Archivio | ottobre, 2020

Il Milite Ignoto

28 Ott

      Amiche e Amici miei, il 4 novembre – ricorrenza del Giorno dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, è anche la Giornata del Milite Ignoto, che nel  mondo rappresenta idealmente tutti coloro che dal fronte non fecero più ritorno a casa. Tra le vecchie carte ho ritrovato la mia traduzione di una commovente “Lettera alla Madre”, scritta da un soldato polacco dalla Scozia nel periodo tra il 1940 e il 1942. L’autore è rimasto ignoto. Di lui non sappiamo niente, tranne una cosa: era un Poeta. Vi propongo oggi la sua “Lettera” quale omaggio a tutti i caduti in guerra, e quale monito per chi pensa ancora che la guerra sia un “male necessario” e non invece soltanto un “crimine contro l’umanità”.

Lettera alla Madre

(dalla Scozia)

Gli alberi vanno verso il cielo. È la musica del maltempo

(sottili corde di pioggia – il  vento le fa vibrare).

Sull’erba sembrano nuvole le tende piantate,

la luna scorre sulle ciglia, (la luna, o lacrime amare?).

Oh, quanta strada hanno i venti per giungere alla patria,

oh, com’è distante – o Mamma – il tuo volto…

La tristezza è sempre grigia e il crepuscolo ricco di rimpianto

(quel colle è come in Polonia, ma dalla nebbia è avvolto)…

Se un giorno tornerò – ti racconterò, o Mamma,

della Scozia e del mare grande come un canto,

saprai che la nostalgia corrode ovunque allo stesso modo,

che ugualmente ovunque ribolle l’ira giovanile e quanto!

Ho conosciuto cieli diversi, orizzonti diversi,

spalanco il mondo, il sangue mi aspetta,

sarò fedele alla parola del sacro giuramento,

nel cuore c’è la Polonia, negli occhi ci sei Tu, o mia diletta…

Mamma – gli alberi vanno verso il cielo – una fitta pioggia

è caduta – le gocce brillano – è il nostro rosario santo,

rileggo prima di addormentarmi le tue vecchie lettere,

(forse il vento della Scozia piange – o forse è il tuo pianto?).

(C)  by Paolo Statuti

Il ghetto di Varsavia

16 Ott

Il ghetto ebraico di Varsavia – Eroismo e dignità umana

     Esattamente 80 anni fa, il 16 ottobre 1940, il regime nazista istituì il ghetto ebraico nella città vecchia di Varsavia. Oggi desidero rendere omaggio alla memoria di quelli che allora impugnarono le armi nell’Insurrezione del 1943, lottando per la dignità umana. Lo farò lasciando la parola a due poeti e a uno scrittore polacchi, che come tanto altri hanno dedicato pagine commoventi e appassionate al tragico destino degli Ebrei durante la II guerra mondiale.

     Il 19 aprile del 1943 era Domenica delle Palme. Durante la notte con un massiccio spiegamento di forze i Tedeschi avevano accerchiato la zona del ghetto di Varsavia, dove vivevano ancora settantamila persone. La stragrande maggioranza – alcune centinaia di migliaia – era già scomparsa nelle camere a gas di Treblinka, Bełżec ed altri campi di sterminio. Il giorno di Lunedì Santo, alle sei di mattina, reparti delle SS, della Wehrmacht e della polizia tedesca entrarono nel ghetto. Da alcune case all’incrocio tra via Nalewki e via Gęsia essi vennero accolti da un violento fuoco. I difensori del ghetto sparavano dai nascondigli, lanciavano contro il nemico bottiglie incendiarie. I Tedeschi, colti di sorpresa, fuggivano. Molti di loro restarono uccisi. Questo fu l’inizio.

     Ma l’impari lotta non poteva durare a lungo. Malgrado il grande coraggio e l’eroismo dimostrati contri il nemico, e nonostante l’aiuto in uomini e armi fornito dalla Polonia Clandestina, i Tedeschi alla fine domarono la rivolta. Essa durò fino all’8 maggio, allorché cadde, dopo un’accanita difesa, l’ultimo ricovero sotterraneo di via Miła. I nazisti incendiarono casa dopo casa, senza pietà per nessuno, uccidendo anche donne e bambini.

