitata dall’odore,

L’erba cresceva. Che attraverso il lago

La primavera scorreva su quattro zampe

Di nebbie rosate. È poco per noi. Chiediamo

Ancora dirupi, avvallamenti, rami,

Cielo marino di coppe e boccali.

E mani non peggiori – no – le migliori

Per amicizia e tenerezza – le stelle del sud!

Oh, è solo nei sogni? Almeno sette giorni di mare,

Il corno Aj-Petri, il dorso del crepuscolo

A Gurzuf, cupa, vestita di bruno

(A Puškin piaceva così tanto?) – e il marmo,

Diffuso sul mare. E il fresco tremito

Del papavero della steppa. E il pensiero

Di un ramo di sughero. E il crepitio sul noce?

E la vita? La felicità? Salda. Serica.

1923

La luna, il canto del gallo e il grande deserto

Amico mio

Di oscurità e poesia –

Portello della luna –

Non lontano dalle separazioni

Della notte e del gallo.

Non semplicemente vuoto –

Amico mio,

Non tonando sull’abisso –

Amico mio,

Ma nutrendo di tuono,

Con l’ampia generosità

Dei deserti

Amico mio.

Dunque –

A domani!

Scusami.

1924

*  *  *

Butterò giù due parole con un’ala

Su cosa è caro e che più non resta,

Su cosa canta il ferro di cavallo,

Come arpa, sotto la finestra.

Su cosa in nome del cielo

Dei tuoi mari – delle notti –

Ci cantava la magica trottola –

Il grillo in scrosci di ciottoli.

Oh, il mio caro, caro grillo,

È più puro, più dolce del cuore!

Sull’asciugamano della luna –

Scivola e sii il mio cantore!

Asciugherà con un lembo di luna

Il viso spruzzato di fresco.

Ma tutto per me sono cascate –

Di silenzio grillesco.

1925

Non nei sobborghi…

Non come nei sobborghi,

Chiamando la luna dalla loggia,

Incontrando il rigido dicembre, –

Non come fanciulla – già promessa, –

Arrossire, passando

dalle guance alle labbra un sorriso!

– Ma come un rametto, incenerire

Pensierosa. Con flessibilità – rafia.

Come durezza dell’aria –

La pietra degli obelischi.

In raccoglimento, come cacciavite

La vita girerà –

E tu, tutto

Davanti a me, come succo

Sul palmo. Come quieta notizia,

Come sogno.

1925

*  *  *

O quieto scorrere del fiume,

Quando, respinte,

Le piogge ferrigne se ne vanno,

Come stretta di mano troppo evidente,

Rifiuto. Disperazione.

E altre afflizioni…

Capisci, capisci.

Tutto questo entra in un vortice:

Il suono di un ruscello

E una mano che scorre nel languore,

Placa il verso, placa.

Affinché insopportabilmente quieto,

Come scorrono le mani e un fiume,

Sia un sottile volume.

1925-1926

Neve. Casa. Cortile…

Neve. Casa. Cortile –

Blu. Di biancheria. Non oltremare.

La taccola incede. Sul tetto – un corvo

Come duro ferro.

Dall’arpa della veranda

Arrugginita – ardente – stretta

Dal profondo e levigato cortile, –

Del mio pensiero il consigliere?

Della mia altezza il consigliere?

Come fuoco di neve io dall’arpa della veranda,

Che mai

Dirai?

1926

(C) by Paolo Statuti