     Il destino di Varsavia – città indomita – cominciò a compiersi in quell’aprile del 1943. Dopo la gloriosa Insurrezione nell’agosto del 1944, l’intera capitale diventò un mare di rovine e di cenere, come il vecchio quartiere degli Ebrei. Per commemorare il martirologio degli Ebrei e il tragico destino del ghetto di Varsavia ho scelto la poesia Tuttora di Wisława Szymborska, un brano del romanzo Il pane gettato ai morti dello scrittore Bogdan Wojdowski e la poesia Ghetto del poeta Tadeusz Kubiak. Tutti e tre i testi sono nella mia versione.

Wisława Szymborska

Tuttora

Dentro i piombati vagoni

attraversano i nomi

il paese. Dove andranno,

e se mai scenderanno,

non chiedete, non dirò, non so.

Il nome Natan contro il ferro picchia,

il nome Izaak demente canticchia,

il nome Sara un po’ d’acqua chiede

per il nome Aaron che muore di sete.

Nome David, non saltare in corsa.

Sei un nome che vuol dir sconfitta,

non dato a nessuno, senza forza,

che è duro avere in questa terra afflitta.

Il figlio abbia un nome slavo,

perché qui contano i capelli,

scindono il buono dall’ignavo

secondo il nome e gli occhi di quelli.

Non saltare. Sia Lech il figlio.

Non saltare. Non è il momento questo.

La notte risuona come un ghigno

e alle ruote rifà il verso funesto.

Il fumo umano è spinto dal vento,

da un gran dolore – solo un lamento,

una lacrima, il cuore leggero.

Corre il treno nel bosco nero.

Taratran sui binari. Il bosco è senza uscita.

Taratran. Nel bosco il trasporto delle grida.

Taratran. Di notte ascolto tra le ruote,

taratran, come il silenzio il silenzio scuote.

Bogdan Wojdowski  –  da: Il pane gettato ai morti

     In queste pagine è evidenziaro il senso stesso dell’Insurrezione. Uomini condannati a morte dall’hitlerismo, che a decine di migliaia andavano nei campi di sterminio, docili e rassegnati – alla fine impugnarono le armi. Non volevano morire in ginocchio. Sapevano di non avere alcuna probabilità di sopravvivere, ma sapevano anche di scrivere con la loro eroica morte un’altra luminosa pagina della storia di questa guerra, e di farlo in nome di milioni di confratelli perseguitati, umiliati e uccisi.

     «La folla si riversava in mezzo alla strada.

     E durò fino a tardi. I soldati sorvegliavano i portoni per impedire che qualcuno fuggisse, gridando nell’oscurità i numeri delle case come parole d’ordine… Avanzavano lentamente e sembrava che uscissero dalle viscere della terra. I lampioni gettavano una luce livida sui volti. La marea di gente scorreva e durò a lungo quella notte. Il giorno dopo l’operazione fu intensificata. Quel giorno vennero impiegati i cani.

     I cani lupo alsaziani abbaiavano, i Tedeschi ridacchiavano e quelli che fuggivano si reggevano il posteriore. Intere famiglie di abitantidel ghetto erano stanate dai nascondigli e dai rifugi e quelli che venivano presi, chiamandosi a vicenda, correvano in preda al panico, raggiungendo le colonne e nascondendosi nella calca per non essere percossi dai diligenti uomini della scorta, Con i sacchi gettati sulle spalle, nei quali custodivano i loro miseri beni, trasportando con zelo fagotti, valigie, bagagli, piegati sotto il peso, camminavano docilmente, per non innervosire la scorta che osservava con inquietudine la folla, aspettandosi lamentele e resistenza. Da sotto gli elmetti lampeggiavano guizanti e vigili occhiate, e le mani erano posate sulle armi automatiche, col dito spasmodicamente ricurvo in prossimità del grilletto. I cani correvano con le lingue di fuori, latrando nervosamente. Alcune guardie, nel timore di provocare scompiglio tra le file, si tenevano a distanza e spesso nella confusione porgevano premurosamente il braccio ai vecchi che si trascinavano faticosamente dietro il corteo, perdevano il bagaglio, si lamentavano.

     – Si rendono conto di dove stanno andando? Così mansueti – disse Uri. – Come un gregge. Ormai è la fine.

     Zio Jehuda si afferrò convulsamente la camicia.

     – Ancora non è la fine – replicò. – Crepassi in questo momento, ancora non è la fine!

     Tutto il giorno erano rimasti sdraiati nel solaio sotto il tetto e la lamiera riscaldata dal sole da lontano bruciava la pelle. Ogni movimento richiedeva un grande sforzo; trascorsero il tempo fino alla sera sonnecchiando, in un silenzio assoluto, non muovendosi di lì per paura delle pattuglie. Nel solaio c’erano delle strette fessure-finestrelle che fornivano un briciolo d’aria fresca… Per scendere le scale e introdursi nel nascondiglio dovevano aspettare il crepuscolo. Ma qualcuno li disturbò.

     Di notte sentirono un uomo che correva per la stradina, era uno sfuggito a una retata in via Żelazna. Andava avanti e indietro, indugiava. Si fermò, tornò di corsa verso il portone; per la foga ruzzolò su una catasta di ciarpame ammucchiato all’interno. Si rialzò, guardava le finestre vuote e ansimava.

     Poi entrò urlando in tutte le scale e nell’edificio distrutto gli Ebrei tremanti nei nascondigli sentirono chiaramente, parola per parola, il suo terribile grido.

     – Ebrei, ascoltatemi, Ebrei! Sono di Łachwa, via Klonowa 12… Non lasciatevi incantare dai Tedeschi, essi vi preparano la morte. Non andate docilmente al massacro! Tutto ciò che vi dicono è una menzogna. La verità è un’altra ed è spaventosa. Ebrei, ve la dico io la verità. Sono scappato da Łachwa per dirvi qual è la verità! Là in provincia è già cominciato. E adesso tocca a voi. Dov’è Kobryń? Dov’è Stołpce? Szerokie? Dov’è Kleck? Non ci sono più… non c’è anima viva, hanno portato tutti al macello!

     Gridava con la voce rauca, ansimando, e le parole sgorgavano come sangue.

     – Oh, Ebrei, fratelli, sono tutti vuoti i villaggi dove batteva il cuore ebreo. Non c’è speranza, non c’è scampo. E’ suonata l’ultima ora. Prendete le armi… armatevi! Che aspettate? Meglio morire con un coltello in mano, con una scure, piuttosto che là…

     Camminava come uno spettro, uno spettro urlante, per tutti i piani e gli androni, finché non accorse una guardia.

     – Fratelli! Ci gettano nelle fosse nudi e sparano alle spalle. Riempiono di terra le fosse e il sangue scorre nel campo. Come fango molliccio. C’è il sangue su quelle tombe. La terra si muove su quelle tombe. I feriti muoiono soffocati come bestie in quelle tombe. Seppelliscono vive le donne ebree coi loro piccoli … C’è un tale fumo. Soffocano e bruciano. Costruiscono grandi forni. Bruciano gli Ebrei in quei forni. In cielo si leva il fumo, da ogni parte si vede il fumo… Lo-jamisz ammud heonon jomam… Ebrei, ricordate!

     Una pattuglia di guardie accorse e le luci delle torce elettriche ondeggiavano, frugavano sulle pareti, sulle finestre e sul selciato. Imprecavano. Zio Gedali tre piani più in alto ripeteva sottovoce le antiche parole e serrava fortemente le palpebre.

     – Lo-jamisz ammud heonon jomam…

     L’uomo stava immobile trafitto dai fasci dai fasci di luce e gridava. Non si nascondeva, non scappava. Alle fine lo raggiunsero, lo strinsero in un angolo del cortile e tra le imprecazioni lo massacrarono vicino al bidone dei rifiuti, senza neanche uno sparo; ancora a lungo un mucchietto di stracci macchiati di sangue rappreso restò là sul cemento…

     Tra le file della colonna si aggiravano le pattuglie, perquisendo in fretta e furia donne e uomini… Sui marciapiedi sorvegliati e vuoti correvano le staffette coi rapporti dei sottufficiali per tutto il percorso della colonna. Le SS coi cani al guinzaglio si tenevano a una certa distanza. Le persone spinte attraverso la città avevano lo sguardo docile e ottuso. Avanzavano sotto il peso dei bagagli, senza protestare.

     Verso mezzogiorno vennero rimosse le sentinelle, il movimento cessò. Sulla via piena di bagagli abbandonati restarono le ultime guardie; una di loro si tolse l’elmetto, si asciugò il sudore sulla fronte e osservò incurante il vicolo tranquillo e deserto. Le voci di quelli condotti via giungevano fievolmente dalla parte di Leszno…

     Sotto il tetto la sete tormentava. Scesero. Furtivamente, uno alla volta s’introdussero nel nascondiglio. Per primi andarono Uri, Jehuda e Gedali, e Naum con David per ultimi…

     La, nel nascondiglio, si svolse tra loro questa conversazione.

     Zio Gedali:

     – Restare vivi significa molto.

     Uri:

     – Ci sputo sopra su una simile vita!

     Zio Gedali:

     – Basta sopravvivere, per dare una testimonianza.

     Uri:

     – Testimonianza? A chi importa? E a chi E a chi importerà?

     Naum:

     – Il gregge condotto al macello resta in vita finché non cala la mannaia. Portano gli Ebrei al macello e loro per paura affermano che bisogna finire docilmente sotto la mannaia per poterrestare in vita.

     Uri:

     – Lottare per salvare la vita.

     Zio Jehuda:

     – Lottare significa morire.

     Naum disse che era d’accordo con lui. Già, le strade sono due. Agire e resistere portano alla morte sicura. Fuggire, nascondersi, permettono solo di rimandarla. Che fare?

     – Temporeggiamo, per un pò.

     Uri:

     – C’è il bosco.

     Naum:

     – Dovrei finire nel bosco? Patire la fame? E lasciare che mi diano la caccia come a una lepre?

     Uri:

     – Qui mi danno la caccia da due anni… Là, nel bosco, posso procurarmi un’arma e colpire i Tedeschi, e non soltanto difendere questa vita schifosa affilando le unghie come un topo nella tana.

     Zio Gedali:

     – Sempre la stessa cosa… lottare, lottare!

     Gridarono tutti insieme coprendo la sua voce.

     Poi disse:

     – Non è un disonore cedere alla forza.

     Gridarono:

     – È un disonore!

     Ed ecco la poesia di Tadeusz Kubiak (1924-1979), un drammatico grido di rabbia e di disperazione, un appassionato incitamento alla rivolta e al riscatto della dignità umana, in risposta alla violenza nazista.

Ghetto

Ai fiaccati, ai corrosi dalle fiamme,

ai massacrati in un cigolio di gelide armi,

la rabbia

ha serrato

le mani insanguinate

in pugni.

Ad una percossa, che si chiama Chaja,

ad uno soffocato, che era Salomone –

per i quali nessuna casa

in nessun paese

fu la loro casa.

Che mai in nessun portone

torneranno

e busseranno,

ma scorreranno nell’oceano furioso

fino in capo al mondo.

Per i quali – giacigli, bottegucce e pigioni,

dimore estranee e grigie,

dovevano rimpiazzare ciò che era più caro:

il cielo sul mare di Genezareth.

Quello calpestato,

che nel lurido tugurio

pesando il pesce e il pane a etti,

quando il fucile

suona

sulla porta

come violino,

la sua pallottola – la sua morte aspetta.

Chi è caduto anche se una volta

picchiato col fucile,

chi sputava sangue in una fogna

quando si alzerà –

le selci della strada

riuscirà a strappare,

se colpire col pugno non basterà.

Chi è stato insultato,

schiaffeggiato,

quando toccherà la pietra,

quando la stringerà –

qualunque cosa accada,

non lo spaventerà più,

non lo spezzerà.

Non c’è nessuna scelta.

Ai massacrati,

ai torturatori

per l’ultima volta questa sera

brilli negli occhi il sole che tramonta.

Non aspettare la notte silenziosa

e non sognare il mattino che arriva…

Ma con la vendetta

gridare in risposta

alla violenza –

lanciare,

lanciare

anche una sola granata!

(C) by Paolo Statuti